martedì 28 febbraio 2012

l’Unità 28.2.12
Con l’Unità in fabbrica. La nostra sfida in nome della libertà
Intervista a Susanna Camusso
«Segnali inquietanti. Vogliono lavoratori senza idee e identità»
«Sta passando il concetto che la democrazia sia un lusso e che i diritti siano costi. Un attacco che che trova terreno fertile nella crisi della politica»
di Oreste Pivetta


Via l’Unità dalle bacheche, fuori gli operai (due operai), malgrado siano stati reintegrati nel loro posto di lavoro dal giudice, attacchi e divieti alla Fiom.
«Alla fine tornano ci dice Susanna Camusso, segretario della Cgil tutte le ragioni di quella grande battaglia sindacale e politica che condusse allo Statuto dei lavoratori. Quando si diceva che la democrazia non doveva fermarsi davanti al cancello delle fabbriche, che cittadino con i tuoi diritti resti anche dentro il tuo reparto. Lo Statuto fu approvato nel ’70, nel cuore di un periodo che dopo il boom era stato ancora di crescita economica e durante cui vennero introdotti nuovi elementi di welfare e si rafforzarono i diritti di cittadinanza anche nel mondo del lavoro. Adesso tanti segnali ci avvertono che si stanno compiendo passi indietro e sono segnali inquietanti, anche se non è solo Fiat al mondo». Perché però proprio la Fiat fa da portabandiera di accanimento antisindacale?
«Credo che gli aspetti del problema siano almeno due. Intanto la Fiat si è fatta portatrice di una teoria secondo la quale i diritti sono costi da tagliare, secondo la quale i diritti frenano la competizione. Insomma la Fiat ci fa credere che alla globalizzazione si possa reagire adeguandoci ai modelli bassi, non cercando, invece, di esportare e quindi di difendere quelle conquiste che hanno contraddistinto lo sviluppo in molti dei paesi europei. È uno schema che rivela una convinzione: che nel luogo di lavoro esistano solo tempi da rispettare, ritmi da accelerare, che un lavoratore quello debba fare, rispettare e accelerare, e quindi si debba spogliare delle proprie opinioni, che debba rinunciare a decidere a quale sindacato iscriversi, che non possa servirsi di un giornale per informarsi e costruirsi un proprio orientamento. In fabbrica va bene un lavoratore senza identità, un prestatore d’opera senza coscienza di sé e dei propri diritti».
Diritti che non sono mai entrati in conflitto con la competitività di un’azienda. Poi viene il secondo aspetto del problema...
«Sì, perché anche questo attacco lo si può leggere dentro un contesto di crisi della politica, di disaffezione nei confronti della politica che si manifesta nel ricorso pieno alla delega. Si vota, si sceglie un rappresentate e finisce lì: la partecipazione resta alla porta, quando si sa bene che la democrazia chiede partecipazione e che non s’affida ad altri la propria libertà...». Qui si va alla storia recente, alla nascita di un governo tecnico...
«Sì, la politica in crisi di rappresentanza, sotto accusa, sfiduciata, delegittimata non ha saputo esprimere altro che un governo di tecnici, animando una nuova tecnocrazia. Si rinuncia agli strumenti che la Costituzione ha dato, pensando che qualcuno, in questo caso un tecnico, possa tirarti fuori dai guai. Ma così si lascia intendere che democrazia e partecipazione siano dei lussi, che in momenti di ristrettezze, è meglio lasciar perdere. Sappiamo bene tutti invece che democrazia e partecipazione sono state e sono le condizioni del nostro progresso». Marchionne la sua idea dei diritti l’ha espressa in modo chiaro. Non possiamo pretendere da lui anche una spessa cultura politica. Poi c’è di mezzo la nostra storia da tangentopoli in avanti. «Marchionne vuole imporci il modello americano. Credo che dovrebbe prima di tutto pensare sì a nuovi modelli ma modelli di automobili da esportare. Per il resto si dovrebbe parlare, dopo tangentopoli, di una riforma incompiuta, dopo la defezione dei grandi partiti. Non si è creata un’alternativa che alimentasse la democrazia, perché alternativa non è andare a votare al tempo giusto e finirla così, alternativa non è immaginarsi una rappresentanza attraverso qualche social network. L’attacco al sindacato discende da lì: prima l’antipolitica delegittima i partiti, poi allo stesso modo mette in discussione il ruolo dei sindacati. Tutto diventa casta, anche i sindacati diventano casta che difende una minoranza di privilegiati. La dualità del mercato del lavoro ha aggiunto in peggio qualcosa: chi non si sente protetto, non si sente neppure impegnato a difendere diritti di cui non gode, diritti che sente come privilegi di altri». Dentro questa onda, alzata da tangentopoli, sospinta dal berlusconismo, trova il suo posto l’attacco all’articolo 18.
«Con una discussione viziata da un ideologismo fortissimo, che non tiene conto dei dati della realtà. Non sarà certo l’articolo 18 a frenare la ripresa economica, a allontanare chi vuole investire in Italia. Si vuol far credere che licenziare sia un punto di libertà proprio dell’impresa». Ha molto colpito in questi giorni la statistica che vede i lavoratori italiani tra i meno retribuiti in Europa. Si può mettere in relazione la maglia nera nei salari con l’attacco al democrazia in fabbrica?
«Sì, pensando alle condizione di criticità della politica come rappresentanza dei cittadini e alla sconfitta negli anni delle politiche di redistribuzione dei redditi. Sì, leggendo ancora quanto guadagnano i grandi dirigenti pubblici, come abbiamo a stento saputo e come non sappiamo del tutto, ignorando ciò che deriva dal cumulo degli incarichi. Smarrendo il senso della democrazia e della partecipazione, s’è spezzato il vincolo della solidarietà».

l’Unità 28.2.12
Una settimana di iniziative in piazza che culminerà con la manifestazione della Fiom
L’Istat corregge i dati Eurostat: in Italia i salari sono più alti di Spagna e Grecia
La Cgil si mobilita Scioperi fino al 9 marzo
Il Direttivo della Cgil conferma l’intoccabilità dell’articolo 18 e lancia la mobilitazione per appoggiare la piattaforma dei sindacati. Oggi tavolo tecnico sulla flessibilità in entrata. Giovedì nuova riunione plenaria
di Massimo Franchi


Nessuna trattativa sull’articolo 18 e «ampia mobilitazione» per «spingere il negoziato verso una positiva conclusione». Il direttivo della Cgil approva a larghissima maggioranza, con 97 voti (88,9%) contro 12 (11%), il documento che riassume la posizione sulla riforma del mercato del lavoro. Nel ribadire i punti fermi della piattaforma comune con Cisl e Uil, la vera sta proprio nella serie di mobilitazioni che la Cgil ha messo in calendario per spiegare le sue ragioni e portare la bilancia della trattativa dalla propria parte «coinvolgendo pienamente l’insieme delle strutture» nel «percorso» del tavolo. «Il 29 febbraio sottolinea Camusso saremo in piazza a Roma per la giornata di mobilitazione europea; così come il 1 marzo c’è lo sciopero unitario dei trasporti, il 3 marzo la manifestazione nazionale unitaria degli edili, il 4 marzo la giornata europea del commercio per le domeniche libere dal lavoro e il 9 marzo lo sciopero generale dei metalmeccanici della Cgil». Infine, la Cgil terrà lunedì prossimo, 5 marzo, un’assemblea straordinaria delle Camere del lavoro: «Un’occasione per fare il punto sull'andamento del confronto con il governo», spiega Camusso.
Sul tema sempre rovente della flessibilità in uscita e dell’articolo 18, rilanciato domenica dalla ministra Fornero, la Cgil «conferma che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è una norma di civiltà inderogabile il cui valore va oltre la tutela del licenziamento ingiustificato e costituisce un deterrente verso ogni altro possibile abuso». La campagna per modificarlo è mediatica e il documento finale del Direttivo sottolinea come «è infatti falso che si tratti di una particolarità del nostro Paese rispetto al resto d’Europa». Viene invece confermata «la disponibilità al confronto su proposte per una drastica riduzione dei tempi dei processi» in materia.
«UN ACCORDO SERIO»
Nella relazione Susanna Camusso ha ricordato come «è nostro obiettivo e nostra intenzione fare un accordo per riformare seriamente il mercato del lavoro partendo dalle priorità: ridurre la precarietà, allargare le tutele e mantenere i diritti. Priorità che osserva il segretario generale Cgil guardano in particolare ai giovani e ai tanti esclusi dal mercato del lavoro e rappresentano la modalità unica per ricomporre la dualità senza che si debba scegliere un soggetto contro un altro». Camusso è poi tornata sul nodo delle risorse: «Non si può fare una riforma, con la pretesa di allargare le tutele, puntando ad una sola logica di risparmio: si ridurranno fortemente invece che allargarle».«Occorre conclude Camusso ridurre il carico fiscale sui lavoratori dipendenti e sui pensionati».
CAMBIARE NORMA INTERINALI
Per il leader della minoranza “La Cgil che vogliamo” Gianni Rinaldini «non sono in discussione le proposte della Cgil, che vanno bene, ma noi chiediamo che tre punti non siano a disposizione del negoziato: l’articolo 18, un’estensione degli ammortizzatori e la riduzione della precarietà a partire dal ritiro della parte del decreto liberalizzazioni che interviene pesantemente sugli interinali» con l’eliminazione della causa dal contratto di lavoro in somministrazione per i soggetti svantaggiati che, come sottolinea anche il documento della maggioranza, «oltre che sbagliata, rappresenta una intromissione nel negoziato in corso». L’argomento potrebbe essere all’ordine del giorno del
confronto governo parti sociali che riparte oggi. Alle 11 infatti alla sede di via Veneto del ministero del Welfare si terrà un tavolo tecnico sul tema della flessibilità in ingresso. Ogni parte sociale, da brava scolara, ha presentato la sua proposta in materia e oggi partirà il lavoro dei tecnici delle parti e dei funzionari ministeriali per preparare la «tabella sinottica» richiesta da Elsa Fornero per arrivare ad una sintesi comune. Giovedì invece alle 16 a via Flavia sesta riunione del tavolo con Fornero e i leader delle parti sociali.
Ieri intanto l’Istat, con una nota pubblicata sul sito del governo, ha contestato la tabella di Eurostat utilizzata per denunciare quanto fossero bassi i salari italiani: era «poco chiara» e si riferiva al dato del 2006. «Il posizionamento relativo dell'Italia spiega l’Istat risulta in linea con la media europea, e il valore assoluto nazionale supera ampiamente quello della Spagna e ancor più il valore della Grecia». Resta difficile da credere però che dal 2006 ad oggi gli stipendi italiani abbiano rimontato in maniera significativa rispetto ai salari degli altri paesi europei, Germania in testa.

l’Unità 28.2.12
Ici Chiesa, Monti: esenti le scuole se non fanno profitti
Il premier interviene in commissione per esporre i criteri con cui si stabiliranno le esenzioni per il non profit. L’attività non commerciale sarà definita in base all’assenza di profitti o al reinvestimento di questi nelle imprese
di B. D. G.


«Il governo considera le attività svolte dagli enti non profit come un valore e una risorsa della società italiana». Inizia così l’intervento di Mario Monti «piombato» in commissione Industria del Senato nel pomeriggio per definire il raggio di applicazione dell’Imu per la Chiesa e il non profit. Una prolusione densa di tecnicismi, racchiusa in tre cartelle e mezzo. Monti è accompagnato dal sottosegretario Antonio Catricalà, e entra in commissione Industria al seguito del presidente Renato Schifani, il quale sottolinea come sia la prima volta che un premier interviene in una commissione in sede referente. Monti spiega in dettaglio la norma presentata dal governo, l’iter della sua applicazione (servirà un altro decreto per definire i criteri di esenzione), ascolta le repliche (abbastanza univoche) dei senatori. Poi la commissione passa al voto: l’emendamento è approvato all’unanimità.
Quello che preoccupa il premier è il dibattito concitato che si è aperto sulle scuole e le attività socialmente rilevanti della Chiesa. Ma «è necessario precisare osserva il premier che non è propriamente corretto se le scuole in quanto tali siano esenti o meno, bensì è più corretto domandarsi quali scuole siano esenti e quali viceversa siano sottoposte alla disciplina comune».
I CRITERI
Come discernere, dunque, tra chi paga e chi è esente? Il premier elenca tre criteri fondamentali, fatta salva l’emanazione di un decreto del ministro dell’Economia. Per quanto riguarda l’attività paritarie, essa «è valutata positivamente si legge nell’intervento se il servizio effettivamente prestato è assimilabile a quello pubblico sotto il profilo dei programmi di studio e della rilevanza sociale, dell’accoglienza di alunni con disabilità, dell’applicazione della contrattazione collettiva del personale docente e non docente.
La seconda condizione è che il servizio sia aperto «a tutti i cittadini alle stesse condizioni», e che le scelte di esclusione degli studenti non siano correlate a norme discriminatorie. Infine l’organizzazione dell’ente, «anche con specifico riferimento ai contributi chiesti alle famiglie, alla pubblicità del bilancio, alle caratteristiche delle scritture», spiega ancora il premier, deve preservare senza alcun dubbio la finalità non lucrativa. Eventuali avanzi di bilancio non dovranno rappresentare profitto, ma sostegno direttamente correlato ed esclusivamente destinato alla gestione dell’attività didattica.
In ogni caso Monti insiste sul fatto che in questo caso non si tratta soltanto di attività didattica. Infatti secondo una giurisprudenza consolidata «non rileva l’attività indicata nello Statuto continua Monti citando una sentenza ma l’attività effettivamente svolta negli immobili». Quanto alle verifiche sulla modalità di attuazione dell’attività, queste devono essere concrete, e non basate soltanto su una documentazione. Insomma, anche se l’attività è virtualmente non profit, ma concretamente svolta in forma commerciale, l’esenzione non viene applicata.
Monti ricorda che l’emendamento risponde pienamente all’ipotesi di procedura d’infrazione sollevata in Europa, che non riguarda certamente soltanto le scuole.
L’intervento di Monti ha ricevuto il plauso di tutti i senatori che hanno chiesto di commentare. «La comunicazione del presidente Monti alla commissione Industria sul tema dell'Imu per il non profit ha consentito di chiarire i dubbi che in queste ore erano emersi ha detto Paolo Giaretta (Pd) è stata un'iniziativa molto opportuna che conferma la sensibilità del presidente del Consiglio e, soprattutto, tranquillizza un mondo così importante del sistema educativo italiano e, anche, le tante famiglie che ne usufruiscono».

Repubblica 28.2.12
Lettera al cardinale Scola
di Paolo Flores d’Arcais


Caro cardinal Scola, ho letto con molto interesse il suo intervento su Repubblica di domenica, anche perché ripropone un tema su cui ho avuto l´onore di discutere con lei pubblicamente qualche anno fa alla Normale di Pisa (quel confronto, con un post-scriptum per parte, è diventato poi un piccolo libro, Dio?, presso l´editore Marsilio, purtroppo ormai introvabile): la laicità dello Stato, il rapporto tra fede e politica, Dio e Cesare, insomma. Lei sostiene che nello spazio pubblico deve avere cittadinanza la "narrazione religiosa", deve essere riconosciuta la fede in quanto fede. Su questa legittima e anzi utile presenza è da tempo sostanzialmente d´accordo con lei anche Habermas, filosofo non credente, e anzi il filosofo per eccellenza della scena europea.
Penso tuttavia che tale posizione non sia sostenibile. Sia chiaro, se per presenza pubblica si intende il diritto ad esercitare in pubblico, anziché per catacombe, il proprio culto religioso, la cosa va da sé, a nessun democratico ateo è mai venuto in mente di metterla in discussione, è l´abc della libertà religiosa (di cui fa parte la speculare libertà di critica alle religioni, ovviamente). Ma con il "riferimento religioso nello spazio pubblico" si intende (lei, Habermas e tanti altri) una cosa ben diversa: che la propria identità religiosa, la propria fede in quanto fede, possa costituire elemento legittimo di quel processo permanente di formazione dell´opinione pubblica e deliberazione istituzionale, che mette capo alla promulgazione di una legge.
Io credo invece che nella sfera pubblica – dai dibattiti tv ai disegni di legge alle sentenze di tribunale – Dio non possa essere ammesso, perché ne andrebbe della democrazia stessa. La democrazia, infatti, non si limita a sostituire il peso dei voti al peso delle armi. Fosse questo, la società resterebbe un conglomerato di identità e "tribù" sempre sul piede di guerra, la conta dei voti sarebbe fragilissima sospensione della violenza. La democrazia fa invece tutt´uno con la realizzazione di uno spazio comune più forte delle differenze di fede e sangue, dove il voto è la conclusione di un dialogo permanente, in cui tutti si impegnano a persuadersi reciprocamente con argomenti razionali, anziché far valere la propria volontà con un prevaricatorio "perché sì!" (anche se maggioritario).
Ma come può avvenire davvero tale dialogo permanente, senza il quale non ci riconosceremmo reciprocamente come cittadini, se nel confronto razionale posso invocare un dogmatico "Dio lo vuole"? Perché di questo si tratta, quando si pretende che la religione in quanto religione abbia riconoscimento nello spazio pubblico. Facciamo il caso concreto di uno dei temi "eticamente sensibili" su cui si esercita abitualmente la pressione delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti della legislazione civile. La discussione sulla liceità o meno dell´aborto o del suicidio assistito, ad esempio, perché resti civile, cioè fra cittadini che tra loro argomentano, potrà utilizzare solo ciò che è a tutti comune: i fatti accertati (quando si forma nell´embrione il sistema nervoso, ecc.), l´uso della logica, i valori minimi e fondanti della democrazia (l´eguale sovranità/libertà di ciascuno). Se il credente è convinto di poter argomentare in modo persuasivo contro l´aborto e il suicidio assistito ricorrendo ai soli succitati ingredienti, vorrà dire che avrà già messo tra parentesi la sua fede e il suo vissuto religioso, avrà cioè già esiliato il suo Dio dalla sfera pubblica. Rivendicare un riconoscimento pubblico per la propria "narrazione" di fede, che si è intenzionati a non utilizzare mai, sarebbe perciò alquanto contraddittorio. D´altro canto, insistere a far pesare la fede in quanto fede per carenza di altri argomenti, significherebbe violare l´impegno al dia-logos e tornare all´incombente violenza del "perché sì" tra catafratte volontà di potenza.
In altri termini: è legittimo chiedere dal pulpito ai propri fedeli di non commettere adulterio, del tutto illegittimo invece anche solo auspicare che la legge dello Stato mandi in galera l´adultera (questa la legge quando ero ragazzo), o punisca l´aborto e il suicidio assistito. In vista della legge, di qualsiasi legge, nessun Dio e nessuna fede devono essere tirati in ballo, mai. Solo la ragione, e la nostra eguale libertà. Ma naturalmente spero vivamente, caro cardinal Scola, che il moltissimo altro che resta da dire possa essere oggetto di un nuovo incontro pubblico tra noi, che del resto anche lei aveva auspicato quando uscì il nostro libro.

Repubblica 28.2.12
Il dovere della politica
di Carlo Galli


LA POLITICA, assieme all´angoscia per la sorte di Luca Abbà, bussa alle porte della Valsusa. E attraverso il conflitto, il rischio, la violenza, sembra voler presentare un conto sgradito e inaspettato – in ogni caso molto caro – a un governo "tecnico", che trae la propria legittimità materiale e contingente dal farsi portatore di istanze "oggettive", di imperativi sistemici decisi da poteri diversi dalla sovranità del popolo italiano. Ed è invece evidente che la politica non si lascia sostituire dalla tecnica, e che al governo Monti, e al ministro Passera, spettano ora misure politiche in senso proprio.
Nell´ambito dell´ordine pubblico, in primo luogo, ma soprattutto – e ciò ha valore ancora più apertamente politico – nell´ambito di una franca chiarificazione davanti al Paese di che cosa sia in gioco, ora, intorno alla vicenda della Tav.
Si tratta di una partita di grande spessore. La linea ad Alta Velocità che deve unire Torino e Lione è già stata approvata da due parlamenti nazionali, quello italiano e quello francese, e da due Trattati internazionali. È una struttura strategica che viene finanziata con denaro europeo: è una fonte di lavoro per migliaia di operai e tecnici: è una promessa di sviluppo per il complesso del Paese. Il tracciato è stato modificato da un Osservatorio a cui hanno partecipato i territori, che ha discusso per tre anni. È, insomma, una partita a più livelli – europeo, nazionale, locale – in cui la politica si è messa in gioco attraverso procedure democratiche, sia partecipative sia rappresentative: in cui lo sviluppo economico e le sue esigenze è stato mediato, interpretato, incanalato, sui binari della politica.
Ora, a questa politica – imperfetta, ma non truffaldina – se ne oppone un´altra, fatta anche di violenza (i fatti dell´estate scorsa) a cui non possono non seguire azioni della magistratura, com´è normale in uno Stato di diritto. E questa politica che si oppone alla politica democratica non è solo violenza, certo, ma neppure la ripudia apertamente. Ma soprattutto è una politica che sta trasformando la Val di Susa, e i disagi dei suoi abitanti, in uno spazio politico che vuole essere alternativo rispetto all´assetto della politica contemporanea.
Accanto all´ambiguità delle forze politiche di centrosinistra che a Roma approvano la Tav e nei territori vi si schierano contro, per ottenere consenso – e questa è la pratica, non nuova né rivoluzionaria, dell´opportunismo politico – , c´è infatti la lotta dei territori contro un modello di sviluppo e che sconvolge gli equilibri della vita collettiva locale – e questa è la pretesa dell´ecologismo in una sola vallata, peraltro oggi certamente non "vergine" – ; c´è, poi, la spregiudicatezza delle forze di sinistra, che paiono volere abbracciare ogni causa per tentare di rientrare in gioco, assecondando ogni protesta contro le contraddizioni del capitalismo traballante, che oscilla fra il gigantismo e la crisi – contraddizioni che ci sono, certo, ma che in questo caso hanno pesato meno delle affermazioni e delle procedure della democrazia, che troppo disinvoltamente vengono considerate carta straccia.
E c´è, accanto a queste, un´altra prospettiva, ancora più radicale. Quella di fare della Val di Susa il punto di coagulo di tutte le forze – in realtà delle debolezze, delle disperazioni, della mancanza di fantasia, della sfiducia nella democrazia – che non vogliono il riequilibrio dell´Italia, il suo rientro nella normalità, e che puntano su una situazione "greca" per innescare un conflitto delegittimante; che vogliono fare della Val di Susa l´incubatoio di altre rivolte nel Paese, che dimostrino l´impopolarità delle politiche che il governo sta attuando, con il consenso della stragrande maggioranza del Parlamento.
Alla strategia dell´emergenza, alla retorica dell´iperbole che vede ovunque omicidi di Stato (o del Capitale, o della Grande Finanza), a questa contrapposizione fra maggioranza legale e minoranze ultra-conflittuali, è quanto mai opportuno che il governo apertamente opponga la forza tranquilla di una democrazia "normale": non una risposta reazionaria, quindi, e neppure burocratica, ma una risposta politica che spieghi al Paese che ciò che è stato democraticamente deciso va mantenuto; che l´Italia sta oggi in un contesto europeo con pieno diritto e piena dignità e che non vuole sottrarsi agli impegni liberamente assunti e ratificati, che i nostri partner stanno già eseguendo; che la contestazione del modello di sviluppo è, ovviamente, sempre lecita, ma non può bloccare il funzionamento di quella stessa politica democratica che l´ha resa possibile; che non si può, mentre si discute "come" fare una cosa, tornare a mettere in dubbio "se" farla; che c´è una radicale differenza fra violenza, da una parte, e conflitto politico, dall´altra; che l´Italia non vuole essere la Grecia (con tutto il rispetto per un Paese in una situazione ben più difficile della nostra).
Sono, queste, considerazioni politiche che spettano al governo, insieme alle azioni che ne conseguono; ma altre se ne possono aggiungere. Ovvero, che si può anche scommettere contro l´Italia (lo fa la Lega, ad esempio) ma che questa posizione non fornisce particolari credenziali di affidabilità né di acume, e che da forze di sinistra che si candidano a governare questo Paese ci si attendono comportamenti più equilibrati. Che, giocando contro la democrazia per inseguire ogni estremismo, la sinistra non esce dalla propria crisi ma la dimostra e la aggrava. E che, insomma, dalla Val di Susa viene lanciata una sfida che non può essere ignorata: la sfida delle responsabilità e della maturità di tutti, ciascuno per la sua parte.

Corriere della Sera 28.2.12
Un proporzionale per l'alternanza
di Stefano Passigli


C aro direttore, l'accordo raggiunto dai tre leader di Pd, Pdl e Terzo Polo sulle più urgenti riforme costituzionali (con l'attribuzione al premier del potere di nomina e revoca dei ministri, e l'introduzione della sfiducia costruttiva) rafforza l'ipotesi che la futura legge si ispiri al modello tedesco.
Anche se sull'obiettivo di correggere l'attuale frammentazione partitica, dare omogeneità alle coalizioni, rafforzare l'esecutivo e ridare al Parlamento il proprio tradizionale ruolo salvando l'equilibrio tra poteri vi è ampio accordo, molti nodi rimangono da sciogliere. In un sistema ispirato al modello tedesco, con un riparto 50-50 tra collegi uninominali e liste, occorrerà innanzitutto stabilire la soglia di sbarramento e che, a evitare un'eccessiva penalizzazione dei partiti intermedi, soglia e recupero dei resti avvengano su scala nazionale e non di circoscrizione. Se così non fosse, diverrebbe determinante la dimensione delle circoscrizioni: se queste, ispirandosi al modello spagnolo, fossero piccole, nessun partito che non avesse almeno il 10% dei voti circoscrizionali otterrebbe un seggio anche superando la soglia nazionale. Parlare di «legge tedesca in salsa spagnola» è insomma mistificante: il sistema spagnolo, formalmente proporzionale, ha esiti ipermaggioritari dando rappresentanza solo ai due massimi partiti nazionali e ai partiti regionali. Lasciamo dunque le «salse» ai cuochi, e ispiriamoci a sistemi già sperimentati.
Un secondo nodo consiste nelle concrete modalità di selezione degli eletti. In un sistema misto collegi-liste per dare ai cittadini diritto di scelta e recuperarli alla politica occorrerà o prevedere per i collegi primarie regolate per legge, o nel caso delle liste concedere un voto di preferenza se non per il capolista almeno tra gli altri candidati. Il voto di preferenza viene spesso accusato di dividere i partiti al proprio interno, e di essere fonte di spesa o addirittura di corruzione. Identiche obiezioni valgono per le primarie, che anche recentemente hanno mostrato di essere ancora più divisive e non meno costose, e che comunque richiedono liste certe degli aventi diritto al voto ad evitare l'inquinamento che le ha invece sinora caratterizzate. Concedere un limitato voto di preferenza, mantenendo ai partiti la scelta di capolista e candidati nei collegi, e cioè della massima parte degli eletti, sarebbe non solo un giusto riconoscimento delle istanze referendarie, ma anche una saggia mossa per contrastare la crescente antipolitica.
Un terzo ostacolo è rappresentato da chi teme che la proporzionale possa far venir meno la democrazia dell'alternanza e ricreare l'instabilità della Prima Repubblica. Niente di meno vero. Nella Prima Repubblica la mancanza di alternanza fu determinata dalla situazione internazionale e non dalla proporzionale: in tutta Europa a leggi proporzionali corrisponde una competizione bipolare per il governo, e — come in Germania — alleanze dichiarate prima delle elezioni e mantenute, grazie alla sfiducia costruttiva, per l'intera legislatura. Al contrario, in Inghilterra, al maggioritario a turno unico — caro ai fautori del Mattarellum e del bipolarismo coalizionale che dà ai piccoli partiti un potere determinante — corrisponde un sistema a tre poli con formazione del governo dopo le elezioni senza precedente dichiarazione di alleanze. La riduzione della frammentazione determinata da adeguate soglie di sbarramento, l'introduzione di meccanismi stabilizzanti quali la sfiducia costruttiva, ed una dimensione di collegi e circoscrizioni che riaffidi ai cittadini la scelta degli eletti, potrebbe insomma rappresentare un punto di svolta nella nostra incompiuta transizione. Per i tre partiti che sostengono il governo Monti il varo di una nuova legge elettorale prima del 2013 è non solo compito ineludibile, ma forse il solo che può tornare a dar loro legittimità.
Professore ordinario di Scienza politica all'Università di Firenze

Corriere della Sera 28.2.12
Il marxismo di Saragat e il suo divorzio da Nenni
risponde Sergio Romano


È poco noto che Giuseppe Saragat aderiva alle posizioni della sinistra austro-marxista, di Otto Bauer per intendersi. Per lui la dittatura dell'Urss era una necessità dovuta all'impegno di prevalere sul Terzo Reich aggressore e le esperienze del movimento operaio dovevano tendere verso l'unità e la democrazia. Al XXIV congresso del partito socialista italiano (Firenze, 11- 16 aprile 1946), prima della scissione di Palazzo Barberini, invece si accosta alle posizioni autonomiste con connotati chiaramente antisovietici. Su questa evoluzione possono avere influito finanziamenti d'oltreoceano?
Francesco Perfetti

Caro Perfetti,
Saragat visse a Vienna per alcuni mesi, agli inizi del suo esilio, prima di trasferirsi in Francia, ed ebbe certamente contatti con gli austro-marxisti della socialdemocrazia austriaca di cui Otto Bauer fu uno dei maggiori teorici. Ma non credo che questi contatti gli abbiano ispirato particolari simpatie per l'Unione Sovietica. Prima della Grande guerra, gli austro-marxisti avevano elaborato riflessioni teoriche e proposte che tenevano conto del carattere multinazionale dell'impero asburgico. Credevano nel messaggio universale del socialismo, ma si rendevano conto della necessità di consentire che ogni gruppo nazionale adattasse l'ideologia alle proprie condizioni e tradizioni. Dopo la fine del conflitto e la disgregazione dell'impero, si erano impegnati alla ricerca di una terza via tra il leninismo e il revisionismo di Eduard Bernstein, vale a dire fra il massimalismo bolscevico e l'ala riformista del socialismo europeo. È questa la ragione per cui, secondo alcuni studiosi, i quattro maggiori rappresentanti dell'austro-marxismo (Max Adler, Viktor Adler, Otto Bauer e Karl Renner) potrebbero essere considerati i precursori dell'eurocomunismo di Enrico Berlinguer.
Il percorso politico e culturale di Saragat fu alquanto diverso. Ammirava Turati e fu quindi, sin dagli inizi della sua carriera politica, un socialista riformatore. Più tardi, in Francia, strinse un patto con Pietro Nenni per il ricongiungimento dei due partiti socialisti (il Psi e il Psu) emersi dalle scissioni del primo dopoguerra, e per la nascita del Psiup. Ma dopo la guerra fu tra i primi ad accorgersi che il Pci, generosamente finanziato dall'Urss, si serviva dei maggiori mezzi di cui disponeva per piegare il partito socialista alla sua strategia e, secondo Giovanni Belardelli (Corriere della Sera del 10 gennaio 2004), per infiltrarlo con i propri uomini. Non possiamo dimenticare poi che alla fine del 1946, quando Saragat decise di andare per la sua strada, l'Urss aveva già ampiamente rivelato le sue ambizioni egemoniche in Europa centro-orientale.
Lei chiede, caro Perfetti, se alla scissione di Palazzo Barberini, dove i seguaci di Saragat tennero la loro prima riunione, contribuirono finanziamenti di «oltreoceano». È molto possibile che il leader socialdemocratico abbia potuto contare in quel momento e più tardi sugli aiuti di alcuni esponenti italoamericani del mondo sindacale degli Stati Uniti. Ma la decisione di Saragat ebbe serie motivazioni politiche e giovò alla evoluzione della democrazia italiana negli anni seguenti.

Repubblica 28.2.12
Elogio dei riformisti
La tolleranza di Turati quella piccola lezione per una sinistra smarrita
Un saggio ripercorre la figura del leader socialista e una tradizione da sempre minoritaria in Italia
di Roberto Saviano


Che cosa significa essere di sinistra? È possibile ancora esserlo? Sentire nel profondo di appartenere a una storia di libertà, a una tradizione di critica sociale e di sogno, a un percorso che sembra essersi lacerato, reciso. Con un immenso passato e un futuro incerto? E soprattutto di quale sinistra parliamo e di quale tradizione? E come si coniugano le due anime della sinistra, quella riformista e quella rivoluzionaria? Che genere di dialogo c´è stato tra loro?
Domande che affliggono militanti, intellettuali e uomini di partito. Domande che affliggono me da sempre. Alessandro Orsini giovane professore napoletano di Sociologia Politica all´Università di Roma Tor Vergata ha provato a dare delle risposte. Ha scritto un libro intitolato Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino). Il titolo sembra presentare un saggio, di quelli accademici, lunghi e tortuosi. E invece credo sia la più bella riflessione teorica sulla sinistra fatta negli ultimi anni. Che non ha paura di maneggiare materia delicata. Alessandro Orsini ci presenta due anime della sinistra storica italiana (esemplificate in Gramsci e Turati) e ci mostra come, nel tempo, una abbia avuto il sopravvento sull´altra. L´idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: «La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato». Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all´insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute: «Per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio». Arrivò persino a tessere l´elogio del "cazzotto in faccia" contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un "programma politico" e non un episodio isolato. Certo, il pensiero di Gramsci non può essere confinato in questo tratto violento, e d´altronde le sue parole risentivano l´influenza della retorica politica dell´epoca, che era (non solo a sinistra) accesa, virulenta, pirotecnica. Il politicamente corretto non era stato ancora inventato. Eppure, in quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo: «Tutte le opinioni meritano di essere rispettate. La violenza, l´insulto e l´intolleranza rappresentano la negazione del socialismo. Bisogna coltivare il diritto a essere eretici. Il diritto all´eresia è il diritto al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non esiste la libertà».
Orsini raccoglie e analizza brani, scritti, testimonianze, che mostrano come quel vizio d´origine abbia influenzato e condizionato la vita a sinistra, e come l´eredità peggiore della pedagogia dell´intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista sopravviva ancora. Naturalmente, oggi, nel Pd erede del Pci, non c´è più traccia di quel massimalismo verboso e violento, e anche il linguaggio della Sel di Vendola è molto meno acceso.
Ma c´è invece, fuori dal Parlamento, una certa sinistra che vive di dogmi. Sono i sopravvissuti di un estremismo massimalista che sostiene di avere la verità unica tra le mani. Loro sono i seguaci dell´unica idea possibile di libertà, tutto quello che dicono e pensano non può che essere il giusto. Amano Cuba e non rispondono dei crimini della dittatura castrista – mi è capitato di parlare con persone diffidenti verso Yoani Sánchez solo perché in questo momento rappresenta una voce critica da Cuba –, non rispondono dei crimini di Hamas o Hezbollah, hanno in simpatia regimi ferocissimi solo perché antiamericani, tollerano le peggiori barbarie e si indignano per le contraddizioni delle democrazie. Per loro tutti gli altri sono venduti. Mai che li sfiori l´idea che essere marginali e inascoltati nel loro caso non è sinonimo di purezza, ma spesso semplicemente mancanza di merito.
Turati a tutto questo avrebbe pacificamente opposto il diritto a essere eretici, che Orsini ritiene essere il suo più importante lascito pedagogico. Questo fondamentale diritto ha trovato la formulazione più alta nell´elogio di Satana, metafora estrema dell´amore per l´eresia e dell´odio per i roghi. Satana, provoca Turati, è il padre dei riformisti: «Non siamo asceti che temono i contatti della carne, siamo figli di Satana (…). Se domani viene da me il Re, il Papa, lo Scià di Persia, il Gran Khan della Tartaria, il presidente di una repubblica americana, non per questo rinuncio alle mie idee. Non per questo transigo o faccio atto d´omaggio, ma resto quello che sono, e ciascuno di noi rimane quello che è».
Ma l´odio per i riformisti, – spiega Orsini – è il pilastro della pedagogia dell´intolleranza. Dal momento che i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori qui e ora, sono percepiti da certi rivoluzionari come alleati dei capitalisti. Questo libro dimostra come, nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori sia un bene (come diceva Labriola) perché accresce l´odio contro il sistema e rilancia l´iniziativa rivoluzionaria: è il famigerato tanto peggio tanto meglio. I riformisti, invece, non credono nella società perfetta, ma in una società migliore che innalzi progressivamente il livello culturale dei lavoratori e migliori le loro condizioni di vita anche attraverso la partecipazione attiva alla gestione della cosa pubblica. I riformisti – spiegava Turati – sono realisti e tolleranti. Realisti perché credono che non sia possibile costruire una società in cui siano banditi per sempre i conflitti. Tolleranti perché, rifiutando il perfettismo, si pongono al riparo dalla convinzione di avere avuto accesso alla verità ultima sul significato della storia. Turati pagò a caro prezzo la sua durissima battaglia contro la pedagogia dell´intolleranza. Quando morì in esilio, in condizioni di povertà, Palmiro Togliatti scrisse un articolo su Lo Stato Operaio, in cui affermò che era stato «il più corrotto, il più spregevole, il più ripugnante tra tutti gli uomini della sinistra».
Consiglio questo libro a chi si sente smarrito a sinistra. Potrebbe essere uno strumento di comprensione e soprattutto, credo, di difesa. Difenderebbe il giovane lettore dai nemici del dialogo, dai fautori del litigio, dagli attaccabrighe pronti a parlare in nome della classe operaia, degli emarginati, degli "invisibili", dai pacifisti talmente violenti da usare la pace come strumento di aggressione per chiunque la pensi diversamente. Turati aiuta a comprendere quanta potenza ci sia nel riformismo, che molti considerano pensiero debole, pavido, direbbero persino sfigato. Il riformismo di cui parla Turati fa paura ai poteri, alle corporazioni, alle caste, perché prova, cercando consenso, ponendosi dubbi, ragionando e confrontandosi, di risolvere le contraddizioni qui e ora. Coinvolgendo persone, non spaventandole o estromettendole perché "contaminate". Non è un caso che i fascisti prima e brigatisti poi avessero in odio soprattutto i riformisti. Non è un caso che i fascisti temessero Matteotti che aveva denunciato brogli elettorali. Non è un caso che i brigatisti temessero i giudici riformisti, i funzionari di Stato efficienti. Perché per loro i corrotti e i reazionari erano alleati che confermavano la loro idea di Stato da abbattere e non da migliorare.
Per Turati il marxismo non può essere considerato un "ricettario perpetuo" in cui trovare la soluzione a tutti i problemi perché uno stesso problema, come l´emancipazione dei lavoratori, può richiedere soluzioni differenti in base ai contesti, ai periodi storici e alle risorse disponibili in un dato momento. Meglio diffidare da coloro che affermano di sapere tutto in anticipo; meglio "confessarci ignoranti"». Turati era convinto che la prospettiva culturale da cui guardiamo il mondo fosse decisiva per lo sviluppo delle nostre azioni. Questa è la ragione per cui attribuiva la massima importanza al ruolo dell´educazione politica: prima di trasformare il mondo, occorre aprire la mente e confrontarsi con i propri pregiudizi. Le certezze assolute fiaccano anche le intelligenze più acute: la pedagogia della tolleranza è il primo passo per la costruzione di una società migliore.

il Fatto 28.2.12
Matteo Renzi è in linea con il Pdl. Parola di Mattinale


Ieri il Mattinale, la newsletter redatta a Palazzo Grazioli dallo staff di Paolo Bonaiuti, ha commentato la raggiunta prescrizione del processo Mills attraverso le frasi degli esponenti del Popolo della libertà. Il titolo della sezione era “Hanno detto: Finita la folle corsa del pm”. E, curiosamente, tra un Alfano, una Gelmini e un Gasparri, si è guadagnato una citazione l’outsider Matteo Renzi. Solo per lui la dicitura “Pd sindaco di Firenze”, se qualcuno se lo fosse dimenticato. “Silvio Berlusconi è stato prosciolto – ha detto Renzi commentando il processo – e io spero che questo ponga fine alla lunga era delle curve e degli ultrà. Sabato Berlusconi è uscito da quel processo. È un libero cittadino. Questo è un fatto. E chi volesse metterlo in discussione, metterebbe in discussione anche la giustizia di questo Paese”.

Corriere della Sera 28.2.12
La carriera lampo del primario che operava i manichini
Giacomo Frati. Chirurgo e figlio del rettore della Sapienza, Luigi Frati
La carriera del primario che operava i manichini
di Gian Antonio Stella


Vi fareste operare al cuore da chi non ha « mai visto la cardiochirurgia » e si è impratichito solo con i manichini? Se la domanda vi sembra demenziale, sappiate che è già successo.
O almeno così dice, in un'intervista stupefacente, il figlio del rettore della Sapienza. Che con una sfolgorante carriera si è ritrovato giovanissimo a fare il professore nella facoltà del papà, della mamma e della sorella.
Che per essere un grandissimo chirurgo si debba avere necessariamente un curriculum scientifico universitario, per carità, non è detto. Ambroise Paré, il fondatore della moderna chirurgia, pare fosse figlio di una peripatetica e cominciò nella scia del padre facendo insieme il chirurgo e il barbiere. E il capo-chirurgo dell'«équipe 2» del primo trapianto di cuore in Sud Africa, nel 1967, al fianco di Christiaan Barnard, pare sia stato Hamilton Naki, che era un autodidatta con la terza media che essendo nero figurava assunto come giardiniere ma aveva le mani d'oro al punto di ricevere, finita l'apartheid, una laurea ad honorem e il riconoscimento di Barnard: «Tecnicamente era meglio di me».
Detto questo, il modo in cui Giacomo Frati si è ritrovato alla guida di un'Unità Programmatica di (teorica) avanguardia al Policlinico di Roma appare sempre più sbalorditivo. Ricordate? Ne parlammo due settimane fa, dopo l'apertura di un'inchiesta giudiziaria. Riassumendo, il giovanotto riesce in una manciata di anni (ricercatore a 28, professore associato a 31, in cattedra a 36) a diventare ordinario nella stessa facoltà di medicina in cui il padre, il potentissimo rettore Luigi, è stato per una vita il preside e ha già piazzato la moglie Luciana Rita Angeletti (laurea in lettere, storia della medicina) e la figlia Paola, laureata in legge e accasata a Medicina Legale.
Un genio tra tanti «sfigati»? Sarà… Ma certo gli ultimi passaggi della vertiginosa carriera di Giacomo sono sconcertanti. Prima l'esame da cardiochirurgo vinto grazie al giudizio di una commissione di due igienisti e tre dentisti: «Giusto? Forse no però questo non è un problema mio…». Poi la chiamata a Latina dove era stata aperta una «succursale» di cardiologia della Sapienza presso la casa di cura Icot. Poi il ritorno a Roma appena in tempo prima che le nuove regole contro il nepotismo della riforma Gelmini impedissero l'agognato ricongiungimento familiare. Poi la creazione su misura per lui, togliendo un po' di letti a un altro reparto, di un'«Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» che gli consente di avere un ruolo equiparato a quello di primario, novità decisa dal direttore generale Antonio Capparelli. Nominato poche settimane prima ai vertici del Policlinico proprio da Luigi Frati, il premuroso papà.
Troppo anche per un ateneo storicamente abituato a una certa dose di nepotismo. Eppure, neanche un verdetto del Tar che dà ragione a quanti avevano presentato un esposto contro gli esiti della «gara» vinta da Giacomo («illogicità del criterio adottato», «irragionevole penalizzazione degli idonei», «danno grave e irreparabile») è riuscito a frenare l'irrefrenabile ascesa del giovanotto. Anzi, il giorno dopo avere perso il ricorso in appello contro quella sentenza, l'università gli ha fatto fare un nuovo passo in avanti.
Né sono riusciti a bagnare l'impermeabile scorza di Luigi Frati (dominus assoluto di un sistema trasversale alla destra e alla sinistra che sta benissimo a molti baroni) alcune contestazioni nel Senato accademico o una miriade di mugugni sul Web. Né poteva infastidirlo, pochi giorni fa, il professor Antonio Sili Scavalli, segretario regionale della Fials e responsabile aziendale dello stesso sindacato, che ha mandato una diffida a Renata Polverini chiedendo come fosse possibile che Giacomo Frati, chiamato al Policlinico per attivare una guardia medica di cardiochirurgia, sia stato quattro mesi dopo promosso e contestualmente abbia chiesto, da primario, di essere esentato dalle noiose guardie notturne.
Ma le domande più fastidiose poste dal sindacato, che preannuncia un esposto alla magistratura, sono altre. È vero che in un anno e mezzo i dati sulla produttività dell'unità di Giacomo Frati «fornirebbero un numero pari a zero»? Ed è vero che in questo periodo il giovine chirurgo ha fatto in tutto 5 interventi «peraltro di cardiochirurgia classica» che dunque non c'entrano niente con la creazione su misura del reparto di «avanguardia»? E soprattutto: qual era la mortalità di quella dependance di cardiochirurgia a Latina dove si era impratichito?
Il punto più delicato è questo. Lo dicono nemici di Frati come il senatore Claudio Fazzone, che mesi fa ironizzò sull'«alta qualità portata a Latina» dal rettore: «Penso si riferisca alla cardiochirurgia che ha effettuato 44 interventi in un anno, di basso profilo, col più alto indice di mortalità del Lazio». Ma lo dice soprattutto un decreto della Regione del 29 settembre 2010. Dove si legge che nonostante a Latina fossero stati fatti «zero» interventi chirurgici «di alta complessità, i risultati all'Icot erano pessimi.
Tanto da spingere la Regione Lazio a chiudere la dependance universitaria, a costo di dover pagare alla casa di cura dove stava un risarcimento milionario: «La disattivazione dei posti letto di cardiochirurgia dell'Icot di Latina è sostenuta da valutazioni relative ai volumi di attività estremamente ridotti e alla bassa performance. Nel 2009, la struttura ha effettuato 44 interventi cardiochirurgici (pari all'1% del totale regionale) ed è ultima nel Lazio per capacità di attrazione, con una percentuale di ricoveri a carico di residenti fuori regione intorno al 2% (valore medio regionale del 9%). L'indice di inappropriatezza d'uso dei posti letto è 3 volte più elevato rispetto alla media regionale».
Quanto «bassa» fosse la performance, lo dice una tabella riservata del «PReValE», il Programma regionale di valutazione degli esiti, recuperata da Sabrina Giannini, di «Report». Tabella dove, alla voce «Bypass aorto-coronarico» per il 2008-2009 sulla mortalità nei primi 30 giorni dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico, risulta che non ce la fece il 2,25% degli operati (su 356) al Gemelli, lo 0,46% (su 656) al San Camillo-Forlanini, il 2,67% (su 225) all'Umberto I, il 3,01 (su 632) all'European hospital e via così. Risultato finale: una media di mortalità, per quanto queste statistiche vadano prese con le pinze, intorno al 2,5%.
Bene: in un servizio per «Reportime» di Milena Gabanelli, servizio da questa mattina su corriere.it, Sabrina Giannini mostra quella tabella a Giacomo Frati: come mai all'Icot c'era una mortalità del 6% e cioè più che doppia? Il giovane «astro nascente» della famiglia del rettore sbanda. E si avvita in una risposta strabiliante: «Cioè, la cardiochirurgia qui è partita da zero. Faccio presente che quando noi abbiamo iniziato tutto il personale, anche infermieristico, era un personale che non aveva mai visto la cardiochirurgia. Abbiamo fatto simulazione in sala anche con i manichini. Anche per il posizionamento dei devices della circolazione extracorporea».
Fateci capire: «tutto il personale» (tutto, compresi dunque i chirurghi) era così a digiuno di cardiochirurgia che prima di operare dei pazienti si era addestrato coi manichini? Che storia è questa? Si sono impratichiti via via sui malati che avevano affidato loro la vita? Per difendere quel reparto, mentre la Regione decideva (troppi reparti) di rinunciare ad aprire nuove cardiochirurgie a Viterbo, Frosinone e Rieti, Luigi Frati disse in un'intervista a «La Provincia»: «Mi chiedo perché mai uno di Latina non abbia il diritto di farsi operare nella sua città». Ma da chi, signor rettore? A che prezzo? In quale altro paese del mondo, dopo tutto ciò che è emerso, potrebbe restare ancora imbullonato al suo posto?

l’Unità 28.2.12
L’imperialismo cambia nome: «land grabbing»
E la Cina è il Paese-guida
Accaparramento di terre: il processo iniziato negli ultimi anni in Africa
Ora interessa anche potenze come Brasile, Russia. E tra chi compra, le Maldive dove a causa del cambiamento climatico il mare erode il suolo dove vivere
di Gianni Sofri


Qualche giorno fa si è letto che un tribunale della Nuova Zelanda, dando torto al governo, ha fermato la vendita a una società cinese di 16 aziende agricole per 166 milioni di dollari. Episodi come questo si vanno moltiplicando. Si è calcolato che negli ultimi 5 anni siano Stati acquistati, o comunque negoziati fra privati o governi di stati diversi, territori per 30 milioni di ettari: pressappoco la superficie delle Filippine.
Cominciamo col chiederci chi sono i protagonisti. Per i protagonisti passivi, e cioè coloro che vendono, l’elenco è fatto abbastanza presto. Sono, in primo luogo, i Paesi più poveri, quelli che non hanno nient’altro da vendere; e quindi, prevedibilmente, la maggior parte dei Paesi africani (anche se ce ne sono, come il Sudafrica o Gibuti, tra i compratori). Ma a vendere pezzi di territorio sono anche (tra gli altri) Filippine, Pakistan, Indonesia, Laos, Ucraina, Cuba.
Ci sono persino due importanti «Bric», cioè Paesi che stanno diventando potenze economiche mondiali, come Brasile e Russia. Dunque ra i venditori non ci sono solo Paesi poveri, ma anche Paesi che hanno molta terra da vendere.
Passiamo agli acquirenti. Il lettore penserà subito alla Cina, perché della Cina si conosce la fame crescente di materie prime, oleodotti, porti (a cominciare dal Pireo), contratti all’estero per infrastrutture (strade, raffinerie) e così via. Anche di territori da coltivare. Il grande Paese ha bisogno di alimentare la propria crescita, ma anche di attrezzarsi per nutrire i suoi abitanti: quasi un quinto della popolazione mondiale, che vive sul 7% delle terre coltivabili del pianeta. Non a caso, il Documento n. 1 del 2007 del Comitato Centrale del Pcc insisteva sulla necessità per l’agricoltura cinese di «uscire dalle proprie frontiere»: una direttiva che si è tradotta nell’uscita di capitali, tecnologie, manodopera. Non si sa con esattezza quanti cinesi lavorino oggi in Africa nei vari settori: le valutazioni vanno da 200mila a un milione.
Tuttavia la Cina occupa per ora solo il terzo posto nella speciale classifica degli acquirenti, nell’ordine: Corea del Sud, India, Cina, Arabia Saudita ed Emirati, Giappone (più indietro ci siamo anche noi, con presenze in Africa e in Europa Orientale). Anche se la forza e l’attivismo internazionale della Cina sembrano destinarla a scalare, molto presto, la testa della classifica. La quale è comunque incerta: sia perché i governi (e i protagonisti in genere) non forniscono volentieri i dati; sia perché non sono chiari, ma ambigui e vaghi, i confini che separano la piantagione gestita da un vecchio colono dal tradizionale investimento di una multinazionale, fino agli acquisti di cui parliamo (e ai quali ci avviciniamo per approssimazioni successive), che sono un fenomeno degli ultimi anni.
Si sarà già capito, dall’elenco qui sopra, che cosa spinge a comprare terreni agricoli in altri Paesi. La prima preoccupazione è di riuscire a fronteggiare, in prospettiva, ulteriori aumenti del prezzo della materie prime agricole, tali da mettere in pericolo la sicurezza alimentare. Della Cina si è detto. La Corea del Sud produce solo lo 0,2% del grano e lo 0,8% del mais di cui ha bisogno. Quanto all’India, è fin troppo nota una povertà che continua ad accompagnarsi a settori in sviluppo assai rapido. Del Giappone si sa invece che ha un’agricoltura progredita ma su una superficie limitata, ben lontana dal garantire il fabbisogno alimentare di una popolazione la cui densità è di 339 abitanti per chilometro quadrato (contro i 201 dell’Italia).
Sulle ragioni che spingono alla ricerca di terreni coltivabili e fertili i Paesi della penisola arabica non occorre insistere più di tanto, se si pensa ai deserti e alle steppe su cui si estendono. Ma naturalmente, per spiegare questo elenco di compratori manca ancora un elemento, e cioè i capitali. Della Cina si sa che è il Paese che ne ha più di ogni altro. Gli Stati arabi trasudano ricchezza. La Corea del Sud avanza tra i ricchi del mondo, mentre il Giappone, pur dovendosi curare le ferite dell’economia e della natura, resta uno dei Paesi più avanzati. Le motivazioni economiche sono, naturalmente, decisive: ma un po’ sempre, e in maniera vistosa nel caso della Cina, le accompagnano ragioni geopolitiche, di prestigio e di strategia mondiale.
È bene aggiungere, tuttavia, che ci sono anche delle eccezioni, e non poco curiose. Un tipico caso di anomalia è quello delle isole Maldive, minacciate di essere entro pochi anni ricoperte dall’oceano a causa del riscaldamento del clima. Si può capire che persino questo piccolo stato, non ricco, ma con buoni proventi dal turismo, compri sulla terraferma (africana, ovviamente) terreni da coltivare o sui quali – perché no? – rifugiarsi.
Quali sono le caratteristiche specifiche del fenomeno di cui stiamo parlando? La prima è quantitativa. Qui non si tratta più di tenute sia pur vaste, piantagioni o appezzamenti di terreno di medie dimensioni: si tratta invece di territori molto estesi, quanto una provincia italiana o anche più. Territori che sono, quasi sempre, i più fertili di Paesi la cui superficie coltivabile è in genere insufficiente. La propaganda ufficiale di venditori e compratori li descrive come terreni incolti o abbandonati, che l’arrivo di stranieri renderà fruttuosi.
In realtà, sono quasi sempre terreni sfruttati, sia pure con metodi primitivi, da un’agricoltura di sussistenza, ad opera di popolazioni spesso costrette ad abbandonare la terra perché possa essere consegnata, chiavi in mano, ai nuovi proprietari. I quali ultimi portano con sé, in molti casi, non solo tecniche più avanzate ma anche la manodopera. Questo vale soprattutto nel caso dei cinesi, che arrivano spesso sulle nuove terre portando con sé migliaia di lavoratori (molte volte carcerati cui viene condonata una parte della pena), che conducono per qualche anno una vita da reclusi, senza contatti con la popolazione locale. Si può capire che le reazioni di quest’ultima siano in molti casi ostili, anche se poco in grado di trasformarsi in vera opposizione. I governi tendono invece, molto spesso, a favorire le vendite (o gli affitti, o le joint-venture): è il caso, più di altri, del Brasile, dell’Etiopia, o del Pakistan nei confronti dei paesi arabi del Golfo. A Papua, per fare un altro esempio, sono i politici e gli amministratori locali a contattare i sauditi offrendo loro delle terre.
Alle dimensioni dei territori va aggiunta la durata dei contratti, che raggiunge spesso i 99 o 100 anni. Molti osservatori parlano di un’agricoltura «delocalizzata». Altri sottolineano che una volta territori così estesi si ottenevano con conquiste militari e si chiamavano colonie, mentre ora si comprano. Non solo: certi insediamenti stranieri, soprattutto cinesi, sono organizzati e diretti sulla base di una specie di silenzioso (quando non ufficiale) diritto di extraterritorialità. A parti rovesciate, qualcosa di molto simile a quanto accadde nella Cina dell’Ottocento dopo le guerre dell’oppio.
Un episodio tra i più significativi delle contraddizioni prodotte dall’acquisto di terre nei paesi del Sud è quello che si è verificato nel 2008-2009 nel Madagascar. La multinazionale sudcoreana Daewoo è entrata in trattative con il governo per ottenere per 99 anni il 40% delle terre coltivabili di tutto il paese (all’incirca la superficie della Campania) per produrvi granoturco e olio di palma. Daewoo non pagava praticamente nulla allo stato malgascio, ma si impegnava a costruire infrastrutture, a creare 45mila posti di lavoro e a rendere coltivabili terreni in buona parte usati in altro modo (per esempio coperti da foreste). Le proteste sono partite dalle popolazioni danneggiate ma si sono poi estese e radicalizzate, fino a determinare la caduta del presidente Ravalomanana, accusato di avere “svenduto” buona parte del Paese. Il suo successore, Rajoelina, ha detto: «Non siamo contrari all’idea di collaborare con gli investitori, ma se vogliamo vendere o affittare la nostra terra dobbiamo modificare la Costituzione, bisogna consultare la popolazione. Per questo, ora l’accordo viene cancellato».
Un episodio analogo si è verificato nel 2011 in Islanda, protagonisti un miliardario cinese e il governo di Reykjavík, timoroso che un progetto turistico nascondesse un disegno espansionistico nell’isola, che fa parte della Nato e vuole entrare nella Ue. Per un contratto cancellato, cinque nuovi contratti vengono firmati e altri dieci negoziati. Lasciamo al lettore di giudicare se fenomeni come questo, o come il silenzioso passaggio di cinesi in Siberia (fino a modificare l’assetto demografico di questa regione), non siano tali da esigere, in qualche modo, un ripensamento delle teorie vigenti del colonialismo e dell’imperialismo.

La Stampa 28.2.12
La crescita cinese
Stavolta Pechino deve rischiare
di Bill Emmott


La Cina è uno di quei Paesi, e di quelle economie, che ti fanno venire le vertigini. Appena ti sembra di aver colto le regole base di come funziona la Cina e la direzione nella quale sta andando, tutto cambia. Può essere frustrante per gli osservatori stranieri e i concorrenti, ma non deve certo sorprendere. Il fatto che l’economia cinese cresce del 10 per cento l’anno significa che ogni sette anni il suo Pil raddoppia. E non è possibile senza cambiare radicalmente, sia sul piano sociale sia su quello economico.
Dunque, il cambiamento in Cina è routine. Ora, in un nuovo rapporto intitolato «Cina 2030», la Banca Mondiale afferma che il Paese è giunto a un punto di svolta.
Potrebbe - dicono gli autori del documento - continuare a crescere rapidamente per i prossimi due decenni, seppure a un tasso più moderato del 6-7 per cento annuo, e potrebbe conseguire questo risultato senza distruggere l’ambiente di tutto il pianeta o la propria società. Ma solo a condizione di un cambiamento sostanziale.
Le proposte di cambiamento contenute nel rapporto della Banca Mondiale sono piuttosto comuni e convenzionali, sia perché l’argomento è già stato affrontato da altri analisti, sia perché il rapporto è stato scritto in collaborazione con i rappresentanti del governo cinese. La questione più interessante non riguarda le proposte in sé - che consistono essenzialmente nel diventare più innovativi, verdi, egualitari e privatizzati - bensì quanto il cambiare possa davvero restare l’eterna routine cinese.
In linea di principio, è possibile. Uno dei motivi è che si tratta di un Paese così vasto e vario. Lo sviluppo può migrare geograficamente, e lo sta facendo, esattamente come fanno già i lavoratori cinesi. Con una popolazione di 1,3 miliardi di persone, la Cina è quattro Americhe in un solo Paese. E come gli Stati Uniti nella loro storia hanno spesso fatto grandi progressi in alcune regioni, spostando sia la localizzazione che la natura della crescita, così la Cina può fare altrettanto. E ciò le conferisce una flessibilità interna.
La seconda ragione è il grande pragmatismo, che risale all’ascesa alla guida del Paese di Deng Xiaoping nel 1978. «Non importa se il gatto è nero o bianco, basta che dia la caccia ai topi», disse in una sua famosa frase. E quindi, le politiche sono cambiate, rispondendo ai problemi che sorgevano come alle nuove opportunità che si aprivano. Il Partito comunista cinese in realtà non ha un’ideologia che vada oltre l’imperativo di conservare il proprio potere e sopravvivere.
Negli ultimi decenni sono state scritte tonnellate di libri e articoli che predicevano l’imminente collasso della Cina. Di solito, l’argomentazione si basava sull’idea che il Paese stesse applicando politiche economiche sbagliate, o che stava andando incontro alla destabilizzazione politica e a una rivolta contro il Partito comunista. Tutte queste previsioni si sono rivelate sbagliate. Le previsioni economiche di regola hanno sottovalutato la flessibilità della Cina, la sua capacità di assorbire i problemi, gli choc e gli sprechi. Le previsioni politiche hanno sottovalutato la flessibilità e la resistenza del Partito comunista, così come la tolleranza dei cinesi nei confronti di un governo autoritario, a condizione che i loro redditi e le loro opportunità continuassero a migliorare.
Ma non si può contare in eterno né sulla flessibilità, né sulla resistenza, nel campo economico come in quello politico. In realtà, la maggiore preoccupazione è - o dovrebbe essere - la possibilità che la flessibilità e la resistenza possano venire in contraddizione l’una con l’altra, in modi che la Banca Mondiale è stata costretta a descrivere in modo fin troppo educato.
La forza e la resistenza del Partito comunista e dei suoi strumenti di governo sono stati costruiti in una maniera brillante: fin dalla morte di Deng nel 1997, il partito si è trasformato dalle sue vecchie origini ideologiche e rivoluzionarie dei tempi di Mao, per diventare essenzialmente una burocrazia meritocratica. Nessuno può più avere il potere che avevano avuto il presidente Mao e poi lo stesso Deng. Ora i leader sono soggetti a rigidi limiti temporali di mandato, e tutte le cariche nel partito vengono sottoposte a regolare rotazione. Uno di questi avvicendamenti incombe quest’anno, quando il presidente Hu Jintao e il suo premier, Wen Jiabao, si ritireranno al 18˚ Congresso in autunno, dopo nove anni in carica, e verranno sostituiti - o almeno così si pensa - da Xi Jinping e Li Keqiang. Questa rotazione al vertice, insieme a quella di tutte le cariche di partito, serve a tenere la corruzione almeno parzialmente sotto controllo, e a evitare devastanti lotte di potere. Finora, questo sistema ha funzionato in maniera superba.
L’altra cosa che fa questo sistema, però, è incoraggiare la timidezza e la gradualità. Il presidente Hu è stato al potere per quasi dieci anni, ma non lascerà riforme o trasformazioni maggiori associate al suo nome. La Cina non pratica più «grandi balzi in avanti» promossi con risultati devastanti da Mao negli Anni 50. La sua burocrazia è troppo conservatrice. Nessuno vuole correre rischi, o almeno così appare.
Il tipo di proposte avanzate dalla Banca Mondiale, e discusse da analisti e funzionari cinesi, richiede invece dei rischi. Nelle ultime settimane si è assistito a un improvviso attacco di sincerità da parte di funzionari legati alla Banca centrale cinese, che hanno esortato una liberalizzazione più rapida dei mercati del capitale, addirittura della convertibilità della moneta. Ma questo sarebbe rischioso. E’ poco probabile che la leadership uscente voglia correre un tale rischio, e non sappiamo ancora se la nuova dirigenza sarà più spavalda.
Il pragmatismo e il diffuso desiderio di continuare a crescere, a tirare ancora più cinesi fuori dalla povertà e a trasformare la Cina in un Paese ricco, potrebbero alla fine spingere la burocrazia a essere più flessibile. Ma ciò non è inevitabile. I sistemi, anche quelli di maggior successo, possono diventare calcificati e bloccati. E’ accaduto al Giappone negli Anni 80 e, in maniera diversa, sta accadendo all’Italia. Interessi particolari si trincerano. L’establishment diventa conservatore. E questa è oggi la maggiore minaccia alla crescita, anche della Cina.

La Stampa 28.2.12
Crescita. Il paso del Dragone
“La Cina rischia di sgonfiarsi”
La Banca mondiale: per crescere ancora deve aumentare i salari e aprire il mercato interno
di Maurizio Molinari


LE PREVISIONI L’aumento annuale del Pil potrebbe scendere al 5-6% dopo anni sopra il 10
ALLARME SOCIALE Le diseguaglianze crescono. Sempre più famiglie chiedono una copertura sanitaria

La crescita cinese rischia di rallentare in assenza di riforme strutturali: a lanciare l’allarme sulla seconda economia del Pianeta è il rapporto China 2030 frutto del lavoro congiunto della Banca Mondiale e del Centro di ricerca per lo sviluppo di Pechino.
«L’attuale modello di sviluppo cinese è insostenibile - ha detto il presidente della Banca Mondiale Robert Zoellick, presentando il documento a Pechino - e servono profonde riforme per evitare una brusca inversione della crescita». Ad evidenziarlo è la previsione che l’aumento annuale del pil scenderà al 5-6 per cento a partire dal prossimo anno fino al 2030 dopo essere stato al 10 per cento negli ultimi 30 anni. Per scongiurare che ciò avvenga il rapporto mette nero su bianco sei raccomandazioni sulle riforme da adottare che contengono la descrizione delle più gravi debolezze del gigante cinese perché «le scelte che hanno consentito l’attuale crescita sono state ispirate da Deng Xiaoping oltre 30 anni fa e ora siamo arrivati a un punto di svolta dove un secondo cambiamento strategico è necessario».
Il primo passo suggerito riguarda il «rafforzamento dell’economia di mercato» con la «riforma delle imprese statali» che controllano gran parte di produzione e commerci a favore «dello sviluppo del settore privato» passando attraverso «la riduzione delle barriere in entrata e uscita» e l’«aumento della competizione in tutti i settori, inclusi quelli strategici». Nel settore finanziario ciò significa «commercializzare il sistema bancario consentendo ai tassi di interesse di essere progressivamente stabiliti dalle forze del mercato» mentre nell’agricoltura ciò comporta una «riforma per proteggere i diritti dei contadini ed aumentare la produttività delle terre».
L’idea di fondo è garantire più diritti a ogni protagonista del mercato, inclusi i lavoratori perché «servono misure per incrementare il tasso di partecipazione alla manodopera tanto ripensando la politica dei salari quanto ricorrendo a strumenti come pensioni, assicurazioni mediche e sussidi di disoccupazione». Riguardo alla sicurezza sociale, il rapporto lancia l’allarme sulle «crescenti diseguaglianze» facendo presente il bisogno di «consentire alle famiglie di avere lavoro e copertura sanitaria» puntando a far venir meno le «grandi differenze fra città e campagne in materia di accesso ai posti di lavoro, ai servizi pubblici essenziali e alla protezione sociale».
Lo sviluppo deve dunque allargarsi alle aree rurali puntando anzitutto sui «servizi sociali», ovvero su una forma di protezione e assistenza per chi finora è rimasto escluso dalla crescita accelerata delle città. Gli altri punti deboli vengono identificati nel sistema dell’istruzione, dove «bisogna creare dei centri di ricerca di livello mondiale con forti legami con l’industria» per consentire maggiore interazione, e nell’inquinamento dell’aria a cui bisogna rispondere «incoraggiando nuovi investimenti delle industrie nell’energia pulita e rinnovabile». Affinché tutto ciò sia possibile, si afferma nella quinta raccomandazione, le autorità di Pechino dovranno anche «rafforzare il sistema fiscale» dosando con maggiore attenzione le risorse pubbliche destinate ai governi locali affinché «siano commisurate alle necessità reali di spesa» evitando sperperi e corruzione.
Nell’ultima parte, China 2030 osserva che seguendo tale percorso Pechino, oltre a sostenere e prolungare la propria crescita, aumenterà l’integrazione nell’economia globale «con effetti benefici per lei e per il resto del mondo». Da qui la necessità di «resuscitare i negoziati sul commercio multilaterale di Doha» e «integrare il settore finanziario cinese con quello globale». Si tratta nel complesso di un ambizioso programma di riforme di lungo termine e il fatto che i ricercatori di Pechino abbiano partecipato alla stesura lascia intendere la possibilità che il destinatario sia Xi Jinping che in autunno sostituirà Hu Jintao alla presidenza della Repubblica popolare.

La Stampa 28.2.12
Intervista
“Faranno le riforme Ma solo quelle che gli interessano”
L’esperto: e Pechino aiuterà l’Europa
di Paolo Mastrolilli


Albert Keidel è stato capo dell’Office of East Asian Nations al dipartimento del Tesoro Usa. Oggi insegna alla Georgetown University

La frenata della Cina è già finita: a dicembre è ripresa la crescita. Entro il 2030, ma più probabilmente tra il 2025 e il 2028, scavalcherà gli Usa come prima economia mondiale. Varerà alcune delle riforme suggerite dalla Banca Mondiale, anche perché questo rapporto è stato scritto in collaborazione con Pechino, ma con prudenza». Pochi conoscono l’economia cinese come il professore della Georgetown University Albert Keidel, che è stato capo dell’Office of East Asian Nations al dipartimento del Tesoro, e capo economista della Banca Mondiale a Pechino.
Professore, condivide la diagnosi del rapporto?
«In generale sì, ma è stato ripulito dagli aspetti potenzialmente più controversi».
Cioè?
«La Cina sa di dover fare le riforme, ma varerà solo quelle che ritiene necessarie, e nei tempi che preferisce. Farà bene: la corsa alla liberalizzazione la esporrebbe ai rischi che provocarono la crisi in Corea del Sud, non avendo le strutture per sostenerla».
Non sono indispensabili le riforme, per continuare a crescere?
«Ma la frenata è finita già a dicembre. La crescita accelera e probabilmente continuerà a farlo nel 2012. La Cina è un mercato enorme, e ha un suo ciclo interno indipendente dai fattori internazionali».
La data del sorpasso degli Usa da cosa dipende?
«Dalla rapidità e dalla forza con cui avverrà la nostra ripresa. Comunque, se non sarà il 2025, non andremo oltre il 2030».
Questo non la preoccupa?
«No, perché gli Usa resteranno avanti in termini di tecnologia e capitale pro capite. Non possiamo fermare la crescita della Cina, possiamo e dobbiamo sfruttarla a nostro vantaggio».
Ad esempio?
«Evitando la retorica delle campagne elettorali e lo scivolamento verso il confronto militare. La Cina ha bisogno di noi nel settore sanitario, tecnologico, spaziale; noi abbiamo bisogno di lei perché è un mercato enorme e può svolgere un ruolo di stabilizzazione mondiale, anche se non è nostra alleata».
Aiuterà l’Europa a riprendersi?
«Ha tutto l’interesse a farlo, perché un tracollo dell’Europa è la vera minaccia alla sua corsa. Però non metterà molti soldi sul tavolo, come gli Stati Uniti».

l’Unità 28.2.12
Il ministro della Difesa: i militari processati in base alle nostre regole
La perizia Secondo indiscrezioni dalla petroliera italiana sparati 24 colpi
Marò, l’India avverte: «Non cederemo alle pressioni italiane»
«Il caso sta procedendo nella giusta direzione e non abbiamo intenzione di cedere alle pressioni dell'Italia», dichiara il ministro della Difesa indiano Antony. Oggi arriva il titolare della Farnesina, Giulio Terzi
di Umberto De Giovannangeli


La volontà politica è manifesta. New Delhi sostiene le autorità del Kerala nella loro volontà di processare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i fucilieri del reggimento San Marco accusati dallo Stato indiano di aver ucciso due pescatori scambiandoli erroneamente per pirati. «Il caso sta procedendo nella giusta direzione e non abbiamo intenzione di cedere alle pressioni dell'Italia», dichiara il ministro della Difesa indiano AK Antony, citato dall'edizione online della Bbc
SCONTRO POLITICO
«La magistratura indiana è indipendente e qui si possono tranquillamente aspettare un processo giusto ed equo» ha aggiunto Antony, che ha parlato ai giornalisti l’altro ieri pomeriggio, dopo aver incontrato i familiari dei due pescatori uccisi al largo delle coste indiane. Il governo dello stato del Kerala, ha detto ancora l'esponente dell' esecutivo federale «finora ha gestito il caso con forza e autorevolezza». «Gode del nostro pieno appoggio per andare avanti» con il processo, ha concluso.
L'Italia sostiene che l'intervento dei marò fosse teso a sventare un attacco di pirati e sia avvenuto in acque internazionali dove l'India non ha giurisdizione. Una squadra speciale investigativa della polizia di Kochi, nel Kerala, ha consegnato ieri al magistrato di Kollam competente per il caso dei marò quattro casse sigillate contenenti armi e altro materiale sequestrato ieri a bordo della Enrica Lexie, la petroliera su cui i due marò prestavano servizio come scorta anti-pirateria al momento del tragico incidente, il 15 febbraio scorso. Oggi l'Alta Corte del Kerala si pronuncerà sul ricorso presentato dai due connazionali e dal governo italiano contro la competenza della giurisdizione indiana sull'accusa per duplice omicidio. La stessa istanza ha stabilito ieri che la Enrica Lexie dovrà restare attraccata nella rada di Kochi per un' altra notte. Gli inquirenti hanno chiesto una procedura d'urgenza per condurre i test sulle armi dei marò che secondo la stampa indiana sono in totale otto (due mitragliatrici e sei fucili). Nel frattempo, alla vigilia della visita in India del ministro degli Esteri Giulio Terzi che oggi sarà a Delhi per un incontro pianificato da lungo tempo con il collega indiano Somanahalli Mallaiah Krishna una delegazione del ministero della Difesa italiano ha ispezionato autonomamente il peschereccio St.Antony, ormeggiato nel porto di Neendakara, non lontano da Kollam.
Sarebbero stati 24 i colpi sparati dai due marò contro il natante di pescatori indiani lo scorso 15 febbraio.
A darne notizia è il quotidiano The Asian Age, citando fonti della polizia locale vicine all'inchiesta e che hanno partecipato all'esame balistico delle armi, sequestrate in questi giorni in seguito ad una perquisizione delle autorità locali a bordo della Enrica Lexie. Il numero dei proiettili esplosi, hanno riferito le fonti, è stato calcolato in base al numero delle pallottole rimaste in due mitragliatrici sequestrate. Una di esse ne aveva 22, l'altra 18; visto che ogni caricatore può contenerne al massimo 32, il team investigativo ne ha dedotto che, in totale, sono stati esplosi 24 colpi. «Potrebbero aver aperto il fuoco utilizzando delle mitragliatrici. Solo questo tipo di armi ha il binocolo. Sarebbe stato difficile colpire un bersaglio da un tale distanza usando un fucile», ha spiegato un esperto balistico al quotidiano Deccan Chronicle. Gli investigatori hanno chiesto una procedura di urgenza per condurre i test sulle armi dei marò che sono in totale otto (due mitragliatrici e sei fucili), sempre secondo la stampa indiana. Il Times of India sottolineava ieri che «sarà la prima volta che il Forensic Science Laboratory (Fsl) si occuperà di armi di fabbricazione straniera».
PREOCCUPAZIONE
«Siamo preoccupati per i nostri compagni»: così uno dei marò rimasti a bordo della petroliera Enrica Lexie ha commentato la delicata vicenda che vede protagonisti Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, «Ci auguriamo che la questione venga risolta al più presto e che possano tornare ad unirsi a noi», ha aggiunto il marò, secondo quanto riporta la stampa locale. Dopo il fermo di Latorre e Girone, a bordo della petroliera dei Fratelli D'Amato rimangono quattro marò.

Corriere della Sera 28.2.12
Rilke, cittadino del doppio regno
Una totalità che abbraccia la vita e la morte Il destino dell'uomo: un continuo prender congedo
di Paola Capriolo


In un celebre saggio, Martin Heidegger annovera Rilke tra quegli autori che nel «tempo della povertà», in un tempo cioè che è ancora il nostro, «debbono espressamente poetare l'essenza stessa della poesia»; definizione, a prima vista, tutt'altro che accattivante. Quando leggiamo un volume di versi, ci aspettiamo di trovarvi espresse e trasfigurate le esperienze fondamentali di ogni essere umano, l'amore, il lutto, l'emozione di fronte a un paesaggio... mentre l'«essenza della poesia» ci sembra un tema astratto e quasi specialistico, che riguarda uno sparuto pubblico di addetti ai lavori. Non fosse che per Rilke, erede della tradizione romantica e di un pensiero filosofico che, con Nietzsche, eleva l'arte a metafora centrale nella comprensione della realtà, questa essenza coincide con la natura più profonda dell'uomo.
Chi è dunque l'uomo, secondo Rilke? La risposta è: la più fuggevole, la più effimera tra tutte le creature. Ciò che è nostro, ciò che noi siamo, ad ogni istante svapora da noi «come rugiada dalla tenera erba,/ ... come il calore da una calda vivanda»; passiamo sulle cose con la rapidità dell'aria quando si apre la finestra per ventilare una stanza.
A prima vista, sembra un po' eccessivo: è vero che non possediamo la salda durata delle pietre o persino degli alberi, ma i moscerini ad esempio vivono molto meno di noi e non imprimono certo nel mondo una traccia più persistente. Come può dunque Rilke definirci «i più fuggevoli»? Perché, ci spiega nell'Ottava elegia, diversamente dai moscerini noi viviamo «in un continuo prender congedo», siamo sempre nell'atteggiamento di chi parte e «... sull'ultima / collina che gli mostra per una volta ancora / tutta la sua valle, s'arresta, si volge indietro, indugia —». In altre parole, perché diversamente dai moscerini noi conosciamo la morte. La vediamo in anticipo, fissa davanti a noi come la linea che chiude il nostro orizzonte, ed è appunto questa chiusura a costituire il «mondo», la rigida, dolorosa forma in cui esistiamo. Così, credendo di guardare avanti, in realtà guardiamo costantemente indietro, con quello sguardo «rivoltato» che si posa sulle cose come un addio: credendo di guardar fuori a perdita d'occhio, in realtà vediamo soltanto le sbarre della gabbia che noi stessi ci siamo costruiti, anzi, che noi stessi siamo...
Eppure la poesia è resa possibile proprio da questo sguardo «rivoltato», rammemorante, che muovendo dall'orizzonte della morte trasforma le cose in ricordi, ossia in pura interiorità. Quella stessa potenza che ci ingabbiava costringendoci a rinchiuderci nelle anguste forme del mondo può diventare una potenza liberatrice quando la morte viene per così dire metabolizzata, accolta, fatta propria, anziché porsi eternamente davanti a noi come qualcosa di estraneo che ci sbarra la strada. Se l'animale, che è di casa nell'aperto, sente il proprio essere come infinito e «dove noi vediamo l'avvenire, là vede il tutto / e sé nel tutto, risanato per sempre», anche il morto, o chi accoglie la morte, disimpara a dare alle cose «il senso di umano futuro», impara ad abbandonare le rigide distinzioni proprie dei vivi per assumere ogni cosa in uno spazio di libertà che è, insieme, memoria e trasfigurazione, la segreta, paradisiaca vastità che l'anima possedeva in sé a propria insaputa.
Sorge così quel «doppio regno», alla cui celebrazione sono dedicati i Sonetti a Orfeo: una totalità originaria che abbraccia la vita e la morte senza contrapposizioni e cesure, quasi senza distinzione: perché, come afferma la Prima elegia, noi compiamo tutti l'errore di distinguerle troppo nettamente, mentre «gli angeli (si dice) di sovente non sanno / se vanno tra vivi o tra morti». Il doppio regno è quel regno della metamorfosi dove le forme perdono la loro rigidezza per trapassare l'una nell'altra attraverso modulazioni finissime e quasi impercettibili: come nella splendida composizione per archi di Richard Strauss intitolata appunto Metamorfosi, con la stessa, duttile fluidità; è quel regno, scrive Rilke, «la cui profondità e influsso noi, ovunque indelimitati, dividiamo con i morti e con coloro che verranno».
Ma per essere «indelimitati», cioè cittadini consapevoli del doppio regno, bisogna in primo luogo «tentare un rapporto con la morte del tutto libero dal rimprovero», cioè imparare a concepirla senza l'aspetto della negazione. Questo arduo, radicale superamento del «non» (quindi della separatezza, del «mondo», della forma come chiusura) è ciò cui i Sonetti si riferiscono con la parola «lode»: persino la lamentazione può dimorare davvero solo «nello spazio della lode», come la ninfa in una sorgente; e d'altra parte «solo colui che anche tra ombre / levò la lira, / può con cuore presago cantare / la lode infinita».
Noi, i più fuggevoli, siamo quelli capaci di lodare. Di lodare che cosa? Non l'eterno, non le alte e terribili schiere degli angeli, ma precisamente quella sfera della caducità cui apparteniamo e che ci è stata affidata. Lodare le cose che ci circondano e che, come noi, «del morire vivono»; quelle cose fuggevoli che ci credono capaci di salvarle, «noi, i più fuggevoli», e «vogliono che le trasformiamo del tutto, nel cuore invisibile, / in noi — all'infinito! Chiunque infine noi siamo».
Leggendo questi versi della Nona elegia, che rappresentano il culmine del ciclo duinese e forse dell'intera opera di Rilke, comprendiamo davvero come il «poetare l'essenza della poesia» possa essere tutt'altro che un esercizio elitario. Il vero compito dell'uomo, la «norma della sua esistenza», è proprio questa trasposizione delle cose visibili nel «cuore invisibile» che si fonda sulla memoria e nella poesia trova la sua attuazione più piena: una trasposizione che, da supremo compimento cui tutte le cose aspirano, nel nichilistico «tempo della povertà», quando la consistenza del mondo sembra sempre più corrosa da una tensione cieca e «senza figura», diviene addirittura la loro unica possibilità di sopravvivenza, la «grande arnia d'oro» in grado di custodirne il senso minacciato.

Corriere della Sera 28.2.12
La scoperta
Erano aperte alle donne le grotte di Qumran con i famosi Rotoli

qui
http://www.scribd.com/doc/83038060/Corriere-della-Sera-28-2-12-p-47

Corriere della Sera 28.2.12
Atene, la libertà degli antichi
Aristotele vedeva nell'accordo tra i nobili e il popolo la formula più efficace per il buon governo della città
di Giuseppe Galasso


La fortuna di Aristotele filosofo della politica è stata tarda, e fu a lungo affidata ai suoi scritti di etica. Solo dal Duecento si diffuse la sua Politica, che perciò influì sulla genesi solo di alcuni dei grandi concetti giuridici e politici del pensiero occidentale. Risalgono, comunque, a lui idee rilevanti: da quella della politica come stato naturale e universale della vita sociale, che è nel destino dell'uomo e la cui forma-tipo era per i greci la città, la pòlis (di qui la sua più famosa definizione: quella dell'uomo come «animale politico», cioè destinato a vivere nella pòlis) a quella della preferibilità della piccola comunità politica a quella grande e della democrazia alla tirannide.
La politica è, comunque, per Aristotele, detto alla moderna, «arte del possibile», ma un possibile inteso come ciò che meglio, date certe premesse, corrisponde alla ragione; e perciò egli ricercava quale fosse il migliore ordinamento di una città. Non si sapeva, però, fino al 1890, che fosse anche autore di una tale analisi per la maggiore città greca, ossia Atene. La scoperta ha destato anche vari dubbi sullo stile e su altri aspetti dell'opera, pervenutaci incompleta, e si è stati incerti se ne fosse lui l'autore. Poi, per lo più, lo si è riconosciuto come tale, ma si può ben dire, crediamo, che, se non si tratta di un'opera di Aristotele, si tratta pur sempre di un'opera aristotelica.
La «costituzione» (politeía) era per i greci l'ordinamento istituzionale della città, il suo governo, le magistrature, la sua struttura politica e sociale. Nulla di comune con ciò che oggi si intende per «costituzione». La Costituzione degli ateniesi ha perciò una natura prevalentemente descrittiva in entrambe le sue parti: la prima, in effetti storica, sulle vicende del governo di Atene fin dai suoi inizi; la seconda sul regime di Atene al tempo in cui Aristotele scriveva, un po' prima del 322 a. C.
Il tipo di opera non era un'invenzione di Aristotele. Sulla «costituzione degli ateniesi» c'è anche un'altra opera, di incerta paternità. A sua volta, Senofonte scrisse una «costituzione degli spartani», ossia dei grandi rivali di Atene nella micidiale lotta per l'egemonia che preparò la rovina delle città greche, sottomesse, in ultimo, al re di Macedonia (che era, quando Aristotele scriveva, Alessandro Magno, del quale egli era stato precettore). Sono, in effetti, opere di carattere alquanto diverso. Quella di Aristotele sembra avere soprattutto il fine di fornire appoggi storici e tipologici alle teorie da lui esposte nella Politica. Notizie antiche sulle sue opere parlano di una raccolta di oltre 150 costituzioni di città greche. Ciò risponde all'ipotesi sulla natura della Costituzione come lavoro, per così dire, di servizio, contro il parere di chi la ritiene un'applicazione delle idee esposte nella Politica. In effetti, sulla conformità delle idee della Costituzione a quelle della Politica vi sono state varie incertezze, mentre, nonostante molti dubbi sui dati di fatto in essa forniti, ci pare di poter dire che è proprio l'intento storico, documentario ed esemplificativo della Costituzione a costituirne il maggiore pregio.
Se ne deduce che per Aristotele l'affermazione della democrazia (come intesa dai greci, e quindi escludendo non solo gli schiavi, ma anche chiunque non fosse cittadino di pieno diritto) costituiva il filo rosso della storia di Atene, stabilizzatosi dopo la fine dell'ultima fase di tirannia nel 403 a. C. Il resoconto aristotelico è impressionante. Esso conta undici riforme della costituzione ateniese, di cui nove nel giro del VI e V secolo a. C. L'undicesima «attribuisce il massimo potere al popolo», che «si è reso direttamente padrone di tutto e regola ogni cosa con decreti e tribunali, nei quali è sovrano». Ordinamento preferibile ad altri, perché quando il governo è ristretto in poche mani è più facile la corruzione, laddove corrompere molti è ben più difficile.
Le idee politiche di Aristotele, comunque presenti nella Costituzione, malgrado il fine pratico che essa si propone, si vedono chiaramente nella preferenza per la costituzione data ad Atene da Solone. Questi «aveva reso il popolo libero per il presente e per l'avvenire», ma, pur simpatizzando per il popolo e attribuendo ai ricchi la causa delle guerre civili, tendeva a un accordo fra popolo e nobili, ricercando quella che oggi si direbbe, con forte approssimazione, ma non troppo male, una soluzione centrista per il governo della città. Per Aristotele una duratura stabilità politica era sempre nelle mani di governanti che amassero il regime in vigore e ne rispettassero le regole. La costituzione ateniese era stata, in pratica, una marcia verso la democrazia, ossia verso un regime in cui la libertà dei cittadini, non la ricchezza o altro, fosse l'unico fondamento dei loro diritti nel governo. Il conferimento delle cariche per sorteggio, disposto da Solone, era l'applicazione di questo principio.
Si erano realizzate tutte queste condizioni nella democrazia ateniese ristabilita nel 403 a. C. che Aristotele ci descrive? La risposta di Aristotele sembrerebbe affermativa, ma nel 322 i macedoni sottomisero di nuovo Atene e le altre città, insorte nel 323 alla morte di Alessandro Magno, e imposero un regime fondato sul censo, sopprimendo le libertà.
Un epilogo che spinge il lettore della Costituzione a riflettere al di là delle ragioni interne cui sono dovute per Aristotele la natura e la durata di un regime; e a pensare che in questo calcolo debbano rientrare anche gli elementi non interni costituiti dagli equilibri e dai rapporti di forza nell'area storica in cui un regime è inserito. È un punto che la stessa Costituzione comprova: ad esempio, con il regime tirannico imposto dagli spartani nel 404 a. C. dopo la sconfitta di Atene nella guerra dei Trent'anni. Ed è, dunque, anche perché, oltre a fornire numerosi spunti e motivi di interesse storico e teorico, la Costituzione induce a ulteriori considerazioni, che essa è ancor oggi una lettura storica e politica che vale la pena di fare.

Corriere della Sera 28.2.12
Il mondo ellenico: democrazie, oligarchie e tiranni


L'organizzazione civile, la politica, il ruolo del saggio, il potere di persuasione oppure, nel suo riflesso negativo, la capacità di plagio, e poi ancora i doveri del politico, i principi dell'uomo di scienza e così via. Moltissimi testi a noi pervenuti dall'antichità si connotano come grandi tentativi di organizzazione sistematica del sapere, o come «istruzioni» per la condotta dell'uomo attivo nella società, nella cultura o nel mondo politico. È in parte entrambe le cose l'Apologia di Socrate di Platone, testo importantissimo che con il Critone apre dopodomani la collana «I classici del pensiero libero. Greci e latini» del «Corriere della Sera»: volumi annotati, con testo originale a fronte, in edicola al costo di un euro più il prezzo del quotidiano. L'Apologia è insieme resoconto platonico dell'autodifesa di Socrate al processo in cui viene condannato, e testimonianza del suo pensiero, dei suoi principi e dei suoi dettami sapienziali, di cui non resta traccia scritta, come ci ricorda Giovanni Reale nella prefazione. Mentre la Costituzione degli ateniesi di Aristotele (in edicola sabato 3 marzo con l'introduzione di Luciano Canfora) appartiene a un novero di scritti, ben 158, nei quali la grande scuola aristotelica e il filosofo stesso classificarono e studiarono gli ordinamenti politici di altrettante città e comunità dell'antica Grecia: un'impresa enorme, che costituì alimento e preparazione all'importantissima opera che fu — come ci avverte Canfora nell'introduzione — la Politica del grande pensatore di Stagira. Esplicitamente dedicata all'arte di governo, come si evince già dal titolo, è poi l'opera Consigli politici di Plutarco (in edicola il 29 marzo con l'introduzione dello stesso Luciano Canfora), un testo che appartiene ai suoi Moralia. In quest'opera l'autore delle Vite parallele fornisce ai politici consigli e istruzioni quanto mai preziose e attuali, suggerendo una profonda preparazione culturale e una grande altezza etica, «perché non è possibile che chi è ignorante insegni, che chi non è equilibrato possa dare equilibrio né governare chi non ha in sé governo». (i.b.)

Corriere della Sera 28.2.12
Il demone dei calcoli applicato alla vita
di Armando Torno


Chissà perché Aristotele lasciò una specie di ipoteca sui matematici nella Metafisica. Scrisse che essi danno vita alle loro teorie «per mezzo dell'astrazione» e non si curano di «tutte le qualità sensibili». Kant rivide l'antica posizione, ma non la volle debellare completamente. Ricordò che la filosofia procede «mediante concetti», mentre la scienza dei numeri con la «costruzione di concetti». Hegel potè così tranquillamente ripetere che la matematica è la disciplina delle quantità. Non perse l'occasione di ribadire l'antica formula Benedetto Croce, anche se ormai i tempi erano maturi per altre considerazioni. Nella sua Logica (1905) asserisce: «Le matematiche forniscono concetti astratti che rendono possibile il giudizio numeratorio; costruiscono gli strumenti per contare e calcolare e per compiere quella sorta di finta sintesi a priori che è la numerazione degli oggetti singoli».
Sono frammenti di una storia infinita. Del resto, che cosa sia la matematica lo ignorano anche i sacerdoti che ne officiano il culto e quando chiedete a uno di essi quali certezze abbia ghermito, vi risponde in genere con un sorriso. Né va dimenticato che per la concezione formalista, sviluppata da Hilbert e dalla sua scuola negli anni Venti del '900, la matematica può essere costruita come semplice calcolo, senza che ad esso si dia un'interpretazione. Volete aggiungerla? Problemi vostri, replicherebbero quei sacerdoti appena scomodati.
Gli innamoramenti per questa scienza, i tentativi di interpretarla o definirla non potranno mai essere narrati nei dettagli; difficile stilare anche un inventario di stravaganze e topiche che ha alimentato. Sarà per molti sorprendente il saggio di Giulio Giorello dal titolo Il fuoco fatuo di Hobbes e il chiaro labirinto di Spinoza, dedicato al «fare filosofia con la geometria». È contenuto nel terzo volume della vasta opera La matematica, pubblicata da Einaudi e curata da Claudio Bertocci e Piergiorgio Odifreddi, con cui si completa il progetto dei quattro tomi previsti (ha come titolo Suoni, forme, parole, pp. 892, 110). Hobbes, oltre il Leviathan, è colto tra le battaglie con figure, numeri, deduzioni: reinterpretò gli Elementi di Euclide, intraprese polemiche con i matematici di Oxford e per i suoi errori venne stroncato da John Wallis («fatto a pezzi ma non domato», nota Giorello). Nel saggio si ricorda, tra l'altro, l'esame che tentò di una «meraviglia» di Evangelista Torricelli ed è posta in evidenza, oltre a qualche pasticcio e a non pochi fraintendimenti in geometria, quel suo ingarbugliarsi con le frazioni. E questo anche se ebbe l'onore di «iniziare alle matematiche» il Re. Ma non si creda che Hobbes fosse uno sprovveduto: dai suoi errori si impara, soprattutto quando ricorda, per illustrare le prepotenze della politica, che se un giorno si scoprisse un proposizione contraria agli interessi del potere, potrebbe «essere soppressa, bruciando tutti i libri di geometria».
Poi Giorello si dedica a Spinoza. Il filosofo che conforma la sua Etica agli Elementi di Euclide ammonisce chi «ascrive a Dio i propri attributi» e in una lettera a Hugo Boxel, funzionario a Gorcum, nota: «Se il triangolo avesse la facoltà di parlare, direbbe parimenti che Dio è triangolo in modo eminente». La geometria, in tal caso, è utilizzata per mettere in guardia contro le celesti raffigurazioni. Nella medesima lettera Spinoza precisa: «Alla tua domanda, se io abbia di Dio un'idea tanto chiara come quella del triangolo, rispondo di sì. Se invece mi chiedi se ho un'immagine di Dio tanto chiara come quella del triangolo, rispondo di no: perché non possiamo immaginare Dio ma certo possiamo conoscerlo».
Giunti a questo punto sembrerebbe che la matematica sia entrata — lo scrisse Robert Musil ne L'uomo senza qualità — come un demone in tutte le applicazioni della vita. È vero? Conviene replicare aprendo un libro appena uscito dello stesso Bartocci, Una piramide di problemi. Storie di geometria da Gauss a Hilbert (Raffaello Cortina, pp. 418, 29). Porta in un mondo di idee in cui aumentano le domande e diventano «più elusive e sconcertanti le risposte». Che dire? Dove le piramidi si rovesciano, è bello smarrirsi. Succede anche nelle storie d'amore.

Repubblica 28.2.12
Peter Stein
“L’arte è l’ultima forma mistica che abbiamo perché trasforma l’immaginazione in realtà"
Si chiude con il regista il nostro viaggio alla ricerca dei diversi modi per decifrare i fatti
di Franco Marcoaldi


«Il teatro è la cosa con cui prenderò in trappola la coscienza del re». È questa celebre battuta di Amleto ad avermi convinto dell´opportunità di concludere la nostra breve perlustrazione su «che cosa resta della verità» con un uomo di teatro. Ovvero con chi, proprio perché gioca continuamente con la finzione, dispone di buone carte per cogliere quanto si nasconde dietro la realtà così come ci viene presentata. E dunque può aiutarci a «prendere in trappola» la coscienza del potere a noi contemporaneo. Tanto più se quell´uomo risponde al nome di Peter Stein, berlinese del 1937, che sin dai tempi del leggendario collettivo della Schaubühne ha sempre pensato a un teatro in qualche modo "politico". Sia che tale teatro riprendesse testi fondamentali della tradizione antica, oppure i testi di grandi moderni - fino all´ultimo spettacolo dedicato ai Demoni di Dostoevskij.
«Più in generale, è tutta l´arte che cerca il vero con i mezzi della menzogna. Anche la letteratura fa lo stesso e fa lo stesso il cinema. La differenza del teatro sta nel suo tratto "mistico", parola che un razionalista come me fa fatica a pronunciare. Ma è un dato di fatto. Perché mentre la verità di un film è impressa su una pellicola che si può vedere in migliaia di sale, l´evento teatrale accade solo in un certo luogo e in un certo momento. Grazie agli attori, i quali riescono a far finta di inventare in quel preciso istante un certo testo; e, vestendo panni diversi dai loro, lo restituiscono a un pubblico con il quale creano una comunità vivente. Ecco così che una realtà immaginaria diventa concreta, determinando una sensazione di iper-verità».
Questa specificità teatrale si sposa bene all´idea di verità, che per sua natura non è fissata una volta per sempre. Appare e scompare, come il teatro.
«Il problema è che né io né lei potremmo offrire un´immagine precisa ed esauriente del concetto di verità. Ci rimane invece la facoltà della distinzione. Ad esempio, giusto a proposito di potere: prendiamo la finanza, che oggi trionfa sulla scena del discorso pubblico. E cerchiamo di distinguere: così come non si può comprare una Ferrari senza avere duecentomila euro in tasca, allo stesso modo è bene tenere in ordine i bilanci degli Stati. Ma tutt´altra faccenda è l´attuale delirio dei mercati finanziari, da cui emerge il peggio della natura umana: un mix di sopraffazione e inganno racchiusi in una sorta di nuovo casinò planetario in cui siamo precipitati tutti, nostro malgrado. Si torna così al problema della ricerca del senso che vogliamo dare alla vita. Come dice Hugo Cabret, il bambino protagonista dell´ultimo, incantevole film di Scorsese, il mondo è una sorta di immenso ingranaggio, di cui noi rappresentiamo un´infinitesima parte: nostro dovere è cercare la nostra peculiare funzione. Sempre la solita storia: provare a dare senso a ciò che senso non ha. Ecco in cosa ci differenziamo dagli animali: in questa disperata ricerca di senso e dunque di verità, che continuamente ci sfugge. Da qui la religione e l´arte. Che è poi la mia personalissima forma di religione».
La verità rimanda alla convinzione. Lei era talmente convinto della necessità di portare a teatro i Demoni di Dostoevskij, da farlo addirittura a casa sua, una volta interrottosi il rapporto con lo Stabile di Torino.
«Ma questo ha a che vedere soprattutto con la mia natura di homo faber. Io sono uno che fa, e se qualcuno mi provoca, questa è una ragione in più per fare. Certo, non sarei andato avanti se non mi fossi convinto che quel testo coglieva in modo profetico, e difficilmente spiegabile, qualcosa del nostro tempo».
Veramente lei l´ha spiegato bene, mettendo al centro Stavrogin, l´uomo vuoto, indifferente, che può fare tutto e il contrario di tutto, una volta finita l´epoca fondata sulla religione e poi quella delle ideologie.
«Il teatro parla sempre della crisi e della necessaria trasformazione di una realtà data. Nell´Orestea di Eschilo, che per questo motivo porterò presto in Iran, si racconta dell´estinzione di una legge che ormai non funziona più. Nei Demoni accade qualcosa di analogo. C´era un mondo regolato e ora quel mondo non tiene più. Solo che la vera tragedia non è quella di Pëtr, il rivoluzionario che vorrebbe abbattere quel sistema. No, la figura tragica è quella di Stavrogin, spinto al suicidio dall´assoluta estraneità rispetto a quanto lo circonda. E veniamo così all´oggi: al rischio dell´indifferenza totale, a tutto. Una cosa che in sé potrebbe anche essere vista come una conquista enorme, perché questo dimostra che nessuna ideologia può più soggiogarci. Siamo diventati immuni. Peccato però che sia proprio l´indifferenza a spegnere la ricerca di verità di cui prima si parlava. È come se non ne valesse più la pena, alla lettera. Del resto, perché darsi da fare se tutto ci arriva direttamente grazie a un computer? Quando mi sono laureato io, dovevo riflettere su quale fosse la migliore biblioteca tedesca dove cercare i testi necessari alla mia tesi sul romanticismo. Oggi non ce n´è bisogno: è tutto dentro questa macchinetta, in cui ogni informazione elide e azzera la precedente. L´esatto contrario della tensione verso ciò che ci appare indispensabile».
Sta delineando un quadro non particolarmente roseo.
«Sono avverso a qualunque atteggiamento nostalgico. Alla fine della guerra avevo sette anni e ho visto lo stato in cui versavano le città tedesche ed europee. Ho visto i cadaveri nelle strade e adesso quei cadaveri non ci sono più. Come posso dire che adesso è peggio di allora? Aggiungo che, facendo teatro, sono in contatto costante con i giovani. E noto in loro una predisposizione alla vita quanto mai interessante, perché opposta a quella che facevo mia alla loro età. Prendiamo la musica. Io avevo una mentalità rigida e selettiva: c´era soltanto Bach e dopo di lui nulla aveva senso e valore, compreso Mozart. Oggi, al contrario, c´è posto per tutto: dal tardo Schubert ai complessi pop. Si potrebbe obiettare che così facendo non si va molto in profondità, ma siccome devo riconoscere che neanch´io ho raggiunto grandi risultati con i miei affondo, l´obiezione cade. Forse l´unica differenza è che io, almeno, sono consapevole della mia impasse. Non so se valga altrettanto per i giovani di oggi quando assumono, indifferentemente, qualunque posizione sulla scena».
Un po´ alla Stavrogin.
«Esatto. Ed è terribile, in un certo senso. Però devo riconoscere che questa nuova logica combinatoria, se accompagnata da una necessaria maturazione e dai giusti correttivi, può anche risultare molto fertile. Il grande problema dell´arte odierna, semmai, è sempre più quello indicato da Goethe, quando parlava di un tempo "velociferino". Perché è nella velocità che si annida il diabolico, la ragione del patto di Faust con il diavolo. Chi è proiettato soltanto verso il futuro, non potrà mai essere intero. Si disegna così in netta evidenza la dicotomia dell´essere umano, che da un lato vorrebbe realizzarsi e sostare e dall´altro è perennemente sospinto avanti dallo Streben, da quell´anelito che è assieme causa di dannazione e salvezza».
Con gli angeli che dicono: «Sì, si può redimere chi sempre tende all´alto».
«Attenzione, gli angeli dicono "si può". Ovvero, se vogliamo lo salviamo, se no lo lasciamo precipitare. Ecco tutta la furbizia di Goethe. Non dimentichi che era un francofortese, furbo come tutti i francofortesi: anche nei momenti di massimo abbandono poetico, in lui c´è sempre questo tratto smagato».
Nella sua introduzione al Faust, Cesare Cases ricorda il sarcasmo di Brecht, secondo il quale, di fronte «al muro delle leggi economiche», a nulla vale lo Streben goethiano. Sembra scritto in questi giorni.
«Io non la vedo così. Nel secolo passato ci sono stati cambiamenti enormi. Solo che si sono rivelati catastrofici. Ed è questo, oggi, che paralizza l´Europa: il terribile secolo delle ideologie appena lasciato alle spalle. È questa tremenda eredità a renderla stanca, inerte, sfibrata: attonita rispetto ad altre realtà mondiali che si dimostrano più forti, vincenti. Eppure sento che qualcosa di drammatico ci imporrà, a breve, di prendere finalmente delle decisioni. Al modo in cui Agamennone è costretto a farlo nell´Orestea, quando decide di sacrificare la figlia, ben sapendo la violenza insita nella decisione, prima ancora che nell´atto. Perché ogni decisione spazza via un´altra possibilità. Per tornare al Faust, è vero che il suo anelito fa fallimento da ogni punto di vista. Ma aggiungendo quel finale sulla possibile salvezza, Goethe ci ricorda che il nostro vero eroismo si rivela tale soltanto se facciamo tesoro di quanto insegna Hugo Cabret nel film di Scorsese: siamo parte attiva di un meccanismo più grande di noi. La storia non ha senso, ma dobbiamo ugualmente continuare a cercarlo. Lei parlava prima di convinzione. Io parlerei di responsabilità. In una duplice accezione: verso se stessi e verso gli altri. Questo è lo Streben, l´anelito a cui dobbiamo fare riferimento».

Repubblica 28.2.12
Il saggio di Michio Kaku raccoglie i pareri di grandi esperti su come sarà il domani
Trecento scienziati raccontano il futuro
di Giuliano Aluffi


Un ologramma sul muro, il vostro segretario artificiale, vi sveglia e vi ricorda gli appuntamenti della giornata. Mentre vi lavate i denti, centinaia di sensori nello specchio e nel lavandino studiano le molecole che emettete, cercando i più piccoli segni di malattie. Indossate le lenti a contatto e queste proiettano sulla vostra retina le ultime notizie e le previsioni del tempo. Poi salite con un balzo (avete novantatré anni, ma ne dimostrate solo una trentina) su un veicolo a levitazione magnetica che vi porta in ufficio autoguidandosi mentre controllate le vostre e-mail e ordinate alla vostra giacca di assumere forma e colore del modello più "in" del momento. Non è fantascienza: è un giorno del 2100 illustrato in Fisica del futuro (Codice, pagg. 464, euro 29) di Michio Kaku, fisico teorico alla City University di New York e divulgatore scientifico per BBC e Discovery Channel. «Per avere un´idea realistica del mondo tra 100 anni, ho intervistato chi lo sta costruendo già oggi: 300 scienziati tra i più importanti» premette Kaku. «Tutte le tecnologie che menziono nel libro rispettano le leggi della fisica oggi conosciute e sono già in embrione sotto forma di prototipo nei laboratori di ricerca»
Nel futuro la realtà sarà sempre più virtuale?
«Nel prossimo secolo vivremo tutti nella realtà aumentata, che è un misto tra realtà fisica e realtà virtuale. Avremo Internet nelle lenti a contatto: stanno lavorando a questo scopo il nanobiotecnologo Babak Parviz e il suo team della University of Washington. Le lenti a contatto del futuro identificheranno le persone a cui parliamo, e tradurranno il loro linguaggio nel nostro, mostrando sottotitoli sotto la loro immagine. I turisti che camminano tra le rovine dell´antica Roma vedranno l´impero risorgere nelle loro lenti. Oggi lavorano a questi prototipi Susumu Tachi della Keio University di Tokyo e Nikolas Neecke, inventore tedesco che ha realizzato degli occhiali che permettono di visitare Basilea mescolando immagini reali a quelle del passato della città. I militari vedranno l´intero campo di battaglia nelle loro lenti a contatto. Chi è alla ricerca di un partner potrà scoprire, sempre grazie alle lenti, i single».
Come si evolverà il nostro rapporto con oggetti e strumenti?
«Ci basterà un pulsante per trasformare una lavatrice in un´automobile. Tutto quello che vediamo è fatto di atomi, ma possiamo immaginare di rimpiazzare gli atomi con chip microscopici. Riprogrammandoli, li si può indurre ad organizzarsi in modo che un oggetto solido si dissolva in milioni di chip minuscoli, capaci di muoversi e ridisporsi formando un oggetto del tutto diverso. Agendo sulle cariche elettriche che si attraggono e tengono insieme questi chip, ogni oggetto solido potrà essere trasformato in qualsiasi altro oggetto. È una tecnologia che fa venire in mente il robot killer di Terminator 2. Per il 2100 potremmo poi avere un assemblatore molecolare: una macchina non più grande di un frigorifero che potrà realizzare un oggetto qualsiasi a partire dalle materie prime opportune».
La scienza saprà ringiovanirci?
«Stiamo capendo sempre di più cosa sia l´invecchiare: un accumularsi di errori a livello molecolare e genetico. Gli scienziati del futuro saranno capaci di rinforzare i meccanismi di correzione di errori nel corpo. Oggi ricerche come quelle di Michael Rose della University of California e Thomas Johnson della University of Colorado hanno prolungato del 110% la vita dei vermi nematodi e del 70% la vita dei moscerini aumentando la quantità dell´enzima superossido dismutasi, che rimedia ai danni dei radicali liberi. Gli scienziati stanno isolando e studiando sequenze di geni che sembrano regolare il processo di invecchiamento. E forse per il 2100 potremmo "fermarci" all´età che desideriamo».
Quali progressi prevede per la genetica?
«Nel futuro avremo tutti i nostri geni – circa 25.000 – su un cd: sarà il nostro "manuale di istruzioni" personale. Stephen Quake della Stanford University prevede che tra qualche decennio conoscere in dettaglio il proprio genoma costerà quanto un pieno di benzina: avremo farmaci sempre più personalizzati»
Quali saranno le rivoluzioni nella medicina?
«Gli scienziati creeranno presto un body shop dove potremo ordinare nuovi organi quando i nostri saranno invecchiati o ammalati. Nessuno morirà più per deterioramento di un organo. Gli scienziati già oggi, usando le nostre cellule, possono creare nasi, orecchie, vasi sanguigni, ossa, valvole cardiache, reni e trachee. Fra qualche anno il primo fegato e pancreas interamente artificiali potrebbero essere pronti: ci sta lavorando Anthony Atala, scienziato esperto di medicina rigenerativa della Wake Forest University. Con cellule staminali, forse tutti gli organi umani (eccetto il cervello) potranno essere fatti crescere in laboratorio».
Come sarà il futuro dell´energia?
«Il costo delle energie rinnovabili come sole e vento continua a diminuire, mentre il prezzo del petrolio cresce lentamente. Ad un certo punto le due curve si intersecheranno e da lì in poi le rinnovabili diventeranno una scelta ovvia. Entro un decennio la fusione nucleare potrà essere un´alternativa al petrolio. I francesi, con supporto dall´Unione Europea, gli Stati Uniti, il Giappone, la Russia e la Corea del Sud ultimeranno entro il 2020 il reattore a fusione ITER nel sud della Francia. Poi, l´energia illimitata racchiusa nell´atomo di idrogeno sarà libera. E l´acqua, che è praticamente senza limite, sarà la maggior sorgente d´energia nel futuro».
Come ci muoveremo nel futuro, sulla Terra e tra i pianeti?
«Se entro il 2100 riusciremo a ottenere superconduttori capaci di funzionare a temperatura ambiente, i costi di mezzi di trasporto urbano a levitazione magnetica, leggeri e non inquinanti, diventeranno irrisori. E magari i viaggi interstellari non saranno più un sogno: Mason Peck, docente di ingegneria aerospaziale della Cornell University, ritiene che microastronavi larghe un centimetro potrebbero essere accelerate ad una velocità fino al 10% di quella della luce grazie all´effetto fionda del campo magnetico di Giove. Il viaggio fino ad Andromeda (galassia a 2 milioni di anni luce da noi) con equipaggi umani potrebbe avvenire, invece, grazie alla fusione nucleare. Ma ci sono ostacoli notevoli: per aspirare dallo spazio l´idrogeno necessario alla spinta, l´astronave dovrebbe essere larga 160 chilometri».

Repubblica 28.2.12
Ieri il "funerale" dell´Istituto di neuropsichiatria
I bambini più soli senza “Casa Bollea”
Il centro fondato nel ’46 e per anni all’avanguardia in Europa, ora è in grave crisi
di Luciana Sica


C’era una volta l´Istituto di neuropsichiatria infantile fondato da Giovanni Bollea nel ´46, un centro di eccellenza all´avanguardia in Europa dove sono stati curati bambini e adolescenti gravissimi di tutto il centro-Sud. Anche questo gioiello professionale e culturale, oggi sembra perduto. Tanto che ieri sera - in via dei Sabelli, a Roma, nel quartiere di San Lorenzo - è andato in scena il suo "funerale", una singolare protesta degli operatori contro il rischio della chiusura (con politici, attori, musicisti).
Difensore del "suo" Istituto fino allo stremo delle forze, non c´è più Bollea, scomparso un anno fa. In quell´occasione si sono alzate molte voci, anche quella del presidente Napolitano, a favore della storica clinica universitaria dove sulla porta d´entrata si legge ancora il nome del fondatore e nel corso degli anni i migliori neuropsichiatri infantili hanno lavorato in équipe con psicoanalisti e terapeuti di gruppo. Èqui che Marco Lombardo Radice ha vissuto la sua stagione "rivoluzionaria", un´esperienza quasi romanzesca che ha ispirato nel ´93 Il grande cocomero dell´Archibugi. E qui ha lavorato Adriano Giannotti - tra i grandi studiosi di psicoanalisi infantile, anche a livello internazionale, sulla scia delle conoscenze kleiniane e delle ricerche innovative di Donald Winnicott e Bruno Bettelheim.
Oggi non è la qualità a scarseggiare, ma non c´è una personalità carismatica e neppure ha giocato a favore la surreale convivenza con la pediatria nella stessa "macroarea". Di fatto è già dal luglio del 2010 che "l´Istituto" non esiste più, da quando è confluito nel nuovo dipartimento, dove si curano le coliche gassose dei neonati e gli esordi psicotici in età evolutiva.
Sempre più stentata anche la collaborazione con una scuola prestigiosa come l´Istituto Winnicott, diretta da Vincenzo Bonaminio, didatta della Società psicoanalitica italiana e professore aggregato presso il dipartimento. Èlui a dire: «Da vent´anni abbiamo contribuito, sul piano scientifico e clinico, a valorizzare questo centro. Formalmente è ancora così, ma ormai solo una decina di bambini all´anno può contare su una psicoterapia che non dura mai più di dieci mesi...».
Il centro legato al nome di Bollea è stato un fiore all´occhiello del servizio pubblico italiano, che non andrebbe strappato con una politica indiscriminata dei tagli. I tempi d´oro sono alle spalle, ma il coro funebre di oggi non può cancellare la speranza che anche questa sia una favola a lieto fine.