mercoledì 7 marzo 2012

l’Unità 7.3.12
Manifestazione organizzata dalla Cgil davanti alla fabbrica: difendere i diritti
Ieri a Bologna la manifestazione organizzata dalla Cgil e dalla Fiom davanti allo stabilimento
Il sindacato «Marchionne si dia una regolata». Il direttore Sardo: «Garantire la libertà di stampa»
Gli operai con l’Unità: «Torneremo insieme alla Magneti Marelli»
Più di 500 persone, sotto la pioggia, fuori dalla Magneti Marelli di Bologna per difendere la democrazia, il sindacato e l’Unità. Cgil, Fiom e Comune di Bologna chiedono che il nostro giornale torni in fabbrica
di Massimo Franchi


Metti una mattina di pioggia di marzo. A Bologna, fuori da una delle fabbriche più importanti nella storia della città. Più di cinquecento persone riunite sotto un tendone a parlare di democrazia.
Cacciati dalle fabbriche, sbullonati dalle bacheche. Fiom e Cgil da una parte, l’Unità dall’altra «sono uniti nello stesso destino». E a giudicare dal successo della manifestazione “Riportiamo la Costituzione in fabbrica”, la strategia della Fiat di espellere entrambi dagli stabilimenti del gruppo fa acqua da tutte le parti.
L’attivo dei delegati Cgil, prima di Bologna e poi di tutta la regione, si trasforma in «un presidio di democrazia» appena fuori dai cancelli della Magneti Marelli, ex Weber di via del Timavo, con la strada chiusa e il tendone bianco a riparare dalla pioggia e gli stand per tagliare i panini offerti a tutti. Poco fuori porta Lame, l’azienda del gruppo Fiat ha sempre visto la Fiom-Cgil avere consensi bulgari, oltre il 70 per cento dei voti dei lavoratori. Nel tempo la fabbrica che produceva carburatori è diventata un centro di ricerca per prove motori, controllo emissioni e test climatici. Una struttura all’avanguardia che dà lavoro a 680 persone. Fra cui Stefano Ruggerini, delegato Fiom, che per essere fuori dai cancelli a parlare con gli altri delegati della sua confederazione ha dovuto prendere un giorno di permesso. «Sono in permesso privato», spiega dal palco allestito sotto il tendone a pochi passi dal guardiano di ingresso che presidia la fabbrica, a pochi metri dalle bacheche su cui lui e gli altri delegati affiggevano da 50 anni l’Unità. «È uno dei tanti effetti di quel contratto di gruppo che l’azienda definisce «migliorativo». Ma migliorativo per chi? Per l’azienda, non certo per i lavoratori», racconta alzando i toni e ricevendo applausi. «Noi, come Fiom, come Cgil, siamo stati cacciati fuori. È un momento difficile, ma ne abbiamo vissuti tanti. E sappiano che sarà impossibile cancellarci perché noi tutti i giorni continuiamo a stare con i lavoratori». Da ieri lo può fare nel container, parcheggiato all’incrocio fra via del Timavo e via Pasubio, sulle strisce blu. Il Comune ha dato il permesso e Bruno Papignani, segretario Fiom di Bologna, ha provveduto ad affittarlo, a renderlo «un minimo confortevole»: «Ci faremo le riunioni dei delegati e lo useremo come sportello per i lavoratori», spiega.
«MARCHIONNE, DATTI UNA CALMATA»
Il padrone di casa ieri però era il segretario Cgil dell’Emilia-Romagna Vincenzo Colla che con la felpa della Fiom ha infuocato la folla di delegati, ricordando come «la prima fabbrica chiusa da Marchionne è stata la Cnh di Imola». «Marchionne, devi darti una calmata: hai buttato fuori dalle fabbriche la Cgil, hai buttato fuori il giornale di Gramsci, ma qui in Emilia Romagna questo non ti è permesso, perché qui quel giornale serviva a rendere liberi i lavoratori».
Tanto affetto, dunque, tanta solidarietà verso il nostro giornale. «Una solidarietà ha ricordato il direttore de l’Unità Claudio Sardo che rafforza il legame con il nostro popolo di riferimento. Rispetto all’enormità, alla barbarie di escludere la Fiom, di non reintegrare i lavoratori di Melfi, lo sbullonare le nostre bacheche sembra un fatto piccolo. Ma non lo è perché l’Unità è un pezzo della storia d’Italia con un legame forte, specifico con il mondo del lavoro. La libertà di stampa ha concluso non è una cosa astratta, deve essere garantita».
È toccato poi a Giorgio Airaudo, segretario nazionale della Fiom e responsabile auto, definire «strategia della tensione» quella che Marchionne sta portando avanti «sulla chiusura degli stabilimenti». «Lui ha attaccato vorrebbe una terra piatta, senza democrazia, in cui lui decide per tutti. Ma a Melfi per noi è arrivata una vittoria importantissima, perché per dire che le fabbriche sono ingovernabili a causa della Fiom ci devono essere i sabotatori, ma se non ci sono più il suo disegno cade. Togliere le bacheche de l’Unità è dentro questo disegno, è l’idea di non permettere ai lavoratori di scegliere, di essere liberi. Ma noi venerdì a Roma, e dopo, faremo capire che non glielo permetteremo».
«FIOM E CGIL UNITE VENERDÌ»
Venerdì dal palco della Fiom parlerà anche il segretario confederale della Cgil Vincenzo Scudiere: «Chi punta sulla divisione fra Fiom e Cgil si sbaglia di grosso e lo dimostreremo venerdì. Togliere l’Unità dalle bacheche è un segno di grossa debolezza da parte della Fiat, il sintomo che qualcosa sta cambiando». L’auspicio, condiviso in tutti gli interventi, è questo: «Torneremo dentro la fabbrica, dentro tutte le fabbriche Fiat, insieme: Fiom, Cgil e l’Unità».

l’Unità 7.3.12
Intervista a Domenico De Masi
«Togliere l’Unità?L’ultima vessazione»
di Federica Fantozzi


Domenico De Masi, sociologo del lavoro, cosa ne pensa della Fiom e dell’Unità “espulsi” dal gruppo Fiat? «Sulla mia rivista Next ho appena ricostruito la lotta cinquantennale tra Fiat e Fiom. Con episodi terribili: nel ‘55 Valletta scrisse alle moglie degli operai: resterete sul lastrico perché i vostri mariti frequentano gentaglia».
Appunto: erano gli anni ‘50.
«L’acredine va avanti. Ricordo quando all’elezione dei rappresentanti sindacali il gruppo diceva: “se votate Fiom, l’America e i Paesi liberi non compreranno più le nostre auto”. Le ultime vicende sono l’epifenomeno di una battaglia che incrudelisce perché il terreno è favorevole».
Una specie di vendetta?
«Certo. Cavalcano un momento di forza padronale ed estrema debolezza sindacale e partitica».
E l’Unità? Non è un gesto sproporzionato rimuoverla?
«È una vessazione. Né più, né meno. L’Unità è l’ultimo simbolo di una classe operaia da tenere sotto scacco».
Non la stupisce questo comportamento da parte di manager considerati moderni e riformatori? «Guardi, Marchionne è un personaggio dei più arcaici. Un padroncino delle ferriere senza pudore. Che paga le tasse all’estero e gioca su più fronti. Solo che con Valletta il rapporto tra gli stipendi era di 1 a 20. Adesso, considerando anche le stock options, da un lato della bilancia c’è la busta paga di Marchionne e dall’altro quella di 1112 operai». La Fiom, da parte sua, è stata anche tacciata di estremismo. Secondo lei ha commesso errori?
«Direi che è stata lungimirante. Ha visto lucidamente dove voleva andare Marchionne con l’aiuto di Sacconi e Brunetta. Che infatti hanno celebrato la spaccatura sindacale.
Bonanni ha capito soltanto dopo di essere stato preso in giro. E si è arrabbiato. La verità è che la Fiom almeno ha venduto cara la pelle, gli altri a basso prezzo». Articolo 18: toccarlo o no? «Togliamolo di mezzo. È un ballon d’essai, e ci casca pure la sinistra. Licenziare senza giusta causa è già vietato dal codice civile. La realtà è che si vuole distruggere il sindacato. Ma senza di lui non ci sarà più un interlocutore». Non può essere proprio questo l’obiettivo?
«Allora, si rifletta che la presenza sindacale incide sulla motivazione dei lavoratori. Mezzo secolo di studi mostra che per gestire bene un’azienda bisogna motivare chi ci lavora. La Fiat invece vuole impaurirli: a Mirafiori domina la paura».
Domani c’è la manifestazione della Fiom. Una tappa importante nella partita?
«La classe operaia retrocede perché la sua rappresentanza sindacale e politica non è in grado di impostare una strategia difensiva. Bisogna lavorare a tutto campo. Oggi in Italia ci sono tre segmenti professionali: operai, impiegati e lavoratori creativi, che sono i professionisti. Ebbene: la strategia è di retroguardia sui primi e inesistente sugli altri due. È tutto questo che va cambiato. Va costruito un nuovo impianto».
Il Pd ha deciso di non andare all’evento dopo che Landini ha offerto il palco ai rappresentanti No Tav. Il dietrofront è giusto o sbagliato?
«Non c’è dubbio che ci siano sfumature anche importanti all’interno di quella manifestazione. Ma fare distinzioni, in questo momento, giova alla controparte. Le distanze, anche con i No Tav, sono meno forti di quelle con Confindustria. Questa tattica in trent’anni ci ha portato alla sconfitta. Credo che sarebbe ora di cambiarla».

l’Unità 7.3.12
Il prezzo delle primarie
di Francesco Piccolo


Partiamo da ciò che ormai non si può più fare. Non si possono mettere in discussione le primarie, perché questi sono anni di populismo spinto.
Quindi si è deciso che la democrazia non basta, bisogna che si trasformi in una “democrazia meticolosa” in cui un elettore elegge passo passo ogni singolo candidato a qualsiasi carica politica. La conseguenza è che la politica di un partito o di una coalizione è messa in discussione (a livello nazionale, anche se si tratta di una singola città) di continuo. È giudicata di continuo. La conseguenza di questa strada ormai ineluttabile è che un partito non si occupa più di costruire un progetto a lunga scadenza, ma di superare il prossimo ostacolo. E se non lo supera, entra in crisi.
Questa è la triste storia del Pd negli ultimi tempi. E non vale che abbia dimostrato capacità di uscire con senso dello Stato dal dopo-Berlusconi, che provi a cercare una strada possibile tra un progetto riformistico e la difesa di alcuni valori storici della sinistra. Arriva Genova, arriva Palermo, e tutto viene rimesso in discussione.
Lo strumento che ha in mano l’elettore di sinistra è potente. Perché le primarie sono delle elezioni. Non si sa se sia giusto che siano delle elezioni, probabilmente no. Non dovrebbero esserlo, non sono nate per avere quello spirito e quella tragicità finale. Ma lo sono. Basta vedere le reazioni e le discussioni del giorno dopo, ogni volta. Si continua a dire che bisogna accettare il voto delle primarie, che si è accettato il voto delle primarie, ma nella sostanza non lo si accetta nel senso che il Pd prende come una sconfitta elettorale una sconfitta alle primarie. E come una sconfitta elettorale gli viene attribuita da commentatori, avversari e possibili alleati.
In buona sostanza, lo strumento delle primarie diventa per il Pd uno stillicidio. E poiché è uno strumento popolare, il Pd lo subisce e non può contrastarlo, ma anzi se ne fa paladino. Insomma, il Pd ha inventato e coltivato lo strumento della sua distruzione. Se si può innescare una deflagrazione del partito ancora adolescente e quindi ancora senza sviluppo solido, si può innescare dalle sconfitte continue alle primarie. Il Pd si è inventato da solo uno strumento che, tra una data e l’altra delle elezioni politiche, attraversa una quantità enorme di sottoelezioni che lo debilitano, lo sfiancano, e riaprono di continuo le lotte all’interno del partito.
Ma il Pd è solo una vittima? La questione di Palermo a parte il caso locale, le contingenze, a cui si può sempre riportare tutto e che in parte esistono fa saltare un’altra delle certezze che si erano incastrate tra le ossessioni del Pd, spinte dal vento popolare: le alleanze a sinistra. In molte primarie il Pd ha vinto sia con alleanze al centro sia con alleanze alla sua sinistra. Ma in altre e spesso significative, negli ultimi anni, ha perso sia con alleanze al centro sia come nell’ultimo caso con alleanze a sinistra. Dov’è il problema?
Il Pd è il grande partito della sinistra. Quindi gli elettori di sinistra lo dice la storia dalla fine degli anni Settanta in poi hanno maggiore voglia di contraddirlo, di metterlo in difficoltà, di negarne la politica. Ma questo succede oggi in sintonia con un problema politico concreto, che l’elettore delle primarie percepisce, e che indispettisce ancora di più: il progetto del Pd è fluttuante, poco chiaro. Non ha proposto un premier futuro, non ha scelto definitivamente alleanze future, non ha risolto con un congresso le varie contraddizioni interne, cercando una sintesi politica da portare avanti per anni. Se si schiera a fianco del governo Monti, alcuni dirigenti rivendicano il diritto di manifestare contro. A ogni passo riformista, c’è un freno di tradizione ideologica. A ogni passo in sintonia con la storia della sinistra, c’è una contraddizione riformista. Si può rispondere: è la varietà del partito che porta a questo. Certo, ma la direzione deve avere una sola linea politica, la quale non deve essere messa in discussione ogni fine settimana, in coincidenza con primarie in una singola città. Se succede, c’è qualcosa che non va. Perché è proprio da qui che nascono le lotte all’interno del partito. E ci saranno, e saranno dilanianti, perché il Pd non ha ancora chiarito, agli elettori e a se stesso, qual è la sua strada. Bersani crede sia giusto attendere, o vedere volta per volta. Ma la verità è che l’elettore delle primarie si trova spesso davanti a dei pasticci (Genova ne è l’esempio perfetto) che sono frutto di mediazioni, incapacità decisionali, tentativi poco chiari. Così, l’elettore di sinistra (e soprattutto del Pd, che di volta in volta non è d’accordo con quella scelta) si indispettisce, si vendica.
Tutto questo succede al Pd perché la sua forza centripeta è gigantesca, ma la sua direzione politica è fragilissima. Succede al Pd perché ha inventato e difende lo strumento con il quale il suo elettore può rimproverare mensilmente tutti gli errori. Succede al Pd perché ogni suo candidato alle primarie non è la conseguenza di una linea politica, ma è la proposta (il sondaggio in carne e ossa) di una strada possibile proposta fatta con timidezza e poca convinzione.
Un critico teatrale una volta aveva scritto di uno spettacolo: gli attori eseguono come se volessero continuamente comunicare al pubblico “è il regista che ci ha detto di fare così”. È questa la sensazione che si ha, a ogni replica delle primarie, per quanto riguarda i candidati del partito più importante. E il risultato si vede.

il Fatto 7.3.12
Ferrandelli. Dai cenciaioli ai lombardiani
Per vincere si allea alla “Qualunque”
di  E.F.


“Di questo Pd non mi fido, il Pd ha snaturato se stesso e lo ha fatto nel 2008, quando non fece le primarie e candidò Anna Finocchiaro alla Regione per sbarrare la strada a Rita Borsellino”. 7 ottobre 2011, Festa di Rifondazione comunista ai Giardini inglesi di Palermo.
“Leoluca Orlando è l’unico sindaco del quale Palermo non si debba vergognare. A Orlando sono state scippate le elezioni comunali con i brogli”. Anno 2007, partecipazione ad Annozero, intervista di Beatrice Borromeo e sottofondo di litigio con l’Udc Michele Vietti.
OGGI, ANNO del Signore 2012 Rita Borsellino è “il vecchio”, la candidatura degli apparati, l’imposizione romana. E Leoluca Orlando l’egoarca padrone dell’Italia dei Valori di Palermo. L’Attila della politica che sotto di sé non fa crescere un filo d’erba giovane. Pensieri e parole di Fabrizio Ferrandelli, il trentunenne bancario che ha vinto le primarie del centrosinistra a Palermo. Parole e pensieri diversi, mobili, mutevoli. Proprio come Fabrizio. Lo hanno raffigurato come Cetto La Qualunque (la somiglianza è impressionante) e lui si offende. Fa bene, perché se Cetto usa il suo vitalismo per impegnative “riflessioni” sotto le lenzuola, Fabrizio Ferrandelli spende tutte le sue energie di trentenne per la politica. È un Fregoli capace di frequentare le ovattate stanze di segreterie e capi elettori e di respirare la polvere dello Zen. Tratta con Antonello Cracolici, Totò Cardinale e Beppe Lumia, i suoi big-sponsor stampelle del governo di Raffaele Lombardo, e va in piazza. Con i senza casa, gli immigrati, i disoccupati, i cenciaioli. Predica il rinnovamento e l’autonomia dalle imposizioni romane, parla di sole e energie rinnovabili. Di diritti e doveri, sa far sognare giovani laureati che non vogliono andar via da Palermo, e al Comune sa trattare per strappare soldi per le associazioni. Ai potenti cacicchi del Pd sa di poter offrire una sorta di riverginazione. Le mie parole, la mia faccia, il mio lavoro sociale in cambio del vostro appoggio. Quelli lo hanno capito e stanno al gioco: finalmente hanno il “loro giovane”. Proprio ieri in Transatlantico, Enrico La Loggia, uno dei ras berlusconiani ai tempi del 61 a 0, sussurrava nelle orecchie dei cronisti i suoi aneddoti sulle primarie palermitane. “Ho avuto vari riscontri di persone del Mpa cui Lombardo ha detto di andare a votare per Ferrandelli”.
MALIGNITÀ. Ma queste Primarie-far-west del centrosinistra di malignità del genere sono piene. Bisognava colpire al cuore Rita Borsellino sul punto sensibilissimo della coerenza antimafia, ed ecco circolare voci dell’appoggio alla candidata da parte dell’innominabile Saverio Romano, l’erede di Totò Cuffaro. Romano smentisce definendo Ferrandelli “un saltimbanco dell’arrampicata”. Replica a stretto giro di posta: “Confermo tutto”.
“Fabrizio è così, me lo ricordo al liceo. Era un mostro, era ossessionato dalla carriera politica”. I tempi del classico Vittorio Emanuele. Che tempi. “Con i Ds – racconta l’amico di gioventù – mai e poi mai finché c’è gente come Cracolici, ripeteva”. Altri anni, altri fervori, che Fabrizio Ferrandelli sfoga nel partito Umanista. Una sigla piccola, troppo stretta per il ragazzo che cerca il suo posto al sole nella politica. Presto la sede del partito pigmeo diventa un asilo. “’U Buntu”, un capolavoro di solidarietà. È il 2005 e tra i vicoli di via Roma le tensioni tra residenti palermitani e prostitute nigeriane rischiano di degenerare. Fabrizio capisce al volo la situazione, organizza un asilo per i figli delle prostitute, ma allo stesso tempo partecipa anche alle manifestazioni dei palermitani di quel piccolo bronx. Di lotta e di governo. Così con i cenciaio-li, i raccoglitori di ferro che con le loro scassatissime “Moto-Ape” svuotano i cassonetti della città del ferro.
UNA SORTA di raccolta differenziata alla buona. Quando l’azienda dei rifiuti straccia la convenzione con i cenciaioli, Ferrandelli ne capeggia la protesta. E loro hanno ricambiato. Sempre. Duemilacinquecento voti nel 2006 quando si candida alla Regione con la lista di Rita Borsellino. Non sono sufficienti, poco male, perché un anno dopo gliene basteranno la metà per salire al Comune. Consigliere nella lista “Orlando sindaco”. Leoluca gli vuole bene e nel 2008 lo nomina capogruppo di Idv, la Borsellino lo cura come un pupillo. Ma a Fabrizio non basta. Due anni dopo decide di fare da solo: scende in campo, si candida alle primarie. Vuole fare il sindaco, investe sulla sua faccia giovane e pulita, ma tira anche fuori la sua spregiudicatezza politica. Vanno bene immigrati e cenciaioli, ma si tratta con chi ha i voti. Il nuovo, ai tempi di oggi, è anche questo.

il Riformista 7.3.12
Letture deformate delle primarie palermitane
di Emanuele Macaluso


La disputa che si è aperta nel Pd dopo le primarie palermitane mi sembra del tutto insensata. Infatti il tentativo di leggere i risultati di quel voto con le lenti delle correnti (senza definirle tali) che animano il dibattito nel partito, e soprattutto fuori di esso, non ha né capo né coda. Nel Pd e in tutto il centrosinistra siciliano, da tempo è in corso una guerriglia tra notabili di antico pelo e giovani ambiziosi per mantenere un ruolo acquisito o per conquistarne uno più ambito. Questo non significa che non ci siano anche scontri che hanno una dimensione politica, ma quel che prevale è la guerriglia. Notabili accusati di essere di “destra”, addirittura amici di Cuffaro ma nemici di Lombardo, hanno sostenuto il cartello della Borsellino. E c’è l’esempio opposto. Il giovane Ferrandelli che ha vinto le primarie era uscito dal partito di Di Pietro, protestando contro la pretesa del non più giovane Leoluca Orlando di candidarsi per l’ennesima volta, è stato adottato dai parlamentari del Pd che hanno sostenuto l’alleanza con Lombardo.
Ieri, la Repubblica ha pubblicato un’intervista rilasciata dal vincitore delle primarie ad Antonello Caporale che si può sintetizzare così: politicamente sono figlio di nessuno e di tutti. Le sue aspirazioni le riassume con queste immagini: «vedevo la poltrona dove era seduto Cammarata, la poltrona del sindaco, e immaginavo che un giorno avrei potuto agguantarla». Voce del verbo agguantare. E ci fa sapere di avere preso i voti del partito (Pid) dell’ex ministro, inquisitissimo, Saverio Romano, e del campione antimafia ex sindaco di Gela, Crocetta; che vorrebbe rientrare nell’Idv e non ha problemi né con la foto di Vasto né con quella di Lombardo e soci. D’altronde, identificare Rita Borsellino con quella foto è un’altra forzatura. Per riprendere il discorso fatto ieri su queste colonne, il gruppo dirigente nazionale del Pd, che non ha riflettuto su ciò che era avvenuto a Napoli, lo faccia ora discutendo seriamente, interrogandosi su cosa è il Pd nel Sud. Si tratta di valutare bene se le primarie di Napoli e Palermo (per non ricordare quel che è avvenuto in Calabria) sono incidenti di percorso o c’è un problema più di fondo. L’ambizione è una componente necessaria in una persona che fa politica, ma, quanti sono, tra i nuovi e i vecchi notabili del Pd, quelli che hanno come obiettivo solo “l’agguantare una poltrona”? C’è una verità incontestabile di ieri come di oggi: se nella lotta politica non ci sono grandi motivazioni e orizzonti visibili oltre l’immediato, se in un partito non c’è una comune base politico-culturale, “l’agguanto della poltrona” diventa il tutto.

Corriere della Sera 7.3.12
I due volti opposti della sinistra dopo le sorprese alle primarie
di Paolo Franchi


C'è grande disordine dalle parti del Partito democratico. Dove la situazione, già non eccellente, si è fatta, dopo le primarie di Palermo, molto pesante. Anche qui l'esito non è stato quello caldeggiato da Pier Luigi Bersani: ma in senso esattamente opposto rispetto al recente passato. Perché se a Milano, a Cagliari e a Genova aveva vinto un candidato diciamo così «più a sinistra», a Palermo a prevalere è stato un outsider per così dire «più moderato». Sono le primarie, bellezza, titola spiritosamente l'Unità. E avrebbe anche ragione, se non si desse il caso, puntualmente registrato dal quotidiano fondato da Antonio Gramsci, che «dopo la sconfitta di Rita Borsellino, Antonio Letta e i Modem criticano Bersani sulle alleanze». Reclamando l'immediata archiviazione della cosiddetta foto di Vasto, quella che ritraeva Bersani, Antonio Di Pietro e Nichi Vendola come i tre volti di una sinistra autosufficiente. E anche qualcosa di più.
Palermo-Vasto uno a zero, e palla al centro? In realtà, con questa e altre rivendicazioni, Palermo c'entra, certo, ma fino a un certo punto. Perché il vero oggetto della contesa sono il profilo politico, l'identità, la leadership, le alleanze future del Pd, e forse anche le sue stesse sorti. Succede, eccome, anche sul versante opposto. L'incertissimo futuro del bipolarismo grava pesantemente, su tutti e due i grandi partiti-contenitore che, nel bene e (soprattutto) nel male ne sono stati, nella versione selvatico-muscolare di questi anni, l'architrave. Nessuno può prevedere se, quando e in quali forme ricomincerà in Italia un'aperta lotta politica (una volta si diceva così) per il governo del Paese. Ma, ove mai si riaprisse, è sicuro che avrà caratteristiche radicalmente diverse da quelle degli ultimi vent'anni; e che ben difficilmente avrà per protagonisti Pdl e Pd, o quanto meno questo Pdl e questo Pd. Vengono meno le vecchie ragioni sociali di esistenza. Si fatica a inventarne di nuove.
Di questa diffusa (e fondata) percezione, che si condensa nel mantra «nulla sarà come prima», risentono, eccome, le polemiche sull'intensità dell'appoggio da dare a Monti, e soprattutto sul dopo Monti, che serpeggiano nel Partito democratico e nei suoi dintorni. Investono in primo luogo, come avviene spesso, specie quando grandi idee in circolazione non ce ne sono, le alleanze. Ma poi, come è tradizione a sinistra e nel centrosinistra, i contrasti sono destinati a investire, persino nei tempi postideologici di partiti così leggeri da non riuscire a selezionare nemmeno degli amministratori locali, anche le questioni identitarie: quelle questioni identitarie che ormai quasi per consuetudine si definiscono irrisolte. Chi siamo. Cosa vogliamo. Quale rapporto abbiamo non solo con la nostra storia recente, che non è grandissima cosa, ma soprattutto con le storie pesanti delle nostre vite politiche precedenti. Di quale campo di forze vogliamo essere parte in Europa, visto che fuori da un dimensione europea non si va da nessuna parte.
Senza nulla togliere all'importanza delle polemiche sui brogli ai seggi delle primarie palermitane, e nemmeno alla foto di Vasto, è qui che la questione si fa davvero spinosa. Forse addirittura irrisolvibile. Perché il Pd, quello a vocazione maggioritaria, è nato con l'ambizione di essere in quasi solitudine una grande e moderna forza di governo di centrosinistra. Poi ha smarrito per via questa ambizione. E adesso rischia di trovarsi lacerato. Di qua chi intende fare, prima che sia troppo tardi, rotta al centro, dove già si sta dando convegno la politica che conta di domani, di là chi è convinto che il problema sia non perdere il contatto con quanto (e non è poco) c'è e preme alla sinistra del Pd, e incrocia le dita sperando in Hollande e in Gabriel. È quasi inutile segnalare che non si tratta di un confronto da tavola rotonda. Perché i moderati che guardano al centro condividono con i moderati che al centro già ci stanno la convinzione che Monti, in carne e ossa o quanto meno in spirito, anche nella prossima legislatura dovrebbe guidare un governo sorretto da una grande coalizione. E Bersani e compagni continuano a confidare (anche se la convinzione sembra diminuire con il passare dei giorni) che, nell'aprile dell'anno prossimo, passata l'emergenza, tornerà il tempo della politica.
Per molto meno, quando c'erano i partiti vecchio stampo, si sarebbe convocato un congresso. Adesso, con l'aria che tira, non se ne parla nemmeno, e si capisce. Meglio azzuffarsi di primarie in primarie. Meno male per il Pd che il 7 maggio si vota, e queste di Palermo, a occhio e croce, sono state le ultime.

l’Unità 7.3.12
Il Pd non va al corteo Fiom «Incompatibili coi No Tav»
Il caso La segreteria: apprezzamento sui contenuti sindacali ma niente ambiguità sulla legalità. Dopo-primarie, intervista a Gentiloni: è ora di cambiare rotta
La segreteria Pd apprezza i contenuti sindacali ma «nessuna ambiguità sulla legalità»
Landini: rispettiamo la decisione, ma è un errore. Vita e Nerozzi: noi parteciperemo
Fiom, il Pd si sfila «Incompatibili con i No Tav sul palco»
Bersani sulla manifestazione Fiom: «Il Pd ascolta tutte le aree di sofferenza del Paese» ma deve saperle «coniugare con il consenso al governo Monti». Fassina e Orfini: «Ci saranno i NoTav, noi no»
di Maria Zegarelli


Alla fine un merito i NoTav lo hanno: aver (quasi) ricompattato il Partito democratico sulla posizione da tenere rispetto alla manifestazione del 9 marzo della Fiom. Il Pd non ci sarà perché sul palco del sindacato cacciato via dalla Fiat saliranno quelli che la Tav non lo vogliono proprio.
La decisione è arrivata ieri, durante una segreteria che al tema ha dedicato parecchio del suo spazio: giusto interloquire anche con chi «non la pensa esattamente come noi», ha spiegato Pier Luigi Bersani, ma il Pd deve tenere insieme ascolto delle «aree di sofferenza» nel Paese e sostegno al governo Monti. Acrobazia. Ma il segretario erano giorni che sentiva la pressione dell’ala montiana del suo partito, assolutamente contraria alla partecipazione alla manifestazione di venerdì, e dopo le vicende NoTav tutto si era fatto più complicato. Tanto che, se la piattaforma iniziale trovava d’accordo molto dirigenti vicini al segretario, dal responsabile Lavoro Stefano Fassina, a Cesare Damiano, è pur vero che il numero uno del Nazareno sulla No Tav era stato chiaro: nessuna ambiguità verso chi prende iniziative che non si muovono nella legalità. E così è stata proprio la partecipazione dei NoTav a segnare la linea di confine: lo stesso responsabile Cultura, Matteo Orfini, nei giorni scorsi era stato chiaro: «Se un solo esponente del movimento viene invitato sul palco, me ne resto a casa». Decisione confermata ieri: non andrà.
LA PIATTAFORMA
Fassina aprendo i lavori ha rimarcato «i limiti alla rappresentanza sindacale presenti nelle aziende del gruppo Fiat, il mancato reintegro di tre lavoratori alla Sata di Melfi, i rischi di discriminazione sindacale a Pomigliano» e ha espresso preoccupazione per la mancanza di un piano industriale per il 2010. Proprio i motivi che lo avevano spinto a partecipare all’iniziativa di venerdì, «ma la manifestazione si è caricata anche di altri contenuti, in particolare la Tav, oggi al centro dell’agenda politica e causa di inaccettabili episodi di violenza». «La piattaforma della manifestazione aggiunge Orfini con i suoi quattro punti non è contro il governo, ma puramente sindacale e abbiamo voluto che questo fosse messo a verbale. Ma la nostra perplessità è sorta poiché la stessa Fiom si sta discostando da quella piattaforma visto che sul palco si parlerà di altre cose e saliranno anche i No Tav». E se nel partito sono piovute dichiarazioni di plauso alla decisione della segreteria e dell’ala labour, dalla Fiom Maurizio Landini non fa attendere la risposta: «Noi siamo coerenti. Non capisco questa decisione e se alla nostra manifestazione parla un No Tav non significa che cambi disegno. Tra l'altro alla nostra iniziativa abbiamo invitato il presidente della comunità montana della Val di Susa, che è un iscrito al Pd. Poi rispettiamo la decisione di ogni forza politica e il Pd si prenderà le proprie responsabilità». E ricorda che la Fiom al congresso del 2010 votò «tre documenti di appoggio ai No Tav, ai movimenti contro il nucleare e a quelli per l'acqua pubblica. Il 16 ottobre in piazza, con tanti esponenti politici non avevamo cambiato idea. Non è che si scopre ora che noi siamo No Tav. Ricordo che dal palco parlerà una figura istituzionale e trovo singolare che lo si consideri un pericoloso estremista».
MA C’È CHI ANDRÀ
«Molto positiva» la decisione «dei colleghi» di non andare al corteo, commenta invece dal fronte democrat Marco Meloni, «merita apprezzamento, soprattutto dopo tante incertezze, quanto ha dichiarato Stefano Fassina circa la sua rinuncia a partecipare alla manifestazione della Fiom», aggiunge Beppe Facchetti, responsabile economico dei Liberal Pd.
«Decisione sbagliata», replica dal fronte opposto Vincenzo Vita mentre arriva ad un seminario, da lui stesso organizzato dal tema piuttosto chiaro, «A sinistra della crisi», tra gli ospiti proprio Landini. «Quella della segreteria Pd mi sembra una decisione molto tattica e politicista aggiunge. Io andrò alla manifestazione e questa iniziativa di stasera è un modo per ribadirlo». Sulla stessa linea Paolo Nerozzi: «Anche io andrò al corteo perché non è il partito che dà linea sulle manifestazioni: questa è un’abitudine, sbagliata, che si è presa negli ultimi dieci anni. Il sindacato ha una sua autonomia e la partecipazione alle iniziative dei sindacati deve essere lasciata alla libertà personale dei dirigenti, anche in rispetto della loro storia. È o no antidemocratico che un sindacato venga cacciato via da una fabbrica? È o no grave che un giornale, l’Unità venga vietato dentro la fabbrica? Se queste cose sono gravi allora ci sono già due buoni motivi per andare alla manifestazione».

il Fatto 7.3.12
L’ultima del Pd: no alla Fiom perché ci sono i No-Tav
Con la scusa dei No-Tav, il Pd scarica la Fiom
Per i dirigenti è vietato partecipare al corteo dei metalmeccanici
Il partito di Bersani non vuole sembrare antigovernativo e trova una scusa per non sfilare con gli operai: sul palco parla un ex sindaco (Pd) che è contro il treno Marra
di Wanda Marra


Tutta colpa di un ex sindaco democratico anti-treno sul palco: «Se serve io posso rinunciare»
Fassina doveva andare, ma è proprio lui a dare la linea ufficiale: «Stiamo tutti a casa»

Il Pd mi sembra fuori dal mondo”. Parola di Sandro Plana, presidente delle Comunità montane della Val di Susa, “convintamente” iscritto ai Democratici (ed ex sindaco piddino), che venerdì sarà sul palco della manifestazione della Fiom, a Roma, come esponente No-Tav. La sua presenza (assieme a quella attesa tra la folla di esponenti del movimento) ha causato il no deciso da parte della segreteria del Pd alla partecipazione alla stessa mobilitazione di suoi membri. “Mi ha invitato Landini e se me lo chiede lui sono pronto a scendere dal palco se questo è necessario per aver il Pd in piazza. Sono pronto a fare un passo avanti, un passo indietro e un passo di lato in nome dell’allargamento del fronte”, dice Plano. Basterebbe?
Roberto Della Seta, uno dei pochissimi democratici a sposare le ragioni dei No-Tav, spiega che legare la non partecipazione del Pd alla manifestazione alla presenza del movimento della Val Susa “è pretestuoso”. É una vecchia abitudine democratica accompagnare molte manifestazioni con polemiche e distinguo (“vado”, “non vado ma solidarizzo”, o il classico “vado a titolo personale”). A quella della Fiom si attendeva almeno Stefano Fassina, responsabile economia del partito e capofila dell’ala sinistra, oltre a Matteo Or-fini e Cesare Damiano.
IERI PERÒ la segreteria del Pd – in un’ora e un quarto di riunione – ha deciso che i suoi esponenti non potranno scendere in piazza con la Fiom “in quanto la manifestazione si è caricata anche di altri contenuti, in particolare la Tav, al centro dell’agenda politica e causa di inaccettabili episodi di violenza”, per usare le parole di Fassina che ha fatto la relazione esprimendo la posizione ufficiale del partito. É lo stesso Fassina che il 21 febbraio) dichiarava: “Andrò alla manifestazione della Fiom perché i motivi sono giusti”. Lo stesso Fassina (assieme a Ignazio Marino e Cesare Damiano) che lo scorso 16 ottobre 2010 aveva sfilato con la Fiom in rappresentanza del suo partito, che pure aveva negato la partecipazione “ufficiale”. Dopo Fassina, ieri, in segreteria è intervenuto Matteo Orfini: “È cambiata la natura della mobilitazione, data la nostra posizione sul Tav non possiamo partecipare”. E poi: “I no-Tav non hanno preso le distanze dalle violenze”. Lo stesso Orfini che il 22 febbraio su Leftwing in un intervento intitolato “Perché sarò in piazza con la Fiom” così argomentava: “Non credo che un dirigente del Pd dovrebbe provare imbarazzo a stare vicino a metalmeccanici che difendono il proprio lavoro e i propri diritti solo perché qualche estremista passa di lì”.
MA PIÙ DELLA FIOM, potè la Tav. O forse i Democratici hanno trovato un modo “elegante, ammesso che sia elegante” (ancora una volta le parole sono di Plano) per uscire dall’ennesima impasse con mezza segreteria pronta a scendere in piazza e mezza pronta a fargli il processo. Perché valutava incoerente e sbagliato scendere in piazza contro una riforma del lavoro che sta varando il governo sostenuto dai democratici. Ieri è stato il lettiano Marco Meloni a incassare la vittoria dei “montiani” proprio mentre Bersani e i suoi sono sotto botta per il risultato di Palermo. Orfini sottolinea che in segreteria è stato messo a verbale che “la piattaforma della manifestazione non è contro il governo, ma puramente sindacale”.
D’ALTRA PARTE è lo stesso Maurizio Landini, segretario generale della Fiom a esprimere qualche perplessità: “Se parla un No-Tav il senso della manifestazione non cambia. Rispetto le decisioni di ogni forza politica ma il Pd si assumerà la responsabilità di quello che dice”. Peraltro, “non è una novità che la Fiom sta con i No-Tav”. E ricorda che dopodomani si manifesterà non solo contro la discriminazione di chi ha una tessera sindaca-le, ma anche per l’articolo 18. In piazza ci sarà anche l’Idv (come annuncia una lettera aperta di Antonio Di Pietro) e Sel. A dicembre, all’inizio dell’era Monti, in occasione del presidio dei sindacati a Montecitorio per protestare contro la riforma delle pensioni, i lettiani erano partiti all’attacco del responsabile economico invitandolo a “non tenere il piede in due staffe” perché non si può essere “di lotta e di governo”. Fassina in piazza c’era andato lo stesso, ancora una volta con Damiano e Sergio D’Antoni. Questa volta non ci sarà neanche Damiano. Mentre andranno Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi. “Non sono della segreteria. Mica c’è il centralismo democratico”, spiega il primo.
Intanto la Fiom si attrezza a portare i manifestanti con i pullman: le Ferrovie dello Stato hanno aumentato troppo i prezzi, e organizzare i treni speciali è proibitivo. Dura la lotta sotto il governo Monti.

il Fatto 7.3.12
Il Pd brancola nel buio
di Oliviero Beha


Pier Luigi Bersani, il segretario politico del Pd, dopo la “primaria” batosta di Palermo che ne segue diverse altre dice “no alla resa dei conti”. Va bene. Stefano Fassina, il responsabile della segreteria economica del partito, disdice l’adesione precedente con un “no alla partecipazione del Pd”, venerdì 9, alla manifestazione Fiom/Cgil perché la presenza dei No-Tav sul palco “avrebbe cambiato di segno” alla cosa. Benone, per carità. E sono soltanto i “no” di ieri, in fila dopo tanti altri. Forse il punto è proprio questo: dove sono se ci sono i “sì” del Pd? Qual è la proposta politica forte, riconoscibile, non camaleontica che mettono in vetrina? In nome di che cosa parlano al Paese, che cosa auspicano, che cosa vogliono ecc.? I no sono ovviamente legittimi e magari in certe circostanze doverosi, ma sono tali perché si contrappongono a dei sì, altrimenti valgono niente, non sono un pensiero negativo bensì un non-pensiero, non una politica ma un’assenza di politica, una a-politica che avrebbe di fronte quella che impropriamente loro chiamano anti-politica. È come se un Partito di massa, oggi in ogni caso ancora imprescindibile per la vita politica di questo paese, ristagnasse in una camera oscura nella quale non succede nulla senza volere o riuscire a sviluppare fotografie da mostrare in giro. Resta tutto al buio. Ed è un andazzo che dura da troppo tempo e sta accelerando il suo corso, nel senso che sta consolidando uno status quo che fa a pugni con qualsiasi dinamica sociale. Meglio e più diffusamente di me ne parlava su questo giornale domenica scorsa Furio Colombo, illustrando la voragine che si sta allargando tra governanti e governati. È un’altra immagine icastica della situazione nella quale affondiamo, così come ormai parecchi anni fa il medesimo Furio aveva coniato l’esaustiva formula della “deformazione del paesaggio”, che allora veniva attribuita alle nequizie di Berlusconi e del suo “ismo”. Errore, a quel che pare: siamo ridotti così per un concorso di colpa che riguarda tutti i governanti sia pure con dosaggi diversi, e molti dei governati in un discorso allargato. E oggi il Pd è fermo nel suo gioco dell’oca alla casella “conservazione del potere” invece che provare a gettare i dadi in proprio mentre molte cose stanno cambiando. La settimana scorsa in un altro dei “no” su cui è arduo costruire qualcosa, Bersani in tv ha rigirato la questione del coinvolgimento della “Coop rossa” nei lavori valsusini per il Tav in una faccenda “morale”. Nessuno si può permettere di mettere in dubbio la sua onestà, ha detto. Gli credo. Ma il punto non era né è questo, l’accusa non c’era stata e la difesa non era richiesta. È curioso come almeno da Berlinguer in poi nelle sue peripezie il Partito di cui parliamo abbia spessissimo spostato le tre noci per nascondere il pisello: di volta in volta la questione morale, quella penale e quella politica hanno fatto da gusci. Stavolta il rapporto era rovesciato. Trent’anni fa si affacciava (eufemismo!) una questione morale, gabellata per politica in attesa di diventare penale. Adesso si risponde sulla morale mentre il tema è politico, lavorando intanto alacremente nel loro alveo le Procure. Credo che anche se perdute le “primarie” restino una passerella nel vuoto di quel precipizio tra politica e cittadini descritto da Furio. Passerella esile e ondeggiante, dalla quale di solito cade di sotto un rappresentante di Partito o meglio qualcuno vissuto come tale. Quindi il no in questo caso dovrebbe essere un sì, rischioso ma foriero di sviluppi. Così come per la manifestazione della Fiom: Fassina, andateci, andate sul palco a dire “no” ma alla violenza e ai disordini illegali e autolesionisti, non “no” a tutto, ai lavoratori, alle contraddizioni, a un Paese in ginocchio. Non siate pilateschi. Uscite dalla “camera oscura”. Forse se non siete ancora mummie (come credo e spero) un po’ di luce vi farà solo bene...

il Fatto 7.3.12
Una veduta sul Pd
risponde Furio Colombo


Caro Furio Colombo, vedendo Bersani nella trasmissione di Santoro mi sono sentito deluso, stufo, arrabbiato. Secondo te questo inadeguato segretario porterà il partito allo sfascio? Marino avrebbe fatto meglio. Però Travaglio sembra che goda a criticare e sbeffeggiare. Se il Pd ha combinato qualcosa di buono, certo non lo veniamo a sapere dal “Fatto Quotidiano”.
Armando

LA LETTERA di Armando è utile perché ha una doppia visione dei fatti: come sono e come dovrebbero essere. E dunque serve per qualche riflessione. La prima: Bersani non è un segretario inadeguato. Semmai – purtroppo troppo spesso – lo è il Pd. Esiste un Pd che apprezza il suo senso del limite, il suo fermarsi prima di giudicare e, soprattutto, prima di agire. Non ha la forza di coprire o assorbire le altre anime, molto più impazienti o molto più pazienti. Ma ammettiamolo: con tutti i suoi problemi, il Pd non sembra così male in arnese come il suo avversario principale, il Pdl in pieno sgretolamento, la Lega in fuga disordinata lungo le vallate (per il Tav e contro Roma), la Destra che sfila nel vuoto tra passato e presente, lontanissima da qualunque futuro. La seconda: non possiamo però non tener conto di un limite che pesa sui leader di partito, “buoni” e “cattivi”. Il governo tecnico li vincola a una sorta di astensione. Questo stato di cose giova molto a Berlusconi, che si finge padre nobile. Giova meno a Bersani, che si muove meglio (o almeno si presta in modo più legittimo al giudizio) quando è libero – o un po’ più libero (con quel partito “tuttifrutti”) – di decidere, o almeno di annunciare un'azione. Terzo. È vero che “Il Fatto” è un critico severo. Ma io lo vedo più come un segno del prendere le cose sul serio che come una collezione di cattiverie. Il problema non è la caricatura, che non è il segno tipico del “Fatto”, ma la valutazione critica, specialmente verso coloro per i quali molti lettori di questo giornale hanno votato (come dicono nelle lettere) e da cui si aspettano di più. Meglio uno specchio, anche se irrita, che un ritratto cauto e guardingo (non oso dire “celebrativo”). Io credo che il lettore si sia trovato a disagio guardando la serata Santoro proprio perché messo sull'avviso dal “criticare e sbeffeggiare” del Fatto.

Corriere della Sera 7.3.12
Bersani ai filo-Monti del Pd: amministrative con Sel e Idv
Resa dei conti rinviata. Ma i veltroniani: «Gestione collegiale»


ROMA — Nessuna resa dei conti. E men che meno richieste di congresso anticipato. La direzione del Pd, che dovrebbe tenersi il 26 o il 27 di questo mese, non si trasformerà in un gioco al massacro.
«Procediamo passo per passo», dice Veltroni. Per farla breve, quanti si oppongono all'alleanza di Vasto, pur vedendo rafforzate le loro ragioni dopo il fallimento di Rita Borsellino, non faranno il tiro al bersaglio nei confronti del segretario. Enrico Letta assicura: «Io e Pier Luigi abbiamo un ottimo rapporto». E Walter Verini, braccio destro e sinistro di Veltroni, propone: «Ora ci vorrebbe una gestione collegiale del partito». Mentre Paolo Gentiloni sottolinea: «Il Pd non ha bisogno di una resa dei conti, ma di un'inversione di rotta: non si può ancora pensare di andare avanti con la logica del "niente nemici a sinistra"».
Dunque, il tentativo dei filo-Monti non è quello di far cadere Bersani, ma di condizionarne la politica. Se nella riunione della Direzione Veltroni, Letta e Franceschini diranno le stesse cose, questa sarà la dimostrazione plastica che la maggioranza del Pd è cambiata e non è più quella che ha portato all'elezione di Bersani. È l'obiettivo a cui puntano quanti vorrebbero che il segretario abbandonasse al loro destino Rosy Bindi, Stefano Fassina, Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. Così avrebbero un leader sotto tutela.
Ma il segretario, per quanto ammaccato, non è necessariamente destinato alla sconfitta. Ha dalla sua il tempo. Già, perché, come osserva il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, «tra sessanta giorni ci sono le elezioni amministrative e i dirigenti del Pd non possono sbranarsi adesso».
Non solo, come spiegava ieri Bersani ai suoi, c'è una più che valida ragione per non dichiarare defunta l'alleanza della foto di Vasto: «In quasi tutti i Comuni noi ci presentiamo con Sel e Idv, vi pare che possiamo dire che questa alleanza va seppellita prima?». E Bersani ha anche un'altra carta in serbo, anzi due. Il segretario del Partito democratico sa che alle amministrative il centrosinistra andrà bene, mentre il Pdl subirà sonore sconfitte, perciò ritiene che dopo il voto nessuno degli oppositori interni potrà chiedere le sue dimissioni. Non solo: il 6 maggio si vota in Francia per le elezioni presidenziali e il leader del Pd è convinto che la vittoria di Hollande infonderà ulteriore ottimismo nel popolo del centrosinistra.
Insomma, il Partito democratico è tutt'altro che unito, però non è ancora giunto il tempo di una lacerazione traumatica. Anche perché, come ha spiegato Mario Monti ai suoi interlocutori del centrosinistra, la crisi economica non si può dire ancora superata. Già, l'Italia e l'Europa hanno davanti a loro altri sei mesi di difficoltà e fibrillazioni. L'uscita dal tunnel non è prossima. Perciò i partiti non possono concedersi il lusso di dilaniarsi in faide interne i cui effetti, inevitabilmente, si ripercuoterebbero sulla stabilità del governo.
Il che non significa, ovviamente, che le polemiche dentro il Partito democratico siano sopite. Basta ascoltare quello che va dicendo Beppe Fioroni, mentre attraversa il Transatlantico di Montecitorio con alcuni colleghi dell'ex Ppi: «Come mai questa volta Bersani non si è affrettato a dire, come ha fatto a Genova con Marco Doria, che ora il partito tutto unito sosterrà Ferrandelli? Forse perché non è di sinistra, ma è un cattolico? Forse perché c'è chi sta preparando una candidatura alternativa?».
Maria Teresa Meli

Repubblica 7.3.12
Bersani archivia il caso Palermo e punta tutto su Camusso e Fornero
Incontri con ministro e leader Cgil. No del Pd al corteo Fiom
Il segretario vuol costruire un ponte da Sel a Casini Vendola: preferite la foto di Arcore?
di Goffredo De Marchis


ROMA - Pier Luigi Bersani si è messo alle spalle le primarie di Palermo. Ne riparlerà nella direzione del 26 marzo, ma il sostegno al vincitore Fabrizio Ferrandelli è fuori discussione. Il Pd non seguirà l´Italia dei Valori sulla strada delle carte bollate e della denuncia del "voto inquinato". L´esito dei gazebo sarà rispettato. Da ieri, dal momento in cui alle 11,30 il segretario democratico è scomparso per misteriosi appuntamenti è cominciata un´altra partita cruciale per le sorti del Pd e per la tenuta dello stesso Bersani: la riforma del mercato del lavoro. Nelle ultimissime ore il leader ha incontrato a quattr´occhi sia il ministro del Welfare Elsa Fornero sia il segretario della Cgil Susanna Camusso. Bersani punta a trovare una sintesi per il tavolo delle parti sociali. Il lavoro è il chiodo fisso naturale di un partito di sinistra. Ma serve anche a evitare nuove dirompenti fratture dentro il Pd.
Se riesce nell´impresa, che sarà oggi anche al centro del colloquio con Monti, Alfano e Casini, Bersani avrà nuove carte da giocare e respingerà l´assalto alla sua segreteria che potrebbe venire, sul lavoro, da destra e da sinistra. La strategia prevede la ricucitura tra i sindacati. E un aiuto all´Udc che su questi temi è molto sensibilizzata dalla Cisl. Bersani ne uscirebbe rafforzato portando a casa un risultato per il mondo che è ancora il suo primo punto di riferimento. Oggi a Palazzo Chigi, batterà sul tasto delle risorse per gli ammortizzatori sociali, snodo decisivo per portare anche la Cgil alla firma. «E se va bene, io continuerò a metterci la faccia come sto facendo in questi giorni. Sono uno dei pochi leader politici che può andare ai cancelli della Fincantieri di Palermo. Perché loro sanno che quando ero ministro ho risolto tante vertenze delicate», ha spiegato ieri durante la riunione della segreteria.
Per non offrire il fianco a nuove polemiche, il leader democratico ha disinnescato ieri anche la mina della manifestazione della Fiom (andrà comunque Furio Colombo). Stefano Fassina e Matteo Orfini, i due "giovani turchi" bersaniani, rinunciano a sfilare in corteo con i metalmeccanici venerdì «perché la piattaforma è stata allargata ai No Tav». Così per Bersani è più semplice tenere aperto il dialogo con il governo. Perché non vuole certo abbandonare la nave: «Dobbiamo continuare a sostenere Monti senza perdere di vista le tante aree di sofferenza economica nel paese».
Dunque, Bersani non intende regalare il premier a nessuno. Ma punta fino all´ultimo a non perdere il treno di Idv e Sel per agganciarlo al Terzo Polo. Ne ha parlato con Enrico Letta, il vicesegretario che ha condannato la foto di Vasto criticando la scelta di Rita Borsellino a Palermo. Serviva un chiarimento perché le parole di Letta non sono state gradite dal leader. E non solo da lui. «Sono allibito. Andiamo al voto dappertutto con l´alleanza di centrosinistra e mancano solo 60 giorni. Basta sbranarci tra di noi», osserva Nicola Zingaretti. Nichi Vendola taglia corto: «Spero che non si voglia sostituire la foto di Vasto con la foto di Arcore». Ma il colloquio tra Bersani e Letta era necessario anche capire quanto gli equilibri interni stanno cambiando. Per costruire un ponte che va da Sel a Casini il segretario ha deciso di seguire da lontano il dibattito sulla legge elettorale in modo da non urtare nessuno. Sapendo che il confronto non decollerà prima delle amministrative. Bersani, insomma, crede con forza all´ipotesi di un Pd baricentro dell´alleanza e di conseguenza a un segretario che può giocarsi le sue carte per la corsa a Palazzo Chigi.

Repubblica 7.3.12
Franceschini: stop allo scontro interno, Bersani resterà leader fino al congresso dell’autunno 2013
"Alleanza con l’Udc, ma Letta sbaglia noi dobbiamo riprenderci la sinistra"
Monti premier dopo il 2013? Non farà mai il candidato di una parte, e l’ipotesi di una Grande Coalizione è esclusa
di Alessandra Longo


ROMA - Dopo l´esito delle primarie Pd di Palermo, Dario Franceschini manda un messaggio ai colleghi che si azzannano e attaccano Bersani: «Fermatevi!». Tutto tempo perso («Bersani sarà il leader del partito fino al congresso del 2013») ed energie che andrebbero dirottate altrove: «Lo dico io con la mia storia. Penso che il Pd debba riappropriarsi del non poco spazio che sta alla sua sinistra». E quando finirà l´esperienza Monti? «Nessuna Grande Coalizione, dovremo offrire al Paese un´alleanza tra progressisti e moderati».
Intanto ogni tornata di primarie diventa un funerale.
«Con queste regole, va così. La competizione è autentica. La forzatura è darne una lettura tutta proiettata a livello nazionale».
E´ quello che sta facendo l´establishment del partito.
«Il mio messaggio è: "Fermatevi". Ci vuole onestà intellettuale. Vi pare che l´elettore di Palermo sia uscito di casa per andare a dire la sua sulla foto di Vasto (Bersani, Vendola, Di Pietro, ndr)? E quando ha vinto Pisapia a Milano, dovevamo dedurre che il baricentro andava spostato a sinistra? E Renzi e De Magistris? Che facciamo, ci comportiamo come bussole impazzite?».
Ammetterà la sequenza degli sbandamenti.
«Io vedo un solo filo comune. A Firenze vince Renzi, a Milano Pisapia, a Napoli De Magistris, a Cagliari Zedda, a Genova Doria. Candidati diversi che hanno in comune il fatto di essere percepiti come l´antisistema. E´ su questo che dobbiamo riflettere, non aprire un fronte interno e attaccare Bersani. La scelta della Borsellino è stata condivisa da tutto il gruppo dirigente nazionale».
Letta prende spunto da Palermo per seppellire l´incontro-simbolo di Vasto. Un grave errore politico come denuncia Latorre?
«Direi, più sobriamente, che non vedo il legame con Palermo. Detto questo, anche per me lo schema Vasto è insufficiente. Ho dei dubbi sulla possibilità di un´alleanza limitata a forze come Sel e Idv, che esprimono posizioni diverse dalle nostre sulla Tav, in politica estera ed economia».
C´è anche il rischio opposto: sposare in toto la linea del governo Monti, per esempio in materia di riforma del lavoro.
«Non dimentichiamo che ogni scelta di questo governo, che abbiamo deciso di appoggiare per salvare il Paese dall´abisso in cui ci aveva cacciato Berlusconi, è frutto di mediazioni tra avversari, a mio avviso finora soddisfacenti. E´ un´esperienza temporanea e noi dobbiamo usare l´anno che ci rimane per parlare anche a chi non vota Pd».
E poi?
«E poi ci sarà un ritorno alla normalità, con il confronto fisiologico destra/sinistra, conservatori/ progressisti».
Monti ancora premier lo esclude?
«Non farà mai il candidato di una delle due parti».
Allora Grosse Koalition.
«Assolutamente no. Dobbiamo lavorare affinché il Paese possa essere governato da un´alleanza fra progressisti e moderati alternativa alla destra. Dobbiamo recuperare sul terreno dell´antipolitica e non lasciare libere praterie a sinistra».
Competitori di Vendola...
«Lo dico io con la mia storia. Dobbiamo riappropriarci della parola sinistra, delle speranze di giustizia e uguaglianza che incarna per milioni di italiani. Penso ad una sinistra moderna, di governo, non immobilista e conservatrice, impaurita da ogni innovazione e cambiamento».
Una sinistra che si allei con il Terzo Polo e l´Udc.
«Bisogna poi costruire una coalizione che abbia un largo consenso sociale e parlamentare».
Nel frattempo la cronaca segnala scambi al vetriolo. Il fronte di Veltroni è in movimento. Lei che dice?
«Evitiamo gli errori del passato. Quando ho perso le primarie, al milione di persone che mi hanno votato ho promesso un lavoro di squadra e questo sto facendo».
Chi sarà il leader del Pd alle prossime elezioni?
«Il leader del Pd c´è ed è Pier Luigi Bersani fino al prossimo congresso, che si terrà nell´autunno 2013, cioè dopo le politiche».

il Riformista 7.3.12
Il Pd non può più tergiversare sulle alleanze
di Giorgio Merlo


Che le primarie siano uno strumento da rivedere è poco ma sicuro. Almeno per tutti coloro che non ritengono che siano un dogma intoccabile ma un semplice strumento organizzativo. E, soprattutto, per chi pensa che la ragione dell’esistenza stessa del Pd non è riconducibile alla presenza delle primarie. Perché, se così fosse, ci troveremo nella spiacevole situazione di un partito che è vittima e succubo della sua macchinazione organizzativa. Un oltraggio alla politica e a ciò che dovrebbe rappresentare in una democrazia rappresentativa e repubblicana.
Ora, al di là delle primarie e quindi al di là di Palermo, e prima Genova, e prima ancora Milano e Napoli -, è indubbio che il nodo politico di fondo del Pd continua a essere la sua prospettiva politica e la strategia delle alleanze che riuscirà a mettere in campo dopo la stagione del governo tecnico. Anche perché, prima o poi, la politica è costretta a ritornare protagonista e centrale nella vicenda nazionale. E, su questo versante, la cosiddetta “foto di Vasto” non è una variabile indipendente rispetto al profilo politico del Pd e alla sua volontà di costruire un credibile e trasparente progetto riformista. Certo, le primarie c’entrano poco con questa prospettiva e lo stesso esito della consultazione palermitana non può essere confuso con la prospettiva politica del Pd. Ma una cosa è indubbia. E cioè, le alleanze a cui pensa il Pd adesso devono essere esplicitate. E lo dico senza polemica e senza filtri o pregiudiziali ideologiche. Adesso il Pd è chiamato a una scelta politica decisiva e netta sul capitolo delle alleanze. E la scelta non può non avere una ricaduta pesante anche e soprattutto per le prossime elezioni politiche del 2013. Si tratta di decidere, in sostanza, se il Pd vuol essere il leader di una coalizione vagamente progressista, giustizialista e movimentista o se, al contrario, vuol essere il perno di un’alleanza di un blocco riformista che ha come obiettivo centrale il governo del Paese. Anche perché l’influenza e il ruolo giocati dal governo Monti non saranno, anche questi, una parentesi facilmente archiviabile nella storia politica del nostro Paese. Non so se per sciogliere questo nodo serve un congresso nazionale o è sufficiente leggere e interpretare il corso degli eventi. Probabilmente è sufficiente osservare attentamente ciò che si muove nell’area antagonista, movimentista e giustizialista della politica italiana per rendersi conto che è partita, del tutto legittimamente, un’iniziativa tesa a costruire un nuovo polo che ha come obiettivo, neanche troppo nascosto, quello di marcare una posizione politica poco compatibile con una strategia di governo. Si potrebbero fare decine di esempi. Mi limito alla questione della Torino-Lione e a tutto ciò che ruota attorno a quel tema per arrivare alla conclusione che queste forze politiche privilegiano ormai le ragioni della loro rappresentanza rispetto a qualsiasi istanza di governo. È possibile, e la domanda non è affatto retorica, rendere compatibile l’appoggio a un’azione di governo come quello che sta facendo il Pd per Monti e poi ritornare a una stagione che vede nell’alleanza con i movimentisti, i giustizialisti e compagnia cantante il perno centrale della nuova stagione politica?
Ora, l’unica cosa certa è che non si può stare in mezzo al guado. O il Pd vuol riproporre, nell’attuale contesto politico, una sorta di Unione, seppur rinnovata e aggiornata, oppure punta a dispiegare una vera cultura di governo dove diventa centrale l’alleanza con l’area centrista e moderata del nostro Paese e altresì essenziale capitalizzare l’esperienza politica e di governo che sta esercitando con efficacia e coraggio l’esecutivo Monti. Si tratta, appunto, di una scelta difficile perché netta. Non si può più tergiversare. E sono proprio gli avvenimenti di queste settimane a imporlo. Non si tratta di minacciare scissioni a seconda della posizione che prevarrà democraticamente nel partito. È indubbio, comunque sia, che quando si diceva che il governo tecnico avrebbe modificato profondamente la geografia politica del Paese non si predicava nel deserto. Si toccava un punto nevralgico della recente storia politica italiana. E, seppur senza ipotecare futuri scenari, è abbastanza evidente cha la scelta politica per il Pd non è più rinviabile. E, probabilmente, anche le vicende di queste ultime settimane dalla prospettiva delle grandi infrastrutture all’ordine pubblico, dal rispetto dei processi democratici al ruolo delle forze dell’ordine non fanno che accelerare questa decisione politica.

Corriere della Sera 7.3.12
L’amaro 8 Marzo delle madri licenziate
di Gian Antonio Stella


«Iddio c'ispira rimettere il nostro atroce duolo nelle fibbra più intima del di Lei Buon Cuore, che far potesse muovere a pietà i Padroni che mandassero un po' di lavoro, ci accontentiamo almeno di quel poco che si aveva ultimamente, ma del tutto lasciarci prive... Con poco si può fare qualcosa, ma niente, proprio niente ci toglie la forza della vita, che non si farebbe caso se si fosse sole... Ma i figli, l'innocenti da sfamare... Questo è il guaio, questo è il tormento nostro!»
Sono passati 84 anni da quando quattromila «impiraresse» inoltrarono quella straziante supplica al podestà di Venezia. È cambiato tutto, da allora. E quel mestiere che per secoli aveva dato da vivere malamente (a fine Ottocento guadagnavano un quinto della paga di un operaio) a migliaia di nonne, di madri, di figlie che passavano le giornate a infilare perle di Murano nelle collanine vendute in giro per il pianeta non esiste più. La prima pagina de «La nuova Venezia» dell'altro giorno, però, sembrava uscita da quel mondo antico di violenza, arretratezza, sfruttamento. Denunciava infatti che nella sola provincia di Venezia e nel solo 2011, stando ai dati della Camera del Lavoro Metropolitano, sono stati registrati 469 licenziamenti o «autolicenziamenti» di donne incinte o diventate madri. Un dato in flessione rispetto al 2009 (quando furono 539) e al 2010 (488), secondo la segretaria della Camera, Teresa Dal Borgo, «non tanto perché ci siano meno casi, ma perché con la crisi che avanza, ci sono meno donne che lavorano».
Lisa, che lavorava in una vetreria muranese, ha raccontato: «Un mese dopo avere comunicato che aspettavo un bambino mi dissero che mi avrebbero licenziata subito ma che potevo continuare a lavorare in nero finché me la sentivo. E così ho fatto, perché avevo bisogno di soldi. Non dico quanto ho pianto e quanto ho sofferto per quelle parole». «Si discute di pari opportunità, ma la pari opportunità non esiste — si è sfogata sul quotidiano Francesca Zaccariotto, presidente della Provincia —. Ho in mente tante donne che mi dicono che cercano occupazione e gli viene detto che non possono essere assunte perché sono in età feconda». Oppure, più avanti, no «perché sono troppo vecchie».
Il tutto alla vigilia dell'8 Marzo, festa della donna. Suggello a una situazione incancrenita che vede l'Italia in coda a tutti i Paesi europei per tassi di occupazione rispetto alla popolazione di età compresa fra i 15 e i 64 anni. Per non dire del tasso di occupazione delle donne tra i 25 e i 54 anni che sono madri: siamo al 63,9%, davanti solo a Malta, e sotto di 12 punti rispetto alla media europea, di 15 alla Germania, di 18 alla Francia dove ad esempio, come i lettori del Corriere sanno, sono italiane, giovani e mamme alcune delle figure di spicco del Louvre, a partire da Claudia Ferrazzi, che fa l'administrateur général adjoint pur avendo due bambine, Diane di 3 anni e Daphné di uno. Davanti alle quali è spalancato un mondo ricco di speranze e, se vogliono, di soddisfazioni professionali altissime. Purché, si capisce, non vengano a cercar fortuna in questa nostra Italia rimasta ai tempi delle «impiraresse».

l’Unità 7.3.12
Un terzo viene dal profondo Nord. Adesso la parola al Parlamento
Due le proposte di legge di iniziativa popolare. Beni (Arci): «È già tardi»
Immigrati cittadini
Più di 100mila firme per cambiare l’Italia
Di firme a sostegno ne servivano 50mila. Il comitato promotore ne ha raccolte più del doppio. Graziano Delrio, presidente dei Comuni italiani: «Chi paga le tasse ha diritto al voto, è una battaglia di civiltà».
di Mariagrazia Gerina


«Forse c’è un’Italia che è più avanti di chi la rappresenta», suggeriscono, con un certo orgoglio, i promotori che quell’Italia se la sono andata a cercare firma per firma. Alla fine, ne contano più di centomila, raccolte coi banchetti, comune per comune. Tante, più di 35mila, vengono dal profondo Nord, dalla Lombardia, dal Veneto, dal Piemonte. Territorio di caccia per la Lega. Nomi e cognomi di chi, da italiano, vuole che le regole di accesso alla cittadinanza cambino. Perché non è possibile che chi nasce in Italia ma è figlio di immigrati debba sentirsi straniero. Si riparte da qui, hanno detto con la loro firma a sostegno delle due proposte di legge di iniziativa popolare, che il comitato L’Italia sono anch’io ha consegnato ieri a Montecitorio. La prima stabilisce che «chi nasce in Italia da almeno un genitore legalmente presente in Italia da un anno è italiano». Subito. Come pure i bambini che in Italia hanno frequentato le scuole. Senza aspettare i 18 anni anche solo er fare domanda. Mentre gli adulti possono diventarlo dopo 5 anni di soggiorno regolare. E sempre dopo cinque anni, secondo quanto recita la seconda proposta di legge, possono accedere al voto amministrativo. Votare ed essere votati.
Adesso tocca al Parlamento fare i conti con questa mobilitazione. Di firme a sostegno ne servivano 50mila. Il Comitato promotore Arci, Acli, Caritas, Centro Astalli, Cgil, Feltrinelli, Cnca, Chiese Evangelinche, Seconde generazioni, Libera, Tavola per la Pace, Cnca, il Comitato 1mo Marzo, Emmaus Italia, Fondazione Migrantes,Lunaria, Il Razzismo Brutta Storia, Terra del Fuoco ne ha raccolte il doppio: 109.268 per lo ius soli, 106.329 per il diritto al voto. «Siamo sicuri che chi siede in parlamento non vorrà deludere queste attese», fa pressione Graziano Derio, sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani: «Chi paga le tasse ha diritto al voto e, come fu per il voto alle donne, questa è una battaglia che riguarda tutti, non solo gli immigrati».
SUBITO LA DISCUSSIONE
«È già tardi, veniamo da trent’anni di politiche fallimentari, mosse da una malintesa ricerca del consenso», avverte il presidente dell’Arci, Paolo Beni, invocando, insieme a Filippo Miraglia, «uno sforzo collettivo per un nuovo patto di convivenza». Sulle politiche per l’immigrazione «occorre invertire la rotta», scandisce d’altra parte padre Giovanni Lamanna, direttore del Centro Astalli. «C’è tempo anche in questo scorcio di leglislatura», aggiunge Antonio Russo, delle Acli. «Non si tratta di gentili concessioni ma di far maturare la democrazia in questo paese», ricorda Massimo Aquilante, a nome delle Chiese Evangeliche.
«Abbiamo generato nel Paese una discussione molto ricca», rivendica Vera Lamonica a nome della Cgil. Mentre «tempi celeri per la discussione nelle aule parlamentari», invoca il Forum Immigrazione del Pd, che ha aderito fin dall’inizio alla campagna di raccolta firme. «Questa è una grande questione nazionale che deve essere affrontata a salvaguardia di milioni di donne e uomini che contribuiscono alla ricchezza economica e sociale del nostro Paese».

l’Unità 7.3.12
«Seconde generazioni. È la nostra battaglia»
Il portavoce della rete G2: «Vivo qui da 32 anni ma non sono cittadino. Serve coraggio politico»
di Ma.Ge.


Per noi seconde generazioni, figli di immigrati nati in Italia, provare a cambiare le leggi sulla cittadinanza è “la” battaglia ed è anche un modo di dare un contributo al Paese in cui siamo nati», spiega Mohamed Tailmon, 38 anni, mediatore culturale e portavoce della rete G2.
Tu dove sei nato?
«Sono nato a Tripoli e sono venuto in Italia con i miei genitori all’età di 5 anni, a Roma, dove sono cresciuto e andato a scuola, dove ho frequentato l’università... E dove nel 2005 insieme ad altri figli di immigrati abbiamo fondato la rete G2, delle seconde generazioni».
Com’è crescere in un Paese che non ti riconosce come suo cittadino?
«Io come tutti gli altri delle seconde generazioni abbiamo patito questa discriminazione burocratica di non essere anche formalmente cittadini italiani pur non essendolo formalmente».
E dopo 32 anni niente cittadinanza?
«No, non ancora. La documentazione che bisogna presentare per chi arriva da piccolo con i proprio genitori comprende una serie di documenti che bisogna procurarsi nel Paese d’origine. E in Libia, soprattutto negli ultimi anni, gli uffici difficilmente rilasciavano quei documenti». Fai ancora la fila per il permesso? «No, ma le ho fatte per tanti anni». Fino a che età?
«Venticinque anni. Poi ho ottenuto la carta di soggiorno a tempo indeterminato perché avevo un lavoro regolare, ero incensurato. Però questo non toglie che vivo ancora la condizione di cittadino con il permesso di soggiorno. Alcuni tipi di lavoro non li posso fare. Non posso votare, né essere votato. Non posso neppure girare liberamente per il mondo. Come molti miei coetanei sarei voluto andare a Londra a studiare l’inglese. Non l’ho potuto fare perché l’Inghilterra era uno di quei Paesi con cui la Libia non aveva rapporti diplomatici».
Le difficoltà incontrate sono diventate la ragione di un impegno politico... «Sì, siamo all’inizio di un lungo percorso per convincere il Parlamento a cambiare la legge sulla cittadinanza. C’è da fare parecchia strada...». Alla politica cosa chiedete?
«Di avere coraggio e di assumersi le proprie responsabilità. Finora, su questo tema, non lo ha fatto».

l’Unità 7.3.12
Testamento biologico
Per una nuova stagione dei diritti civili
di Carlo Troilo


Oggi viene presentato a Roma il mio libro «Liberi di Morire. Una fine dignitosa nel paese dei diritti negati». Un libro in cui, prendendo spunto dal suicidio di mio fratello Michele un malato terminale di leucemia che aveva chiesto invano di essere aiutato a morire con dignità affronto i temi delle scelte di fine vita ma anche dei molti altri diritti civili negati agli italiani. Un libro che ha suscitato, appena giunto nelle librerie, l’interesse di personalità politiche e della cultura di primo piano. Non solo a Roma (dove il panel dei presentatori è formato da Emma Bonino, Ignazio Marino, Bruno Manfellotto, Filomena Gallo e Daniele Garrone) ma a Milano (dove il 19 sarà presentato, tra gli altri, da Umberto Veronesi, Beppino Englaro, Mario Riccio e Marco Cappato) e in molte altre città che in questi giorni mi stanno invitando a parlare del mio lavoro. Colgo l’occasione per affidare a «l’Unità», che da tempo ospita miei articoli su questi temi, una riflessione politica.
Da anni tutte le indagini demoscopiche e i sondaggi ci dicono che c’è una maggioranza di italiani favorevole al testamento biologico ed alla eutansia: dell’80/90 per cento nel primo caso, del 60/70 per cento nel secondo. Ora, nessuno pretende che il governo tecnico si faccia carico di affrontare anche questi scottanti problemi di bioetica. Ma tra un anno, alla vigilia delle elezioni, tornerà il tempo della politica. Ed è necessario fin d’ora esercitare tutta la pressione di cui siamo capaci nei confronti dei partiti di centro sinistra (ma anche della componente finiana del Terzo Polo e dello stesso Pdl, dove mi sembra spiri una sana aria di «tutti liberi») perché si pronuncino con chiarezza su questi temi. Soprattutto, dobbiamo cercare di smuovere su questo il Pd, perché è il maggiore partito del centro sinistra ed è quello che designerà il candidato premier. C’è un fatto nuovo che mi sembra sia sfuggito ai più. Sappiano tutti che in tre delle dieci maggiori città italiane il Pd non è riuscito a far prevalere un proprio candidato. Ma è stato dato poco risalto al fatto che i due sindaci già eletti (Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli) hanno posto fra le loro priorità politiche ed hanno già preso misure concrete in merito i due registri comunali dei testamenti biologici e delle unioni di fatto. E lo stesso ha promesso di fare, se sarà eletto, il professor Doria, candidato sindaco di Genova, che su questi temi intende battersi anche al livello nazionale. Non pensano i dirigenti del Pd che stanno sottovalutando l’interesse degli elettori per questi temi? Per questo formulo una proposta: traduciamo in una giornata di riflessione e di confronto politico i temi trattati nel mio libro. Penso perfino a un titolo possibile: «Una agenda laica, per una nuova stagione dei diritti dei diritti civili».

il Fatto 7.3.12
“Quegli aerei costano il doppio”
I comitati “NO F-35” alla Camera
Qual è il prezzo dei velivoli? La Difesa fornisce dati diversi
di Daniele Martini


Ma quanto costano davvero gli F35, i super-tecnologici e supersofisticati cacciabombardieri Joint Strike Fighter che l’Italia sta per acquistare? Il ministro Giampaolo Di Paola e i rappresentanti del Segretariato generale della Difesa hanno fornito cifre relativamente basse ai parlamentari delle commissioni Difesa di Camera e Senato e poi nelle dichiarazioni e nelle interviste: 80 milioni di euro per i primi velivoli, che dovrebbero scendere addirittura a 55 milioni per effetto delle economie di scala quando tra qualche anno la produzione passerà a regime. Dati che forse nelle intenzioni di chi li ha forniti vorrebbero essere tranquillizzanti. Ma che risultano anche assai più bassi di quelli finora presi ufficialmente per buoni dallo stesso ministero della Difesa per calcolare gli stanziamenti delle note previsionali. Secondo questi dati, ogni F35 costerebbe non 55, ma circa 100 milioni di euro, quasi il doppio.
EVIDENTEMENTE c’è qualcosa che non torna e la faccenda dei costi del cacciabombardiere sta diventando davvero spinosa. Non solo perché si ha l’impressione che l’Italia stia per lanciarsi in un clima di confuso pressappochismo in un’avventura finanziaria sproporzionata per le sue possibilità, almeno 10 miliardi di euro di spesa (quasi quanto due ponti sullo Stretto di Messina), nel caso venga mantenuta l’intenzione di comprare 90 jet al posto dei 131 previsti all’inizio. E non solo perché inoltre tutto ciò avviene in un momento di tagli al welfare e alle pensioni e mentre vengono richiesti sacrifici dolorosi.
LA STORIA dei costi sta diventando scabrosa anche per altre ragioni: le cifre ballerine e rassicuranti fornite dalle fonti ufficiali sembrano strumentali all’idea che l’Italia debba partecipare ad ogni costo al progetto. Secondo Francesco Vignarca e Giulio Marcon, sentiti ieri dai parlamentari della commissione Difesa della Camera in qualità di rappresentanti delle numerose organizzazioni riunite nella campagna “Taglia le ali alle armi”, la vicenda delle cifre sta diventando addirittura sospetta. Tutti i dati ufficiali forniti finora sembrano elaborati a spanne, ma con un sistema di calcolo legato con un filo rosso: la volontà di sottostimare il peso finanziario dell’operazione.
Quella dei comitati no F35 è un’accusa grave, lanciata non a cuor leggero, basata sull’analisi di dati non forniti a fantasia dagli stessi organizzatori della campagna, ma su cifre ufficiali. Cifre di provenienza non italiana, elaborate dagli altri paesi che partecipano al consorzio dell’F35, a cominciare dagli Stati Uniti che sono la culla del progetto essendo il luogo dove ha sede l’azienda produttrice dell’aereo, la potente e influente Lockheed Martin. Ma che sono anche la nazione dove stanno crescendo dubbi sul rapporto tra costi e benefici, non solo tra i democratici del presidente Barack Obama, ma anche tra re-pubblicani influenti come l’ex candidato presidente John McCain, ex pilota di caccia in Vietnam.
Sulla base dei dati di provenienza internazionale i comitati no F35 hanno calcolato un costo vivo e medio per velivolo di 115 milioni di euro, senza contare le spese di manutenzione e la spesa per ogni ora di volo, aumentata del 250 per cento in un decennio. Calcolando anche queste voci il Parliamentary Budget Officer del Canada ha stimato che ogni F35 possa costare in media circa 350 milioni di euro dal momento dell’acquisto fino alla rottamazione.
La cifra di 115 milioni probabilmente dovrà essere rivista al rialzo considerando l’ammontare degli stanziamenti inseriti nel budget 2013 del Dipartimento Usa della Difesa per l’acquisto concreto, non per la previsione di acquisto, dei primi F35. Questi dati sono stati studiati da Gianni Alioti, dell’ufficio internazionale Fim-Cisl che ha calcolato per la versione F35 A (destinata all’Air Force) un costo di 134 milioni di euro, che diventano addirittura 200 milioni per le versioni B e C (velivoli con il gancio per l’atterraggio sulle portaerei e jet a decollo verticale), le versioni preferite dal nostro ministero della Difesa.
FACENDO leva su questi dati clamorosi, i comitati anti F35 formulano due richieste, sulla base non di convincimenti ideali o pacifisti (ai quali pure non rinunciano), ma sulla scorta di un’analisi economica applicata alle faccende militari. Chiedono una commissione parlamentare sulle spese per gli F35 e, dal momento che siamo ancora in tempo per scongiurare quello che rischia di diventare un gigantesco spreco, e poi chiedono che l’Italia rinunci totalmente all’acquisto dei caccia. Finora abbiamo speso circa 2,7 miliardi di euro solo per poter partecipare all’avvio dell’operazione, ma i contratti definitivi non sono stati firmati. Se l’Italia dovesse andare avanti, alla fine dovremmo spendere almeno quattro volte tanto.

La Stampa 7.3.12
Intervista
“La corruzione? È la colla che tiene insieme la Russia”
Il sociologo Kordonski: è una società basata sulla tangente
di Domenico Quirico


Mosca. La corruzione in Russia... non è corruzione, è la colla che tiene insieme la società, che collega i gruppi sociali. Bisogna essere cauti nel tentare di sradicarla, si rischia di disarticolare la società». Simon Kordonski è uno dei più celebri sociologi russi, insegna alla Scuola superiore di economia a Mosca ed è stato uno dei consulenti di Putin. Ecco come racconta il sistema dell’«otkat», la tangente, una nuova forma di economia politica: «La dinamica economica in questo Paese non è regolata dal tasso di sconto, ma dalla percentuale della tangente, ovvero dalla distribuzione delle risorse secondo la gerarchia. È la ”otkat”, la tangente, la parte che resta a chi ha il potere di distribuire. Il nostro tasso di sconto. Può arrivare anche al 70%. Ecco il sistema che si chiama “raspil”, il taglio, la ripartizione del budget statale, della torta alimentata dal petrolio e dalle materie prime. Il mercato in Russia non ha mai funzionato, salvo che in brevi periodi, e Putin ha risistemato il “raspil” rinazionalizzando tutto: così la ridistribuzione autoritaria ha ripreso a funzionare».
Ma la società come risponde ?
«Da noi non ci sono le classi, quelle le crea naturalmente il mercato che non c’è. Da noi ci sono i ceti, creati artificialmente dallo Stato, e la cui gerarchia dipende dalla parte di “otkat” cui hanno diritto. Non c’è la legge, c’è la regola distributiva in cui il ruolo chiave è del Distributore supremo, lo zar, il presidente. A lui si rivolgono i ceti sempre con la stessa lagnanza: danno molto e ricevono poco. Da lui si aspettano più giustizia, che tradotto vuol dire un taglio maggiore».
Per questo la Russia appare spesso indecifrabile...
«Questo sistema non è in fondo né politico, né economico. Valgono altre norme di organizzazione sociale. Quando i miei libri devono essere tradotti è un dramma, i termini, ad esempio ceto, hanno un significato diverso. Discutere del budget russo in termini occidentali fa ridere».
Dunque la corruzione… «Ad esempio, che qui in Russia gli automobilisti paghino la tangente ai vigili è una procedura automatica, ti fermano, è irrilevante se hai commesso infrazioni o no, tiri fuori il denaro. Ogni tanto il meccanismo si inceppa: ci sono associazioni che protestano contro le bustarelle o per le auto blu che passano senza regole. È la rivolta di un ceto. Presa singolarmente non disturba il Potere, diventa pericolosa quando si moltiplica e comprende molti settori della società».
Sembra molto pessimista.
«Poiché non ci sono classi, la borghesia ad esempio non esiste, ci possono essere rivolte di ceti, non una rivoluzione. Putin ha nazionalizzato tutto: l’informazione, il petrolio, la finanza. Se il prezzo del petrolio resta alto, il sistema della torta può funzionare».
Ma i giovani in rivolta?
«Si sentono giustamente offesi perché pensavano di avere una risorsa elettorale e gli hanno fatto capire, bruscamente, che non è così. Si ribellano all’arbitrio, all’ingiustizia. Ma non sono contro il sistema, non sono un fattore di cambiamento. Il 40% che ha votato contro Putin non è contro il sistema della distribuzione per ceti».
Una Russia quindi eterna, irriformabile nel mutare dei regimi?
«Il problema è che la Russia è immensa, si potrebbe dire troppo grande e il sistema regge solo con il meccanismo di nazionalizzazione e redistribuzione. Appena lo Stato si indebolisce in questa funzione, entra in crisi. È una logica che ha 300 anni: cambia solo la materia prima, il grano negli Anni 30, ora il petrolio, in futuro qualcos’altro. In ogni caso alla fine ci sono gli uomini da spremere. Manca il tempo storico, il sistema è oggettivamente immobile, le modernizzazioni sono fatte solo spremendo nuove risorse».
Eppure i russi ora viaggiano.
«Solo il 15% ha il passaporto, il 70% non è mai uscito dalla sua regione. C’è questa antica abitudine di copiare, come ai tempi di Pietro il Grande. Vanno in Germania, vedono ad esempio il sistema municipale, che bello! anche noi! fanno le leggi e... non funzionano. Abbiamo questa idea fissa: da noi tutto va male ma cosa vada male nessuno è in grado di dirlo».

l’Unità 7.3.12
Il Gramsci casalese di Saviano
di Bruno Gravagnuolo


Che figura che ha fatto Repubblica sul Gramsci «ravveduto»! Ci voleva tanto a interpellare qualche studioso serio, e a corredare lo «scoop» di Biocca di avvertenze critiche? Questione di serietà. Oltre che di fiuto professionale. Ma come! Si prende a scatola chiusa un articolo da una rivista senza verifiche? Ma in ballo c’era una «verità» dirompente: il pentimento di Gramsci! Che secondo Dario Biocca noto per aver giurato sul Silone spia dal 1919 in poi è comprovato dall’avere egli chiesto la libertà condizionale nel 1934, sulla base dell’art. 176 di un Codice che prevedeva «comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento».
Idolo in frantumi! Piegato. Ostile a un Pc. d’I che lo aveva fatto marcire in carcere. Ma era solo una bufala. Infatti, come per primi abbiamo scritto, il ravvedimento non era (ancora) contemplato come possibilità soggettiva a favore del reo nel codice Rocco. Anzi, il 176, nel 1934 e fino al 1962, come precisato su l’Unità da Nerio Naldi, studioso di Sraffa, non includeva «ravvedimento». Solo «prove costanti di buona condotta», per la libertà condizionale. Altrimenti Gramsci, attentissimo, non avrebbe inoltrato l’istanza. Fine dello scoop. Goffamente Repubblica pubblica poi di spalla un articolo di Jospeh Buttgieg, presidente dell’International Gramsci Society, che riassume il caso e ci mette la pietra tombale. Altro «infortunio»: l’articolo di Roberto Saviano su Gramsci, trattato come uno del clan dei casalesi: violento e manesco (!) a fronte di un Turati evangelico. Roba da sprovveduti. Ci fu un Gramsci giovane rivoluzionario impetuoso e un Gramsci dialogico dei Quaderni. Mentre Turati nel 1921 diceva: «il socialismo è il comunismo!». Poi c’erano i Croce e gli Einaudi che plaudivano alle squadracce. Perché Saviano non studia un po’ certe cose?

Repubblica 7.3.12
L’Unione e la questione tedesca
di Massimo L. Salvatori


La questione tedesca balza oggi al centro della storia europea. Vi hanno fatto riferimento recentemente su questo giornale tra gli altri Scalfari e Krugman. È la terza volta che questa questione torna dominante: dopo la prima a cavallo tra fine Ottocento e il 1918, la seconda tra il crollo della Repubblica di Weimar e il 1945. Si tratta di cicli che, pur in circostanze mutate, sono andati puntualmente ripresentandosi, e parlano un linguaggio inequivocabile. Questo dice che la Germania è un Paese dotato di tanto vigore e che occupa un ruolo tanto cruciale nel vecchio continente per cui dalla qualità dei suoi rapporti con gli altri Paesi dipende lo stato malato o sano dell´Europa; che dai tentativi novecenteschi della Germania di far prevalere in maniera solitaria la propria forza e da quelli dei suoi nemici di comprimerla o addirittura di soffocarla sono derivati gli inauditi sconvolgimenti che hanno prostrato l´intera Europa. La lezione venuta dai due conflitti mondiali suona che non si danno ordine e sviluppo senza che da un lato venga dato alla Germania il posto che le spetta, dall´altro essa rinunci a voler tenere nelle sue mani il bastone del padrone. Si poteva sperare che l´Unione costituisse lo strumento per offrire una definitiva soluzione, spianando i vecchi scogli, ma l´ottimismo è risultato eccessivo.
La Germania di Guglielmo II, dotata di un´impareggiabile macchina militare e di un´industria che non aveva confronti per organizzazione e capacità produttiva, si lanciò all´"assalto al potere mondiale" che avrebbe con ogni probabilità portato alla sua vittoria se non fossero intervenuti gli Stati Uniti. Sconfitta che fu, inglesi e francesi, che pure avevano asserito di combattere in nome della democrazia, si proposero non già di favorire lo sviluppo democratico della giovane repubblica tedesca, ma di schiacciarla e umiliarla con quella cieca "pace cartaginese" contro cui Keynes indirizzò parole di fuoco, prevedendo che avrebbe causato nuovi conflitti e seminato i denti e le unghie di drago con cui Hitler avrebbe poi dilaniato il continente. Il paese finì per risollevarsi affidandosi alla banda criminale nazista che perseguì la vendetta. Fu di nuovo battuta, cadde nel nulla e venne divisa in due Stati. Infine, dopo che la Germania occidentale era risalita al rango di potenza economica e crollata l´Unione Sovietica, i tedeschi si riunificarono, risanarono la disastrata Germania orientale e assunsero un posto di sempre maggior peso nell´Unione Europea. E siamo al presente e ai suoi problemi. Non si può non ricordare che la Gran Bretagna e la Francia (e con esse l´Italia di Andreotti) masticarono amaro di fronte alla riunificazione tedesca per il mai sopito timore del riemergere economico e politico della Germania: per il timore del suo primato.
In effetti il problema esiste. Ha colpito vedere la cancelliera Merkel marchiata da greci esasperati con la svastica al braccio. E colpisce che il governo tedesco, nel grave contesto della crisi economica europea, si comporti come il vaso di ferro affiancato da vasi più fragili o di coccio. Insomma: la questione tedesca riappare come quella da cui dipende un certo o un altro tipo di presente e di futuro dell´Europa e della sua precaria Unione; le cui sorti appaiono chiaramente legate a due diverse soluzioni. L´una è che in particolare la Gran Bretagna e la Francia non riescano a superare il timore del primato tedesco; in tal caso l´Unione non diventerà mai propriamente tale approdando al governo federale che ne è la mancata autentica sostanza. L´altra è che si superino le paure e con esse i freni che fanno dell´Unione una creatura incompiuta e perciò troppo debole: in realtà una confederazione con l´ambizione vanamente vagheggiata di diventare una federazione. Ma perché ciò avvenga è necessario che la Germania faccia la parte che sembra non essere intenzionata a fare, vale a dire immettere la sua forza economica, nel momento di una crisi profonda, in un circolo virtuoso di comune solidarietà europea, così disinnescando nei suoi partner, a partire dai maggiori (ma anche a questi, e in primo luogo alla Gran Bretagna, spetta di fare la loro parte), l´ansia di un´inaccettabile subordinazione. Se prevalesse la convinzione che la Germania intenda farla da maestra e padrona, le probabilità che l´Unione si avviti in una crisi anche istituzionale aumenterebbero pericolosamente. In un certo senso, la Germania si trova nei confronti di molti paesi dell´Unione in condizioni analoghe a quelle in cui versava la sua componente occidentale verso l´orientale dopo la riunificazione nazionale. Allora prevalse nella società tedesca la solidarietà nazionale e i ricchi si fecero carico dei poveri. Oggi al suo interno non sembra prevalere la solidarietà europea, con la conseguenza che, ancora una volta in poco più di un secolo, l´Europa è chiamata a dover fare i conti, anche se certo in un quadro non drammatico come nel passato, con la questione tedesca. Se europei e tedeschi mostreranno di non capire che soltanto un governo federale avrebbe l´energia e l´autorità per sciogliere la questione insieme riconoscendo alla Germania il giusto peso e impedendo ad esso strabordare, allora l´Unione si voterà ad essere un´unione che non è un´unione, in preda a ricorrenti contrasti che non si sa dove possano portare.

Repubblica 7.3.12
Saggi, studi e articoli analizzano come cambia la mente dei teenager
Nella nuova testa degli adolescenti
La pubertà arriva prima mentre la maturazione ritarda. Questo dipende da due sistemi neurali diversi: uno che riguarda le emozioni e l´altro il controllo
di Massimo Ammaniti


È comparso su YouTube un filmato che mostra l´esasperazione dei genitori di oggi rispetto ai figli adolescenti: un padre americano, seduto su una poltrona legge con aria risentita quello che ha scritto su Facebook sua figlia: «I miei mi obbligano a pulire casa, a fare il bucato, a cucinare, mi hanno preso per una schiava, ma io non gli pulirò mai il culo quando saranno vecchi». Il padre offeso prima ci tiene a smentire quelle parole, poi prende la colt, si avvicina al computer della figlia e lo riempie di proiettili, l´ultimo, dice, anche da parte della madre. Sicuramente questo padre cowboy non è il miglior esempio educativo ma è emblematico della confusione e della rabbia di molti genitori e dei loro figli. Sensazioni diffuse, infatti questo filmato ha avuto più di 20 milioni di contatti.
Il comportamento provocatorio degli adolescenti, soprattutto delle ragazze, fra i 13 e i 16 anni, è diventato un fenomeno sociale rilevante, come testimonia il recente articolo What´s wrong with the teenage mind? ("Che c´è di sbagliato nella mente degli adolescenti?") comparso sul Wall Street Journal. L´articolo, riprendendo ricerche recenti, mette in luce che la pubertà viene raggiunta prima, forse perché i bambini oggi mangiano di più e si muovono di meno, mentre l´ingresso nell´età adulta avviene, invece, più tardi creando una situazione insostenibile. L´idea nuova è che ci sono due diversi sistemi neurali e psicologici che interagiscono per trasformare i bambini in adulti, solo che i loro tempi di sviluppo sono cambiati. C´è un sistema che è legato agli ormoni sessuali della pubertà che mettono in moto il sistema limbico, la regione cerebrale deputata alla regolazione delle emozioni (come viene spiegato nel libro della neuropsicologa Eveline Crone, Nella testa degli adolescenti). Questo spiegherebbe perché i ragazzi vivono ogni momento con emozioni forti, passando dall´entusiasmo alla disperazione, si espongono a rischi, vanno alla ricerca di sensazioni e di novità: il sistema di "ricompensa" sociale che crea uno stato di benessere deve essere alimentato. Allo stesso tempo, governata dal secondo sistema, la maturazione cerebrale procede lentamente, soprattutto nelle zone che riguardano la pianificazione del comportamento, la previsione delle conseguenze delle proprie azioni e il loro controllo. Solo intorno ai 19-20 anni si raggiunge questa maturazione: dunque c´è una sfasatura fra cervello emotivo e razionale. Jay Giedd un neurobiologo americano che studia il cervello degli adolescenti li paragona ad una persona che possiede una macchina con un motore potente ma non è in grado di guidarla, perché non ha neppure la patente.
Si potrà obiettare che l´adolescenza è sempre esistita, ma oggi si giunge all´adolescenza con maggiori possibilità ed informazioni, si comunica e si chatta su Facebook, ci si veste come gli adulti ma si dipende ancora dai genitori, che sono sempre più incapaci di mettere dei confini, di mantenere delle regole, di proporsi come figure in grado di guidare ma anche di imporsi. E questo alimenta i conflitti in famiglia: i figli adolescenti pretendono di fare quello che vogliono, non accettano restrizioni, si espongono a rischi enormi. E i genitori oscillano fra un´eccessiva protezione dei figli e violente esplosioni di rabbia, come dimostra il video su YouTube, quando la situazione familiare diventa ingestibile.
Ma forse come scrive Alison Gopnik, professore di Psicologia all´Università di Berkeley ed autrice dell´articolo sul Wall Street Journal, i bambini e gli adolescenti vivono in un mondo troppo protetto ed ovattato. Perché la maturazione del cervello avviene in base all´esperienza e agli stimoli che si ricevono e se gli adolescenti fossero più responsabilizzati «anche i loro sistemi di controllo maturerebbero prima e potrebbero canalizzare le proprie spinte emozionali». Per questo fa delle proposte su cui riflettere: ad esempio quella di organizzare nelle scuole, oltre alle attività didattiche, servizi civili come ridipingere annualmente la scuola oppure svolgere un lavoro di tutoraggio per i compagni dei primi anni. In questo modo i ragazzi si sentirebbero più responsabili e percepirebbero la scuola più vicina a loro, un posto dove non solo si studia ma si impara a vivere.

Repubblica 7.3.12
La femminista e la violenza
Muraro: "quando possiamo dire sì all´uso della forza"
La provocazione della filosofa su "Via Dogana" rivista storica delle donne A cui replicano in tante, criticando una tesi mai condivisa: "Non esiste un modo di scontrarsi intelligente"
di Simonetta Fiori


"Violenza giusta": ma non è dissennato riproporla oggi? Nella redazione di Via Dogana devono averci pensato un po´ prima di dare alle stampe il centesimo numero, che non passerà inosservato. La storica rivista della Libreria delle donne di Milano s´apre infatti con una sorprendente riflessione di Luisa Muraro Al limite, la violenza, che non è certo un inno alla violenza ma non la «esclude a priori». Un´apertura a «un uso della forza» adeguato alla violenza che è nelle cose e nei rapporti tra le persone. Esisterebbe in sostanza una «violenza giusta», distinta da quella «stupida» e «controproducente». E sarebbe sbagliato «separare la violenza dalla forza» perché «lo sconfinamento tra una e l´altra è inevitabile». Accanto alla citazione de L´Iliade poema della forza di Simone Weil, ecco l´improvvido elogio della sassaiola contro i cattivi politici. Bisognava «mandarlo indietro a fischi e sassate, come si meritava, come si usava una volta, come chiedevano i loro morti, quelli uccisi dal crollo di edifici pubblici taroccati», scrive Muraro rievocando la passerella di Berlusconi all´Aquila dopo il terremoto. "A fischi e sassate", proprio così dice l´autrice.
Ma che succede nello storico laboratorio del pensiero della differenza, di cui Muraro è indiscussa e mite sacerdotessa? Non erano state proprio loro, le femministe della Libreria delle donne, a liquidare negli anni Settanta la violenza come rispecchiamento di bellicose logiche maschili? E dopo gli esiti luttuosi di quella stagione, non è sbagliato e pericoloso rilanciare ora una riflessione sulla «violenza giusta»? Al momento Muraro non parla. Il suo articolo di Via Dogana è l´anticipazione di un saggio che sarà pubblicato a giugno da nottetempo - Dio è violent... - e l´autrice preferisce aspettare l´uscita del libro. Per capirne di più, bisogna risalire all´estate scorsa, all´epoca dei disordini nella Val Susa, quando sul sito della Libreria compare una voce femminile che invita "a rompere un tabù", il silenzio sulla «violenza nella realtà e nel discorso della politica». Muraro condivide: «È un tema urgente, bisognoso di una nuova e spregiudicata riflessione», dove spregiudicata significa «pensarci senza dire automaticamente no alla violenza». E ancora: «Bisogna cominciare a fare la differenza tra la violenza stupida e quella che tale non è, di cui abbiamo smesso di pensare e di parlare, dimenticando che l´agire umano non si dà senza questa componente». Violenza stupida? Violenza intelligente?
A sette mesi da quella riflessione, ecco il nuovo articolo su Via Dogana, in un numero dedicato alla "forza necessaria". «C´è una violenza nelle cose e tra i viventi che prelude a un ritorno alla legge del più forte: dobbiamo pensarci», invoca Muraro. Alla propria forza non si deve rinunciare, «si tratterà dunque di dosarla senza perderla». Ma come? La studiosa rifiuta il confine indicato dalla «predicazione antiviolenza», ossia quello che distingue forza e violenza. «No, lo sconfinamento è inevitabile». E allora? E allora «la misura da cercare» è in «una violenza giusta» misurata non sul diritto ma sulle circostanze storiche. Due gli esempi indicati nel breve scritto. Il primo risale agli eccidi di Srebrenica, che potevano essere evitati dai militari dell´Onu, «incapaci di percepire il mostro dell´odio davanti ai loro occhi». Il secondo è invece preso dalle storie di casa nostra, quando «era nelle possibilità degli abitanti dell´Aquila impedire al capo del governo di fare della loro sventurata città la cornice massmediatica per la sua autopromozione». Della contundente soluzione suggerita da Muraro abbiamo già detto: sarebbe questa la violenza "intelligente"?
«Muraro ha ragione, c´è una violenza stupida. Quello che però non riesco a concepire è la sassata intelligente, o la carica di polizia intelligente». Anna Bravo, storica dell´età contemporanea sensibile ai temi delle donne e della nonviolenza, appare piuttosto sorpresa. «Se Zizek sostiene che il pacifismo è facilmente assimilabile non mi turba molto. Muraro invece mi inquieta, perché è lei, e perché donna. Per noi donne, che abbiamo alle spalle una storia millenaria di disobbedienza e di manipolazione delle norme, è più semplice capire non solo che legge e giustizia sono due cose diverse, ma che si può agire di conseguenza senza inabissarsi nella distruttività. Per di più, il crescere della violenza e la militarizzazione dei movimenti - sia nella Resistenza che negli anni Settanta - ha sempre tolto respiro alle iniziative delle donne».
Nel suo bel saggio sul Sessantotto A colpi di cuore - titolo di per sé espressivo - Bravo rievoca il disagio delle donne di Lotta Continua quando portavano le molotov nel tascapane. La legittimità della violenza, annota la studiosa, è un tema estraneo alla tradizione femminista. E neppure nella letteratura di guerra e della resistenza l´argomento è centrale. «L´Italia è stata definita la patria del femminismo più forte e violento ma non è vero», dice ora Bravo. «Certo, i gruppi potevano risentire del clima di allora. C´era una pressione politica molto forte ed era acquisito il principio che si potessero fare cose illegali. Ma molte ragazze di Lotta Continua contestavano il servizio d´ordine e avevano paura di trovarsi in mezzo ai cortei più caldi. E quando Lc si sciolse, soprattutto per opera delle femministe, fu anche per una diversità di vedute sulla violenza».
Violenza legittima, uso della forza. Il pensiero corre a Carla Lonzi, la femminista che tra le prime liquidò la violenza dell´inconscio maschile, «ricettacolo di sangue e paura». La discussione sembra ora aperta all´interno della stessa Via Dogana, che ospita voci contrastanti. «Alla sollecitazione della Muraro», scrive Annarosa Buttarelli, «fa obiezione la scelta storica di gran parte delle donne di lottare in modo non violento. La scelta di segno femminile è di custodire l´integrità dei corpi e dei luoghi». E Lia Cigarini chiude: «Schivare lo scontro guerresco è segno di forza, non di debolezza». Al gioco del più forte, insiste ora Bravo, noi perdiamo sempre. «L´invito di Muraro a ripensare il nostro rapporto con la violenza si lega al giudizio sul presente, che prefigurerebbe un ritorno alla legge del più forte. Ammettiamo che sia così: ma spostarsi su questo livello di scontro, questo sì mi sembra un passo in sintonia con uno spirito militare. Voi usate la vostra forza? Noi siamo in grado di tenervi testa con la nostra. Mentre la potenza dell´oppositore nonviolento sta proprio nel sottrarsi a questo meccanismo». Un meccanismo, conclude la studiosa, che ha portato tanti movimenti alla sconfitta. Sconcertante, davvero, riconsiderarlo oggi.

l’Unità 7.3.12
«Io, regista curda, in cella per un documentario»
Il giro di vite in Turchia
Sono 105 i giornalisti in carcere, spesso accusati di terrorismo senza prove Il governo di Ankara perde terreno nel percorso d’ingresso in Europa
Le denunce da parte di Human Right Watch e Reporter senza Frontiere
di Alberto Tetta


ISTANBUL. Alle cinque del mattino la polizia ha bussato alla porta di casa mia, sei accusata di essere la responsabile culturale del Partito dei lavoratori del Kurdistan mi hanno detto, poi mi hanno portata via» Müjde Arslan, giovane regista curda, dopo giorni di interrogatori sul suo ultimo documentario, il 16 gennaio è stata rilasciata, ma ora ha paura. «Dopo le indagini non è stato aperto nessun procedimento penale nei miei confronti, però non riesco più a dormire, appena sento un rumore penso che sia la polizia che torna a prendermi. Sapevo che il documentario che ho appena terminato, “Io sono volato via, tu sei rimasto qui”, sarebbe stato oggetto di critiche perché parla di un tema caldo come il conflitto turco-curdo, ma non mi sarei mai aspettata l’arresto». Quello di Arslan non è un caso isolato. Sono 105 i giornalisti in carcere secondo gli ultimi dati pubblicati dal TgS, il sindacato dei giornalisti turchi, una cifra tre volte superiore rispetto al 2010.
Il numero crescente di operatori dell’informazione in carcere sta mettendo a rischio il già accidentato percorso di adesione di Ankara all’Ue. La Turchia deve affrontare «urgentemente» il problema dei giornalisti in carcere modificando «un codice penale e una legislazione anti-terrorismo che non garantiscono adeguatamente la libertà d’espressione dando spazio ad abusi» ha dichiarato il Commissario per l’allargamento Stefan Füle.
Secondo Human Rights Watch: «In Turchia i giudici iniziano processi contro individui solo per articoli o discorsi non-violenti e gli arresti avvengono senza tenere nella giusta considerazione l’obbligo di garantire la libertà d’espressione» scrive l’organizzazione internazionale nel suo ultimo rapporto pubblicato il 22 gennaio. Severa anche Reporter senza frontiere che ha declassato la Turchia dal 138 ̊ al 148 ̊ posto della sua classifica mondiale sulla libertà di stampa.
Dal canto suo il primo ministro turco Erdogan ha rispedito al mittente le critiche, sarebbero molto pochi, infatti, secondo il premier, gli operatori della comunicazione sotto processo per reati d’opinione e la maggior parte dei giornalisti avrebbe commesso reati comuni o legati al terrorismo. «È in corso una campagna denigratoria contro la Turchia alimentata dall’opposizione, i paesi occidentali non ci capiscono perché lì i giornalisti non partecipano a piani golpisti» ha dichiarato Erdogan.
Nel frattempo il ministro della Giustizia turco Sadullah Ergin, dopo le critiche arrivate dell’Europa, è corso ai ripari preparando una proposta di legge che il Parlamento discuterà entro marzo. La nuova normativa prevede pene ridotte per i reati commessi a mezzo stampa e la sospensione automatica della condanna se l’imputato non reitera il reato. È un timido passo avanti, che non rimuove però l’ostacolo principale all’esercizio della libertà di stampa, la legislazione anti-terrorismo. «Secondo i principi contenuti nella Legge anti-terrorismo, approvata nel 1991, i giornalisti possono essere facilmente arrestati e processati con l’accusa di fare propaganda o sostenere un’organizzazione illegale – spiega Emel Gülcan, giornalista e autrice dei rapporti sulla libertà di stampa dell’associazione turca Bianet – il problema principale è che nella legge non vengono tracciati in modo chiaro i limiti entro i quali il lavoro dei giornalisti deve rimanere per non essere considerato “propaganda terrorista” e questo rende chi scrive di temi scomodi come la questione curda o critica il governo un facile bersaglio».
Il 3 marzo il Sindacato dei giornalisti ha indetto una manifestazione a Taksim per chiedere l’abrogazione delle leggi anti-terrorismo e la liberazione di Nedim Sener e Ahmet Sik nel primo anniversario del loro arresto. I due giornalisti, che sono diventati, in questi mesi, il simbolo della lotta per la libertà d’espressione in Turchia, prima di essere fermati, stavano indagando sulla crescente influenza delle organizzazioni islamiste nella polizia. «Sener e Sik sono accusati di aver “generato supporto morale” verso Ergenekon, una rete segreta ultranazionalista che voleva rovesciare, con la violenza, il governo islamista moderato di Recep Tayyip Erdogan, simile alla vostra Gladio» spiega a l’Unità Can Atalay avvocato di Ahmet Sik – «tuttavia le uniche prove che confermerebbero, secondo i Pm, che Sener e Sik sono membri di Ergenekon sono gli articoli che hanno scritto e la bozza di un libro che non è mai stato pubblicato».

l’Unità 7.3.12
Zuccotti Park, il giardino della rivolta
La vera storia di «Occupy Wall Street». I personaggi e le testimonianze dei protagonisti di una protesta pacifica che da New York ha contagiato il mondo. Anticipiamo un brano del volume che esce oggi in libreria
di “Scrittori per il 99%”


Matt Presto, insegnante e dottorando che aveva partecipato a molti degli incontri di preparazione dell’assemblea generale di New York a Tompkins Square Park, è tornato al suo appartamento il venerdì sera dopo un incontro in cui un piccolo gruppo di persone, in prevalenza giovani e bianche, aveva preparato dei piani dell’ultimo minuto per il sabato 17 settembre. Prevedendo la possibilità di un arresto, aveva mandato un messaggio di posta elettronica a un collega di lavoro: “Tanto perché tu lo sappia, potrei non venire al lavoro lunedì”. È rimasto alzato fino a tardi, chiacchierando con sei amici arrivati a New York dall’Ohio per l’evento Ows. Hanno discusso il probabile comportamento della polizia di New York (Nypd): spray al peperoncino, tecniche di contenimento, uso degli sfollagente, persone buttate a terra. Hanno improvvisato dei kit di pronto soccorso con bende, garze e una soluzione di acqua e antiacido per pulire gli occhi.
Anche la polizia si stava preparando. Il portavoce del dipartimento di polizia Paul J. Browne ha detto al “New York Times”: “Non sono stati richiesti permessi per la manifestazione ma i programmi erano ben noti pubblicamente”. (Gli organizzatori sospettavano che i loro incontri di preparazione fossero stati infiltrati da informatori della polizia.) Il sabato mattina il municipio ha fatto chiudere parti di Wall Street vicino al palazzo della Borsa e a Federal Hall.
Alle 10.00, transenne metalliche presidiate dalla polizia chiudevano gli isolati di Wall Street fra Broadway e Williams Street.
Intorno a mezzogiorno Matt Presto è arrivato a Bowling Green Park, accanto al famoso Toro e vi ha trovato circa quattrocento persone “che circondavano la statua e cantavano, con cartelli e tutto”. A mezzogiorno, un gruppo di manifestanti si è seduto, appoggiandosi alla transenna metallica che bloccava l’accesso a Wall Street, formando quello che il “primo comunicato” di Ows ha definito un “blocco spontaneo”. La polizia ha minacciato di arrestare i dimostranti che si erano seduti, perciò questi si sono alzati e si sono allontanati. Alle 14.00, circa una ventina di poliziotti in uniforme ha circondato il Toro mentre, come ha scritto eufemisticamente il “New York Times”, “altri intervenivano per disperdere l’assembramento”. Nel frattempo, vari partecipanti hanno organizzato lezioni improvvisate di yoga e di tai chi a Bowling Green Park.
Alle 15 una folla di circa mille persone ha cominciato a confluire, secondo i piani, verso Chase Plaza. Il reverendo Billy Talen della chiesa di Stop Shopping e Rosanne Barr hanno parlato attraverso un megafono. Sono stati distribuiti vassoi di pane a fette e vasetti di burro di arachidi Skippy; alcune bancarelle fornivano frutta.
La commissione strategia aveva preparato una mappa su cui erano indicati sette luoghi possibili per un’assemblea generale. Alle 14.30 erano state distribuite parecchie centinaia di fotocopie della mappa a Chase Plaza, con l’istruzione di recarsi alla “Location due”, Zuccotti Park, “nel giro di trenta minuti”.
Zuccotti Park confina a ovest con Trinity Place, a est con la Broadway e a nord e sud, rispettivamente, con Liberty e Cedar Street; noto nel movimento con il nome originale di Liberty Square o Liberty Plaza (il cambiamento di denominazione è avvenuto nel 2006), si trova proprio nel centro di Lower Manhattan, fra Wall Street e il sito di quello che era il World Trade Center. Il quartiere è pieno di turisti, ma anche di impiegati nel settore della finanza, di addetti dei servizi e di lavoratori edili del vicino cantiere della Freedom Tower. Anche se il parco è di proprietà privata, l’azienda che ne è proprietaria lo ha reso pubblico e il luogo non è nuovo a proteste politiche non autorizzate. (Agli inizi dell’estate del 2010 vi si è tenuta una manifestazione antimoschea, in cui circa trecento dimostranti di destra, aggirando una richiesta di autorizzazione negata, per buona parte di un pomeriggio hanno riempito il lato ovest del parco con cartelli contro i musulmani e con bandiere americane e di Gadsden.)
La folla ha attraversato il distretto finanziario cantando: “Wall Street is our street” (Wall Street è la nostra strada) e “Power to the people not to the banks” (Potere al popolo, non alle banche). A Zuccotti Park una commissione per le mense ha fatto circolare panini e acqua mentre i partecipanti cantavano, danzavano e guardavano spettacoli di marionette.
Anche se per le 15 era stata annunciata un’assemblea generale, “si è deciso che ci saremmo divisi in piccoli gruppi per discutere che cosa la gente volesse vedere uscire da tutto questo e perché fosse interessata a Occupy Wall Street”, ricorda Matt Presto. “Abbiamo passato un sacco di tempo a cercare di spiegare il processo, perché per molti era una cosa del tutto nuova”. Secondo Marina Sitrin, membro del gruppo di lavoro dei facilitatori di Ows, che insegna alla City University di New York, l’idea iniziale era quella di tenere “una discussione politica sul perché siete frustrati” per lo stato del mondo e “che cosa vi ispira, che cosa vorreste vedere nel mondo?”. I discorsi si sono rapidamente concentrati sui programmi per l’occupazione stessa. “Quello di cui erano pronte a parlare le persone venute a Zuccotti Park era come avrebbero occupato, che cosa sarebbe potuto succedere e come sarebbe stato il giorno dopo.” I partecipanti “volevano andare diretti al sodo, alla domanda: allora, siamo qui per occupare o no?”.
Molti di quelli che avevano partecipato ai precedenti incontri dell’assemblea generale di New York a Tompkins Square Park dubitavano che Ows avesse un futuro. Marina notava che “le persone che avevano partecipato a precedenti assemblee generali non sono arrivate con i sacchi a pelo – non avevano previsto di rimanere per la notte”. Un’altra facilitatrice, Marisa Holmes, ricorda: “Anch’io, come molti altri, pensavo che tutto sarebbe finito in una bolla di sapone nel giro di un paio di giorni”.
Quando si è avvicinato il momento dell’assemblea generale, un gruppo di quaranta o cinquanta persone si è riunito per pensare come condurla.

Il libro: Un’opera collettiva sul movimento globale, Occupy Wall Street Scrittori per il 99%, traduzione di Virginio B. Sala e Stefano Valenti, pagine 224, euro 14,00, Feltrinelli
Nessuno sa fin dove arriverà la protesta di Occupy Wall Street. Ma una cosa è certa: si è ormai innescato il più importante movimento progressista in America dagli anni 60. Questo libro è la storia di un inizio. La stesura del testo è il risultato della collaborazione di circa una sessantina di persone. Molti di loro sono partecipanti attivi del movimento e tutti lo sostengono. Si sono dati il nome collettivo di Scrittori per il 99%.

Corriere della Sera 7.3.12
Sofocle, la colpa e la ribellione
Da Freud a Brecht, i personaggi di Edipo e Antigone restano due punti fermi della cultura contemporanea
di Daniele Piccini


È il 15 ottobre del 1897 quando per la prima volta Sigmund Freud, scrivendo a Wilhelm Fliess, fa riferimento all'Edipo re di Sofocle per avvalorare la sua teoria dei rapporti familiari, incentrata su quello che chiamerà poi il complesso di Edipo. La tragedia, come Freud precisò in seguito, sarebbe qualcosa come la materializzazione di un sogno, che mette in scena la pulsione del personaggio all'amore per la madre e all'odio omicida per il padre e li rappresenta come effettivamente avvenuti, scatenando il senso di colpa e la catastrofe: una trama, dunque, che permetterebbe di leggere l'abisso dell'inconscio, le pulsioni di una fase dello sviluppo infantile. La tragedia di Sofocle, rappresentata forse tra il 430 e il 425 a.C., diventa la matrice di una delle più celebri teorie della psicanalisi, inaugurando un ricchissimo filone di interpretazioni e di riscritture.
Era giusta o forzosa la lettura freudiana, il suo catturare la complessa materia dell'Edipo re, inchiodandola alla definizione del complesso edipico? Molti hanno accettato la traccia interpretativa, altri vi si sono opposti, considerandola un tradimento dell'originaria verità della tragedia (ad esempio Jean-Pierre Vernant). Basta leggere il libro ricco e denso di Guido Paduano, Lunga storia di Edipo re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, per rendersi conto della vastissima trama esegetica e interpretativa che ha preso ad oggetto Edipo, così come del ventaglio di riscritture, variazioni, adattamenti che esso ha generato, in epoca antica e moderna: dall'Oedipus di Seneca a Corneille, da Hugo von Hofmannsthal a Pasolini e Testori.
Il fascio di luce, concentrato e unidirezionale, gettato dal fondatore della psicanalisi sulla tragedia obbliga a prendere atto di una circostanza, «che non è mai stato forse compiuto nessun altro così profondo e impegnativo, così rischioso e commovente, atto di fiducia nella letteratura e nel suo valore di verità» (Paduano). Vale a dire che Freud trattò le ombre dell'irripetibile stagione tragica ateniese come cose salde, accettando il potenziale veritativo dell'opera di Sofocle (vissuto per ben novant'anni, tra il 496 e il 406 a.C., nell'Atene democratica). Con ciò ci obbliga a considerare la prepotente forza semantica della tragedia, giacimento di senso pressoché inesauribile. Il meccanismo edipico enucleato da Freud è rinvenibile nella tragedia, ma essa non vi si esaurisce, pronta a liberare nuovi significati. Certo, la lettura freudiana può vantare appoggi e indizi sparsi nell'Edipo re, come quando Giocasta, proprio nel tentativo di dissuadere Edipo dalla sua pervicace indagine, gli dice: «Tanti uomini prima d'oggi si sono congiunti in sogno con la propria madre».
Ma d'altra parte la tragedia è anche altro: è sottolineatura di una radicale ironia tragica, che vede il detentore del potere trascinato da un potere verticale e inconoscibile, il decifratore di enigmi incapace di decifrare se stesso; è evocazione della fatalità del furore divino, di cui gli uomini sono succubi, sebbene Edipo collabori attivamente, per smania di conoscere, alla propria distruzione; è riflessione sul potere che scivola verso la chiusura e la tirannide.
Il dato che balza in evidenza, nell'osservare il brulicare di letture e controinterpretazioni, è che il fondo dell'opera è inattingibile: Edipo re è voce del paradosso, della fragilità che si scopre tale sotto armature di regalità, è inchiesta rovinosa e monito sull'abissalità del volere divino, sulla perentorietà della profezia; è creatura viva e non infilzata negli album di una storiografia letteraria (o psicanalitica) pacificamente risolta. È, insomma, avventura intellettuale in movimento.
Non minore capacità di parlare attraverso i secoli e le culture (arrivando a interessare quella cristiana) è da riconoscersi all'eroina, inflessibile quanto il fratello-padre Edipo, che dà il titolo alla tragedia rappresentata nel 442 a.C.: Antigone. Coinvolta nella terribile catastrofe paterna (è evocata in chiusa dell'Edipo re, cronologicamente successivo), è lei che nell'Edipo a Colono accompagna il genitore cieco in esilio. Nella tragedia che la vede protagonista si oppone al nuovo re di Tebe, Creonte (suo zio), che dopo la vicendevole uccisione di Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone, permette di seppellire il primo, ma non il secondo, considerato per il suo assalto a Tebe traditore della patria. Antigone decide di dare sepoltura al corpo di Polinice nonostante il bando del re, incarnando quello spirito della «sorellanza» tanto caro ai lettori idealisti e romantici, che imposero il mito moderno della tragedia.
La conflittualità tra le due istanze è radicale: Creonte parla in nome del rispetto delle leggi umane, giuste o ingiuste che siano, e scivola verso la tirannia; Antigone è accesa di folle devozione per le leggi non scritte degli dei: stoltezza apparente che si nutre di ragione profonda. Le opposte inflessibilità confliggono e non c'è tempo, secondo il demone tragico, per accordarle. Perciò Antigone brilla nel breve spazio della sua obiezione: personaggio che il Novecento ha rivestito (con Brecht, ad esempio) del motivo della resistenza allo Stato totalitario oppure ha rivisitato obliquamente, quasi come una creatura invasata e consacrata alla morte (così in Ritsos, che la fa rievocare dalla sorella Ismene: le molte riscritture del personaggio sono squadernate nell'affascinante Le Antigoni di George Steiner). Anche Creonte accende domande: può egli rappresentare le legittime ragioni dello Stato, come il filone interpretativo hegeliano suggerisce, o incarna piuttosto l'arbitrio del tiranno? Le voci di queste dramatis personae sono nel cuore della nostra democrazia, imperfetta come ogni altra costruzione civile. Clamano e risuonano, si agitano in noi.

Corriere della Sera 7.3.12
Lo Stato e la legge naturale, un conflitto crudele


Esce domani in edicola il terzo volume della collana «I classici del pensiero libero. Greci e latini» del «Corriere della Sera» (al prezzo di un euro più il costo del quotidiano), che contiene due grandi capolavori di Sofocle (496-406 a.C.), Antigone ed Edipo re, annotati e con testo originale a fronte, arricchiti dall'inedita introduzione di Eva Cantarella. Tuttora rappresentate a teatro, le tragedie sofoclee hanno reso immortali due personaggi paradigmatici. Antigone, come spiega Eva Cantarella nell'introduzione scritta appositamente per la collana, è al centro di «uno scontro che secondo Goethe racchiude l'essenza stessa della tragedia»: il nucleo del tragico sta infatti nel conflitto insanabile, e in questa tragedia si incarna nello scontro mortale che oppone la giovane eroina Antigone a Creonte, il re che, ucciso Polinice, ordina che nessuno possa seppellirlo, pena la morte. Ma Antigone, sorella di Polinice, non può sottrarsi all'imperativo etico della pietas, e per questo morirà, diventando un simbolo per i moderni del conflitto tra imperativo morale e potere, tra giustizia e legge. Mentre Edipo re, spiega Cantarella, è «una straordinaria occasione, per i greci, per riflettere sul problema della colpa e della responsabilità». L'uomo che, senza saperlo, uccide il padre e sposa la madre, inoltre, è diventato archetipo simbolico di ciascun individuo che, giunto all'età adulta, si stacca dall'autorità paterna e «uccide il padre», da Freud a Jung. Inoltre Eva Cantarella fa notare che proprio Edipo fornisce un'importante traccia storica dell'evoluzione della mentalità greca nei confronti del concetto di colpa: mentre infatti in Edipo re il protagonista si punisce accecandosi, pur avendo ucciso Laio senza riconoscerlo, nella successiva tragedia Edipo a Colono maturerà «l'idea che solo chi ha agito volontariamente è responsabile delle sue azioni». E con lui, l'intera cultura greca. Il prossimo volume, in uscita il 10 marzo, sarà Lettere sulla fisica, sul cielo e sulla felicità di Epicuro, con prefazione di Giulio Giorello. (i.b.)

Repubblica 7.3.12
La Resistenza raccontata da una ragazza di oggi
di Concita De Gregorio


Paola Soriga è un´autrice esordiente: il suo primo libro è un viaggio tra emozioni e speranze di una staffetta partigiana
Si nutre di conoscenza profonda del tempo di cui parla. Al bar Giolitti compare il sorriso di Giaime Pintor
Ida Maria, nata in Sardegna, arriva a Roma giusto in tempo per scoprire l´amore, mentre arriva la guerra

È una bambina, da una grotta, a raccontarci cos´è che ci manca. Cos´è che non abbiamo più e non sappiamo ritrovare qui e ora, in questi giorni sfusi pieni solo di rabbia e di impazienza, di calcoli brevi e di sfinimenti vani. È il personaggio di un romanzo – che come accade è la finzione la più precisa a raccontare la realtà – a dirci piano all´orecchio da dove ripartire.
A dirci dove ritrovare le parole e le emozioni, le ragioni collettive che tengono dentro le storie di tutti, e un cammino da fare insieme, con fatica e con dolore ma insieme, verso un posto che sia un più bel posto per tutti giacché tutti l´hanno patito e guadagnato insieme. Un orizzonte comune, la storia grande che partorisce nel sangue e nel sollievo le vicende di ciascuno. È Ida Maria, una ragazzina sarda sbarcata in continente giusto in tempo per scoprire cosa sia l´amore mentre arriva la guerra, una piccola staffetta partigiana che si nasconde per giorni sottoterra, nelle cave di Roma ad aspettare che finiscano gli spari. E che nei giorni, dalla grotta, per domare la paura ricorda e racconta: la vita sua, quella delle persone intorno, la storia grande e quella piccola, la forza delle cose, l´immensa energia che scaturisce da ogni lutto se solo c´è un posto dove andare, dopo, un luogo dove correre che sia così bello da giustificare la corsa.
Paola Soriga, che ha scritto la storia di Ida e l´ha intitolata Dove finisce Roma (Einaudi Stile libero), ha poco più di trent´anni. Non è la prima, della sua generazione, a cercare in un tempo che non ha conosciuto un presente dotato di senso, che abbia la voce e i gesti – la purezza, la durezza – adatti a descrivere le ragioni e le passioni che muovono i destini comuni. La Resistenza, la guerra: gli anni in cui tutto rovinava e insieme cominciava daccapo, si combatteva e si moriva coi torti e le ragioni confusi e nitidi insieme. È proprio come se i nipoti, oggi, cercassero il bandolo di un filo da riannodare nella memoria e nel racconto dei loro nonni, come se ci fosse una segreta risonanza – segreta, ormai chiara – fra la generazione dei più vecchi e quella dei più giovani. Dei nonni e non dei padri, ché gli anni di mezzo sono stati un guasto, hanno sciupato e stinto la tela, corrotto il telaio. Non è la prima, Paola Soriga, a provarci ma è la prima a riuscirci con una precisione definitiva, che commuove per la semplicità e consola per la sapienza, muove al pensiero e chissà forse all´azione, lascia – chiusa l´ultima pagina – l´eco di un desiderio di fare, di provarci di nuovo, proprio noi proprio ora, e allora andiamo, forza, che cosa stiamo aspettando, ricominciamo.
È un romanzo pieno di donne, anche. Dedicato "alle donne della mia famiglia", aperto dai versi di Szymborska («chi sapeva di che si trattava deve far posto a quelli che ne sanno poco, e meno di poco, e infine assolutamente nulla») e di Antonella Anedda, «l´amore è un´occupazione solitaria». Si nutre di una conoscenza profonda del tempo di cui parla, di letture e di racconti inseguiti e raccolti, le donne del libro si chiamano Renata e Agnese, sebbene questa non vada a morire, compare al bar Giolitti il sorriso di Giaime Pintor, si sentono senza che pesino mesi e forse anni a rincorrere una storia smarrita e l´amore per quella storia, sempre. Si sente senza che pesi anche un lavoro lungo, di cesello e di ascolto del suono della lingua alla ricerca di una semplicità di stile che riporta alla memoria Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino, anche Pin è un bambino come Ida, anche quei dialoghi quelle descrizioni sono puri in un lento e complicato modo, il lavoro che serve per ritrovare la purezza. La voce che narra, qui, è potente e sottile. Il racconto passa come acqua dalla terza persona alla prima, è Ida che vede se stessa poi è Ida che parla, un flusso di pensiero che porta il lettore nella storia a camminarci dentro, lascia defluire i personaggi e le vicende secondo il ritmo e il senso del ricordo. Un ricordo prima infantile, poi di adolescente, infine di donna. Un ricordo che cresce e che cambia.
Ida quando è partita dalla Sardegna, era il 1938, aveva «i capelli neri e diritti e la pelle di un´oliva, i suoi giorni erano stati tutti dentro il paese». La nonna, le sorelle, la stalla, le galline. I genitori la mandano in continente con Agnese, la sorella maggiore che si è sposata e vive a Roma, che tanto a Roma non c´è pericolo, a Roma non ci buttano mica le bombe, a Roma c´è il Colosseo. E dove mangiano in due mangiano in tre, che problema c´è.
Il problema certo che c´è, per una bambina di 11 anni che parte con la nave e da quel momento esatto è sola, che va a vivere in un quartiere di Roma dove tutte le strade si chiamano coi nomi delle piante e dei fiori proprio mentre la guerra arriva esattamente lì, in quelle piazze, in quelle strade, in quella casa dove la sorella triste vive col marito Francesco che «ogni giorno un po´ cambiava davanti a questa sposa che non gli faceva i figli, che non era madre come diceva la natura e dio e il nostro Duce, Agnese, il nostro Duce». Ida la bambina sarda con la pelle di oliva impara a camminare fra via dei Pioppi e piazza dei Mirti, conosce Don Pietro e Rita al catechismo, poi Antonio coi ricci belli, poi Micol nella sua casa elegante e le macerie, la marrana, lo spavento dei bombardamenti e poi l´amore, occupazione solitaria. Impara a disubbidire, insegue le ragioni che le sembrano ragioni, usa Maria come nome di battaglia, ora è una partigiana, scappa Maria scappa che ti cercano, vai nella grotta, nasconditi. Fuori i 335 morti nelle fosse, che quel giorno «avevano fatto esplodere una bomba per tappare l´entrata e ci avevano buttato sopra l´immondizia per coprire l´odore», «si vedevano i corvi, si sentivano i corvi, le grida dei corvi, e la terra era umida e soffice e c´erano le tuberose, tuberose che coprivano la terra e il loro profumo fortissimo, e Ida non ce l´aveva fatta ad andare avanti le era venuto da vomitare». Annina che da quando aveva visto morire la mamma della sua compagna di banco non parlava più. Don Pietro che le aveva detto tu sei come un´ostrica, Ida: hai una perla dentro. Betto che forse è una spia. Micol che si vedono sempre il martedì, nella casa grande e bella del ghetto dove la domestica Benedetta è una ragazzina sarda come Ida, la sua lingua che ricompare all´improvviso con un vassoio da tè fra le mani e Micol che studia e legge e dice «sono sempre gli uomini a viaggiare scrivere pensare ma Grazia Deledda, e Jane Austen e Sibilla Aleramo, Eleonora Duse?», se sono eccezioni «io voglio essere un´eccezione» e poi arriva una macchina con due uomini vestiti di nero a portarla via, Micol. E Antonio, più di tutti Antonio, il bacio di Antonio nella grotta, i sorrisi di Antonio alle riunioni clandestine e Antonio che «lo amavi perché non ce n´era un altro uguale, che ci volevi passare tutto il tempo e che sembrava che anche lui ti amava» e se ora Antonio si sposa e non sei tu, mi sposo, mi sposi?, no io mi sposo, allora a cosa serve che siano arrivati gli americani proprio stamattina con quei capelli biondi quegli occhi celesti, sono arrivati tardi, perché ci hanno messo tanto, se arrivavano ieri non era morto Faustino e ora che sono arrivati e Antonio si sposa puoi piangere tutto il pianto che non hai pianto mai. Quello per le case crollate, le amiche scomparse, la nonna che non hai visto morire, la mamma che ti ha mandata via, tutti i dolori, tutti i lutti, Francesco sotto le bombe di san Lorenzo e ieri Faustino, anche Faustino. Ora che il sole picchia forte sulla testa, solo ora che è finita sei padrona di perderti: oggi puoi, e solo per oggi. E ora che la storia è finita, solo ora Paola Soriga può uscire da Ida e dire le sue ultime venti parole, in coda. «Grazie a tutti quelli che hanno voluto raccontare la Resistenza, i cui lavori sono alla base di questo romanzo. Soprattutto grazie a chi l´ha fatta, e a chi la fa ogni giorno ancora». Ogni giorno ancora, come allora, appunto.

La Stampa TuttoScienze 7.3.12
La colla che lega Donatello con i tori della preistoria
Nei frammenti della Madonna la prova di un’estinzione ritardata
di Marco Pivato


L’opera Realizzata da Donatello è una scultura in terracotta policroma. Datata tra il 1415 e il 1420 raffigura una Madonna con bambino e proviene dalla chiesa di San Francesco a Citerna in provincia di Perugia
Gli uri sono rappresentati in molte pitture rupestri europee del Paleolitico come quelle di Lascaux e Livernon in Francia A questi grandi bovini erano probabilmente attribuite speciali qualità magiche

Dagli spettri infrarossi è nata l’idea di «fotocopiare» minime tracce genetiche
Nel Dna mitocondriale uno squarcio sui segreti di un grande dell’arte
«Potremo creare un database per datare opere ancora controverse»

Avete presente gli animali raffigurati nei magnifici murali preistorici sulle pareti della grotta di Lascaux, nel Sud della Francia? Si tratta di branchi di uro, scientificamente noto come Bos primigenius, un antenato selvatico dei bovini moderni, estinto nel XVII secolo nell’Est dell’Europa, dove erano confinati gli ultimi esemplari. Ma una scoperta del tutto accidentale riscrive la storia della loro fine ancora controversa: durante il Rinascimento, in realtà, popolavano abbondantemente l’Italia. A rivelarlo è una scultura di Donatello, che conserva il Dna dell’uro nelle colle che l’artista produceva dalle ossa polverizzate di animali.
«L’opera di Donatello è una scultura in terracotta, policroma, realizzata tra il 1415 e il 1420 e raffigurante una Madonna con bambino - spiega Emidio Albertini, ricercatore di Genetica agraria all’Università di Perugia - e proviene dalla chiesa di san Francesco, a Citerna». Di recente questa Madonna con bambino è stata spostata, per un restauro, all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ma, durante il trasporto, microscopici frammenti del colore si sono distaccati e sono stati subito raccolti. A questo punto è entrato in gioco il team dell’Università di Perugia che ha acquisito i frammenti con lo scopo di analizzare l’eventuale Dna che fosse reperibile dall’opera per trarne preziose informazioni. E una vicenda inattesa si è spalancata.
La paternità della tecnica è di Alessandro Sassolini, umbro, chimico dell’«Arpa» del Lazio, che spiega come è arrivato all’intuizione. «Anni fa stavo effettuando analisi degli spettri infrarossi su alcuni leganti pittorici - racconta -, ma il metodo non era abbastanza accurato e così pensai di utilizzare una “Pcr”, vale a dire lo strumento dei biochimici che “fotocopia” le tracce residue di Dna, aumentando notevolmente il campione a disposizione». Sassolini si mette quindi in contatto con Albertini e lo convince delle potenzialità della tecnica. «Acquistammo i materiali di base, come oli e colle, su Internet - continua Sassolini - e di lì a pochi mesi ottenemmo i primi risultati». I due chiamarono anche Costanza Miliani, ricercatrice dell’Istituto di scienze e tecnologie molecolari del Cnr di Perugia, e, assieme al collega Alessandro Achilli, nel 2010, firmarono, sulla rivista «Analytical and Bioanalytical Chemistry», uno studio significativamente intitolato «Evidenziare l’origine biologica di colle animali usate nei dipinti attraverso l’analisi del Dna mitocondriale».
È in effetti proprio il Dna mitocondriale - e non quello nucleare - il materiale genetico più adatto al successo dell’indagine. «Altri ricercatori avevano già dimostrato la possibilità di analizzare Dna antico migliaia di anni, proveniente da tessuti mummificati oppure da pitture preistoriche con Dna mitocondriale», sottolinea Sassolini. Ma c’erano anche altri problemi. «Eravamo in ansia per la presenza di notevoli quantità di materiale genetico indesiderato, ossia Dna di funghi e di batteri che contaminano un’opera d’arte, e per l’insorgere di fenomeni di degradazione, determinati dall’invecchiamento, da processi di idrolisi e ossidazione, oltre che da trattamenti come bollitura, macinazione e filtrazione, usati nella preparazione dei leganti per estrarre il colorante».
Da quattro microframmenti della scultura, in condizione di sterilità, è stato estratto il Dna ed è stata cercata la presenza delle regioni mitocondriali specifiche di bovino, coniglio, suino e ovino. Ed ecco la sorpresa. «Possiamo concludere- afferma Albertini - che Donatello, per realizzare le sue opere, usasse colle di origine animale. In particolare per la preparazione della colla usata per la Madonna di Citerna sono state utilizzate ossa di diversi animali da linee genetiche bovine, tra cui proprio quella chiamata “R”, tipica degli uri».
Prima nei celebri graffiti di Lascaux e poi nel «De Bello Gallico» di Giulio Cesare, dove sono descritti come «animali di grandezza poco inferiori agli elefanti e per l’aspetto, il colore e la forma ai tori», gli uri hanno fatto parlare di sé, ma, stavolta, a preservarne e a «resuscitarne» la memoria è stato, involontariamente, la stessa mano di Donatello, che ha confidato ai ricercatori anche alcuni segreti del suo mestiere.
E ora, visto il successo dei risultati, il gruppo italiano tenterà un ulteriore passo, molto importante. «La tecnica dicono gli studiosi - potrà essere utilizzata per creare un immenso archivio di informazioni». E spiegano: «Nello studio abbiamo preso in considerazione i bovini e poche altre specie, ma ne esistono altre di grande interesse per la realtà dei beni culturali, come le piante per ottenere olii e coloranti». Ma il database avrà un ulteriore scopo: «Ottenuta una griglia di campioni accertati per datazione e provenienza, sarà possibile confrontare campioni sconosciuti e cercare di datare le opere e allo stesso tempo scoprire i falsi».