lunedì 27 febbraio 2012

l’Unità 27.2.12
Oggi la campagna Cgil: una copia del giornale in ogni luogo di lavoro. La solidarietà di Pisapia
Dalle fabbriche alle scuole «Con l’Unità contro le censure»
di Natalia Lombardo

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l’Unità 27.2.12
«Più solidarietà e più Europa: è questa la sfida dei Progressisti»
Il presidente della Fondazione Jean-Juarés è tra gli estensori della Dichiarazione di Parigi:
«Evitare che le politiche di austerità facciano affondare l’Unione nella recessione. Sì alla crescita sostenibile»
di Umberto De Giovannangeli

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l’Unità 27.2.12
L’ontologia del Pd separata da ogni legge elettorale
di Eugenio Mazzarella

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l’Unità 27.2.12
Catena umana di 17 chilometri intorno al centro della capitale russa
Presidenziali il 4 marzo, i sondaggi: premier al Cremlino al primo turno
Un «cerchio bianco» abbraccia Mosca 40mila contro Putin
di Marina Mastroluca

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Repubblica 27.2.12
C´è democrazia senza i partiti?
di Ilvo Diamanti


Il proscioglimento di Silvio Berlusconi dall´accusa di corruzione nel caso Mills, per prescrizione del reato, ha sollevato, inevitabilmente, polemiche. E un sottile senso di inquietudine. Non solo perché, in questo modo, il Cavaliere è riuscito a sottrarsi, di nuovo, al giudizio.
Ma soprattutto perché ha rammentato a tutti che Berlusconi non se n´è andato, ma è sempre lì. Anzi, qui. Con gli stessi vizi di sempre. Da ciò l´altro motivo di preoccupazione (o, per alcuni, di speranza). Potrebbe rientrare in scena. Da protagonista. Visto che il ruolo di comprimario al Cavaliere non si addice. D´altronde, Berlusconi resta il leader del Pdl. Tuttora il primo partito in Parlamento. E, insieme, la principale forza politica della maggioranza che sostiene il governo Monti.
Tuttavia, anche questa vicenda suggerisce che il vento è cambiato. Che il tempo di Berlusconi e del berlusconismo è finito.
Anzitutto, l´attenzione intorno al caso appare meno accesa rispetto al passato. Quando Berlusconi era il capo del governo o dell´opposizione. Quando era il dominus della scena politica. Il conflitto di interessi che si portava - e si porta dietro - appariva, allora, insopportabile, sul piano pubblico. Oggi è altrettanto intollerabile, ma la posizione politica del Cavaliere, passato dalla ribalta al retroscena, ha sdrammatizzato le tensioni. Peraltro, i principali attori politici (e istituzionali) che sostengono il governo temono episodi e fratture che possano minare la tenuta della legislatura.
Un´eventualità avversata, per primo, da Berlusconi. Al quale conviene che Monti governi almeno fino alla scadenza naturale della legislatura. E magari oltre. Per una ragione su tutte le altre: se si votasse oggi, il centrodestra non avrebbe speranze. Il Pdl (citiamo le stime di Ipsos dell´ultima settimana) galleggia intorno al 22%. L´alleanza con la Lega, inoltre, appare complicata, logorata dal sostegno di Berlusconi al governo Monti. E, comunque, i partiti del centrodestra (Pdl, Lega e Destra), tutti insieme, sono accreditati di poco più del 33% dei voti. Quattro punti meno del centrosinistra (Pd con Idv e Sel). Ma in una competizione a tre, con il Terzo Polo in campo (stimato intorno al 20%), la distanza fra i due poli principali salirebbe a 10 punti percentuali. Troppi per rischiare il ricorso anticipato alle urne in questo momento. Tanto più perché, da quando ha avuto avvio il governo Monti, il divario fra centrodestra e centrosinistra si è stabilizzato e, anzi, un po´ ridotto. Morale: l´esperienza del governo tecnico non fa male a Berlusconi. Gli permette di riorganizzare le fila. In un periodo politicamente difficile, per lui e per il Pdl.
Ma il ritorno di Berlusconi è improbabile soprattutto perché è cambiato il clima d´opinione. Il berlusconismo è fuori moda, inattuale. Come Berlusconi. Verso il quale il grado di fiducia dei cittadini è basso quanto mai, in passato. Poco sopra il 20%. Come i consensi verso il Pdl. Il suo partito "personale".
È arduo, d´altronde, distinguere e dissociare il destino del partito da quello dell´inventore. Lo testimoniano le difficoltà del Pdl in questa fase congressuale. Lacerato da tensioni e accuse interne: di corruzione, tessere false, condizionamenti. A Sud e a Nord. D´altronde: quale identità può assumere un partito identificato "da" e "in" Berlusconi senza Berlusconi alla testa?
Il mutamento del clima d´opinione riflette, a sua volta, il mutamento sociale. Berlusconi ha interpretato e impersonato una fase "affluente" della società italiana. A cui ha imposto, con l´amplificatore dei media, la propria biografia e la propria immagine come riferimenti e modelli. Ha, così, accompagnato e segnato una fase, lunga quasi vent´anni. Ben raffigurata dall´infotainment televisivo. I programmi che mixano informazione e intrattenimento, nei quali ogni distinzione di ruoli è saltata. Politici, cuochi, personaggi della fiction, ballerine, calciatori, veline, criminologi e criminali. Tutti insieme. Appassionatamente. A parlare di tutto.
Quella stagione è finita. La crisi ha spezzato il legame tra immagine e realtà. Ha reso l´immagine in-credibile. Il mondo rutilante e a-morale espresso da Berlusconi è divenuto troppo lontano rispetto al senso comune. I suoi valori: in contrasto con gli interessi degli elettori. Soprattutto e tanto più per quelli, fino a ieri, attratti da Berlusconi. In larga misura appartenenti ai ceti popolari. Si pensi alla crescente impopolarità dell´evasione fiscale, socialmente tollerata, negli anni scorsi – e giustificata dallo stesso Berlusconi. Ma guardata - oggi - con ostilità. Perché la crisi ha trasformato la furbizia in un vizio dannoso: per i conti dello Stato e per i bilanci delle famiglie.
La crisi ha, inoltre, delegittimato il modello del politico-senza-qualità. Non migliore di noi ma come noi. Anzi: peggio di noi. Reclutato per meriti estetici, piuttosto che etici. O per fedeltà al capo.
Per questo è difficile – a mio avviso improponibile – un ritorno di Berlusconi. Il quale è, semmai, alla ricerca di uno spazio nel quale "difendersi". Negli affari ma anche nelle questioni giudiziarie in cui è ancora coinvolto.
Il Paese, d´altronde, ha voltato pagina. L´esperienza di Monti – "promossa" da Napolitano - ha rivelato e trainato una domanda di rappresentanza politica diversa. Non parlo dei contenuti della sua azione di governo – per alcuni versi discutibili, a mio avviso. Parlo, invece, dello "stile". Che in quest´epoca, è "sostanza". Monti esprime un nuovo modello: il Tecnico che fa Politica. E viceversa: il Politico Competente. Che si misura con i partiti ma non ne fa parte. Ne è fuori e, al contempo, al di sopra. Monti annuncia e interpreta il post-berlusconismo, che si traduce in una sorta di "Populismo Aristocratico". Dove il premier si rivolge e risponde agli elettori direttamente, attraverso i media. In modo sobrio. Mentre i partiti – e i loro leader - restano sullo sfondo. Defilati. Monti: è un leader di successo, i cui consensi appaiono in continua crescita. Oggi superano il 60%.
Berlusconi non tornerà: perché il berlusconismo è finito. Ma anche l´antiberlusconismo lo è. Il che induce a spostare le nostre preoccupazioni "oltre" Berlusconi.
In questo Paese: dove i partiti – privi di credito – contano molto meno dei leader. E dove i leader dei partiti dispongono di un livello di fiducia molto scarso. La questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti.
Io ne dubito. Anzi: lo escludo.
Neppure se al berlusconismo succedesse il montismo.

Repubblica 27.2.12
Articolo 18, basterebbe un po´ di buon senso
di Mario Pirani


Ascoltando in giro, mi sono convinto che attorno all´articolo 18 ci sia non poca confusione e molti lo abbraccino o lo respingano come un articolo di fede. A scanso di equivoci, io mi annovero tra quanti ne auspicano il mantenimento, con qualche modifica, pur convinto della sua scarsa incidenza sull´andamento del mercato del lavoro in entrata come in uscita (un qualche peso simbolico lo avrebbe se venisse cancellato in quanto segno di una volontà imprenditoriale di potere). Ma veniamo al sodo. Molti credono e temono che, una volta venuto meno l´articolo 18, cada ogni remora alle possibilità di licenziamento. Non è così in quanto quel presunto pilastro riguarda esclusivamente i licenziamenti individuali – poche centinaia all´anno in tutto il Paese – e non certo i licenziamenti collettivi, dovuti in genere a crisi produttive, che hanno tutt´altra procedura e termini di salvaguardia. In ogni modo l´articolo 18 non concerne neppure la sostanza vera e propria del licenziamento individuale. Questo è, infatti, già definito dalla legge del 1966 che recita fin dal suo articolo 1: «Il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell´articolo 2219 del Codice civile o per giustificato motivo». All´articolo 3, poi, il testo prosegue: «Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all´attività produttiva, all´organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».
Or bene, nessuno mette in discussione questi articoli che regolano il licenziamento solo per giusta causa, le sue conseguenze in termini di indennità e quant´altro. A questo proposito, comunque, la legge del 1966 già precisava all´articolo 8: «Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli una indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell´ultima retribuzione globale di fatto» con maggiorazioni fino a 10 mensilità per un´anzianità superiore a 10 anni e di 14 per un´anzianità di 20. Veniamo al tanto discusso articolo 18. Questo fa parte della legge 300 del 1970 ( meglio noto come lo Statuto dei lavoratori) ed introduce, nei casi stabiliti dalle leggi precedenti, il principio del reintegro nel posto di lavoro del dipendente che risultasse ingiustamente licenziato. Le conseguenze negative di questa norma, a meno che non si voglia abrogarla per tornare a un diritto unilaterale dell´impresa di licenziare senza alcun limite un dipendente, sono connesse invece all´assurda durata del contenzioso legale, sovente di alcuni anni, che somma l´incertezza prolungata dell´esito all´ammontare estremamente pesante che ne deriva in caso di riassunzione per l´impresa, costretta a pagare molte annualità pregresse. Di qui la necessità d´introdurre una procedura rapidissima per il processo sull´argomento. A meno che non si voglia in partenza stabilire i limiti (2 anni ?) dell´indennità risarcitoria, fermo restando il reintegro. L´altra modifica riguarda l´estrema genericità delle causali economiche che la legge del ´66 fissa anche per il licenziamento per giusta causa. A parte l´assurdità di una misura individuale invocata per sanare una inefficienza produttiva aziendale sarebbe opportuno che la legge indicasse con assoluta precisione (ad esempio la sostituzione di un robot all´uomo), le condizioni economiche invocabili. O meglio che si cancellasse tout court questo aspetto.
Insomma, chiunque guardi con occhio realistico la questione non può non convenire che essa è agevolmente componibile da un pragmatico compromesso che depuri l´articolo 18 dalle sue incongruenze pratiche e dai veleni ideologici che vi sono accumulati sopra. Non fa sperare bene lo sciopero proclamato dalla Fiom, «contro la riforma del lavoro e i tentativi di modifica dell´articolo 18».

La Stampa 27.2.12
L’Imu alle scuole cattoliche scuote la maggioranza “Così non può passare”
Il governo precisa: paga solo chi ci guadagna. Ma è polemica
di Giacomo Galeazzi

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Repubblica 27.2.12
"Ici alle scuole solo se fanno profitti"
Il governo rassicura la Chiesa. Passera: ma è saggio far pagare anche i beni dei cattolici
di Silvio Buzzanca


Il Pdl chiede una "interpretazione autentica" della norma prima di votarla in Senato
La Cei rilancia la "preoccupazione" "Gli istituti paritari svolgono un servizio pubblico"

ROMA - Il governo non vuole penalizzare le attività no profit della Chiesa. L´Ici, meglio l´Imu, la pagheranno solo gli enti che iscrivono utili nei loro bilanci. Le rassicurazioni arrivano dal ministro allo Sviluppo economico Corrado Passera e dal sottosegretario Gianfranco Polillo e dovrebbero servire a tranquillizzare il mondo cattolico di fronte alla discussione sull´argomento, inserito nel decreto sulle liberalizzazioni, che riprende oggi al Senato. Ma sia la Cei sia i parlamentari cattolici di destra e sinistra non sono convinti e chiedono al governo più chiarezza.
Una chiarezza che, secondo Palazzo Chigi, c´è. «Era ovvio che si andasse in questa direzione ed è stato fatto in maniera saggia, ragionevole e determinata. Ora è importante che l´introduzione dell´Imu non penalizzi il vero no profit che è un pilastro della coesione sociale», spiega a SkyTg24 il ministro Passera. Cattolico, Passera, assicura che «nel rendere operativa questa decisione di estendere la tassazione immobiliare faremo molta attenzione».
Sicuramente faremo così, aggiunge Polillo in un´intervista all´Avvenire. Il sottosegretario spiega al giornale della Cei che «paga l´Imu chi iscrive un utile a bilancio. Chi, insomma, lucra, sull´attività che svolge». Polillo fa anche un esempio: «Se la retta alla scuola parificata serve a sostenere i costi di gestione, non si può considerare attività commerciale. Applichi il concetto a un ospedale: è lo stesso. O a un´associazione, religiosa o meno, ai partiti, ai sindacati».
Tutto chiaro? A sollevare dubbi è per prima la Cei. Monsignor Michele Pennisi, responsabile per l´Educazione cattolica, denuncia «l´incertezza legislativa» che caratterizzerebbe il provvedimento. Il prelato, che è vescovo di Piazza Armerina, spiega poi che le scuole paritarie sono simili a quelle statali che «svolgono un servizio pubblico» e per questo sono esentate dall´Imu. Per monsignor Pennisi, inoltre, i contributi ricevuti finora «sono legittimi e doverosi, insufficienti, per cui tante scuole hanno dovuto chiedere, non sono privilegi».
Una linea che viene sposata in modo bipartisan dal mondo politico cattolico. Carlo Giovanardi è convinto dalle spiegazioni di Polillo, ma non da quelle di Passera. Allora, chiede l´ex sottosegretario, è necessaria «una interpretazione autentica ufficiale prima che i senatori debbano decidere come votare questa norma». Lo stesso fa il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri. Sull´altro versante si associa alla richiesta il democratico Giorgio Merlo: «Non facciamo confusione solo per rispondere ad una esigenza laicista ed anticlericale».
Il fronte "laicista e anticlericale" replica con i Radicali. «La carità è una virtù teologale e gli uomini di fede dovrebbero reagire con vigore se divenisse materia legislativa», scrivono il deputato Maurizio Turco e il segretario di Anticlericali. net Carlo Pontesilli. Dunque, concludono, sarebbe meglio che «lo Stato fornisse a tutti i cittadini bisognosi - senza distinzione di sesso, religione, razza e condizioni economiche - i servizi essenziali, dall´istruzione, alla sanità».

Repubblica 27.2.12
Scuola, è allarme abbandoni uno su cinque senza diploma Italia tra i peggiori d´Europa
Il ministro: situazione drammatica al Sud e nelle periferie
di Corrado Zunino


E Rossi Doria annuncia: "Stanziati trenta milioni per le Regioni a rischio"
"Sostenere il ciclo delle elementari e riqualificare gli istituti tecnici, ecco le priorità"

ROMA - La crisi economica, a scuola, fa crescere i dispersi. Il ministro dell´Istruzione, letti gli ultimi dati sulla fuga dalle classi, ha scelto di porre la questione tra le priorità del suo mandato. In Italia un ragazzo su cinque non ha un diploma di media superiore né una qualifica professionale: è "disperso scolastico", secondo l´accezione europea, destinato al fallimento personale. Gli ultimi dati Istat, passati dall´Istituto nazionale di statistica al Miur dieci giorni fa e ora pubblici, illuminano il quadro: il 18,8 per cento dei giovani italiani fugge la scuola prima del diploma (si sale al 22 tra i maschi). Certo, alle spalle c´è un recente recupero: dal 2004 al 2010 è tornato in aula e agli esami finali il 4 per cento degli iscritti, ma l´ufficio statistica del ministero sta lavorando nuovi dati che illustrano come la lunga crisi economica abbia interrotto il recupero e stia allargando un problema storicizzato al Sud alle periferie delle metropoli italiane: Milano, Torino, Genova, Verona, Bologna, Roma.
Il ministro Francesco Profumo è stato un mese fa a Ponticelli (Napoli) e sabato scorso ha trascorso una giornata a Palermo, dove ha scoperto che all´istituto comprensivo Giovanni Falcone di via Marchese Pensabene, quartiere Zen 2, per sei anni è stata richiesta la targhetta del civico (il numero 34) e quando è arrivata i vandali l´hanno distrutta. «Lo Stato deve esserci di più», ha detto Profumo, «noi individueremo una persona che segua questa scuola e il suo progetto». La palestra del "Falcone" è chiusa dal 2009, le poche telecamere installate sono rivolte sulle aiuole e la notte non riprendono nulla, l´ascensore è fermo da dieci anni perché mai si è fatta manutenzione. Queste condizioni strutturali aiutano la dispersione scolastica, fenomeno che ogni studio affianca alla povertà familiare, al degrado del territorio. In Sicilia la "media dispersione" sale al 26%. In quartieri come lo Zen 2, rivela il sottosegretario all´Istruzione Marco Rossi Doria, un giovane su due non va a scuola.
Ecco, non si riesce a scalfire in maniera organica quella soglia: un abbandono ogni cinque studenti. Secondo l´agenda di Lisbona la dispersione doveva essere dimezzata entro il 2010, e senza dubbio dovremo farlo entro il 2020. Questo governo ci prova ora investendo sulle quattro aree a rischio - Campania, Puglia, Calabria e Sicilia - 30 milioni di euro di fondi europei, quattro già disponibili. «Abbiamo una dispersione quasi doppia di Francia e Germania e non riusciamo a migliorare», dice il sottosegretario Rossi Doria, una vita e una fama da "maestro di strada" nei quartieri poveri di Napoli. «Da 25 anni conosco i ragazzi dispersi e tocco con mano il valore delle statistiche generali: ogni anno di istruzione in più significa meno malattie, meno dipendenza, meno povertà. È vero in Brasile, in India e allo Zen. In Italia l´uscita dall´analfabetismo è stato il volano del boom economico, ma oggi, dopo 130 anni, la scuola non è più un luogo di emancipazione sociale».
La dispersione scolastica è un´emergenza della gioventù italiana e da qui a giugno 2014 sarà affrontata con 30 milioni di euro. «Dobbiamo puntellare il ciclo delle elementari: resta la fase migliore della scuola italiana, ma mostra le prime crepe», dice Rossi Doria. Più ore il pomeriggio e rafforzamento degli alfabeti di base. «Se dai 7 ai 9 anni leggi bene e capisci i significati, scrivi in maniera corretta, impari la base del pensiero scientifico-matematico, sei pronto per passare alle medie e alle superiori senza rischi». È tra i 14 e i 17 anni che ci si "perde": sono 117 mila i ragazzi di quell´età fuori da qualsiasi percorso formativo. «L´Invalsi, con i test in seconda e quinta elementare, ci sta aiutando a guidare i nostri figli e segnala i primi problemi nelle periferie di Roma e delle grandi città del Nord». Pool di insegnanti lavoreranno con i ragazzi sui risultati Invalsi e si sta studiando se per il lavoro surplus potranno essere pagati straordinariamente: «L´obiettivo è quello di tenere le scuole aperte tutto il giorno». La seconda parte del piano ministeriale prevede una connessione, «una rete», tra la realtà scolastica (presidi, insegnanti, bidelli) e le strutture sociali del territorio circostante (centri sportivi, luoghi di associazionismo, parrocchie). «È un raddoppio della marcatura sui ragazzi a rischio», dice il sottosegretario. Si sta creando un prototipo per i quartieri periferici delle città da rendere operativo a settembre, nuovo anno scolastico. Il "maestro di strada" spiega, quindi, la necessità di creare «scuole di seconda occasione». Strutture private che, coinvolgendo le madri, potranno lavorare sulla psicologia degli infanti e far crescere la loro capacità di narrazione. Napoli ha aperto la strada, a Torino si è sviluppata la realtà "Provaci ancora Sam". Contro l´addio alla scuola, infine, diventa fondamentale la riqualificazione degli istituti tecnici: «Dove c´è una rete industriale e artigianale che funziona i dati migliorano». A Benevento, nel centro di Lecce, in alcuni zone di Torino, nella provincia di Trento.

Repubblica 27.2.12
La fine della civiltà capitalistica
Così tramonta un paradigma, non solo un modello economico
di Massimo Giannini


Il saggio di Carandini spiega l´ascesa e il declino di un fenomeno che è filosofico e politico
Dalla finanza alla società, la fase che stiamo vivendo ha cause e conseguenze complesse. Proviamo ad analizzarle, con l´aiuto di libri e interventi

Bisognerebbe chiedere a Joseph Schumpeter. Lui, forse, saprebbe dirci se la distruzione in corso è ancora »creatrice», oppure se il capitalismo (come il comunismo, secondo la nota critica berlingueriana) ha definitivamente esaurito la sua «spinta propulsiva». Lo pensavo qualche giorno fa, ascoltando Monti a Milano. Il premier parlava alla comunità finanziaria, con l´aria di chi predica in terra d´infedeli: i Salotti Buoni «hanno difeso l´esistente, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana». Ti guardi intorno, e in questo scorcio di millennio, almeno in Occidente, ti sembra di vedere solo macerie. Recessione e disoccupazione, disagi e disuguaglianze. Dov´è la "creazione", in mezzo a bolle finanziarie e immobiliari, che si gonfiano ed esplodono mietendo vittime tra i deboli? Dov´è il capitalismo "per sua natura congiunturale", come diceva Galbraith, capace di rigenerarsi continuamente da se stesso?
In cerca di risposte, si moltiplicano libri e riflessioni. Economisti, storici e filosofi. Latitano i politici, ma questa è la costante della fase. Tra gli ultimi saggi, ne segnalo uno che colpisce più di altri. Racconti della civiltà capitalista. Lo scrive per Laterza Guido Carandini, mescolando i suoi diversi saperi: dal lavoro imprenditoriale a quello intellettuale. Non un agile pamphlet sui guasti dell´oggi, ma un lungo viaggio a ritroso nelle alterne vicende del capitalismo industriale di ieri, che ti fa leggere con occhio diverso quelle del capitalismo finanziario di oggi. Rovistando proprio tra le macerie di otto secoli di storia, Carandini riscrive il grande racconto del capitalismo con un "nuovo paradigma", che Thomas Kuhn definirebbe "sistemico". Per capire il fenomeno capitalistico non basta più una sola dimensione, l´economia. Servono invece tutte le dimensioni del vivere: filosofia e politica, scienza e religione. Perché dal XII secolo in poi, tutte le sfere della società occidentale ricevono l´impronta del capitale, che le marchia a fuoco.
Ex comunista e deputato del Pci, studioso di Marx e del marxismo, Carandini parte dall´assioma del maestro di Treviri: "L´essere sociale determina la coscienza umana", e non il contrario. Di lì, con una contaminazione che abbraccia Fernand Braudel e Jacques Le Goff, Marc Bloch e Immanuel Wallerstein, sviluppa la sua tesi, intorno alla quale costruisce una "reinvenzione della storia": il capitalismo, per questa parte di mondo, è molto più che un sistema di governo (o "sgoverno"?) dell´economia. Molto più del mercato, della libera competizione, del conflitto tra le forze concorrenti. Molto più della stessa democrazia. E´ una vera e propria forma di "civilizzazione". Può sembrare un´ovvietà, mutuata magari proprio dalla valutazione "quantitativa" di Bloch, quando scrive che "tutte le fasi più lunghe della storia si chiamano civilizzazioni". Otto secoli filati di egemonia capitalista sono abbastanza, per confortare questa teoria. Ma è sul piano "qualitativo" che l´operazione si fa più audace e suggestiva. Riconoscere fino in fondo l´equazione capitalismo=civiltà ha implicazioni illuminanti, e soprattutto inquietanti, nella rilettura della vicenda umana che ci porta alla cosiddetta "modernità".
Il nuovo "paradigma" di Carandini poggia su quattro pilastri, che aiutano a ricostruire la storia degli ultimi ottocento anni: la potenza, l´accumulazione, la religione e la scienza. Sono queste le "leve" della storia del capitalismo. Lo generano, lo plasmano, lo trasformano e infine lo snaturano. Ai suoi albori, il pre-capitalismo è una versione basica dell´economia di mercato: vendere per comprare, scambiando per soddisfare i bisogni di sostentamento e di consumo. Poi muta, si sofistica: comprare per vendere, trasformando il denaro in merce e ritrasformando la merce in denaro. Così l´economia di mercato diventa circolazione capitalista. La nuova "civiltà" non è più ottimale soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi, ma perseguimento e accumulazione del massimo dei profitti. La novità dell´analisi di Carandini è che la metamorfosi comincia molto prima di quanto si pensi. Almeno cinque secoli in anticipo, rispetto alla Rivoluzione Industriale. Già nella Venezia dei borghesi del 1200, come poi nell´Olanda dei mercanti, la "potenza" del capitale contiene in nuce l´embrione delle sue evoluzioni/involuzioni successive.
Un filo rosso (o nero, fate voi) unisce quei primordi al meglio e al peggio dei secoli a venire. C´è "potenza" (la prima "leva") nei Padri Pellegrini che nel 1620 sbarcano con il Mayflower nel Nuovo Mondo, propiziando il primo Boston Tea Party del 1773 e la Dichiarazione d´Indipendenza del 4 luglio del 1776. C´è "potenza" nella Rivoluzione Francese e nella Dichiarazione dei Diritti del 1789. La "scoperta" dei diritti genera democrazia, la democrazia genera libertà, la libertà genera "accumulazione". Questa "leva" (la seconda) getta le basi per le future tragedie novecentesche. La società massificata, nei consumi e nei costumi, è alla radice dei fascismi europei. Per Carandini, con un coraggio analitico che si fa quasi temerario, persino il comunismo e la sua nemesi (il crollo del Muro), è in qualche misura il compimento delle condizioni primarie tipiche della potenza e dell´accumulazione capitalista. La Rivoluzione d´Ottobre di Lenin è "rivoluzione per la potenza", che ha come obiettivo la crescita dell´economia e del reddito nazionale. E pazienza se per raggiungerlo, prima Vladimir Ilic Uljanov, poi Josip Giugasvili Stalin, fanno 25 milioni di morti. Anche in Urss, in quell´abisso di Terrore, la logica del capitalismo "era in agguato", e il socialismo occultamente e inconsciamente era assoggettato a una logica dell´industrializzazione tecnicamente imposta dal capitalismo occidentale.
In questa chiave, Carandini ci costringe a ripensare il capitalismo storico non più solo come trasposizione pratica di libera concorrenza, free trade, mercati in equilibrio. La storia del capitalismo, viceversa, è anche storia di commerci di rapina, di guerre sanguinose, conquiste coloniali, schiavitù e sfruttamento. Spinta dalla "potenza", giustificata dalla "religione" (scrive Max Weber che "il capitalismo è una pratica religiosa di vita") e accelerata dalla "scienza" e dall´innovazione tecnica e tecnologica, l´"accumulazione" ad ogni costo permea le menti individuali e i comportamenti collettivi. Così il capitalismo storico genera dentro se stesso la barbarie e la violenza. Fino al nazismo e all´Olocausto. Fino alle mafie e alle criminalità organizzate. Più banalmente, il capitalismo contemporaneo compie l´ultima mutazione, e si fa "inciviltà". Sconfitte le avventure totalitarie, "domina oggi un mondo diviso tra sprechi di ricchi e privazioni di poveri, un´etica cieca del profitto acuisce il conflitto tra capitale e lavoro, e non colmerà l´abisso tra la sazietà e la fame". Carandini non ci lascia troppi margini per sperare. Restiamo tuttora immersi nelle "fedi ideologiche". Weber si sbagliava, quando immaginava che la "brama immoderata" non fosse l´essenza del capitalismo, e sognava che quest´ultimo ne fosse il "razionale temperamento". "Greed is good", è il motto di Wall Street, mentre a Main Street si soffre e di piange. "Solo la forza della democrazia può imporre limiti all´avidità di oligarchie affariste e promuovere una crescita più equa". Verissimo. Ma oggi c´è un problema, gigantesco: le democrazie per il popolo hanno lasciato il campo alle tecnocrazie senza popolo. E il vero scontro di civiltà, ormai, non è più tra Islam e Occidente, e nemmeno più tra politica ed economia. È tra economia e democrazia.
Chiudo il libro appagato, ma con una domanda finale che resta senza risposta. Per Francis Fukuyama la crisi del comunismo coincise con la fine della storia. Da quel saggio famoso, uscito nel 1992, le cose sono andate un po´ diversamente. Oggi, con un criterio valutativo uguale e contrario, possiamo azzardare che la crisi del capitalismo coincide con la fine di una civiltà? Non so dirlo. Ma so che il capitalismo finanziario di questi anni (per parafrasare i Balcani di Churchill) consuma molta più storia di quanta ne produce. Così non può reggere. Fosse vivo, lo direbbe anche Schumpeter.

Corriere della Sera 27.2.12
Lenin all'ombra dei Faraglioni
di Enrico Mannucci


Agli inizi del Novecento, Capri era già nota come «perla del Mediterraneo», era meta prediletta di soggiorno per inglesi e tedeschi che disputavano, fra loro, il primato per la scoperta di questa o quella meravigliosa grotta e si attestavano nei rispettivi ritrovi: c'era il caffè «Zum Kater Hiddigeigei» dei Morgano e c'era l'albergo più bello, l'Hotel de Londres. A Capri arrivavano i ricchissimi dell'epoca, gli artisti, anche i depravati. E c'era già un rapporto ambiguo fra forestieri e locali. Quello che porterà nei guai, mezzo secolo dopo, un celebre caprese d'adozione, Curzio Malaparte.
Poi c'erano anche intrighi più seri. L'eterogenea frequentazione aveva reso l'isola una specie di Tangeri, nel senso di santuario dello spionaggio internazionale. Uno dei fili faceva capo ad un'altra colonia straniera: quella dei russi, cresciuta attorno ad Aleksej Maksim Gor'kij, scrittore in esilio alquanto dorato. Lì, fra il 1908 e il 1910, capitò in due occasioni il massimo rivoluzionario del secolo, Lenin. Veniva a trovare — e magari a controllare — quel circolo di fuoriusciti dall'ideologia non proprio ortodossa. Ma forse — nel posto più a sud del pianeta dove si sarebbe mai spinto — ebbe anche modo di allacciare contatti con potenti personaggi tedeschi, industriali e alti gradi militari, quelli che avrebbero aiutato la rivoluzione bolscevica a rovesciare lo zar.
Le due visite dalle parti dei Faraglioni sono ricostruite in Scacco allo zar (Mondadori, pp. 192, 18,50), ben documentato libro di Gennaro Sangiuliano, vicedirettore del Tg1 che aveva già dimostrato il suo fiuto di ricercatore storico con Giuseppe Prezzolini, l'anarchico conservatore. Il soggiorno di Lenin è immortalato da una foto celebre e quasi bucolica. Il rivoluzionario è davanti a una scacchiera all'aria aperta, l'avversario è Alexander Bogdanov, medico, filosofo e marxista in odor di eresia. Intorno, Gor'kij e tre altri esuli russi, sullo sfondo le colline capresi.
Sangiuliano spiega come Lenin non passò il tempo soltanto a rilassarsi. In quei giorni, sull'isola, c'era anche il futuro feldmaresciallo Paul von Hindenburg, ospite dei Krupp. E «lacchè di Hindenburg» verrà poi definito Lenin, quando il legame fra bolscevichi e tedeschi diventerà pubblico. L'intreccio è illustrato anche da rapporti dei servizi segreti scovati negli archivi britannici: probabilmente Capri fu una tappa importante. Ma, più ancora che per la ricostruzione di questi retroscena, il libro si gode per il racconto dei particolari di vita quotidiana dei bolscevichi in «Piazzetta». Con Lenin che esce da Marina Piccola sul grande gozzo bianco di Gor'kij, e impara dai barcaioli la pesca a mano, fatta avvolgendo il filo attorno al dito indice. Se il pesce abbocca, esclama «Drin, drin». E «professor Drin drin» lo soprannomineranno gli isolani. Nel periodo successivo, non si sbottonerà mai troppo su questa spedizione. Sintetico ed elusivo, rispondeva a chi gli chiedeva impressioni dell'Isola azzurra: «Mare bello, vino buono».

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