martedì 6 marzo 2012

l’Unità 6.3.12
Dalla foto di Vasto alla foto di Parigi passando per Palermo
Alternativa al liberismo. Lavoro e solidarietà contro il rigorismo dell’asse «Merkozy»
Nel Pd si discute sul «con chi allearsi» ma il tema vero è «per fare che cosa» La battaglia progressista in Europa e la sfida di un nuovo centrosinistra
di Pietro Spataro


Visto che nel centrosinistra va tanto di moda parlare di foto per parlare di politica, allora partiamo dalle foto. Non è un gioco, ma il tentativo di capire, dentro la bufera delle primarie di Palermo, quale immagine vuole dare di sé il Pd. In sostanza: quale profilo offrire a chi osserva, cioè agli elettori. Stiamo parlando di un partito che ha l’ambizione di essere riformista e di cambiamento. La cui missione non è solo amministrare meglio quel che gli altri hanno amministrato male, ma indicare un progetto alternativo. Su questo, forse, nel Pd dovrebbero essere tutti d’accordo. Ma allora quale è il problema dei democratici che a ogni passo, spesso, si dividono sul passo successivo?
Uno dei problemi è diventata la famosa «foto di Vasto». Si tratta dello scatto che nel settembre del 2011 immortalò Bersani, Vendola e Di Pietro come protagonisti di una nuova alleanza di centrosinistra. Con il tempo, per i critici, quella immagine è diventata il simbolo di una pericolosa autosufficienza che chiudeva a nuove forze e al confronto con il centro di Casini. Anche se i mesi successivi hanno smentito quella diagnosi e dimostrato, per esempio, che il rapporto tra il leader del Pd e quello dell’Udc è stato spesso fruttuoso (basti pensare alla fase del dopo Berlusconi), quella foto viene usata per descrivere quel che il Pd non deve essere. Il punto è che la non autosufficienza di quel triangolo politico è, nei fatti, un dato acquisito: non tanto perché soltanto in pochi hanno pensato il contrario, ma soprattutto perché la nascita del governo Monti ha segnato, in qualche modo, uno spartiacque e allargato la forbice del dialogo. Non a caso il Pd è tra i sostenitori, mentre l’Idv e Sel tra gli oppositori.
Bene, poi arrivano le primarie di Palermo che ci consegnano un’altra foto del Pd. Fabrizio Ferrandelli, il vincitore, è riuscito a strappare un pugno di voti in più spingendo sull’abbraccio con il centro di Lombardo in alternativa al patto con
Vendola e Di Pietro sostenuto da Rita Borsellino. Un’altra immagine finisce così negli archivi del Pd accanto però a quella scattata solo un mese fa a Genova che, con la vittoria del radicale Marco Doria, rimandava invece alla vecchia immagine di Vasto. Tutti scatti che ripropongono un dilemma che rischia di lacerare il Pd: stare con Vendola e Di Pietro o con Casini? Meglio l’affidabilità moderata
dell’Udc o la radicale imprevedibilità di Sel e Idv?
L’impressione è che il dibattito stia seguendo una strada sbagliata. Dividersi sul «con chi allearsi» rischia di aprire solo fossati e fa perdere di vista la domanda centrale: allearsi per fare che cosa? Se si parte da qui, forse si riafferra il bandolo della matassa. Ma rispondere a questa domanda vuol dire interrogarsi
su quale è il ruolo del Pd non solo in Italia ma in Europa. Il tema per le forze riformiste, infatti, è se e come si riesce a imporre una linea alternativa a quella iperliberista che ha dominato il Vecchio Continente negli ultimi anni con gli effetti nefasti che sappiamo. Che questo sia lo scontro lo dimostra l’attivismo di quella sorta di «internazionale conservatrice», di cui Angela Merkel è leader, che ha dichiarato guerra al candidato socialista all’Eliseo Hollande, con metodi che hanno poco a che vedere con il galateo delle cancellerie.
Se quindi, banalizzando, il Pd è giusto che stia con i progressisti contro i conservatori, forse dovrebbe entrare in gioco un’altra immagine: la «foto di Parigi». A maggio Parigi sarà infatti il teatro della prima battaglia dei progressisti: Hollande contro Sarkozy. E proprio lì, in vista di quello scontro, i leader dell’Spd, del Ps e del Pd firmeranno tra qualche giorno un manifesto dei progressisti per l’Europa del lavoro e della solidarietà. Si dirà che anche questa foto non è autosufficiente: sicuramente è così. È necessario allargare l’alleanza, coinvolgere altre forze che condividono valori diversi rispetto all’asse Merkozy. Ma da qui però bisogna partire. E forse diventerà meno difficile scegliere in Italia con chi allearsi: discutendo di idee prima che di uomini, di programmi prima che di sigle. Allora le immagini di Vasto e di Palermo (e di Genova) appariranno per quel che sono: tasselli di un puzzle. Come diceva Henri Cartier Bresson, è un’illusione che le foto si facciano con la macchina. Si fanno con gli occhi, con il cuore, con la testa.

La Stampa 6.3.12
Ferrandelli, il piccolo “vasa vasa” che piace a destra e a Lombardo
di Laura Anello


Palermo. Ti accoglie sempre con una «vasata», i due baci alla siciliana che furono il marchio di fabbrica di Totò Cuffaro. E se anche glielo fai notare - lui che stringe forte il vessillo della legalità puoi stare sicuro che non si arrabbierà. Perché lui, Fabrizio Ferrandelli, l’outsider che ha battuto sul filo di lana Rita Borsellino provocando un terremoto nel centrosinistra siciliano e nazionale, non si arrabbia mai. Ecumenico, morbido, senza spigoli. Fa complimenti a tutti, ringrazia tutti, chiama tutti alla concordia. Trentun anni, laureato in Lettere, sposato, un lavoro in banca, un’ambizione di cui non fa mistero: «Voglio fare il sindaco».
Orlando lo accusa di avere fatto il cavallo di Troia del Terzo Polo? E lui dice: «Sarei felice di averlo al mio fianco in caso di vittoria». Mezza sinistra lo accusa di tradimento? E lui fa appello all’unità. Gli danno del trasformista, dell’ipocrita, del razzolatore di voti e di casacche? E lui replica: «Cattiverie». Eccolo qui, Ferrandelli, la rivelazione delle primarie palermitane, il giovane che ha sconfitto in un sol colpo, con sorridente spregiudicatezza, i suoi due padri ed ex big sponsor: la Borsellino, con la quale ha cominciato la sua carriera politica candidandosi senza successo nel 2006 all’Assemblea regionale siciliana, e Orlando, grazie al quale l’anno successivo è approdato al consiglio comunale. Dove ha fondato il gruppo di Italia dei Valori. Entrambi liquidati, cortesemente, come il vecchio. «Loro sono gli apparati, io sono la base».
E pazienza se accanto alla gente delle periferie, agli immigrati, ai senzacasa, ai coetanei dei salotti borghesi che si è coltivato a uno a uno, sia sostenuto - inequivocabilmente dal pezzo di Pd che più di Palazzo non si può. Quell’area capitanata dal senatore Beppe Lumia e dal capogruppo al Parlamento siciliano, Antonello Cracolici, che alla Regione governa con l’autonomista Raffaele Lombardo: un «patto con il diavolo» che ha lacerato la base. Anche su questo Ferrandelli non si scompone: «Questa città non si può governare arroccandosi in un recinto, issando paletti, bisogna dialogare con tutti. E poi mi chiedo perché se Cracolici e Lumia avessero appoggiato un altro candidato andava bene, e con me è scattato l’allarme rosso».
Forse perché del Pd lui non è mai stato. Forse perché, appena cacciato dall’Idv - colpevole di avere annunciato la sua candidatura quando ancora era in ballo quella del líder máximo Orlando - si è trovato un drappello di movimenti civici su cui fare leva. Forse perché prima ha annunciato di volersi candidare al primo turno e poi si è tuffato a capofitto sulle primarie, accolto con sorprendente tempismo dal pezzo filo-lombardiano del Pd. «Io resto fermo dove sono, ho un programma che mette al centro la legalità, la moralità, il merito, chi ci sta ci sta».
Dialogo, dunque. E pazienza se i nemici lo chiamano mimetismo, consociativismo, populismo. Pazienza se ieri Claudio Fava su Facebook l’ha bollato come «giovanotto spregiudicato e già di antico pelo», una sorta di incarnazione del Tancredi di gattopardiana memoria. Di sicuro lui non ha paura di incarnare una sorta di conciliazione degli opposti. In consiglio tessitore di accordi bipartisan, in piazza instancabile attivista a fianco di straccioni, immigrati, ambientalisti.
Scout e movimentista, candidato dei placidi umanisti e dei raccoglitori di ferraglia, credente ed estremo. A chi gli rimprovera di cumulare lo stipendio di bancario con quello di consigliere, risponde senza fare una piega: «Il primo mi serve per vivere, il secondo per finanziare una rete di associazioni, a cominciare dall’asilo multietnico Ubuntu». I novecento immigrati che hanno votato lo hanno fatto in gran parte per lui, sottoponendosi al tour de force di autorizzazioni e di file che l’organizzazione ha congegnato per evitare il bis del caso Napoli, quando le urne si riempirono di migliaia di cinesi che sapevano a stento dov’erano.
Due anni fa, in un singolare cortocircuito, occupò con i senzatetto quella Sala delle Lapidi di cui era consigliere. Sulla parete dietro la scrivania la riproduzione de «Il Quarto Stato» di Pellizza da Volpedo. Di lotta e di governo, si sarebbe detto una volta.

l’Unità 6.3.12
Letta e i Modem: basta guardare a Di Pietro e Vendola. I veltroniani: ora gestione collegiale
Il segretario: «L’obiettivo è un’alleanza che guardi anche alle forze civiche e ai moderati»
La botta di Palermo scuote il Pd
Bersani: cosa c’entra Vasto?
L’esito del voto di Palermo accende una discussione nel Pd sulle alleanze. Bersani irritato con Letta, che definisce superata la foto di Vasto. I veltroniani chiedono gestione collegiale e discussione della linea politica.
di Simone Collini


È una storia già vista, ma stavolta sembra peggiore. La sconfitta a Palermo di Rita Borsellino, a cui Pier Luigi Bersani aveva personalmente chiesto di candidarsi alle primarie, innesca una reazione a catena che passa per Vasto ma in realtà punta su Roma. È Paolo Gentiloni, della minoranza di Movimento democratico, a dire chiaro e tondo che le ragioni di quanto successo nel capoluogo siciliano, come prima a Milano, Napoli, Cagliari, Genova (tutti posti dove i candidati del Pd sono usciti sconfitti dalle primarie) «sono locali ma il problema del Pd è nazionale». Ma soprattutto è Enrico Letta a dare il via al fuoco anti-Vasto, commentando che l’alleanza «solo con Sel e Idv è un accordo del passato» e che quindi va messa da parte, «come tutto ciò che è venuto prima del governo Monti». Che siano altri a utilizzare il voto di Palermo per definire «cancellata» la ormai famosa foto di Vasto (da Follini a un ex-popolare come D’Ubaldo a un veltroniano come Ceccanti) passi. Ma quando vede che è lo stesso vicesegretario a mettere in discussione e (dal suo punto di vista) deformare la linea sostenuta fin qui, Bersani non nasconde la sua irritazione: «Non so cosa c’entri la foto di Vasto con Palermo», risponde a chi gli riporta le parole di Letta.
L’IRRITAZIONE CON LETTA
Al leader del Pd l’uscita del suo vice non è piaciuta per due motivi: perché il vicesegretario «sa bene» che sul piano nazionale l’obiettivo non è un’alleanza «solo con Sel e Idv» («io voglio un centrosinistra che si rivolga alle forze civiche e moderate per preparare una vera alternativa alla destra») e perché rompere ora con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro (che hanno sostenuto Borsellino) significa non solo mettere una pesante ipoteca sulle amministrative di primavera (su cui Bersani punta per dimostrare la forza del suo
progetto) ma anche mettere a rischio le stesse giunte che oggi a Bologna, Milano, Napoli e in tanti altri posti governano col sostegno di una maggioranza di centrosinistra.
COINVOLGERE I GRUPPI DIRIGENTI
Il fatto è che, complice l’esito delle primarie di Palermo, mai come in queste ore emerge alla luce del sole che nel Pd convivono ipotesi diverse circa la strategia delle alleanze e su come il partito dovrà andare al voto del 2013. Letta sostiene che gli elettori hanno dimostrato di volere «un accordo al centro» e anche «rinnovamento, facce nuove», che dopo Monti «tutto è cambiato» e che «le alleanze nella politica di domani non potranno non farsi sui sì e sui no alle varie politiche di governo oggi». Una posizione non proprio in linea con quella espressa dalla segreteria e invece più in sintonia con quella sostenuta dai diversi esponenti di Movimento democratico. Che ora chiedono a Bersani di convocare la direzione per discutere come garantire nella gestione del partito «quella collegialità che in questi mesi è spesso mancata» (Achille Passoni) e per avviare «un dibattito serio e approfondito sulla proposta politica, sulla prospettiva che noi avanziamo al paese, sulla qualità del riformismo necessario al futuro dell’Italia» (Walter Verini).
Gestione collegiale del partito e diversa linea politica, sarebbero materie per una discussione congressuale, che però tutti nel Pd negano di volere per i prossimi mesi. Dalla segreteria spiegano che la direzione è in agenda per la fine del mese e non servono battute (Verini ha fatto notare che l’ultima riunione risale ad ottobre, quando c’era ancora il governo Berlusconi). Ma intanto si seguono con attenzione le mosse di Walter Veltroni: l’ex segretario inizia a giudicare stretto lo strumento di Movimento democratico e per avere maggior libertà di movimento nella prospettiva di un’intesa con Letta starebbe pensando di sciogliere la sua componente (intanto non ha più convocato riunioni di area né organizzato
iniziative).
LA CORREZIONE ALLE PRIMARIE
La polemica sulle alleanze ha in parte oscurato il tema delle primarie, che però è tutt’altro che sottovalutato nel Pd. A Bersani non è piaciuto che la sfida ai gazebo sia stata condizionata da «una resa dei conti che nulla ha a che fare con le amministrative di maggio». È di questo che parla quando, durante la presentazione di un libro su Angelo Vassallo, pubblicamente dice che «le primarie favoriscono il rapporto con i cittadini, accendono energie, sono una risorsa ma non risolvono mai i problemi politici, anzi possono moltiplicarli». Per il leader del Pd la vera «correzione» da fare è «mettere la politica prima»: «A Palermo e in Sicilia ci sono problemi politici». Quanto alle modifiche allo Statuto per evitare candidature multiple (sollevano la questione Andrea Orlando e Luigi Zanda) e infiltrazioni (Michele Ventura parla della necessità di dotarsi di un albo degli elettori) sono questioni che verranno affrontate dopo il voto amministrativo di maggio.

Corriere della Sera 6.3.12
Fioroni: «Il risultato indica una svolta e manda in soffitta le alleanze a sinistra»
di R. Zuc.


ROMA — Giuseppe Fioroni, non sarà il caso di riflettere sulle continue sconfitte dei candidati del Pd?
«In realtà a Palermo è stato sconfitto il candidato di un'intera coalizione...».
Peggio ancora. E comunque Rita Borsellino era l'indicazione ufficiale del partito, sostenuta dal segretario Bersani.
«Se c'è una riflessione politica da fare è prima di tutto la seguente: occorre ritrovare l'orgoglio della nostra funzione di modernità e cambiamento. Bisogna essere coerenti e credibili ad ogni livello: non si può sostenere il governo Monti e allearsi con partiti, come Sel, che lo combattono. Bersani deve riflettere su ciò che è successo a Palermo e convincersi che è necessario partire ovunque da un'alleanza che definirei "baricentrica" con il Terzo polo. E poi, eventualmente, allargarla».
Il contrario della cosiddetta «foto di Vasto».
«Queste primarie mandano in soffitta quella foto e segnano un'inversione di tendenza: non più un candidato del Pd perdente contro quello della sinistra, ma un giovane, un cattolico espressione del rinnovamento, che vince sulla candidata indicata da tutta la coalizione».
Sembra entusiasta del risultato.
«È il segno di una svolta. Se si sommano i voti incassati da un altro giovane come Faraone si raggiunge una solida maggioranza del Pd palermitano favorevole ad un cambiamento».
Il Pd siciliano che ha appoggiato Ferrandelli, fautore dell'alleanza con Lombardo, è espressione di questo cambiamento?
«I 30 mila elettori di Palermo non hanno scelto il candidato di Tizio o di Caio, ma la volontà di cambiare rispetto a vecchi schemi. È un movimento di giovani che vengono da un impegno sociale e politico tra la gente. La parte del Pd che ha sostenuto Ferrandelli è comunque un'ala riformista del partito, contraria a scelte che guardano al passato, condizionate da vecchi steccati ideologici. In altre parole, è favorevole ad un'alleanza con il Terzo polo, in forte discontinuità con il passato».
Il partito, a livello nazionale, appare ormai diviso sulle future alleanze. Non è venuto il momento di scegliere?
«Il Pd deve accorgersi una volta per tutte che siamo entrati pienamente nell'era post-Berlusconi, un tempo in cui si pone il problema di raccogliere i voti dei delusi dal Cavaliere, quelli dei moderati. Per questo occorre guardare al Terzo polo. È un grave errore per il nostro partito lasciare che siano altri ad appaltare questo lavoro rincorrendo i consensi nell'area già affollata della sinistra radicale».
Un dialogo a senso unico con l'Udc e l'area di centro?
«Con loro, ma anche con tutti coloro che vorranno condividere il nostro programma».
Eventualmente anche con Mario Monti?
«Prima di tutto occorre resistere alla tentazione di essere quelli che danno la patente per scendere in politica. Chi vorrà farlo ben venga. Per le elezioni del 2013 dobbiamo proporre un premier espressione di una coalizione che condivida valori e progetti e non un'alleanza dettata dall'emergenza, da furbizie o da una legge elettorale. Se allora diremo che Monti è il migliore e lui sarà disponibile perché porre ostacoli?».
Dopo le primarie di Palermo c'è chi invoca il cambiamento delle regole, chi esige chiarimenti ai vertici del Pd.
«Non servono né cambiamenti alle regole delle primarie, né dimissioni di qualcuno: per vincere basta una linea politica autorevole».

il Fatto 6.3.12
Bersani, un’altra botta e il partito chiede il conto
Alleanze e linea politica, i montiani del Pd vogliono commissariare il segretario
di Wanda Marra


Così plumbeo Pier Luigi Bersani non s’era mai visto. Ieri pomeriggio mentre scendeva dalla macchina per andare a presentare il libro su Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso l’anno scorso, rimandava l’immagine plastica del fortino: nessuna dichiarazione ai giornalisti, neanche un sorriso. E anche dopo, dal palco, nessuna battuta, neanche una metafora delle sue. Dallo scrutinio delle trentamila schede di Palermo, Rita Borsellino, la sua candidata è uscita sconfitta. E per quanto sia in corso il riconteggio e la vittoria di Ferrandelli sia ancora ufficiosa, per Bersani è l’ennesima sconfitta di un candidato da lui sostenuto: è successo a Genova, dove le candidate del Pd hanno ceduto il passo a quello di Sel, era successo a Milano, con la vittoria di Pisapia. Ma se dopo Genova l’atmosfera era quella di una botta generale, e i veleni erano rimasti striscianti, stavolta i “montiani” del partito si fanno sentire. Sotto accusa, la linea politica, e quella delle alleanze. E in prima persona, lo stesso segretario. È uno Stefano Ceccanti trionfale quello che posta su Twitter: “Foto di Vasto? Requiem aeternam dona eis, Domine”. Sono i veltroniani a farsi sentire più degli altri. E nella più tipica filosofia del “ma anche” sembrano dimenticare che lo stesso Veltroni abbia sostenuto in prima persona la candidatura della Borsellino. A Giorgio Tonini è affidata l’interpretazione (un voto non contro Rita Borsellino, ma un’ipotesi politica, l’Unione di Vasto) e la richiesta ufficiale (“qual è la proposta di governo del Pd? Forse è arrivato il momento di parlarne: per esempio convocando la Direzione”). Una direzione con all’ordine del giorno il partito nel suo complesso. Siamo al tentativo di commissariamento di Bersani, o poco ci manca. “ Serve una gestione del partito nella quale viva davvero la collegialità, senza sindromi da fortino assediato”. Parola di Walter Verini. Ha un bel dire Matteo Orfini che “è indecente che si cerchi di strumentalizzare i risultati delle primarie diPalermo per vicende nazionali”.
IL FRONTE è più largo di così. Per Enrico Letta, ovvero ufficialmente il vice di Bersani, “l’alleanza con Sel e Idv fa parte del passato”. E più tardi rincara la dose: “Al tempo giusto le alleanze nella politica di domani non potranno non farsi sui sì e sui no alle varie politiche di governo oggi”. Reazioni e dichiarazioni che assomigliano a una resa dei conti molto più di quanto non sia accaduto finora, in un partito abituato a cuocere a fuoco lento i suoi leader, a smontarli un pezzetto dopo l’altro. E così, l’espressione di Bersani è quanto di più esplicito ci possa essere: “Non capisco cosa ci possa entrare la foto di Vasto con Palermo”, prova a ribattere. Poi, per la prima volta parla di problemi politici: “Le primarie sono un meccanismo che favorisce il rapporto diretto con i cittadini, sono una risorsa ma non risolvono mai i problemi politici, semmai ne sono un moltiplicatore”. E dunque “la vera correzione sarà di mettere la politica prima delle primarie”. E mentre dice no alle “rese dei conti”, fa la dichiarazione di prammatica: “Sosterremo il candidato che uscirà vincitore”. Ironia della sorte, accanto a lui c’è Casini. Dal segretario nessun richiamo alla “responsabilità” o agli “interessi della ditta”, questa volta. Nessun tono pacificatore o sdrammatizzante. Quello di ieri è un Bersani che si sente all’angolo. A poco gli serve in questo clima ricordare che i candidati del Pd hanno vinto 18 primarie su 23. Giuseppe Lumia, per ora da solo, ha anche parlato di chiedere le sue dimissioni, dopo aver consultato la base. A questo punto il segretario aspetta le amministrative, sperando di poter rivendicare un loro risultato positivo. Intanto però la direzione ci sarà e sarà a fine marzo. Certo essersi sentito replicare al Tg 3 ancora da Letta, non promette bene: “Le primarie di Palermo sono state un successo di partecipazione che dimostra che le primarie vanno rilanciate”. E la sconfitta di Rita Borsellino è stata dovuta al fatto che si era calata “nello schema politico” legato alla foto di Vasto. Bilancia la Bindi: “È evidente che sommando i voti di Rita Borsellino e di Faraone, entrambi sulla posizione di non collaborazione con Lombardo, avremmo ottenuto un risultato diverso”. E De Magistris e Parisi, da prospettive diverse, invitano a ripensare le primarie. Una difesa che la dice lunga arriva da Angelono Alfano: “Non credo che Bersani debba dimettersi”. Matteo Renzi, che ancora una volta ha presentato il suo rottamatore, Faraone sulle questioni nazionali non dice una parola.

La Stampa 6.3.12
Primarie, caos Pd, la terza repubblica nasce zoppa
di Marcello Sorgi


Alle primarie di Genova in cui le due candidate del suo partito erano uscite battute da quello di Vendola, Pierluigi Bersani aveva reagito proponendo che il Pd negli appuntamenti successivi si presentasse con un solo candidato, e non più con diversi, per evitare di disperdere voti e concentrare nella competizione tutta la propria forza. Non si capisce quindi cosa lo abbia convinto ad affrontare poco dopo quelle di Palermo con tre candidati, andando incontro in poche settimane a una ben più grave seconda sconfitta. Inutile cercare scuse, o dire che c’erano già impegni presi; proprio facendo tesoro di Genova, c’era sicuramente modo di rivederli. La verità è che anche stavolta Bersani non era in grado di imporre la sua opinione a un partito recalcitrante e diviso.
Le primarie infatti costituiscono ovunque una grande prova di democrazia e di apertura alla società. Ma non sono uguali dappertutto. In America, tanto per fare l’esempio più importante, sono primarie di partito. Se Obama, Hillary Clinton e Edwards nel 2008 avessero aperto a tutto il mondo della sinistra americana, il leader dei consumatori Ralph Nader avrebbe avuto la possibilità di giocare la sua partita, e perfino di vincerla: ma non è accaduto. Le primarie aperte, o di coalizione, o all’italiana, sono certamente più seducenti: votano i cittadini e non solo gli iscritti, tutti possono candidarsi, ma il risultato diventa imprevedibile, proprio com’è accaduto a Palermo e a Genova, e prima ancora a Milano, Napoli e Cagliari nel 2011. In tutti questi casi Bersani è sembrato uno che puntava un numero alla roulette, affidandosi alla sorte.
Se è andata così, tuttavia, la ragione è politica, perché il Pd non ha ancora deciso con chi governare, se in futuro gli si ripresenterà l’occasione ed evita finché può di fare una scelta. Alle ultime elezioni politiche del 2008 (ma allora era Veltroni a decidere) scelse come alleati Di Pietro e Pannella, lasciando fuori Vendola e gli altri partitini della sinistra radicale. Da novembre dell’anno scorso sostiene Monti in Parlamento insieme con Terzo polo e Pdl, ma mentre corteggia Casini, rifiuta, ricambiato, l’idea di un’alleanza politica con Berlusconi e Alfano. Intanto anche Di Pietro, dopo Vendola, è finito all’opposizione.
A questo punto, l’idea di tenere tutto insieme, da Casini a Vendola, non sta in piedi. Di accettare già adesso (dopo non si sa) la prospettiva di prolungare l’esperienza del governo a larga maggioranza, per Bersani non se ne parla. Ma neppure di sbilanciarsi sulla coalizione con cui puntare alla guida del Paese. Figurarsi, in questa situazione, come andrebbero a finire le eventuali primarie per il candidato premier del centrosinistra, seppure qualche mese fa il leader del Pd, almeno nei sondaggi, era indicato come possibile vincitore.
Da più parti si continua a sostenere che simili interrogativi tra poco non avranno più ragion d’essere perché la Seconda Repubblica e l’epoca bipolare in cui erano i cittadini a scegliere i governi nelle urne sta per finire. La Grande Riforma tante volte annunciata - e sulla quale però Pd, Pdl e Terzo polo avrebbero ormai raggiunto l’accordo - porterebbe un ritorno al sistema elettorale proporzionale. Nel nuovo (vecchio) assetto che si prepara, i partiti dovrebbero correre nuovamente ciascuno per conto suo, senza più dichiarare preventivamente le alleanze, e solo successivamente trattare in Parlamento per il governo. I governi, verrebbe da dire, pensando a quanti si facevano e disfacevano con tal metodo ai tempi della Prima Repubblica.
Ma anche ammesso che sia questa la prospettiva, per tornare alla partitocrazia servirebbero partiti un po’ meglio in arnese. La vicenda del Pd in questo senso è simbolica, non solo dell’epilogo a cui è giunta in breve tempo la parabola della fusione delle due maggiori forze del centrosinistra, ma più in generale della crisi della forma partito nella democrazia italiana. Nato nel 2007 da una spinta convergente, del personale politico ex democristiano ed ex comunista in periferia, e degli ex giovani leader al centro, il partito è stato divorato dagli appetiti e dalle spartizioni locali, al punto che in Sicilia non correvano tre candidati del Pd, ma tre avversari di tre sottospecie dello stesso: ectoplasmi, mutazioni genetiche, mostri assemblati contro natura con trapianti di pezzi diversi. Costruiti esclusivamente per combattersi e uniti soltanto nel rifiutare qualsiasi indicazione politica nazionale, oggi di Bersani come ieri di Veltroni. Tal che la prima dichiarazione del vincitore di Palermo, Fabrizio Ferrandelli, è stata: «Di qui comincia la liberazione! ».
Così la primavera di Genova e Palermo del Pd ricorda e in qualche modo ripercorre quella di Milano, Roma e Napoli del Pdl nel 2010, quando l’allora «partito del presidente», con Berlusconi al governo, grazie alle risse interne fu addirittura capace di non riuscire a presentare le liste nella capitale. Dove possa arrivare una Terza Repubblica che nasca su queste basi, è difficile dirlo. Ma bisognerebbe pensarci per tempo.

La Stampa 6.3.12
Nel partito c’è chi accusa “Pierluigi si è distratto dalla cura del territorio”
di Carlo Bertini


ROMA C’ è un aspetto, dietro il clamore delle polemiche sul caso Palermo, che agita più d’ogni altro il corpo pulsante della maggioranza di dirigenti piddì che sostengono Bersani e che nel 2009 lo fecero eleggere segretario. Un aspetto poco dibattuto, ma piuttosto sentito al centro e nei cosiddetti territori, che forse nasconde qualcosa di più di una tiratina d’orecchie sulla gestione del partito. A darne un’idea sono le battute ricorrenti di esponenti ascrivibili all’area bersanian-dalemiana. Che in camera caritatis vanno dicendo che «se Bersani ha vinto il congresso due anni fa è perché aveva promesso di costruire un partito solido e organizzato a dovere dopo l’esperienza del partito liquido veltroniano. E tutti questi guai in periferia se non altro dimostrano che il segretario si è distratto da quella che era la sua mission principale». Se poi si prova a capire quale appunto venga fatto al leader, insomma cosa lo abbia distratto dal puntare i riflettori sul partito, ci si sente rispondere che forse troppe energie vengono spese per tenere a bada alleati e consolidare la futura premiership e troppo poche nella gestione della «ditta».
Concetti riecheggiati ieri nei conciliaboli sulle ferite del caso Palermo (l’ultimo della serie dopo Milano, Napoli, Cagliari e Genova) tra membri della stessa maggioranza che sostiene il segretario. I quali ricordano che Bersani fu eletto con lo slogan «ho tante idee buone per il partito» e che ora sarebbe il momento di tirarle fuori. E va da sé che per il resto la linea dei bersanian-dalemiani, divisi su vari fronti ma finora uniti sui capisaldi, è di fare quadrato. Bollando come strumentali le polemiche dei veltroniani che sul nodo delle alleanze chiedono si pronunci la Direzione, convocata per fine mese: perché il segretario si è rafforzato con l’operazione che ha portato al governo Monti e nessuno vuole un congresso prima delle politiche. Ma sulla gestione, dicono, «uno che ha il suo mantra nel tenere l’orecchio a terra per sentire gli umori del Paese, da Genova a Palermo l’orecchio sugli umori del partito non lo ha drizzato un granché».
E Bersani, più di essere irritato per la richiesta di dimissioni che gli arriva da Lumia, o per sentirsi difeso da Angelino Alfano («non ci si dimette per delle primarie»); più di respingere gli inviti a mandare in soffitta l’alleanza con Vendola e Di Pietro, fa capire di aver ben chiaro il punto della questione. Evoca lo slogan di Mao sulla «rivoluzione che non è un pranzo di gala», per sgridare chi a livello locale nel suo partito usa male le primarie: «Che non sono mai pranzi di gala, ma non possono essere usate per una resa dei conti». A Roma il barometro segna tempesta, il suo vice Enrico Letta, dopo la prima uscita su Sky alle nove di mattina, la sera al Tg3 ripete che «dopo il governo Monti nulla sarà più come prima, quindi anche la foto di Vasto è da mettere da parte». Bersani liquida il tema delle alleanze per il 2013 come improprio, perché «ora non c’entra nulla». E difende le primarie che «non vanno buttate via. Su 23 primarie nei capoluoghi 18 volte ha vinto un esponente del Pd ma se le fai di coalizione non sempre vinci. Le primarie servono per far crescere la partecipazione e per battere la destra alle “secondarie”, cioè alle urne, ma non risolvono mai i problemi politici, anzi ne possono diventare un moltiplicatore. Quindi la politica deve intervenire prima, ma se la gente le vuole bisogna farle, ma magari farle meglio».

Corriere della Sera 6.3.12
Un partito esposto a scalate ostili al gruppo dirigente
di Massimo Franco


L'esito di Palermo conferma una tesi che pochi ammettono apertamente: attraverso le primarie, il Pd diventa «scalabile» da cordate ostili al gruppo dirigente nazionale. Di fronte a più candidati dello stesso partito, e alla possibilità di inserirne altri di formazioni alleate, la votazione può sempre riservare sorprese; e diventare il terreno ideale per una resa dei conti fra nomenklature locali, o contro la leadership di Pier Luigi Bersani. Eppure, benché non le ami il segretario del Pd non sembra intenzionato a rinunciarci. Meglio il calvario di una competizione interna che un'indicazione di vertice tale da impedire la partecipazione. Semmai, il problema è di limitare la guerra fra esponenti del Pd.
La prudenza di Bersani ha una spiegazione rintracciabile nei rapporti interni al centrosinistra, e un'altra nella fase che l'Italia sta attraversando. La prima rimanda al mito delle primarie come luogo nel quale negli ultimi anni sono state «benedette» dai militanti le scelte dei gruppi dirigenti: da Romano Prodi in poi. In più, optando per una competizione allargata a Idv, Rifondazione o Sel, il partito di Bersani mostra un insieme di ingenuità e furbizia: alcuni dei candidati «degli altri» si sono infatti rivelati vincenti. Ultimo aspetto: un «no» alle primarie lacererebbe un Pd nel quale gli avversari del segretario non si rassegnano alla sua guida.
La seconda spiegazione che spinge per non cambiare sistema è l'offensiva in atto contro la politica e i partiti. Quando Bersani spiega che le primarie «sono un meccanismo per favorire il rapporto con i cittadini», sembra dire esattamente questo. Nel marasma che delegittima le forze politiche, la mobilitazione di migliaia di persone, per quanto confusa e incontrollabile, è un segno di vita o comunque di sopravvivenza del Pd. Per paradosso, proprio la sconfitta dei potenziali sindaci indicati dall'«alto» può diventare la certificazione di una gara vera; e magari anche vincente, come hanno dimostrato i casi di Milano e di Napoli. Per il resto, ricorda Bersani, il Pd ha vinto «18 primarie su 23».
Sono parole pronunciate per difenderle; indicarne le incognite; e rintuzzare le critiche. Il segretario sa bene che quanto è successo viene usato contro di lui da alcuni settori del Pd. Si è intuito nettamente fra domenica e ieri, quando le notizie da Palermo sulla sconfitta di Rita Borsellino, indicata da lui, Antonio Di Pietro e Nichi Vendola hanno rimesso in agitazione il partito. Il risultato è stato letto strumentalmente e in modo diverso a seconda di chi lo analizzava. Così, per alcuni è diventato la tomba dell'«alleanza di Vasto», la cittadina abruzzese dove nel 2011 sembrò decollare un patto con quanto si muove a sinistra del Pd. Per altri deve spingere verso l'Udc.
Il segnale riflette problemi locali e nazionali: entrambi irrisolti. E per il modo in cui sono regolate oggi, le primarie finiscono per enfatizzarli entrambi. Ritenerle intoccabili si sta rivelando suicida. Per questo i vertici del Pd cercano di spiegare che funzionano male perché esistono problemi politici. Se correzioni vanno fatte, dice Bersani, è «per mettere la politica prima delle primarie». Che cosa significhi non è chiaro. L'ipotesi è di limitare al massimo la competizione fra esponenti del Pd. Ma bisogna vedere se basterà. Il fatto che i gruppi dirigenti non appoggino una sola candidatura riflette, di nuovo, divergenze politiche. E l'«era Monti» accelera la scomposizione dei due schieramenti.

il Riformista 6.3.12
Attenzione Palermo non è Genova
di Emanuele Macaluso


A proposito delle primarie e il Pd, non si confonda quel che è successo a Milano o a Genova con quel che abbiamo visto prima a Napoli e ora a Palermo. La lotta politica nel Sud ha sempre avuto, e ha ancora, caratteri propri, dovuti alla sua storia, ai processi economici in cui si manifesta, ancora e più di prima, una disgregazione sociale, alla attiva presenza nell’agone elettorale di fenomeni antichi e nuovi di trasformismo resi più pesanti che altrove per l’attivismo politico della mafia e della camorra. Non è un caso che a Napoli, dopo le primarie Pd, il candidato che vinse la competizione fu accusato, dall’altro candidato Pd, di avere cercato e ottenuto il sostegno della camorra. Vera o falsa l’accusa, lo scontro si risolse con l’annullamento delle primarie e l’arrivo di un giustiziere eletto sindaco a furor di popolo. Uno scenario da scuola.
A Palermo, le primarie di coalizione vedevano l’on. Rita Borsellino, parlamentare europea, appoggiata da Sel a cui fa riferimento, dall’Idv e dal Pd con un bollo messo dal segretario nazionale. L’ex sindaco di Palermo, Leoluca Orlando (Idv), che si era per l’ennesima volta ricandidato, ha rinunciato, ma ha preteso dal Pd che il suo ex segretario, ora senatore, fosse indicato come futuro vicesindaco. Rita Borsellino, dicono nel Pd, esprimeva il cartello di Vasto. Il giovane capogruppo dell’Idv, Fabrizio Ferrandelli, protesta contro Orlando e si è dimesso dal suo partito per candidarsi contro di esso. E ha guadagnato il sostegno di due esponenti di primo piano del Pd, il senatore Lumia, ex presidente dell’antimafia, e l’on. Cracolici capogruppo Pd all’Assemblea regionale: entrambi guidano l’ala del Pd che ha sostenuto il presidente della Regione, Lombardo. Questo gruppo, per le prossime elezioni a Palermo, proponeva un accordo Pd-Centro. Ma il Centro (con Lombardo) ha scelto un suo candidato, un giovane impegnato nelle organizzazioni sportive che dichiara di essere «lontano dalla politica» (ma si candida).
La destra berlusconiana, guidata da Alfano, ha un suo candidato, senza Gianfranco Miccichè che sta col Centro. Il capogruppo Pd al comune, Davide Faraone, unico iscritto a quel partito, era sostenuto dal rottamatore fiorentino Renzi e la sua campagna elettorale era guidata da un manager della comunicazione tv, Giorgio Gori.
Così vanno le cose nella “moderna politica”, isolana e nazionale. Ho ridisegnato un quadretto, già disegnato dai giornali, per dare senso ad alcune considerazioni che mi preme fare sul Pd e il Sud.
Nel dopoguerra, il volto politico del Mezzogiorno cambiò perché si organizzarono i grandi partiti nazionali e i sindacati, con valori e ideali e con una organizzazione che, anche col centralismo democratico del Pci, consentiva un’attiva partecipazione delle masse popolari alla vita politica. In quegli anni nel Sud i partiti furono momenti di aggregazione rispetto ai processi di disgregazione sociale, accentuati dalla guerra. Oggi non ci sono più partiti, né a destra né a sinistra né al centro. Ci sono aggregati politico-elettorali, incentrati su una persona o su gruppi di potere, o su un “insieme” di forze, gruppi e persone senza una base politica-culturale comune, come il Pd. Questi partiti-non partiti, nel Sud, agiscono come fattori agevolanti dei processi di disgregazione e di corruzione sociale e politica. Cioè, sono fattori che assolvono un ruolo rovesciato rispetto al passato. Quando al mio amico e compagno Alfredo Reichlin dico che tra il Pd da lui disegnato e quello reale c’è un abisso, mi riferisco a questa realtà. Cosa saranno le elezioni amministrative a Palermo, con una destra che vorrebbe continuare a governare distruggendo quel poco che c’è di coesione sociale e vita amministrativa, col Centro che ha messo insieme gruppi di potere in carica o in attesa di esserlo, con un centrosinistra che non ha un minimo di identità e riferimenti a ciò che può definirsi sinistra o centrosinistra?
La mia non è disperazione politica, ma la constatazione che forse abbiamo toccato il fondo. E forse, proprio per questo, è possibile che soprattutto nelle nuove generazioni maturi il convincimento che sia necessario e possibile risalire la china. Sarà così? Lo spero, vedremo.

Repubblica 6.3.12
Il peccato originale
di Giancarlo Bosetti


Il candidato del Pd va sotto anche a Palermo. Se recidivo è chi ripete un comportamento indesiderabile, avendone già sperimentato le conseguenze negative, come accade ai tossicodipendenti dopo il trattamento o ai ladri dopo un soggiorno in carcere, tra il Pd e le primarie di coalizione c´è di sicuro forte recidività. La serie delle débâcle è impressionante: dopo la Puglia, Napoli, Cagliari e Milano è poi accaduto di nuovo a Genova. I candidati designati dal Partito democratico o accreditati come favoriti sono stati sconfitti da outsider, più a sinistra, più a destra, più al centro.
In una parola, "diversi" da quelli raccomandati dalla casa madre. Doveva bastare già la lezione del primo ciclo, maggio 2011: quello di Milano era come un test di laboratorio, fuori Boeri, Pd, vince Pisapia, Sel. E invece a Genova il Pd ripete rigorosamente lo schema perdente: spinge Pinotti, Pd, contro il sindaco uscente Vincenzi, Pd, e vince Doria, Sel; era solo il mese scorso. E adesso Palermo: la candidata del Pd, Borsellino, questa volta appoggiata anche da Vendola e Di Pietro, è superata da Ferrandino, della minoranza centrista pd, mentre va forte anche il terzo candidato, "renziano".
Le prime polemiche interne cercano la spiegazione nella geometria delle alleanze, ma sono diagnosi interessate e all´acqua di rose. E poi qui la categoria dell´"errore", politico, deve cedere il passo a quella della "malattia", recidiva: tutti questi casi in cui il Pd risulta sconfitto alle primarie di coalizione, non hanno in comune la coloritura politica, ma sempre e soltanto il fatto che il partito di Bersani aveva un suo candidato, il che è – in essenza – un errore dal momento che il candidato sindaco del Pd alle elezioni dovrebbe essere, appunto, quello che si dimostra capace di vincere le primarie, dopo che le ha vinte, non prima. Non stupisce che gli elettori delle primarie mostrino, regolarmente, maggior gradimento per lo sfidante ardimentoso, che pare quasi avvantaggiato per il solo fatto di non essere il "fidanzato" di un matrimonio combinato.
Le primarie sono un´invenzione dei partiti americani e sono evidentemente espressione di una cultura della competizione politica come gara aperta tra candidati che si fanno avanti da sé per la carica di presidente degli Stati Uniti o per gli altri livelli della rappresentanza. Il Partito democratico li designa candidati al ruolo alla fine della gara delle primarie. Ovviamente è così: immaginate il presidente dei Democrats, figura peraltro minore (per la cronaca al momento è Debbie Wasserman Schutz, un deputato della Florida) che designa il suo favorito all´inizio delle primarie: una insensatezza. È vero che tra i notabili e tra gli altri concorrenti, che via via escono di scena, si apre la complessa partita a scacchi degli endorsements, degli appoggi legati a trattative sui futuri incarichi, ed è vero che il sistema americano è carico di vizi di altro genere, ma non si può certo dire che manchi della tensione di una vera lotta per la vittoria: chiedere informazioni in questi giorni ai repubblicani. Le primarie ideali, invece, per come le concepisce la segreteria del Pd, dovrebbero essere una corsa ad esito garantito. Il che corrisponde alla forma mentale, nel migliore dei casi, dell´ordinaria amministrazione di un patrimonio di elettori (che però non sono immobili come i terreni agricoli), e, nel peggiore, della tutela del "posto fisso" in politica (che scarseggia invece altrove). Per approfondimenti sui vizi "feudali" delle primarie, che fanno ormai letteratura, è a disposizione la solidissima politologia italiana: una citazione tra tante, Gianfranco Pasquino, che ha curato con Fulvio Venturino, Le primarie comunali in Italia (Il Mulino, 2009).
Se il sintomo si ripete, la malattia dunque c´è e consiste nel rifiuto di una competizione reale per il rinnovamento della classe dirigente, nei ruoli pubblici come nei ranghi di partito. Alla gara si sostituisce la designazione paternalistica da parte della segreteria. Non è una novità nel partito fondato da Walter Veltroni nel 2007. Ed è davvero difficile dimenticare che il peccato originale dell´attuale segretario, Pierluigi Bersani, da lui stesso riconosciuto, sia stato quello di «aver fatto una grandissima cavolata a non candidarsi per le primarie», allora, contro Veltroni, come fecero invece Rosy Bindi ed Enrico Letta. Una vera agguerrita lotta aperta per la guida del Pd avrebbe forse dato maggiore forza sia ai vincitori sia ai perdenti – come tanti esempi americani dimostrano –, avrebbe probabilmente spezzato quel clima di eterna "congiura" che continua ad accompagnare la vita interna del Pd e avrebbe comunque premiato la virtù del coraggio in battaglia sopra l´astuzia dello stare sulla scia del (presunto) vincente.

Repubblica 6.3.12
Pier Luigi si gioca la premiership "Cambi rotta o ci riporta al ‘94"
Sfida dei veltroniani: chiarimento in direzione
Franceschini fa da sponda al leader ma anche per lui i rapporti con Idv e Sel andranno rivisti
L´ex segretario evoca il ko del Pdl, Casini che fa il pieno di moderati e la disfatta del Pd
di Goffredo De Marchis


ROMA - Non sarà un congresso, non sarà un´assemblea generale, ma la conta nel Partito democratico sembra dietro l´angolo. Spinta dalle forze interne e dai fattori esterni. A cominciare dal prossimo, forse il più importante, ossia la riforma del mercato del lavoro attesa a giorni. C´è il problema del Pd che perde tante troppe primarie nelle città italiane, spesso a sinistra ma stavolta, a Palermo, alla sua destra con un candidato che sbaraglia la foto di Vasto. E c´è il problema, che va oltre le questioni locali, di un Partito democratico che non ha ancora definito il suo profilo. Di se stesso e delle sue alleanze. «Per semplificare, questo è il possibile film - spiega e rispiega i suoi interlocutori Walter Veltroni -. Dopo le amministrative, se i sondaggi sono attendibili, il Pdl esplode e il giorno dopo Casini mette in campo il suo partito della nazione per attirare tutti i moderati. Se gli lasciamo troppo spazio rischiamo di essere risucchiati nello schema del ‘94, nei progressisti». Vale a dire: sconfitta rovinosa e anno zero per la sinistra italiana.
Pier Luigi Bersani si sente assediato da chi gli imputa ritardi e lentezze nel prendere le distanze da Idv e Sel, da Di Pietro e Vendola. Tanto più che ora rappresentano l´opposizione al governo Monti che invece il Pd sostiene e rispetto al quale deve definire la sua identità. «Ma oggi stiamo parlando di amministrative. E noi con chi andiamo al voto locale? Con il centrosinistra. La partita nazionale è storia tutta diversa», ribatte il segretario molto adirato. Non ha torto. Una sponda la trova in Dario Franceschini. «Mi sembra una forzatura tirare in ballo la foto di Vasto. Ne parleremo, certamente. Ma non dipende da Palermo la nostra posizione sulle alleanze». La posizione del capogruppo alla Camera è obbligata anche dalla difesa d´ufficio per il segretario regionale Giuseppe Lupo, suo uomo, paziente tessitore di un´intesa che doveva proteggere il Pd a sinistra ma ha lasciato scoperto l´altro lato. Ma Franceschini pensa, come altri, che arriverà il momento della resa dei conti con chi è a sinistra del Partito democratico. In fondo, la legge elettorale su cui Franceschini e il Pd lavorano in Parlamento serve proprio a evitare collegamenti elettorali scomodi.
A Bersani non ha fatto piacere ritrovare tra gli assedianti anche il suo vicino di banco, Enrico Letta, vicesegretario che chiede da tempo di dichiarare estinta la foto di Vasto. «Io e Pier Luigi siano sempre una coppia di fatto inossidabile. E non penso che dobbiamo scegliere adesso perché io non so cosa farà Casini - dice Letta - . Dobbiamo resettarci, però. Quello che accadrà dipende dalle scelte che tutti partiti faranno sui provvedimenti del governo Monti».
La saldatura di veltroniani, Letta, liberal e franceschiniani costringe Bersani a uscire dall´angolo della foto di Vasto. A indicare un percorso chiaro. Magari dopo le amministrative, ma gli eventi incombono come appunto la riforma Fornero. E arriveranno prima di quell´appuntamento. «L´alleanza con Idv e Sel rappresenta la vocazione minoritaria», sentenzia il veltroniano Stefano Ceccanti. Beppe Fioroni spiega quali sono i pericoli. «Il Pd deve creare un baricentro con il Terzo polo. Aperto agli altri, ma chiaramente riconoscibile. Un centro gravitazionale dove i satelliti sono gli altri e non noi». Ma qual è il punto vero? Che senza foto di Vasto sbiadiscono le chance che Bersani ha oggi di correre per Palazzo Chigi. Che il «centro di gravità» evocato da Fioroni presuppone altri volti, altri candidati. Le «facce nuove» di cui ha parlato ieri Letta a proposito delle primarie. In sostanza, nel quadro mutato dal governo Monti il segretario del Pd sarebbe costretto a un passo di lato.
La richiesta di una conta è esplicita nelle parole di Tonini. «Serve una riunione della direzione». Ma anche nei commenti di altri. Veltroni fa notare da giorni che ad eccezione dell´assemblea nazionale, il Pd rinvia il punto sul cambiamento epocale del governo Monti. «È un partito che non si riunisce più», osserva Fioroni. Quando lo farà dovrà anche prendere di petto le primarie che non sa vincere. Franceschini contesta il meccanismo di voti «improvvisati. Dobbiamo trovare un altro sistema». Se si fanno di coalizione, ci «vorrebbe un doppio turno. Altrimenti si fanno di partito e sono una cosa diversa», dice il capogruppo Pd. Ma nello schema che punta di fatto alla conferma di Monti, cullato da Veltroni, Letta, Fioroni e Franceschini, le primarie diventano un tema quasi irrilevante. Perché non ci saranno.

l’Unità 6.3.12
Una nuova generazione
di Alfredo Reichlin


Come è naturale che sia, le primarie riservano sorprese. Ma sbaglia sia chi non le accetta e sia chi le usa per mettere in crisi il Partito democratico. Cos’è il Pd? Io penso che sia ancora un partito in formazione che si sforza (o dovrebbe sforzarsi) di collocarsi su un terreno nuovo e più avanzato rispetto a vecchi giochi.
Che cosa voglio dire? Voglio dire che a parte il fatto che delle 122 elezioni svoltesi dal 2008 al 2011 novantasei sono state vinte dal candidato ufficiale del Pd a me sembra che i Pisapia, i Doria e gli Zedda (non conosco il palermitano Fabrizio Ferrandelli) siano la conferma del tipo di classe dirigente nuova che questo partito deve avere. Il fatto vero è che stanno scomparendo i vecchi nomi e i vecchi schieramenti. Sbaglierò, ma questo è il punto su cui riflettere.
Come può procedere la costruzione del Pd senza l’avvento di una nuova classe dirigente? La quale oggi non può che partire dalla consapevolezza che nel mondo reale stanno avvenendo cose che toccano come mai il destino dei popoli e insieme la nuda vita delle persone. Per cui le parole (e anche certe facce) non corrispondono più alle cose. Il solo modo che io ho per partecipare ai travagli del Partito democratico è dare una mano a chi sia disposto a impegnarsi in una simile impresa. Se questo qualcuno esiste, faccia quello che crede ma sappia qual’è il suo banco di prova. La condizione preliminare è avere in sé il senso della grandezza del problema che in questo aspro passaggio storico chiama un partito come il Pd a farsi protagonista e al tempo stesso sfida la sua anima più profonda (se essa esiste).
Una difficile sfida perché la democrazia politica non ha futuro se non si misura con i problemi di qualcosa che non è una crisi congiunturale dell’economia ma un drammatico vuoto di governabilità del mondo (siamo al punto che nelle prossime settimane può perfino scoppiare un’altra guerra nel Medio Oriente) creato dal fallimento dell’ordine politico-economico che ci ha governato negli ultimi decenni. Con le conseguenze che vediamo. Una alluvione di economia di carta e un enorme «casinò» finanziario (senza alcuna regolazione politica) che si sta mangiando l’economia reale. E con il seguito di abissali ingiustizie che ci gridano in faccia e che stanno distruggendo i legami sociali, alimentando la violenza. Leggo l’ennesimo attacco ai partiti sul Corriere della Sera firmato questa volta da Michele Salvati. Il professore non ha visto nulla di tutto questo. Se la prende con i partiti ridotti come sono stati ridotti dalla potenza di ben altri poteri. È uno spettacolo triste.
Per fortuna io avverto un nuovo fermento soprattutto nelle leve intellettuali più giovani. Noto un proliferare di scritti, incontri, dibattiti e perfino un certo disprezzo per le vecchie idee di quelli che Keynes chiamava gli «economisti defunti», i quali ancora gravano «come un incubo» sulle nostre menti. Io di ciò sono molto contento. Vorrei però richiamare l’attenzione dei giovani amici sul fatto che il problema non è solo culturale. La sfida vera è come questo risveglio si traduce in una grande idea politica. In una nuova proposta per l’Italia. E soprattutto come si incarna in una forza a vocazione maggioritaria. Direi di fare molta attenzione. La traduzione politica di questo fermento non può ridursi alla formazione di una corrente più radicale. Deve tendere a dare un fondamento più largo a un partito il cui profilo deve più che mai restare democratico e popolare. Il Pd dovrebbe essere sempre meno elettoralistico ed elitario ma più inclusivo, andando oltre i vecchi confini della sinistra, più partito della nazione e protagonista al tempo stesso della politica europea. Insomma non più a sinistra o più a destra ma più saldamente collocato là dove è il centro del conflitto, il quale non è solo nazionale. Quale grande riforma e nuovo patto sociale può governare l’Europa dopo il fallimento dell’attuale oligarchia finanziaria? Questo è il vero interrogativo che dovrebbero porsi anche i professori.
So anch’io che la politica è concretezza e capacità di gestire l’esistente. Ma la verità è che la politica non può ridursi né a un sottoprodotto dell’economia né al populismo di un miliardario che l’ha usata come maschera del suo potere personale. Come non si capisce che la condizione perché l’Europa torni protagonista della scena mondiale e riacquisti la padronanza del suo destino è la restaurazione della sovranità delle istituzioni politiche? Non basta la Banca centrale. Il problema è la democrazia. E la democrazia lo si vede nella ferocia dell’attacco quotidiano al Pd non è «un pranzo di gala». Non è solo la libertà di voto ma la lotta per l’uguaglianza e per la dignità del lavoro. È lo strumento ecco il punto che tanto preoccupa senza il quale le classi subalterne non solo contano poco ma le grandi decisioni continua a prenderle solo l’oligarchia che poi in Italia è sempre quella.
Non si gioca con il Partito democratico. Piaccia o no, siamo un bisogno nazionale. E ciò per la semplice ragione che l’aver salvato l’Italia dalla bancarotta grazie anche al buon governo dei tecnici non cancella ma riporta all’ordine del giorno il problema irrisolto che sta alla base di ogni ipotesi di sviluppo della nazione. Questa condizione è la riorganizzazione delle risorse umane e creative creando un rapporto meno belluino e più cooperativo tra economia, società e Stato. Tra l’antica sapienza del multiforme lavoro italiano e lo sviluppo del Paese. Del resto su che cosa si fonda la attuale prosperità della Germania se non su due grandissime decisioni prese dalla politica e non dai mercati? La prima è stata l’unificazione in pochi anni di una regione come l’Est grande come il nostro Mezzogiorno il quale invece resta da 150 anni una piaga purulenta. La seconda è la più o meno tacita intesa per un grande patto sociale tra operai e industriali che è alla base della eccellenza produttiva della Germania. Cose addirittura impensabili per la classe dirigente italiana.
Tra poco più di un anno si vota. Il Pd cosa dice agli elettori? Si divide tra chi è per Monti e chi è contro? Eviterei questo suicidio. Alzerei invece di molto la voce per dire che siamo di fronte al riproporsi, sia pure in forme molto diverse, di quel dilemma drammatico che si presentò al mondo negli anni ’30 del secolo scorso, quando la grande crisi del ’29 conseguente anche allora dalla rottura di un ordine politico-economico mondiale impose una grande scelta. Da un lato alcuni Paesi avviarono un nuovo tipo di sviluppo basato su un compromesso sociale democratico (le socialdemocrazie classiche ma anche Roosevelt e il new deal). Dall’altro lato ci fu l’avvento in altri Paesi di regimi di massa autoritari. Oggi non siamo a questo. C’è però qualcosa che richiama alla mente quel famoso giudizio di Gramsci su un altro momento torbido della storia d’Italia, quello in cui «il vecchio non può più ma il nuovo non può ancora».
Ecco perché mi interessa tanto l’avvento nel Pd di una nuova generazione. Guardiamo avanti. I risultati delle primarie si accettano. Non serve a nessuno una rissa a Palermo sul tipo di quella che ci fu a Napoli.

l’Unità 6.3.12
Pd tra Fiom e dottrina sociale della Chiesa
di Andrea Barducci


Nel Pd è iniziato un interessante dibattito sul dopo Monti in cui si è inserito l’articolo su l’Unità di Antonello Giacomelli “Né con Monti, né con la socialdemocrazia” che merita un approfondimento. Prima di tutto bisogna ricordarsi che la più grande crisi economica del dopoguerra non è altro che la diretta conseguenza di un liberismo sfrenato che ha permesso la follia di una finanza internazionale senza regole e senza controlli. Di fronte all’incapacità di reazione del governo Berlusconi, il Pd ha quindi scelto di sostenere Monti e il governo dei professori per uscire dall’emergenza. Per sopravvivere ad un attacco militare ci si affida ai generali.
Per resistere ad un attacco di tipo finanziario (spread alle stelle) ci si è affidati, obtorto collo, a chi conosce bene gli aspetti più nascosti di questa materia. Monti per salvare il Paese ha avviato una sorta di cura omeopatica: ne è un esempio l’enorme prestito della Bce alle nostre banche, che grazie a questo espediente possono comprarsi, guadagnandoci anche, il nostro debito e quindi abbassare lo spread. Se Monti è solo un “male necessario” si può pensare di andare avanti così all’infinito? Certo che no. Quasi tutti sono d’accordo su questo. Ma quando si comincia ad immaginare il futuro, le opinioni sono variegate. Giacomelli, ad esempio, indica la dottrina sociale della Chiesa come il vero riferimento per la politica del centrosinistra. Su questo te. Giacomelli, ad esempio, indica la dottrina sociale della Chiesa come il vero riferimento per la politica del centrosinistra. Su questo punto bisogna evitare un equivoco. Giovanni Paolo II metteva in guardia dal considerare la dottrina sociale della Chiesa «che appartiene al campo della teologia e non della ideologia» come «una terza via tra capitalismo liberista e collettivismo marxista e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte».
È chiaro quindi che il centrosinistra non può avere come bussola esclusiva la dottrina sociale della Chiesa. Altra cosa è se Giacomelli intendeva il suo riferimento alla dottrina come un semplice spunto di riflessione sia per i credenti che per i laici. Il Pd è nato proprio per unire, in nome della solidarietà, il meglio della cultura cattolica e laico socialista. Proprio per il rispetto delle diverse sensibilità che anima i Democratici, Giacomelli dovrà anche sforzarsi di mostrare comprensione per la decisione presa da Stefano Fassina di aderire alla manifestazione della Fiom.
La sua non è altro che una personale espressione di disagio nei confronti del governo Monti, non dissimile da quella che lo stesso Giacomelli manifesta quando scrive: «Le politiche di questo governo non sono identificabili con il progetto riformista che noi sosteniamo». Frase che non ho difficoltà a condividere, proprio perché io credo ancora nel sistema di protezione sociale ispirato ai valori della socialdemocrazia.

l’Unità 6.3.12
Date al Cielo quello che è del Cielo
di Romano Màdera,
analista junghiano

Lo sterminato progetto di rilettura della Bibbia di Carlo Enzo, approdato al quarto volume, può offrire uno spunto per affrontare in modo
diverso e pacato la discussione su verità scientifiche e verità di fede

Un libro davvero nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità». Questa caustica citazione di Vauvenargues, ripresa da Pierre Hadot per alludere al suo tentativo di tornare alle fonti della filosofia greca come maniera di vivere, è perfetta per lo sterminato commento del Vangelo secondo Matteo che Carlo Enzo sta pubblicando in questi anni. Ne sono usciti, dal 2010, quattro volumi, uno dedicato al «Progetto di uomo e di mondo delle generazioni di Israele in Genesi 1-4», che riprende Adamo dove sei? uscito per Il Saggiatore nel 2002, e altri tre dedicati a La generazione di Gesù Cristo, rispettivamente Gli Inizi della generazione, La Legge della generazione, La Regola dell’apostolo della generazione. A breve usciranno altri quattro volumi, tutti per Mimesis.
CON OCCHI E ORECCHIE
Una lettura davvero sorprendente: leggere con occhi e orecchie tutte diverse un libro arcinoto, scovare, fra le centinaia di commenti ai Vangeli, qualcosa che si discosta da tutto quello che siamo abituati ad aspettarci da una esegesi, anche da quelle più «nuove» o «rivoluzionarie». Ma sorprendente è anche l’assenza totale di reazioni, sia da parte del mondo ecclesiale, sia da parte della cosiddetta «cultura laica» (forse perché in Italia vige un doppio clericalismo, basato sul tacito accordo secondo il quale i «laici» dissentono, magari duramente dalla Chiesa, ma ne accettano l’interpretazione della Scrittura?).
Carlo Enzo segue il metodo più tradizionale possibile, quello ebraico del midrash. Ogni passo, ogni parola viene minuziosamente indagata attraverso le sue ricorrenze, sempre nel contesto dei libri che formano la Bibbia. Dunque nessuna lettura dall’esterno, condotta a partire da teologie o da filosofie, da teorie semiologiche o narratologiche contemporanee. Leggere i Vangeli con la Bibbia, tutto l’opposto di ogni tentativo di demitizzazione, scaltrito dalle nostre conoscenze storico-critiche. Eppure Carlo Enzo è uno dei pochi autori italiani che si siano cimentati seriamente con Bultmann, il grande teologo al quale si deve una interpretazione del cristianesimo fuori dal mito, compreso invece secondo categorie filosofiche vicine all’heideggerismo. L’approccio al testo non si appoggia sulla critica letteraria né sulle scienze umane, certo è filologia, ma filologia biblica, mostra cioè che questo testo è scritto in un linguaggio particolare, secondo un suo codice di rimandi e di significati interni. Potremmo dire, prendendo alla lettera il termine nel suo significato etimologico: è un geroglifico, sono «lettere sacre incise». Uno dei pochi moderni citati è Galileo Galilei: l’insegnamento contenuto nel Libro Sacro si riferisce a «come si vadia al cielo, non come vadia il cielo», così scriveva Galileo a Cristina di Lorena.
Di qui lo smontaggio di ogni valenza cosmologica o naturalistica, che riguardi il mondo fisico o l’uomo come specie. La Bibbia non parla di questo, non è questo lo scopo del suo racconto, del suo «mito», essa ha di mira un modo di vivere, frutto di una lunga e travagliata esistenza storica, che deve protendersi in un progetto di uomo e di mondo da costruire interrogando questa stessa esperienza. Non si parla dunque di «uomo» o di «donna», di «terra» o di «cielo», di «animali». Il mio mito, dice Carlo Enzo-Matteo, in una lettera al suo interlocutore romano Cornelio, introduttoria a tutto l’Evangelo, «è progetto del proposito di Ihwh (il tetragramma impronunciabile del Nome di Dio), “sarò”, Dio di Israele e ideale della sua buona coscienza, di elaborare un “mondo” e un “uomo” che siano una eReTs (tradotto troppo semplicisticamente “terra” nelle versioni comuni), una nazione coltivata e salgano fino ai Cieli e diventino stelle, siano cioè luce per i “mondi” e gli “uomini” che stanno nel S_aDeH, nelle nazioni non coltivate, o nel “mare”, nelle nazioni in cui gli uomini vivono impauriti dai loro tiranni e prigionieri di parole salate...».
LE PECORE DEL BUON PASTORE
Si capisce bene, allora, quali conseguenze abbiano spiegazioni del genere: per esempio, quando Gesù camminerà sulle acque non si tratterà di un prodigio per stupire con la potenza di supereroe o di un dio greco-romano, ma di un segno di chi sa attraversare senza timore il mare delle genti lontane dalla parola di vita che è il suo messaggio. Nessuno si sognerebbe di interpretare le «pecore» del Buon Pastore come vere e proprie pecore. Perché dunque questa regola non deve valere per tutto il testo evangelico? Se si seguisse la lettura di Carlo Enzo, scomparirebbero tutte le assurde discussioni su verità scientifiche e verità di fede, per la buona ragione che la Bibbia parla della creazione di un «mondo» etico-spirituale, di uno stile di vita, non di astronomia, così come sarebbero prive di fondamento biblico posizioni che volessero appellarsi alla «natura», in quanto creata da Dio, per dirimere questioni di bioetica. Dio non ha creato nessun mondo fisico, si tratta di un progetto per abitarlo diversamente, e non da parte del genere umano, ma come storia del suo tipo umano, del suo Adamo. Così si giunge a capire il titolo dell’opera di una vita di questo vecchio sacerdote e professore (Carlo Enzo ha 84 anni ): «la generazione di Gesù Cristo». L’Evangelo non parla solo della missione del Maestro Gesù di Nazareth, generato da Maria e Giuseppe, ma di Gesù Cristo, che è generato da Gesù stesso e dalla sua Ecclesìa, dai discepoli che continuano il cammino del suo popolo, di Israele. Un mondo che è ancora nel suo farsi, un Gesù Cristo che è ancora in via di compimento. Riprendendo una parola dell’autore: la domanda fondamentale è se il messaggio evangelico può «ancora impegnare l’esistenza di un abitatore di questo pianeta» oppure se sia una delle tante visioni «che ha fatto il suo tempo, e fa parte ormai della storia delle dottrine sul mondo e sull’uomo».

l’Unità 6.3.12
Riforma del lavoro Camusso: senza accordo mobilitazione continua
Susanna Camusso incontra le Camere del lavoro e spiega la linea sulla riforma del lavoro. «Le priorità sono lotta alla precarietà e ammortizzatori per tutti i lavoratori». Senza accordo, sarà «mobilitazione continua».
di Massimo Franchi


«Una riforma è auspicabile, ma nessuno deve sottovalutare ciò che potremmo fare se non si verificasse». Davanti ai segretari delle Camere del Lavoro di tutt’Italia Susanna Camusso spiega e discute la linea Cgil sulla riforma del mercato del lavoro. La sfida di arrivare ad un accordo è di certo grande per il sindacato, ma viene considerata un’opportunità soprattutto per Monti e Fornero: «C’è una separazione profonda tra i giudizi sul governo e sui suoi provvedimenti, questa è una forbice da chiudere». Ribadite le priorità, lotta alla precarietà e ammortizzatori per tutti i lavoratori, e incassato un quasi unanime consenso, il segretario generale della Cgil non si sottrae all’argomento più scottante: e se la riforma, nella sua totalità, non fosse accettabile per la Cgil? «Non siamo al 1993 (l’accordo sulla politica dei redditi, Ndr), tutto è cambiato, ma dobbiamo tornare a parlare con i lavoratori, a descrivere un orizzonte». E poi parlando dell’argomento («usato strumentalmente» da Monti) di aver fatto un solo sciopero generale sulle pensioni, Susanna Camusso risponde senza parafrasi: «Può essere che abbiamo fatto poco, però tutto è accaduto in un tempo strettissimo e con la volontà del governo di rifiutare il confronto». Da qui parte l’analisi sulle forme di mobilitazione futura: «Da troppo tempo pensiamo che l’unica risposta è lo sciopero generale, ma se non sortisce effetti immediati è una fiammata isolata, in futuro dovremo cercare forme di mobilitazione continua stando più vicini ai lavoratori».
La Cgil invece chiede alla politica di «rimettere al centro il lavoro»: «Se si passa il tempo a parlare di articolo 18 e non della necessità di un cambiamento del Paese, le cose andranno male», attacca Camusso ricordando «il tentativo di aggredire le organizzazioni di rappresentanza per frammentare tutto».
Tornando alla trattativa, il segretario generale Cgil ha rilanciato la patrimoniale per finanziare i nuovi ammortizzatori, attaccando chi dà dei «garantiti ai cassintegrati e disoccupati». Il «grande fantasma» di tutta la trattativa è comunque la «crescita», «sempre nominata ma per la quale non c’è mai un provvedimento», mentre «la riforma del mercato del lavoro non va contrabbandata come tale perché non porterà un solo posto in più».
IL “TERRITORIO” APPREZZA
Dal palco il susseguirsi di interventi disegna una Cgil cosciente del passaggio cruciale. Da Vicenza a Reggio Calabria, da Perugia alla Sardegna, il “territorio” apprezza la giornata di confronto e di dialogo e chiede «fermezza» e «coraggio» nell’affrontare un tavolo che può «smuovere le acque» di un Paese «fermo» «non per colpa del sindacato».

l’Unità 6.3.12
Elezioni L’Osce denuncia manipolazioni nel voto, «chiaramente distorte a favore del premier»
L’opposizione in piazza chiede l’annullamento delle presidenziali. In manette anche il blogger Navalny
L’era di zar Putin III Arresti, brogli e lacrime di freddo
Pollice verso dall’Osce, il voto russo «distorto». L’opposizione denuncia i brogli in piazza, centinaia di arresti in una Mosca blindata. Intanto Putin «smentisce» le lacrime di commozione: «È stato il freddo».
di Marina Mastroluca


«Mosca non crede alle lacrime». Il film degli anni ‘80 viene preso in prestito per invitare alla protesta contro i brogli. L’inedita commozione di Putin sul palco della vittoria che qualche commentatore legge come il segno di una presidenza meno monolitica e più aperta non è moneta sonante per l’opposizione. Quel lucicchio sul volto di Putin per il resto impassibile, sembra tradire piuttosto la convinzione che davvero quello che è avvenuto in questi ultimi mesi non sia stato altro che un complotto, una macchinazione ordita dai nemici della Russia e finalmente sventata: non ci saranno rivoluzioni colorate per le strade di Mosca.
Un imponente schieramento di forze chiude le proteste nei confini di piazza Pushkin, chi si avventura fuori, sfidando i divieti sotto alla Lubjanka e di fronte alla Commissione elettorale centrale finisce in cella, chi prova a restare in strada per una protesta a oltranza fa la stessa fine: centinaia di arresti, fallito il tentativo di un girotondo intorno al Cremlino. «Putin ladro», «vergogna» grida la folla in piazza, l’unica concessa al movimento anti-brogli. I putiniani, per il secondo giorno consecutivo, presidiano piazza del Maneggio.
Le frodi elettorali ci sono state. Non lo dicono solo le ong o la rete del blogger Alexei Navalny che ha organizzato un conteggio parallelo dei risultati e che ieri era tra i fermati con Serghiei Udaltsov, leader del Fronte di sinistra, Ilya Yashin e la leader ecologista Evghenia Chirikova. Non lo dice solo l’organizzazione Golos che ha monitorato il voto e concede a Putin una vittoria assai più misurata del 63,6% ufficiale: il 50,28, vincitore comunque, ma a un soffio dall’umiliazione del ballottaggio. E nella capitale che domenica sera sembrava ai suoi piedi l’eterno presidente si è fermato al 47%.
«Irregolarità procedurali» in un terzo dei seggi durante lo scrutinio dei voti, violazioni ripetute. Gli osservatori dell’Osce confermano le denunce dell’opposizione. L’elezione presidenziale è stata «chiaramente distorta a favore di Putin», non tanto nella giornata del voto quanto nell’intero processo elettorale, viziato dalla posizione di assoluto vantaggio del leader russo. Risorse statali, sovraesposizione mediatica, «requisiti eccessivamente restrittivi per la registrazione dei candidati». Il rapporto segnala «innovazioni positive», ma nell’insieme le cose non hanno funzionato nel verso giusto: «È mancato un arbitro imparziale».
Il siriano Assad si congratula, Ahmadinejad fa altrettanto. La Ue segue la falsariga del rapporto degli osservatori internazionali: «prende atto» e invita la Russia a colmare le «lacune» del processo elettorale, sperando nel «dialogo con i cittadini e la società civile». Gli Usa sono pronti a lavorare con Putin, anche se chiedono al governo russo di indagare «su tutte le violazioni elettorali».
CONTRO-INFORMAZIONE
Indagare, appunto. La Commissione elettorale sostiene di aver ricevuto solo 178 segnalazioni, Putin incontrando gli sfidanti sconfitti promette collaborazione e chiarezza sulle irregolarità. All’appuntamento manca il leader comunista Zjuganov, che contesta la legittimità del voto. C’è invece l’oligarca Mikhail Prokhorov, ufficialmente terzo con il 7% ma secondo Golos oltre il 17%: stringe la mano a Putin, ma poi andrà in piazza Pushkin anche lui. «Io sono l’opposizione e l’alternativa», dice dal palco.
Che cosa accadrà domani è un punto interrogativo gigantesco, qualcuno giura che non lo sappia neppure Putin. Se deciderà di ignorare la domanda di riforme e diritti che arriva dalla parte più moderna, tecnologica e colta, o sarà disposto a farci i conti. Medvedev, confermando la dinamica del tandem in cui lui è il liberale, ieri ha annunciato la convocazione dell’assemblea costituzionale, ha chiesto ragioni della mancata registrazione del partito d’opposizione Parnas e il riesame entro il primo aprile di 32 casi giudiziari, compreso quello dell’ex magnate della Yukos Mikhail Khodorkovsky. È una risposta alle richieste formulate dai leader del movimento anti-brogli, incontrati dal presidente uscente nel febbraio scorso. «Misure preventive per calmare l’opposizione», secondo l’analista Alexei Makarin. Poco di fronte alla richiesta di annullamento delle elezioni politiche e delle presidenziali, chiesta a gran voce dalla piazza.
L’opposizione si dà un suo programma. «Costruiremo una macchina propagandistica universale migliore di quella del Primo canale tv e anche nel più piccolo villaggio russo verranno a conoscenza dei misfatti di Putin proclama Navalny, prima dell’arresto . Quando si pronuncerà la parola Putin verrà in mente una parola di tre lettere, vor, ladro». Dodicimila agenti vigilano. Il portavoce di Putin si sente in dovere di spiegare: «Le lacrime erano vere, ma causate dal vento freddo».

Corriere della Sera 6.3.12
L'Europa critica il voto russo «Riscontrate gravi violazioni»
A Mosca due piazze e uno zar vulnerabile
di Franco Venturini


Due piazze, due Russie. La prima, quella del Putin vincitore, fiera di essere ancora maggioritaria e decisa a rimanerlo. L'altra, quella della protesta, scandalizzata dai brogli e ferma nella sua sfida a uno Zar vulnerabile. Il destino della Russia e dei suoi rapporti con l'Occidente è racchiuso in questo confronto che ieri ha bloccato il centro di Mosca, tra la piazza del Maneggio (i putiniani) e piazza Pushkin (i contestatori).
Non serve contare gli uni e gli altri. Serve piuttosto ascoltarli, comprendere i loro slogan, guardare la loro contrapposta determinazione. E risulta chiaro, allora, che le due Russie nascoste dietro le due piazze rischiano entrambe di svuotare il dogma supremo che ha vinto, lui sì, le elezioni presidenziali di domenica: la voglia di stabilità, la paura di scenari egiziani o ucraini, l'orrore per il caos degli anni Novanta. Insomma, la ricerca di un uomo d'ordine che nel caso si chiamava Putin e che ieri ha tenuto fede alle sue promesse facendo arrestare per «tafferugli» centinaia di oppositori in tutta la Russia.
Una legittimazione elettorale ottenuta per paura, e oltretutto con l'aiuto di brogli ora denunciati anche dagli osservatori dell'Osce, è inevitabilmente una legittimazione fragile. Ma è il monitoraggio delle due piazze a delineare lo scenario terribile di un nuovo Tempo dei Torbidi, sono quelle folle a rendere evidenti le ferite della Russia odierna. Perché nessuna delle due piazze sembra essere consapevole delle proprie debolezze e delle conseguenze potenzialmente esplosive che esse comportano.
Davanti al Maneggio, beninteso, i risultati ufficiali non si toccano. E ne deriva la certezza che le urne abbiano benedetto un rigido continuismo da parte di Putin, che non serva alcuno sforzo riformista, che valgano le parole dello Zar quando domenica sera, nella stessa piazza, si è congratulato con gli elettori per aver scongiurato «la distruzione dello Stato russo». Così la Russia sarebbe stata salvata una seconda volta, dopo la disastrosa eredità lasciata da Boris Eltsin. E se è stata salvata, perché cambiarla? Forse per compiacere quei quasi-ricchi che vorrebbero diventare ricchi e che per questo vogliono il male della patria magari prendendo soldi dall'estero?
Poco più in là, a piazza Pushkin, una adunata meno oceanica delle precedenti reclama l'annullamento dei risultati elettorali taroccati. Putin è il solito ladro, il solito imbroglione che ha colpito ancora. Sembra gente più sofisticata, questa, non per nulla è classe media. Ma nemmeno qui esiste una accettabile consapevolezza della posta in gioco e dei modi per entrare in partita. È davvero saggio, disprezzare un verdetto che viene dalla Russia profonda delle periferie e delle campagne? Perché non parlare piuttosto di unità del movimento, visto che i comunisti si muovono per conto loro (per fortuna) e gli altri sono liberali autentici, dirigisti ultrà, ipernazionalisti con qualche propensione xenofoba, conservatori illuminati, tutti confusi nella stessa folla? Dove può andare una protesta che denuncia i brogli ma quasi non ha programma, non ha un leader riconosciuto che sia un volto nuovo, non ha un potenziale candidato anti-Putin salvo affidarsi all'ambiguo Prokhorov o al blogger Alexej Navalny?
Ecco perché le due piazze, collocate nella dimensione storica russa, fanno paura: perché sono entrambe deboli ma si sentono forti, perché si criminalizzano a vicenda, perché una guerra civile politica sembra già cominciata prim'ancora che Vladimir Putin torni al Cremlino e lasci il suo posto al compagno di tandem Dmitrij Medvedev.
Ieri è stato proprio quest'ultimo, ancora presidente, a compiere un gesto distensivo. La richiesta alla Procura di riaprire il caso Khodorkovskij, l'ex magnate del petrolio in carcere dal 2003. Forse è un indizio. Forse il Medvedev primo ministro farà da pontiere per conto di Putin, stabilirà un contatto tra quelle due piazze. Ma il vero dilemma tra continuità rigida (suicida) e riformismo (necessario) lo dovrà sciogliere Putin in persona. Bisogna aprire il sistema politico, strappare l'economia alla totale dipendenza dalle esportazioni energetiche (pur sperando nel prezzo del petrolio), combattere davvero la corruzione, dare la certezza del diritto anche agli investimenti stranieri, rianimare l'informazione. Se lo farà, l'ennesima diarchia Putin-Medvedev potrebbe ridurre o assorbire la protesta della classe media. Ma pochi credono che l'ex colonnello del Kgb abbia questa visione.
E lo stesso vale per il «reset» tra Mosca e Washington, dopo i brutti segnali solo in parte corretti sull'emergenza siriana. Le piazze pesano anche su questo, perché da maggio sarà Putin, e non più Medvedev, a partecipare alle grandi riunioni internazionali. Giusto in tempo per il G8 a Camp David e il vertice Nato di Chicago, con lo «scudo» antibalistico alleato che ridiventa il nemico numero uno.
Franco Venturini

Repubblica 6.3.12
Iran, Netanyahu gela la Casa Bianca: "Israele si difende da sé"


WASHINGTON - Uno degli incontri forse più decisivi fra il presidente americano Barack Obama e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, non riesce ad accorciare le distanze fra i due leader riguardo al programma nucleare iraniano. Prima del colloquio nello Studio ovale, Obama invoca l´arma della diplomazia, la necessità di attendere che le sanzioni imposte contro Teheran facciano il loro corso. Per nulla d´accordo, Netanyahu prospetta un´azione militare, e reclama il diritto di Israele a «potersi difendere da sé» poiché ritiene l´atomica degli ayatollah una minaccia alla propria esistenza.
«Una soluzione diplomatica è ancora possibile», dice Obama mentre assicura a Israele il ferreo sostegno dell´America. Questo non basta a fermare Netanyahu, convinto che se non verrà sferrato un attacco militare, presto le centrali nucleari di Teheran verranno sepolte in profondità sotto terra, irraggiungibili dalle bombe bunker-busting. Stando all´intelligence americana non esistono prove che gli ayatollah abbiano davvero deciso di armarsi dell´atomica. Su questo sfondo si rafforza la convinzione che Israele nei prossimi mesi possa agire in autonomia. Obama è il bersaglio anche dei repubblicani americani per la sua «indecisione» riguardo alla Siria: il senatore McCain chiede alla Casa Bianca di attivarsi a livello internazionale per lanciare una campagna di bombardamenti aerei sulla Siria.

La Stampa 6.3.12
La Cina preferisce la stabilità le grandi riforme sono rinviate a dopo il 2013
di Wei Gu


Wen Jiabao non ha lanciato alcuna palla a effetto nel suo ultimo rapporto governativo come premier cinese. Anzi, il suo discorso di apertura in occasione della riunione annuale del parlamento nazionale della Cina si è concentrato sulla continuità economica. Un chiaro segnale che le grandi riforme dovranno aspettare la prossima generazione di leader all’inizio del 2013. Entro quel periodo, il costo dei cambiamenti necessari potrebbe essere maggiore. Il discorso di Wen, che stabilisce le regole per il piano quinquennale che inizia nel 2012, ha fornito alcuni grandi numeri. L’obiettivo di crescita del Pil della Cina è stato abbassato dall’8% al 7,5% e il suo obiettivo d’inflazione rimane stabile al 4%. L’obiettivo del disavanzo fiscale è stato fissato all’1,5% del Pil, in leggero rialzo dal 2011 per riflettere la maggiore spesa per l’edilizia e il welfare. Niente di entusiasmanti. Mancavano le riforme di cui la Cina ha urgente bisogno.
L’aumento dei divari dei redditi, la sicurezza alimentare e la salvaguardia energetica sono problemi essenziali, ma ai quali è stato dato poco risalto. Mancava anche la riforma del tasso di cambio controllato. Effettivamente, la banca centrale ha fatto scendere fortemente lo yuan quando Wen ha cominciato il suo discorso. Ciò indica che la stabilità e non il cambiamento sarà il tema del 2012. È comprensibile. Tutt’altro che intenzionati a lasciare il loro segno nei loro ultimi giorni, Wen e il Presidente, Hu Jintao, hanno da guadagnare di più con una transizione agevole ai loro successori. Ciò consente alla prossima generazione di lasciare il proprio segno sull’economia. Anche gli investitori dovrebbero apprezzare la stabilità. Ma posticipando le riforme, Wen non sta facendo un favore alla prossima generazione. Wen e Hu hanno visto il periodo di crescita più rapida nella moderna storia cinese. I loro probabili successori, Li Keqiang e Xi Jinping, ereditano un’economia in pericolo per la domanda estera più debole, la maggior insoddisfazione sociale e i forti gruppi di interesse. Le riforme che aiuterebbero a contrastare queste forze rimarranno bloccate per un altro anno.

Corriere della Sera 6.3.12
La crescita della Cina rivista al ribasso
di Marco Del Corona


PECHINO — La percentuale salta fuori a un terzo del suo discorso e fa di tutto per farsi notare: 7,5%. In piedi davanti alle 33 pagine del suo discorso, Wen Jiabao (foto sotto) annuncia che nel 2012 l'obiettivo di crescita della Cina sarà più basso dell'anno scorso: 7,5%, appunto, dopo che per 8 anni la soglia dichiarata era stata dell'8%, regolarmente superata addirittura con incrementi a due cifre, l'ultima volta nel 2010 (10,4%). L'inflazione ha anche lei il suo obiettivo: sotto il 4% (il 5,4% nel 2011). «Stabilendo per il Pil una soglia lievemente più bassa — ha scandito il primo ministro — speriamo che si allinei con gli obiettivi del quinto Piano quinquennale» per arrivare a «trasformare la struttura dello sviluppo economico e renderlo più sostenibile ed efficiente». E' una soglia psicologica, quella indicata da Wen, caricata di aspettative e auspici. Un passetto indietro per farne un paio avanti.
Il discorso è l'atto d'avvio della sessione annuale del Parlamento, il Congresso nazionale del Popolo. Davanti al primo ministro circa 3 mila deputati. Gli elementi di novità, i segnali lanciati sia all'interno che all'esterno sono stati disseminati nel testo, che, in attesa del congresso del Partito in autunno, sancisce — ha detto Wen — «l'ultimo anno del mandato del mio governo». Qua e là s'incuneano applausi brevi e mirati, come quando saluta il sorpasso della popolazione urbana sulla popolazione rurale: «Un cambiamento storico». L'Europa è stata citata indirettamente: «In campo internazionale, la via della ripresa sarà tortuosa» e «alcuni Paesi troveranno difficile ad attenuare presto la crisi del debito». Nessun accenno a mosse del governo in materia: è stato piuttosto il China Daily ad anticipare ieri che il fondo sovrano Cic ha appena ricevuto 30 miliardi di dollari dalla Safe (l'Amministrazione statale per i cambi valutari) da investire in Europa.

l’Unità 6.3.12
Dedicare l’8 marzo a tre donne vittime della ’ndrangheta
Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo si sono ribellate al codice criminale E hanno pagato. La Calabria può cambiare se si è capaci di produrre fatti politici nuovi
di Vera Lamonica
, segreteria Cgil

Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo, erano donne di ’ndrangheta, cresciute e vissute nel contesto di famiglie potenti della più potente tra le organizzazioni criminali. Di quell’appartenenza avevano assorbito le regole, e dentro quelle regole erano vissute fino alla negazione di sé, della propria libertà e della propria dignità. Maria Concetta, ad esempio, era stata sposata a 14 anni, a 15 era diventata mamma, più volte pestata a sangue, a 31 anni aveva tre figli ed è morta ingerendo acido muriatico. E le altre non hanno storie meno tragiche: sono tutte, insieme a tante altre, vittime della più sconvolgente delle sorti, quella di nascere in una famiglia di ’ndrangheta, l’organizzazione criminale che nella famiglia e nei legami di affetto e di sangue che la caratterizzano, trova una delle basi della sua forza e della sua impenetrabilità e una delle ragioni del radicamento anche culturale che la caratterizza nel contesto calabrese.
Perciò ribellarsi alla ’ndrangheta, ribellarsi dall’interno, non è solo un atto di pentimento e di dissociazione, è un atto di lacerazione profonda che porta con sé la messa in discussione di tutti i legami affettivi che caratterizzano una vita, fino ala stessa identità. È un travaglio che queste donne hanno vissuto fino in fondo, perché hanno scelto di contrapporsi, di denunciare, di intraprendere una via di legalità e giustizia, sfidando un mondo che conoscevano troppo bene e del quale sapevano che non avrebbe perdonato. Chi non ha pagato con la vita, in questi percorsi, si è tuttavia consegnata ad una condizione di straordinaria fragilità che rende arduo il percorso di ricostruzione della vita anche sotto la protezione dello Stato.
Il rischio della retorica è sempre in agguato. Viene voglia di non unire la propria voce quando si levano, stucchevoli e scontate, le dichiarazioni di solidarietà di coloro che, soprattutto nella politica, sono tra i principali responsabili dello stato di abbandono e di degrado, economico, civile e sociale, in cui vive la Calabria e che costituisce il contesto necessario a che il potere criminale cresca sempre più fino a diventare «strutturale». Il mal governo, l’incapacità di essere classe dirigente, il deficit istituzionale ed ammini-
strativo producono lo stato di sofferenza altissima di quella popolazione ed offrono l’argomento a tutti i leghismi ed a tutte le deresponsabilizzazioni dei governi e della politica nazionale, e non certo da oggi.
Ma non c’è retorica nell’appello lanciato dal «Quotidiano della Calabria» che invita a dedicare l’8 marzo a queste tre donne, c’è l’invito a cogliere nelle loro storie e nei loro volti il segno di come, nella più cruda delle condizioni, possa nascere la voglia di riscatto e l’amore per la libertà, la scintilla della speranza e il coraggio di rischiare.
La Cgil calabrese, insieme a tanti altri, ha raccolto questo appello e lo fa suo. È necessario, infatti, che prima di tutto i soggetti sociali della rappresentanza colgano che in quelle terre la profondità della crisi e le trasformazioni che essa sta determinando, a partire dall’impoverimento generalizzato del lavoro e dalla disoccupazione di massa, rischiano di produrre, sul terreno della legalità, non un’inversione di tendenza, ma la consegna definitiva all’assurdo destino di diventare una sorta di piattaforma territoriale dalla quale la ’ndrangheta governa il giro vorticoso di affari e miliardi che naturalmente si svolge ben oltre i confini della Calabria, nel cuore industriale d’Italia e d’Europa.
E quindi c’è un gran bisogno di costruire fatti nuovi, di suscitare movimenti e mandare nuovi messaggi, anche culturali, di conquistare nuove forze all’impegno ed alla lotta. Nel cosiddetto welfare mafioso non c’è risposta ai bisogni di nessuno, solo assoggettamento, povertà, violenza, umiliazione.
La Cgil calabrese, insieme a tanti altri, ha raccolto questo appello e lo fa suo. È necessario, infatti, che prima di tutto i soggetti sociali della rappresentanza colgano che in quelle terre la profondità della crisi e le trasformazioni che essa sta determinando, a partire dall’impoverimento generalizzato del lavoro e dalla disoccupazione di massa, rischiano di produrre, sul terreno della legalità, non un’inversione di tendenza, ma la consegna definitiva all’assurdo destino di diventare una sorta di piattaforma territoriale dalla quale la ’ndrangheta governa il giro vorticoso di affari e miliardi che naturalmente si svolge ben oltre i confini della Calabria, nel cuore industriale d’Italia e d’Europa.
E quindi c’è un gran bisogno di costruire fatti nuovi, di suscitare movimenti e mandare nuovi messaggi, anche culturali, di conquistare nuove forze all’impegno ed alla lotta. Nel cosiddetto welfare mafioso non c’è risposta ai bisogni di nessuno, solo assoggettamento, povertà, violenza, umiliazione.

La Stampa 6.3.12
Chi ha ancora paura di Céline?
A mezzo secolo dalla morte resiste l’ostracismo sullo scrittore delle Bagatelle : affascinanti e sgangherate, mai lette davvero
di Marco Vallora


A scatenare la furia polemica è il rifiuto da parte degli organizzatori dell’Esposizione Universale del 1937 di mettere in scena un balletto di Ferdinand. Questi individua gli ebrei come bersaglio polemico, perché convinto, in primo luogo, che occupino tutti i posti chiave del potere e che a causa del loro congenito razzismo ostacolino l'ascesa professionale degli ariani, di cui il personaggio si considera «fratello di razza»; in secondo luogo perché ritiene che gli ebrei rifiutino il balletto per questioni di cattivo gusto letterario. Nel corso del pamphlet la figura dell’ebreo diventa una allegoria di tutto ciò che secondo l’autore esiste di negativo.

Forse non ce ne siamo nemmeno resi conto, ma il 2011 è stato un anno anniversario importante, per Céline, ed è quasi passato sotto silenzio. Cinquant’anni dalla sua morte d’artista, scandaloso e maledetto. Pochissimo, sul fronte delle iniziative. Uno spettacolino di Elio Germano, che legge per una ventina di minuti, gracchiando alla Carmelo il Voyage au bout de la nuit e via con un buon riempitivo musical-elettronico. Qualcosina di editoriale, ma briciole, bagatelle. L’altr’anno, da Rosellina Archinto, sempre attenta a epistolari insoliti e avendo già pubblicato tre dei suoi Balletti senza musica, senza gente, senza nulla, le lettere alla segretaria di tutta una vita, Marie Cannavaggio. E dunque un fiume, anzi, una cascata di confidenze, pettegolezzi, improperi, lamentele e invettive. Quest’anno, poi, una raccolta, abbastanza scottante e indigeribile, di lettere alla stampa collaborazionista francese, cameratescamente intitolato Céline ci scrive. Edizione «Il Settimo sigillo», a cura di Andrea Lombardi, prefazione di Stenio Solinas.
Ma in Francia l’ostracismo editoriale, chiamiamolo così, è ancora più rumoroso, e «motivato». In un articolo su Le Point l’avvocato-biografo-curatore testamentario François Gibault (una vera «cintura Gibaud» di contenzione intorno al ventre molle dell’opera proibita del maledetto Destouches, sorta di ventriloquo della vedova Lucette Almanzor, ancora incredibilmente viva) ha pubblicamente ringraziato, e non ironicamente, il ministro della Cultura Mitterrand d’aver ufficialmente ignorato l’evento anniversario. Con una sorta di foderato sprezzo antidemocratico, nel fondo molto céliniano. «Gli ho detto che aveva fatto bene a ritirare il nome di Céline dalle commemorazioni, perché Céline non ha nessun bisogno di esser celebrato dallo Stato. I suoi lettori sono sufficienti». Piccato? O è un’arte, abbastanza scoperta, di render ancor più piccante ed economicamente appetibile quella zona proibita e maggiormente avvincente la probabile futura pubblicazione di quei testi censurati, in sostanza i tre maledetti pamphlet antisemiti ( Bagatelle per un massacro, La bella rogna, La scuola dei cadaveri) non contemplati nella celebrazione monumentale della Pléiade: «buco nero» e sordido di tanta urticante pubblicistica?
Di questo soprattutto tratta un vivace saggio uscito per Medusa, che si chiama appunto Céline e il caso delle «Bagatelle», scritto da Riccardo De Benedetti, filosofo vicino alla rivista Aut-Aut di Enzo Paci, e dunque politicamente insospettabile, non ebreo (nonostante il cognome e le recenti polemiche sui blog), anzi, lavora all’ Avvenire. (Se langue l’editoria, i blog céliniani sobbollono). Un saggio composito, che parrebbe anch’esso un pamphlet peroratorio, per auspicare una nuova edizione italiana delle Bagatelle per un massacro (e non certo con motivazioni assolutorie). Ma in realtà è anche molte altre cose insieme. Una disamina generale sul delicato rapporto tra scrittura e ideologia. Una meditazione sui rischi della censura alle opere d’arte per motivi ideologici (senza nascondersi il problema che anche dei «bei» libri possono essere cattivi maestri). Un’interrogazione sul perché certi libri dannati (come il Mein Kampf hitleriano, per esempio, o testi politici di Gobineau e scientifici di Buffon, o al limite perfino l’antisemitissimo e struggente Mercante di Venezia di Shakespeare), abbiano una loro dignitosa collocazione culturale, mentre i visionari «balletti» grotteschi di Céline restino tabù.
Ma sono ancora davvero così pericolosi, sia pure dopo il trauma della Shoah? E se invece, letti davvero, risultassero inequivocabilmente così deliranti e maniacali, da scoprirli meno efficaci e dolosi di quanto non si sospetta? Un’attenuante che, invece di assolverli con ipocrisia, li disinnesca e annacqua, ideologicamente, neutralizzandoli nel paradosso? Oppure è necessario non abbassare comunque (il problema è reale) la guardia d’un’eccessiva tolleranza, nei confronti di un pregiudizio così aberrante e intollerabile, anche se gonfiato, sino a risultare iperbolico, tra delirante e patologico? Certo, nessuno vuole minimizzare le enormità disgustose che questo sgangherato balletto di voci e fantasmi (affascinante proprio perché sgangherato) trascina con sé, ma se non si conosce il contenuto, e si continua a parlare per sentito dire, il rischio è di protrarre un pregiudizio altrettanto condannabile.
L’ exergue di Tertulliano, scelto da De Benedetti per aprire il suo libro è illuminante: «Che cosa infatti di più iniquo per gli uomini dell’odiare una cosa che ignorano, anche se è meritevole di odio? ». Non si può rispondere alla dotta ignoranza di Céline con una ignoranza ancor più volgare. Ci si chieda come mai per esempio, nel capillare e severo processo di condanna di collaborazionismo d’un Céline in contumacia, fuggito in Danimarca, col suo pittoresco carretto di miserie, il gatto Bébert e la moglie ex ballerina, uno spago a far da cintura ai pantaloni da clochard, questo volume (scritto beninteso nel 1938) non ha pesato contro di lui, giudiziariamente. Forse perché non ha senso ritenerlo un credibile, profetico invito al massacro degli ebrei, che poi il nazismo avrebbe perpetrato, ma solo un testo paradossalmente pacifista? Tradotto in Italia nel pieno del fascismo, e pesantemente censurato, per via dei tanti insulti che coinvolgevano Mussolini come Marx e per le continue invettive anti-cristiche, il pervasivo linguaggio iper-sboccato, l’ecolalia persecutoria-escrementizia. Infatti nella sua furia scatologica e apocalittica, contro il mondo intiero, compreso il Papa (considerato più ebreo degli ebrei), Hitler che gli entra in camera contro un intruso, con i suoi baffetti da divo di Hollywood e Hollywood bollata come una sentina di giudei-dittatori, l’iperbole via via più esplosiva e inattendibile diventa la chiave rablesiana e grottesca del balletto alla Salò. E allora ci si chiede se sia possibile tollerare ancora questa schizofrenia, molto cara ai céliniani, che adorano le intemperie stilistiche del loro dio-sperimentale, però non condividono, anzi, detestano le sue idee. Legittimo tranello?
Il rischio concreto è che questo volume-tabù continui a girare comunque, e senza prese di distanza critico-storiche, su siti neo-nazisti o islamici, qui davvero ottenendo un risultato distorto, perverso. Del resto, inutili ipocrisie: il testo, ormai introvabile, era già uscito da Guanda nel 1981, caldeggiato da Giovanni Raboni (che stava traducendo Proust e che delegò alla bisogna un ottimo giovane apprendista-traduttore quale Giancarlo Paolini) e poi subito ritirato, per volontà della vedova e per azione legale, guarda caso, di Gibault. Recensito allora con entusiasmo (l’ortodosso marxista einaudiano Cases lo riteneva il volume più interessante, dopo Il viaggio al termine della notte: «dal fondo dell’immondizia ha capito l’essenziale»; l’ebreo Moravia come sempre punto dalla curiosità; Filippini lo trovava un po’ noioso, Natalia Ginzburg scritto male), è rimasto un libro-ectoplasma del nostro inconscio politico.
A sorpresa, anche chi scrive si trova citato nel volume di De Benedetti, avendo proposto al tempo, su Panorama, un articolo, completamente rimosso dalla sua memoria, in cui si ascoltavano elevati pareri, confrontabili con un oggi ben più confuso. Perché allora nessuno gridava allo scandalo, al rogo. Giorni fa, invece, alla presentazione del libro alla Sormani di Milano, è vero, nessuna vera protesta dal vivo o equivoco. Ma l’assessore Boeri è stato richiesto di togliere il patrocinio del Comune, quasi si trattasse d’un insostenibile raduno di congrega antisemita.

Repubblica 6.3.12
Dopo gli dèi esce il volume dei Meridiani dedicato alle gesta raccontate dai greci
Quella mappa degli eroi che diventarono un mito
È un´antologia che ci permette di apprezzare le storie così come sono e di appassionarci alle vicende di invincibili, fondatori e donne salvifiche
di Maurizio Bettini


Per quale motivo Plutarco sentiva il singolare dovere di "purificare" il mito? Eppure è proprio questo che dichiara nel proemio alla sua Vita di Teseo. È mia intenzione, scriveva infatti, sottomettere alla ragione il mito per purificarlo, in modo da dargli almeno l´apparenza di una historia; ma ogni volta che ostinatamente rifiuterà il credibile e non vorrà sottomettersi al verosimile, allora sarò costretto a chiedere scusa ai benevoli lettori, perché accolgano con indulgenza questi vecchi racconti. Agli occhi di Plutarco, dunque, il mito ha bisogno di essere "purificato" perché contiene troppe cose che potrebbero urtare la suscettibilità di chi lo ascolta, visto che viola le regole del verosimile.
In realtà che i racconti mitologici risultassero incredibili, o inverosimili, lo si era notato ben prima di Plutarco. Basta ricordarsi del giorno in cui Fedro e Socrate, nel Fedro di Platone, si incamminarono alla volta del celebre platano, passeggiando lungo la riva dell´Ilisso. Fedro si era ricordato che, proprio da quelle parti, il dio Borea aveva rapito la bella ninfa Orizia. I due si erano scambiati qualche battuta sul luogo (presunto) di quel rapimento, dopo di che Fedro, alquanto bruscamente, aveva rivolto al suo compagno la seguente domanda: «Credi tu, o Socrate, che il mito di Borea e Orizia sia vero?» Una domanda terribile. Fedro, infatti, mostrava di nutrire dei dubbi sulla "verità" dei racconti tradizionali che circolavano ad Atene riguardo alle varie divinità e alle loro vicende: e che facevano parte non solo della tradizione, ma anche della religione della città. Altri credono a questi miti, sembra voler dire Fedro, ma tu, o Socrate, ci credi? E di conseguenza, io posso crederci o no?
Per la verità la risposta di Socrate era stata abbastanza abile: «Se non ci credessi, come fanno i sapienti, non farei nulla di strano. Comunque, con una certa qual abilità sofistica potrei anche mettermi a dire che fu un soffio di Borea [il vento, non il dio] a spingere giù Orizia dalle rocce vicine … e che a motivo di questo incidente si disse che la ninfa era stata rapita da Borea … Solo che io, Fedro, anche se trovo divertenti questo genere di interpretazioni, penso che richiedano troppo ingegno, troppa fatica, e non le considero certo una fortuna: se non altro perché chi le pratica si troverà anche costretto a raddrizzare la forma degli Ippocentauri, o quella della Chimera, e verrà sommerso da una folla di Gorgoni, di Pegasi, e da tutta una massa di creature assurde e mostruose».
Socrate insomma non aveva nessuna intenzione di dedicare i suoi giorni a interpretare – o purificare - i miti. Non gli interessava stabilire se fossero veri o falsi, tantomeno voleva che la sua vita fosse invasa da Pegasi o da Chimere che chiedevano di essere resi almeno più verosimili tramite qualche acrobazia intellettuale. E come molte altre volte, Socrate aveva ragione.
La mitologia greca infatti non solo va presa così com´è ma, soprattutto, è bella così com´è. Per accorgersene basta sfogliare il volume di Giulio Guidorizzi, realizzato con la collaborazione di Silvia Romani, appena edito nei Meridiani Mondadori: Il mito greco. Gli eroi. Una magnifica antologia di testi che fa pendant con quella, pubblicata tre anni fa, che conteneva invece i racconti relativi agli dei. Con questo secondo volume Guidorizzi ci fornisce un indispensabile strumento non solo per perdersi dietro a Chimere e Ippocentauri, ma per approfondire quella vera e propria mappa culturale che il mito eroico svela agli occhi di chi lo sa leggere: eroi fondatori che furono un dì bambini esposti nella natura selvaggia, eroi dal corpo invincibile o marchiato, eroine rovinose o salvifiche, fanciulle sacrificate o streghe efferate.
Ma soprattutto figure soprannaturali che, attraverso il culto che viene loro dedicato, presentificano la potenza del divino agli occhi degli umani. «Molto meno potenti dagli dei da cui discendono», scrive Guidorizzi nella sua introduzione, «ma molto vicini agli uomini e alle loro opere, gli eroi sono figure sacre, al punto che senza di loro sarebbe impossibile concepire la religione dei Greci». Con buona pace di Plutarco e del suo amore per il verisimile.

l’Unità 6.3.12
Dalla, la Chiesa attacca: «Polemiche sui funerali una vendetta dei gay»
Dopo i funerali di domenica, continua la polemica su Lucio Dalla, la sua omosessualità mai dichiarata. Il compagno dell’artista chiamato «collaboratore» durante le esequie scatena l’ira delle associazioni.
di Pino Stoppon


Lucio Dalla riposa in pace ma attorno a lui c’è una gran confusione. Per quello che in vita non avrebbe detto, nonostante non sia certo stato un tipo parsimonioso di parole e stravaganze. Le associazioni dei gay che non riuscirono ad arruolarlo in vita continuano a cercare una sponda adesso, attaccando l’ipocrisia che attanaglierebbe un Paese succube di una cultura confessionale. In effetti fare outing è difficile (pochi si sono rivelati) perché controproducente (molti omosessuali sono stati emarginati, e nel mondo della canzone basterebbe ricordare la parabola di Umberto Bindi). Per questo diventa una testimonianza “importante”. Per questo i gay cercando bandiere. O scudi. Per questo Lucia Annunziata ha giocato l’asso pigliatutto, una carta facile da spendere sul tavolo, per cavarsi fuori da un imbarazzo in cui si era cacciata da sola, pochi giorni fa, con una battutaccia: «Avrei difeso Celentano anche se avesse detto che i gay vanno deportati nei campi di sterminio», disse alla trasmissione di Santoro. Così domenica ha sparato a pallettoni contro l’ipocrisia che ha ammantato la morte di Dalla. «Indubbiamente la riflessione sollevata ieri da Lucia Annunziata ha portato a galla un tema che appartiene a questo paese: l’ipocrisia su certi argomenti, come l’omosessualità, che in certi ambienti sono ancora un tabu». Così l’attore Leo Gullotta, tra i primi (e ancora pochi) personaggi famosi in Italia ad aver avuto il coraggio a fare coming out. «È indubbiamente ipocrita anche il modo di definire il compagno “un collaboratore” per non urtare certe sensibilità, anche se non è ben chiaro quali. Ed è ugualmente ipocrita che sia stato vietato di trasmettere in Chiesa le sue canzoni». Ma, continua Gullotta, «forse in certi momenti sarebbe meglio evitare di usare il metal detector per interpretare l’anima di un artista. Lasciamo i morti riposare in pace e comunque fare outing non è certo un obbligo».
PAROLE E SILENZIO
Se quella ipocrisia suddetta era stata percepita da tutti nella “presentazione” di Alemanno al funerale («collaboratore» lo aveva chiamato il frate Bernardo Boschi, confessore e amico di Dalla), comunque il suo ricordo, le sue lacrime, la sua manifestazione (unico, chiamato sul palco: è giusto dirlo) erano anche sembrate una forma di rispetto verso un’intimità che Lucio aveva esibito, ma mai affermato. Il presidente onorario dell’Arcigay, Franco Grillini, ha però parlato di «un’ipocrisia evidente a tutti» perchè se si fosse parlato del «suo compagno» la Chiesa non avrebbe celebrato i funerali. I religiosi hanno risposto a tono. Per il padre domenicano Boschi, che ha celebrato l’omelia in San Petronio, gli attacchi alla Chiesa sono una «vendetta dei gay» determinati a fare del cantautore scomparso un’icona del mondo omosessuale, cosa che dalla non permise loro in vita. Del funerale di «un uomo» e non di «un omosessuale» ha parlato monsignor Giovanni Silvagni, vicario dell’arcidiocesi bolognese. E c’è chi, come don Ildefonso Chessa (che ha partecipato alle celebrazioni), non avrebbe avuto problemi ad officiare le esequie anche se Lucio avesse dichiarato di essere omosessuale. Intanto Arcigay preme per un’apertura della Chiesa al mondo gay («se è apertura, la Chiesa espliciti»). E il sindaco di Bologna invita a non fare polemiche, anche perché «i bolognesi erano lì in piazza per Lucio, conoscono tutto di lui e della sua vita, ma non ne hanno fatto un motivo di polemica»).
Radio Padania come sempre aggiunge un tocco di cretinaggine: «Lucio Dalla è stato anche la rappresentazione di un’Italia che noi padani non vorremmo». Perché il padre è del nord, sì, ma la madre del sud, «ambiguità che il cantautore si è portato dietro tutta la vita». Però.