l’Unità 18.2.12
Bersani: dopo la destra in Europa tocca ai progressisti e alla sinistra
Il leader dei Democratici al seminario sul tramonto del liberismo: «Rilanciamo il modello sociale europeo con un partito-progetto e un’ambizione culturale». Per Cuperlo le parole chiave sono: diritti e redistribuzione
di Bruno Gravagnuolo
Sarà pure superata la distinzione destra/sinistra... ma sui temi di merito, ogni volta che ci confrontiamo con quelli... non siamo mai d’accordo..., che si tratti di mercato del lavoro, di banche, o di liberalizzazioni...». Lo dice così Bersani in replica a Gad Lerner, Lucia Annunziata e Paolo Gentiloni nel mezzo del suo intervento conclusivo al seminario Pd Il Mondo dopo la destra, nella sala Conferenze di Via S. Andrea delle Fratte a Roma. E cioè: non solo la distinzione non è superata, e non ci sono complessi o ambiguità a riguardo. Ma c’è tutto un lavoro da fare, per recuperare autonomia e «soggettività» di una «forma-partito» progressista e di sinistra. Capace di pensare e agire per il «dopo». Dopo che destra e liberismo hanno generato una «crisi di civiltà», nel cuore dell’«Occidente», e che rischia di realizzare quel che ricorda Bersani è nel suo etimo: «luogo del tramonto».
E però, niente apocalissi, nel segretario e nella giornata di lavori aperta da una relazione di Gianni Cuperlo. Ma al contrario e contro le tesi di Latouche sulla «decrescita» tentativo a più voci di individuare punti fermi di programma e identità culturale. Per capire ciò che è accaduto negli ultimi decenni. E quel che andrà fatto «domani». Dopo la Grecia e dopo Monti. Ecco la diagnosi di Cuperlo, davanti a una platea di quarantenni e personalità, da D’Alema a Reichlin, a Vincenzo Visco. Fino all’ottobre 2008 «ha dominato un racconto ideologico stregato». Col mito dell’autoregolazione dei mercati che si tramuta in potenza finanziaria, a servizio di una globalizzazione virtuosa.
Poi, con il crollo, si cominciano a fare due conti. «La liquidità, tra titoli e denaro, dieci volte più alta del Pil mondiale. E la quota in salari del Pil scesa di nove punti, a fronte dei profitti nelle economie avanzate. E nel mondo, su tre miliardi di lavoratori, solo uno e duecento milioni gode di un contratto. Certo, il tasso di povertà è sceso: 600 milioni di cinesi strappati alla miseria...». E però le differenze sono cresciute in modo stratosferico. Proprio mentre la «tecnica» sprigiona potenziale mai visto e socializza a livello planetario il processo produttivo («l’I Pod della Apple è americano, cinese, indiano, giapponese e coreano»).
Dunque, la crisi: delocalizzazione, flessibilità, concorrenza impossibile, che preme da est. E soprattutto: finanza e «derivati». A sostegno, dice Cuperlo, di «una domanda di beni insufficiente», coi trucchi del credito al consumo e del debito, pubblico e privato. Su cui s’avventa la speculazione (fatta di pescicani e piccoli risparmiatori). È «l’autunno del capitalismo» per dirla con Braudel quel che evoca Cuperlo: il Capitale si indebita, per competere e ristrutturare. Si mescola con la finanza, e scarica il tutto sullo stato, che a sua volta ha gonfiato il debito sovrano: «al culmine del ciclo keynesiano». Qui sta la lunga stagione della destra, culminata in catastrofe («peggiore di quella del 1929», per Visco). E ora che fare?
Ecco le parole chiave di Cuperlo, variamente declinate al seminario: «beni comuni, libertà umane, valore sociale del lavoro a base della persona e del cittadino». E poi: eguaglianza, redistribuzione, sostegno pubblico alla domanda, senza sprechi o gigantismi. Nel senso dirà Bersani di un Welfare sobrio e mutualistico. Con il ruolo del «privato sociale» e dei corpi intermedi esaltato. Ma, per rilanciare tutto questo, servono anche, una nuova «Bretton Wood», analoga al sistema di regolazione monetario che sorresse nel dopoguerra il «Piano Marshall e l’età dell’oro keynesiana post-bellica». È la proposta di Vincenzo Visco. E un fronte progressista coeso in Europa. Per rovesciare le politiche neoconservatrici colpevoli del disastro. Come? Con «un ruolo forte e portante dello Stato» dice D’Alema, che cita “l’ultimo Clinton” in infrastrutture, ricerca e formazione, ambiente. Che metta le briglie alla finanza. Sicché, per D’Alema, occorre «egemonia, e capacità del potere democratico di convertirsi in politica. E in autonomia della politica, veicolata da un soggetto politico di massa».
Utopia economica? No, perché come ricorda Nicola Cacace, sono i Paesi con più eguaglianza, quelli dove il Pil cresce: 7 in Europa e 3 nel nuovo mondo. E conclude Bersani: lavoriamo al rilancio del «modello sociale europeo», su nuove basi e in vista della crescita. Perciò ci vuole un «partito-progetto», e una «macchina culturale forte», egemonica. Monti? «Merito anche nostro, che sia venuto dopo Berlusconi. E stiamo lì, in presa diretta con le nostre idee. Ma intanto ci prepariamo alla sfida alternativa».
il Riformista 18.2.12
Reichlin a Macaluso
di Alfredo Reiclin
Caro Macaluso,
è vero. Io scrivo tra i 20 e i 25 articoli all’anno e l’argomento è quasi sempre il Pd. Ma non per farne l’apologia quanto per cercare di dire quello che, a mio modesto parere, dovrebbe fare per rafforzare il suo ruolo. Lo so, è un vecchio vizio. Io non penso che basti essere un elettore della sinistra ma che è necessario militare. Sentirsi parte dell’esercito che bene o male sta in campo.
Tu invece scrivi tutti i giorni, ma ogni tuo articolo (piuttosto belli, in verità) finisce quale che sia l’argomento con una critica pesante, anzi sprezzante verso questo povero partito. È nel tuo pieno diritto, e io non lo contesto affatto. Noto solo che non guasterebbe un po’ meno di supponenza da parte di chi in tutti questi anni non è stato un distaccato osservatore ma un protagonista politico. Il quale si è dannato l’anima per fondare e rifondare e poi fondare ancora nuovi partiti socialisti (la costituente di Bertinoro, ecc. ecc.). Però senza successo. Mentre, con tutti i suoi errori, tutte le sue divisioni e tutte le sue pochezze, il povero Pd è diventato il primo partito italiano.
Io quindi qualche interrogativo, fossi in te, me lo porrei. E la risposta la cercherei non tanto nei nomi quanto nelle cose, le grandi cose che stanno sconvolgendo il mondo. I fatti di cui io parlo da anni (anche troppo), sono ormai talmente evidenti per cui diventa un po’ ridicola certa ironia contro gli “acchiappanuvole” come il sottoscritto.
Perché vedi, caro Emanuele, ciò che è in discussione non sono le glorie del movimento socialista alle cui radici, e alla cui storia, io come te appartengo. Non è nemmeno in discussione il fatto che non il Komintern ma la socialdemocrazia europea ha fatto quella cosa grandiosa che fu lo Stato sociale e il compromesso democratico con il vecchio capitalismo industriale.
Il fatto è che la base storica materiale di quel grande compromesso (una civiltà) è stata spazzata via dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia. Dobbiamo quindi porre su basi nuove il riformismo, il suo necessario ridefinire il “con chi, contro chi, e come”, la sua capacità reale di schierare le forze di progresso. È il problema che si pone il Pd e che si stanno ponendo, in modi diversi, i partiti socialisti europei. Per cui è fuori luogo il tuo pesante sarcasmo. Siamo diversi. Il Pd nasce anche da altre forze e intende rappresentarle. Ma questa barriera tra il Pd e i socialisti europei non esiste. Hollande, che spero diventerà presidente della Repubblica francese, è venuto a Roma ma ha incontrato Bersani e ha discusso con lui, non con Macaluso. Quindi, calma ragazzi.
Può darsi che le forze progressiste falliranno nel loro disegno europeo unitario. Ma questo è il nostro sforzo. È con sfide molto grandi che ci dobbiamo misurare. Tutti. E sta qui, semplicemente qui, la ragione per cui io parlo tanto di nuove alleanze, nuove culture politiche, nuovi strumenti e soggettività politiche. Perché credo non basti agitare le vecchie bandiere.
Del resto, tu ed io siamo stati dirigenti di un partito, che si chiamava comunista. Non credo (io no, certamente) che abbiamo tanto lottato perché volevamo dare all’Italia un regime comunista. Il nome non corrispondeva alle cose. Il programma del Pci era ci spiegò Togliatti la Costituzione. È anche per questo che io molti anni dopo accettai di cambiare il nome di quel partito. Non per opportunismo o per cancellare una storia, ma perché il Pci era stato una grande cosa in quanto era quel luogo, quel complesso di cose, di uomini, di culture, di speranza, di strumenti organizzativi che inveravano il bisogno del cambiamento. Ma a un certo punto non lo era più. Ma non lo era nemmeno Craxi.
Dov’è oggi quel luogo? Vedo tutti i limiti enormi del Pd. Ma non vedo altri luoghi. Di ciò sarebbe utile discutere.
Con la vecchia amicizia
il Riformista 18.2.12
Macaluso a Reichlin
di Emanuele Macaluso
Caro Reichlin,
grazie per la tua replica a un mio articolo in cui ti chiamavo in causa. Vorrei anzitutto darti un’informazione: io non ho mai fondato e rifondato partiti socialisti, né a Bertinoro (dove ero ospite) né altrove. Ho fatto per 15 anni una rivista, Le nuove ragioni del Socialismo, molto impegnata a capire cos’è oggi il socialismo europeo, e ora scrivo sul Riformista seguendo quella ispirazione.
Per la verità, un tentativo di fare un partito socialista nel 1997 lo fece D’Alema con il contributo di Giuliano Amato e altri autorevoli esponenti socialisti ed ex comunisti, fra cui tu. In quella occasione io, un pò scettico, scrissi un libretto con Paolo Franchi, Da cosa non nasce cosa. L’altro tentativo fu fatto da Piero Fassino al Congresso di Pesaro, sempre con Giuliano Amato, che svolse un grande intervento sull’attualità del socialismo democratico. Dopo pochi anni quel socialismo viene definito vecchiume del secolo scorso. Non io ma il gruppo dirigente dei Ds e tu, che l’hai autorevolmente e onestamente sostenuto, vi siete impegnati a fare un partito socialista. E dovresti spiegare le ragioni per cui, come scrisse Scalfari, i Ds si sono trovati al capolinea con la Margherita e insieme fondarono il Pd. Sul quale, caro Alfredo, non ho mai avuto una posizione distruttiva, ma seriamente critica. Sulle ragioni per cui, dopo la svolta della Bolognina e la crisi esistenziale del Psi, non è stato possibile fare un partito socialista, ho scritto molto.
L’ultimo tentativo lo feci con Giorgio Napolitano e tutta l’area riformista, insieme a Rino Formica e tanti socialisti, promuovendo il “movimento per la sinistra di governo”: alla grande assemblea del Capranica venne anche Antonio Giolitti. La crisi del Psi determinò anche quella di quel movimento.
Riassumo in poche righe la mia posizione di oggi. Non credo che il Pd così com’è, non come dovrebbe essere, possa assolvere alla grande, necessaria funzione che tu gli assegni. Mi sbaglierò, ma il Pd, lo si capisce da cos’è in ogni luogo e da come opera, può invece attraversare una crisi profonda. Ho già scritto che in questo caso spero che si tratti di una crisi virtuosa, non distruttiva, che sposti il Pd in avanti, e con i caratteri che ha segnato la storia della sinistra italiana, si ritrovi nella grande famiglia del socialismo europeo. Tutto qui.
Caro Alfredo, che Hollande incontri Bersani e non me, che rappresento nessuno se non me stesso, è nell’ordine delle cose. Considero quell’incontro importante. È importante, per quel che mi riguarda, non soffrirne e non soffrirne anche se non sono a fianco di Bersani.
La vecchiaia può essere una risorsa se vissuta combattendo ma serenamente. Infine, sono d’accordo con te, il tema è grande, ed è un bene continuare a discuterne.
il Riformista 18.2.12
In Lazio primarie Pd anche per il segretario
Partito commissariato. Un anno speso inutilmente, l’assemblea degli iscritti non trova il capo regionale del partito. Tre candidati, favorito Gasbarra, che deve misurarsi con il traguardo del 50 per cento.
di Ettore Maria Colombo
Sarà anche una “grande festa democratica”, come dicono orgogliosi di loro stessi al Nazareno, quartier generale democrat, quella che si attende il Partito democratico del Lazio e che si svolgerà domenica 19 febbraio, in occasione delle primarie per l’elezione del segretario del Pd Lazio. Dalle 8 alle 20, infatti, tutti i cittadini residenti nella Regione governata da Renata Polverini (Pdl, ma anima di un movimento tutto suo, Città Nuove e in rotta di avvicinamento all’Udc) e, soprattutto, nella città di Roma, Capitale stressata dal sindaco Gianni Alemanno (Pdl, ex An, ma in rotta di collisione con tutti), nonché nella Provincia di Roma, una delle ultime roccaforti laziali in mano al Pd e sula quale il presidente, Nicola Zingaretti, punta per partire all’assalto del Campidoglio e riconquistarlo alla sinistra.
Per votare, spiega Francesco D’Ausilio, coordinatore della commissione Regionale per il Congresso, che si aspetta «una partecipazione importante» cinque-diecimila? Si vedrà «basterà esibire il documento d’identità e la propria tessera elettorale», aggiungendo un contributo di due euro «per le spese organizzative». Presentando la carta d’identità o il permesso di soggiorno potranno esprimere la loro preferenza anche i cittadini immigrati ed extracomunitari. Purché abbiano compiuto almeno sedici anni, tutti i laziali potranno presentarsi negli oltre cinquecento seggi della regione, distribuiti tra circoli del partito, associazioni e gazebo.
La scelta è tra tre candidati.
Primo, Giovanni Bachelet: cattolico, oggi di rito bindiano, figlio del magistrato ucciso dalle Brigate rosse, nessuna possibilità di vincere, anzi molte di arrivare ultimo.
Secondo, Enrico Gasbarra: cattolico e pacifista, braccio sinistro di Beppe Fioroni, capofila degli ex-popolari nel Pd, ma soprattutto ex presidente della Provincia di Roma, dove fece benissimo, e supportato da praticamente tutti i big (da Veltroni a D’Alema, da Marini che tiene al Lazio, quasi quanto al suo Abruzzo a Franceschini) e da quasi tutte le anime del Pd. Insomma, è lui, Gasbarra, il candidato da battere, anche se le poche opposizioni interne rimaste in vita in Lazio sperano di tenerlo sotto il 50 per cento per rimproverargli di non essere stato capace di fare l’en plein nonostante i big in campo per lui. Tra i quali va annoverato pure Zingaretti. Il presidente della Provincia, infatti, ha stabilito con Gasbarra un asse di ferro, oltre che un ticket generazionale.
Terzo, Marta Leonori: giovane, timida, dalemiana di formazione, appoggiata dalla Sinistra interna e, soprattutto, dall’area che fa capo a Ignazio Marino e, in Lazio, a Michele Meta, ex pezzo forte del Pd ingraiano prima e veltroniano poi, allievo di Bettini. Per lei anche aiuti sottaciuti e inaspettati, come quello del tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, o come quelli di pezzi gloriosi della sinistra ex-ingraiana ed ex-bertinottiana (Renato Nicolini, Pietro Folena, pezzi di SeL di Nichi Vendola, dei Verdi, eccetera). Potrebbe essere lei, la Leonori, la sorpresa delle primarie.
Certo è che, a memoria d’uomo democrat e “primarista” (sostenitore, cioè, delle primarie in quanto tali sempre e comunque, veltroniani in testa, per capirsi), non s’era mai visto che per l’elezione del segretario regionale del partito si dovesse ricorrere alle primarie. Di solito il compito spetta agli organi statutariamente preposti. E cioè, in teoria, all’assemblea regionale degli iscritti laziali al Pd. Solo che, dopo più di un anno di commissariamento affidato a un toscano, il vicepresidente del Senato Vannino Chiti, la suddetta assemblea non è riuscita a venire a capo, nonostante «lunghe e cordiali discussioni», del busillis di chi mettere a capo di un partito che registra, dal 2009 al 2010, un tracollo verticale di iscritti e una preoccupante afasia nel fare opposizione alla Pisana come sul Campidoglio. Ecco il perché delle Primarie. Le vincerà Gasbarra, resta solo da saper come, e dice: «Il Pd Lazio è in salute». Si vedrà.
Corriere della Sera 18.2.12
Svolte. L’economista democratico
E Papa Ratzinger ispira il neo-laburismo del pd Fassina
di Dario Di Vico
P er questa stagione la politica scelta dal Pd è quella del doppio binario: con Monti, oltre Monti. Ma si avvicina la battaglia che porterà alle elezioni del 2013 e in casa democrat si cominciano a impostare discorsi più lunghi, piattaforme politico-culturali sulla base delle quali contendere al centrodestra governo e consenso. È questo lo scenario in cui si iscrive il libro che uno dei dirigenti di punta del Pd, Stefano Fassina, ha ultimato per l'editore Donzelli («Il lavoro prima di tutto») e che sarà in libreria dal 29 febbraio. Duecento pagine che hanno come motivo conduttore la lotta al liberismo e come parola d'ordine il «neoumanesimo laburista» ma, e qui sta in qualche maniera la novità, si rifanno più all'elaborazione di Papa Ratzinger che alla tradizione socialdemocratica comprese le varianti introdotte nel nuovo secolo dai vari Hollande, Miliband e Gabriel. Per Fassina, il governo Monti chiude il periodo della Seconda Repubblica e apre il cantiere della ricostruzione della politica. Il responsabile economico del Pd parla esplicitamente di una Terza Repubblica che dovrà nascere «lungo l'asse del bipolarismo mite, animato da partiti dotati di autonomia culturale e forza organizzativa, in grado di formare e selezionare classe dirigente adeguata». Il sostegno del Pd al governo Monti è pertanto un passaggio «strumentale» (le virgolette sono dell'autore, ndr.), subito dopo il partito dovrà costruire «uno schieramento largo, tra progressisti e moderati, con Sel e Idv per andare oltre i confini del centrosinistra». Ma al di là degli schieramenti e delle formule che non sembrano appassionarlo, la Terza Repubblica di Fassina si caratterizza per l'obbedienza a quelli che l'autore chiama «gli spread sociali e democratici». Nell'operazione di riposizionamento culturale del Pd all'epoca della Grande Crisi, Fassina scommette su una prorompente vitalità del cattolicesimo sociale e di conseguenza individua la più importante fonte di ispirazione nell'enciclica papale Caritas in veritate, definita in un passaggio «l'analisi più lucida della fase» e in un altro «il riferimento più alto e profetico per leggere e per poter traguardare con fiducia l'inedita congiuntura mondiale». Ma oltre al testo di Papa Ratzinger Fassina elenca almeno altri due interventi imperdibili della Chiesa, come il documento predisposto per il G20 di Cannes e la prolusione del cardinale Bagnasco al convegno della pastorale del lavoro di Rimini. Il dirigente del Pd si stupisce che entrambi non abbiano avuto nel dibattito economico il rilievo che avrebbero meritato per aver messo al centro del discorso pubblico «una visione dell'uomo incompatibile con l'impianto dell'individualismo metodologico, ossia con la visione fondativa del liberismo». Per dirla in parole povere se Fassina individua il morbo assoluto nel liberismo ci spiega che il vaccino lo si trova in Vaticano. E forse solo lì. Gli untori del nostro tempo sono i Marchionne e i Giavazzi rei di «modernità unidimensionale e deterministica», mentre è dalle parole del cardinale Bagnasco che possono venire suggerimenti utili a chi si occupa full time di ricostruire una politica della sinistra. Fassina fa propria persino la critica che il cardinale rivolge alla cultura socialista che avrebbe fallito non tanto sul piano delle teorie economiche quanto nella mancata dimensione antropologica. Aver messo su di un piedistallo la classe operaia e non la persona che lavora. Un errore che il Pd bersaniano, a detta di Fassina, non perpetuerà, convinto di poter riuscire a mettere assieme Cattolicesimo sociale e cultura laburista.
Corriere della Sera 18.2.12
Il peso delle regole e lo spread legale
di Luigi Ferrarella
In Germania il capo dello Stato si dimette appena i magistrati chiedono al Parlamento di revocargli l'immunità, in Italia il Parlamento vota che Ruby è la nipote di Mubarak. Lo spread vero tra i due Paesi, oltre che nei titoli di Stato, sta forse tutto qui.
Tanto più che in Germania il presidente della Repubblica Christian Wulff, protetto da un'immunità che i politici italiani si sognano, si è dimesso appena la Procura di Hannover ha domandato al Parlamento federale di revocarla per poter aprire un'indagine su un prestito controverso e sul successivo tentativo di impedire che la notizia fosse pubblicata dal quotidiano popolare Bild. In Italia invece 314 parlamentari, molti dei quali gravati da sentenze definitive o indagini serie, hanno votato che Ruby potesse davvero essere creduta la nipote di Mubarak, hanno contestato con delibere alla Consulta che indagini su premier e ministri (Berlusconi, Matteoli, Mastella) non potessero essere svolte dalla magistratura ordinaria, e hanno più volte sottratto alla custodia cautelare parlamentari (Milanese, Cosentino, Tedesco) di destra e sinistra.
Ancor più impressionanti in Germania, per il divario con gli standard italiani, sono poi le motivazioni di chi ha dato le dimissioni, i commenti di chi le ha ricevute, e le reazioni della società tedesca che ne ha preso atto.
«Ho fatto errori in buona fede ma sono sempre stato onesto e questo alla fine verrà dimostrato, ma intanto la fiducia in me è stata compromessa», ha infatti spiegato Wullf, dimettendosi per il solo sospetto di un credito a condizioni di favore e del tono minaccioso di un messaggio lasciato nella segreteria telefonica del direttore del giornale.
Benché Wullf fosse stato imposto alla presidenza della Repubblica nel 2010 da Angela Merkel, ieri proprio la Cancelliera, dopo aver espresso rispetto per la convinzione di Wullf di «essersi sempre comportato bene», ha aggiunto: «Nonostante tutto, ha abbandonato la sua carica perché non poteva più servire il popolo. È realmente una forza del nostro Stato di diritto» il fatto che «tratti tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla posizione di ciascuno».
Ciò che in Italia sarebbe stato un terremoto, nelle cui macerie il politico-Sansone di turno avrebbe trascinato tutto il Paese tra pretese di impunità e speculari strumentalizzazioni politiche, in Germania è stato talmente ammortizzato da lasciare quasi indifferente la Borsa di Francoforte, da non determinare sensibili variazioni nell'andamento dei titoli di Stato, e da comportare soltanto l'ovvio rinvio ieri del viaggio di Merkel in Italia per consentirle di fare il punto con i leader dei partiti della sua coalizione.
Strani questi tedeschi? Parrebbe di no, a giudicare dal fatto che un mese fa il presidente della Banca centrale svizzera, Philipp Hildebrand, si è dimesso appena gli è stato fatto notare che, tre settimane prima che la banca ancorasse il franco all'euro e determinasse così un apprezzamento del dollaro, sua moglie aveva investito in dollari che poi le avevano fruttato un non colossale guadagno di 62.000 euro. «Io non lo sapevo — ha giurato — ma sono giunto alla conclusione che non potrò mai fornire la prova che l'operazione fu ordinata da mia moglie: le mie dimissioni consentiranno alla Banca di recuperare la sua credibilità, che è il suo asset più importante».
E dopo tedeschi e svizzeri, sono stati gli inglesi pochi giorni fa a registrare le dimissioni del ministro dell'Energia, il liberaldemocratico Chris Huhne, perché sospettato di aver fittiziamente addebitato alla moglie una propria infrazione di velocità allo scopo di non perdere punti sulla patente: «Lascio perché voglio evitare interferenze con la carica che ricopro».
È proprio vero: nel ventennale di Mani Pulite, riemerge «l'anomalia» del presunto «conflitto tra politica e magistratura». Solo che l'«anomalia», al cospetto dell'Europa, sta tutta in Italia.
Corriere della Sera 18.2.12
L’immagine del potere
di Sergio Romano
Se coinvolgono uomini delle pubbliche istituzioni, gli scandali possono suscitare reazioni diverse. Quando il cancelliere tedesco Helmut Kohl fu accusato di avere utilizzato un finanziamento illecito per creare la rete del suo partito nella Germania dell'Est, molti provarono pena e simpatia per l'uomo che aveva brillantemente unificato il suo Paese. Quando un ex primo ministro francese, Dominique de Villepin, fu processato (e alla fine assolto) per un affare di tangenti che aveva sfiorato Nicolas Sarkozy e provocato un duro scontro fra due protagonisti della V Repubblica, fummo meno sorpresi. Qualcuno ricordò il caso dei diamanti di Bokassa che oscurò la carriera politica di Valéry Giscard d'Estaing, allora presidente della Repubblica. Altri pensarono agli affari africani del figlio di François Mitterrand e alle inchieste giudiziarie che pendevano sulla testa del presidente Jacques Chirac (condannato dopo la fine del suo mandato). Molti italiani decisero che Francia e Italia sono davvero «cugine». Quando il governatore dell'Illinois, Rod R. Blagojevich, è stato condannato per la vendita di un seggio senatoriale, la notizia non ha stupito nessuno. Sapevamo che negli Stati Uniti vi è sempre stata una classe politica spregiudicata, corrotta, venale, e che il Paese deve essere giudicato soprattutto per la severità con cui riesce a eliminare le sue mele marce.
Abbiamo reagito diversamente, invece, quando abbiamo appreso che il presidente della Banca nazionale svizzera Philipp Hildebrand era stato costretto a dimettersi da un'operazione valutaria della moglie, apparentemente favorita da notizie riservate apprese in famiglia. Dalla Svizzera, e soprattutto da una persona che appartiene al vertice della sua vita pubblica, non ce lo aspettavamo.
Questi episodi dimostrano che il nostro giudizio dipende in ultima analisi dalla reputazione di un Paese e soprattutto dall'immagine che vuole dare di sé al mondo. È questa la ragione per cui il caso del presidente della Repubblica federale tedesca ci sembra più grave delle clamorose vicende accadute in altre democrazie. Christian Wulff ha negato di avere avuto rapporti finanziari con un impresario della Bassa Sassonia, ma le indagini di un giornale, la Bild, lo hanno costretto ad ammettere l'esistenza di un prestito (500.000 euro) concesso a un tasso agevolato dalla moglie dell'imprenditore. Non è tutto. Una intercettazione telefonica (accade anche in Germania) lo ha colto mentre cercava d'impedire che il giornale continuasse a pubblicare articoli sulla vicenda. Avrebbe dovuto dimettersi, ma ha tentato di resistere grazie al sostegno di Angela Merkel, desiderosa soprattutto di mantenere al vertice dello Stato una persona amica. Abbiamo visto di peggio. Ma tutto questo accadeva mentre il Cancelliere e i suoi ministri davano lezioni di pubblica moralità alla Grecia e ad altri Paesi dell'eurozona.
Intendiamoci. È giusto che la Germania richiami i suoi partner all'obbligo di gestire i conti pubblici con rigore; ed è giusto ricordare ai greci che i loro problemi non sono soltanto finanziari. Alle origini della crisi vi sono i guasti di un sistema clientelare, la corruzione diffusa, l'evasione fiscale, le bugie che hanno nascosto per molto tempo la gravità del male. Ma nel modo in cui i tedeschi hanno trattato l'affare vi è stata una arroganza che nascondeva un sentimento di superiorità. Un bagno d'umiltà favorirebbe la soluzione della crisi greca e renderebbe l'aria dell'Europa più respirabile.
l’accordo per le riforme istituzionali fra Pd Udc Pdl
Corriere della Sera 18.2.12
Volontà di accordo sulla quale pesa la fragilità dei partiti
di Massimo Franco
I punti in comune sono tre: l'esigenza di ridurre il numero dei parlamentari; quella di cambiare la legge elettorale; e la disponibilità a riformare la Costituzione. È già molto, per i tre partiti che sostengono il governo di Mario Monti. E la volontà di procedere, riaffermata ieri mattina dopo il vertice fra Angelino Alfano del Pdl, Pier Luigi Bersani del Pd e Pier Ferdinando Casini dell'Udc, rappresenta una spinta oggettiva. Significa che l'«asse dell'ABC», come è stato chiamato dalle iniziali dei tre protagonisti, per il momento regge e tende a proiettarsi nel tempo. Vuole dire anche che il governo dei «tecnici» può confidare su forze intenzionate a assecondare il tentativo di tregua del premier e del Quirinale. Ma all'interno di ognuno dei capitoli dell'intesa si annidano potenziali contrasti.
Il primo, che in realtà è esterno, riguarda le elezioni amministrative di primavera. Sembrano tutti d'accordo nel considerarle la coda di schieramenti datati, validi nel 2008 ma politicamente moribondi oggi. Basti pensare al paradosso di un Pdl alleato localmente con una Lega che bersaglia Monti quotidianamente. E, sul versante opposto, di un Pd che ha come compagni di strada l'Idv e un'estrema sinistra ugualmente nemici giurati del governi dei «tecnici». Il problema è, al di là della consapevolezza di una fase da archiviare, quali rapporti di forza emergeranno sia nel centrodestra che nel centrosinistra. L'ipoteca del radicalismo morde entrambi. Per il Pd si profila come un'insidia non solo politica ma numerica, se è vero che l'arcipelago Idv-Sel-Grillo sfiorerebbe il 20 per cento. E la Lega punta ai consensi berlusconiani del Nord, che i sondaggi danno in discesa in tutto il Paese: le elezioni locali da almeno due anni esaltano i limiti organizzativi del Pdl. Con una novità: l'Udc si prepara a sciogliersi e a dare la caccia agli stessi voti.
È probabile che una volta fatti i conti, l'alleanza governativa acceleri; e che magari trovi una soluzione per ridurre deputati e senatori: scelta «popolare», resa necessaria dall'insofferenza dell'opinione pubblica nei confronti della politica. Ma se a questa concessione non si abbina una revisione della legge elettorale, il rischio è l'annullamento del suo effetto positivo. E qui spunta il secondo intoppo. Pdl e Pd, infatti, hanno interessi e visioni diversi dall'Udc. E il partito di Casini, da sempre proporzionalista, vorrebbe una modifica che permetta ai partiti di contarsi dopo la chiusura delle urne; e di indicare il presidente del Consiglio non prima ma dopo il voto, in Parlamento.
La logica di questo schema è che Monti non si candiderà con nessuno nel 2013; ma che sarebbe saggio puntare ancora su di lui, o su un personaggio simile a lui, per la legislatura successiva. L'idea di Casini sarebbe di continuare sulla strada di un'unità nazionale di fatto come unica soluzione in grado di portare l'Italia fuori dalla crisi economica; e nel frattempo di dare «segnali forti» ad un Paese che rischia di abituarsi ad una classe di governanti non eletti. Per questo cerca di convincere i due partiti maggiori a rinunciare al bipolarismo. Si tratta di una riforma che però, per ragioni diverse, né Pdl né Pd si sentono in grado di sottoscrivere. Alfano sa che dopo le elezioni probabilmente i partiti potranno contare solo sulle proprie forze, perché alleanze come quelle del 2008 sono improbabili.
Ma sa anche che nel Pdl non si vedrebbe bene «una Terza Repubblica troppo somigliante alla Prima». Per quanto post-berlusconiano, il Pdl vuole l'indicazione preventiva del candidato a palazzo Chigi; e ritiene suicida la prospettiva di un sistema che darebbe all'elettorato l'impressione di andare verso un governo «di tutti» o quasi. Specularmente, Bersani non smette di far presente che quando si incontra con la destra non si trova «mai d'accordo»; e che alle elezioni il Pd «dovrà presentare un programma alternativo non a Monti ma alla destra». Eppure, come è successo con l'esecutivo di Silvio Berlusconi, questi progetti potrebbero essere piegati e sconvolti da fattori internazionali che esulano dal controllo delle forze parlamentari; e che le obbligherebbero a seguire binari obbligati. Come conseguenza, i margini di manovra e i distinguo sarebbero pressoché azzerati.
Corriere della Sera 18.2.12
Una legge sui partiti? Le forze politiche e quei dettagli nascosti
di Michele Ainis
Non è mai troppo tardi, ammoniva una gloriosa trasmissione della tv in bianco e nero. E infatti, eccola: una legge sui partiti, promessa all'unisono da Bersani e Casini. Dopo 64 anni tondi tondi dal battesimo della Costituzione, dopo 54 anni dal primo progetto di legge firmato da don Sturzo. E mentre una disciplina normativa sui partiti ha via via messo radici in Germania, Spagna, Austria, Grecia, Regno Unito, nonché in varie altre contrade. Ora, a quanto pare, è la volta dell'Italia. Dobbiamo crederci? A rigor di logica, sì. L'autoriforma dei partiti per loro è l'ultima scialuppa, prima che li sommerga l'onda del discredito. Ma logica e politica non sono affatto sorelle: ce lo insegnò Aristotele, che per l'appunto ne ha trattato in due opere distinte.
In secondo luogo, il lieto evento era già stato annunciato molte volte, nell'arco di questa legislatura. Per la precisione, 11 volte al Senato e 12 alla Camera: altrettante proposte di legge per un'iniezione di democrazia sul corpaccione dei partiti. Nel caso del Pd, peraltro, si tratta di un annuncio al quadrato, o meglio al cubo. Il 25 ottobre 2010 Ugo Sposetti, in compagnia di altri 55 deputati, aveva depositato un'analoga proposta; il 18 marzo 2011 gli ha fatto eco Veltroni, anche lui circondato da una cinquantina di colleghi.
Ma adesso soffia un vento nuovo. Non per nulla i segretari di partito ci mettono la faccia, convocano conferenze stampa, pigiano sull'acceleratore. Nel frattempo fioccano gli incontri al vertice sulla riforma dello Stato, nonché sulla modifica della legge elettorale. I due vecchi poli parrebbero fusi in un unico cartello: lavori in corso, scusate il disagio. Bene così, per cambiare le regole del gioco tocca coinvolgere tutti i giocatori. E infatti Pdl e Pd hanno appena presentato, sotto la firma congiunta di Quagliariello e Zanda, una bozza di riforma del regolamento del Senato; non succedeva dai tempi della Bicamerale. Tuttavia, affinché i buoni propositi possano generare ottimi fatti, è necessario rispettare una doppia condizione.
Primo: il metodo. C'è il rischio che affastellando legna s'intasi il camino. Riforma del bicameralismo, del numero dei parlamentari, della forma di governo, del sistema elettorale, del finanziamento pubblico ai partiti, infine della loro vita associativa. Riforme costituzionali, legislative, regolamentari. Con quale ordine? Cominciando dai rami alti dell'ordinamento, dicono i leader della politica italiana. Ma se l'esperienza significa qualcosa, sarebbe meglio invertire l'agenda dei lavori. Sono trent'anni che i partiti discettano di grandi riforme, senza cavare mai un ragno dal buco. E d'altronde la Costituzione va aggiornata, ma va pure applicata. A partire dall'articolo 49, che fin qui ha evocato invano la democrazia all'interno dei partiti.
Secondo: il merito. Nella proposta del Pd s'incontrano garanzie per le minoranze e per gli iscritti; un regime d'incompatibilità per i dirigenti; la trasformazione dei partiti in associazioni sottoposte al Codice civile; una purga ai finanziamenti dello Stato per chi rifiuti le primarie; trasparenza per i finanziamenti privati; conti certificati; anagrafe pubblica dei militanti. In tutto 9 articoli, che a leggerli ti strappano un bel 9 in pagella. Ma il diavolo s'annida nei dettagli. Uno su tutti: il limite dei mandati. Il progetto Pd tace sulla durata massima, affidandola alla scelta dei singoli partiti. Se decidono che puoi fare il segretario per non più d'un secolo, hanno le carte a posto. D'altronde anche il finanziamento pubblico è tutto in un dettaglio: basta un eletto e s'aprono i cordoni della borsa. E c'è infine una regola non scritta che sarebbe bello rovesciare per iscritto: quella che distribuisce posti, incarichi, prebende. Scriviamo che ci si arriva per competenza, anziché per appartenenza. Una rivoluzione.
La Stampa 18.2.12
Colloquio
“La politica chieda scusa Tangentopoli è stata un’occasione mancata”
L’ex pm D’Ambrosio, oggi senatore del Partito democratico: “Adesso chi ruba gode dell’impunità grazie alle prescrizioni”
di Paolo Colonnello
Gerardo D’Ambrosio fece parte del pool di Mani Pulite, è stato eletto per la prima volta al Senato nel 2006 con i Ds
Mi si chiede a 20 anni di distanza cosa è stata Mani Pulite. Ebbene, posso solo rispondere che è stata un’occasione mancata».
Il senatore «indipendente» Gerardo D’Ambrosio, prima coordinatore del pool di Mani Pulite e poi successore di Francesco Saverio Borrelli a capo della Procura di Milano nell’ultima stagione di Tangentopoli, aggiunge il sorriso di una ruga alle tante che ormai segnano il suo volto. Fu il magistrato che indagò sulla strage di Piazza Fontana, sulla morte di Pinelli, sul terrorismo rosso. E, prima di andare in pensione, su quel sistema trasversale di corruttele che costituì l’ordito dell’inchiesta che terremotò la prima Repubblica. Risultato? «La prima volta che intervenni in Senato si scatenò il finimondo. Tutti in piedi a urlarmi: “Assassino, assassino”. Mi odiavano per Mani Pulite. La politica invece avrebbe dovuto approfittare di quel terremoto per ricostruire dalle macerie un sistema migliore, più pulito. Invece è successo il contrario: non solo hanno fatto della delegittimazione dei giudici uno sport nazionale ma sono state introdotte leggi restrittive sulle indagini o aboliti reati come l’interesse privato in atti d’ufficio o il falso in bilancio, dimezzati i tempi di prescrizione, depenalizzato il finanziamento illecito. Oggi chi ruba ha la quasi certezza dell’impunità grazie alle prescrizioni».
La parola giusta per questo ventennale di Mani Pulite è amarezza. Anche Borrelli, la primavera scorsa, intervenendo alla presentazione di un libro, disse di essersi in fondo «pentito» per quell’inchiesta: «Chiederei scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare in quello attuale». Per D’Ambrosio si tratta di una provocazione: «Io non sono pentito come Borrelli». In compenso, lei è diventato senatore dei Ds: non trova sia una contraddizione con il ruolo svolto da magistrato? «Io mi sono candidato come tecnico e indipendente convinto che avrei potuto essere utile alle istituzioni grazie al mio bagaglio di esperienze. È una cosa in cui credo davvero. Così come credevo veramente, quando cominciarono le indagini su Tangentopoli, che grazie alle nostre inchieste avremmo potuto stroncare una volta per tutte questo fenomeno». Di fatto però tutti gli indicatori dicono che la corruzione è di nuovo aumentata. Qualcosa non ha funzionato.
«È vero: dal sostegno si passò all’insulto. Il confine lo segnò il discorso di Bettino Craxi in Parlamento. Ma fu soprattutto per gli attacchi che arrivavano dalle televisioni, controllate dai partiti più compromessi e da Berlusconi. Io me lo ricordo ancora Vittorio Sgarbi che tutti i giorni compariva in video e ci chiamava assassini. Una campagna di delegittimazione pazzesca, che non credo abbia avuto avuto paragoni». Fu una controreazione dei partiti o era la società nel suo insieme che si era scoperta corrotta e non sopportava più i controlli? In fondo, quando partirono le indagini sulle mazzette alla Guardia di Finanza venne fuori che le bustarelle erano un fenomeno diffuso anche ai minimi livelli. «No, io credo che si trattò semplicemente di una campagna di delegittimazione voluta dai partiti. All’inizio quando si pensava che la faccenda riguardasse solo il Psi e la Dc, gli altri partiti cercavano di approfittarne. Ma quando si accorsero che le indagini coinvolgevano tutti (tranne l’Msi) allora si coalizzarono. E la reazione più forte arrivò quando venne coinvolto Silvio Berlusconi».
Siete stati accusati di non avere indagato a sufficienza a sinistra, sul PciPds che pure veniva chiamato in causa dalle inchieste Enimont e sulla Metropolitana milanese, nell’ambito di quell’agenda delle spartizioni che prevedeva un quarto al Psi, un quarto alla Dc, un quarto al Pds... «Ma noi indagammo eccome anche sul Pds». Non con gli stessi risultati degli altri: lo si è visto poi, vedi il caso Penati, che nemmeno loro erano immuni al finanziamento illecito. «Nel Pds fu indagato a un certo punto anche il segretario amministrativo. Ma certe tangenti erano pagate solo ai partiti di maggioranza che detenevano il potere. Il Pci, quel tipo di potere non lo ebbe mai e dunque si trovarono soprattutto fenomeni di corruzione locale, anche se su larga scala, come appunto dimostrò la vicenda della Metropolitana milanese». Un’altra delle critiche più ricorrenti era per l’eccessivo uso di manette. Ci furono degli eccessi? «Intanto sfatiamo la leggenda che eravamo noi ad arrestare le persone. Prima c’era il vaglio di un gip che infatti, nel primo anno d’indagine, respinse 90 richieste di cattura (di questi poi molti vennero accolti in Cassazione). Si, gli arresti sembravano tanti ma molti si risolvevano in meno di 24 ore. A Milano mediamente si arrestano 20 persone al giorno per svariati reati e nessuno si scandalizza. Non solo: nessuno si è mai scandalizzato che, per esempio, nel 2005 sono stati arrestati 21 mila extracomunitari per non essersi allontanati dall’Italia dopo l’espulsione o per mancato rinnovo del permesso di soggiorno. Invece all’epoca, ci si scandalizzò perché colpivamo coloro che danneggiavano lo Stato».
l’Unità 18.2.12
Siria, l’intervento umanitario sfida per il pacifismo
di Umberto De Giovannageli
L’Europa come luogo politico di un pacifismo che sa unire idealità e concretezza. Un pacifismo che accetta la sfida di pensare un modello di Difesa in una chiave sovranazionale e, a questo livello, contesta il gigantismo di certe spese militari nostrane (leggi F-35). È il pacifismo che sa «sporcarsi le mani». E lo fa anche in nome di una diplomazia dei popoli che spesso è chiamata a riparare i guasti o i silenzi complici della diplomazia degli Stati. E nel farlo esalta un «europeismo» progressivo, solidale, che non si nutre di spread, di diktat finanziari, ma che cerca di far vivere, qui ed oggi, principi universali. Primo fra tutti, quello di libertà.
Un pacifismo europeo che non crede che con le armi si possa «esportare» democrazia, ma che al tempo stesso sa che lo strumento militare, che non coincide per forza con la «guerra giusta», a volte può essere necessario per mantenere la pace (esempio Unifil in Libano). Questo pacifismo maturo, consapevole, europeo, ha oggi una sfida davanti a sé. Questa sfida si chiama Siria. È un pacifismo che rigetta la logica nefasta dei due pesi e due misure, e che dalla vicenda libica ha saputo trarre le giuste conclusioni: la difesa dei diritti umani non giustifica scorciatoie militariste tanto più se a muovere le armate sono inconfessabili quanto poderosi interessi economici (la guerra di Total e Bp). Ma la vicenda libica insegna anche che dittatori come Gheddafi, e lo stesso vale per il siriano Assad, non possono essere considerati, e per questo a lungo, troppo a lungo, sostenuti e omaggiati, come una sorta di Male minore rispetto allo Spauracchio integralista.
Per questo il pacifismo europeo non può né vuole cancellare nel suo lessico politico «l’ingerenza umanitaria». Per questo è un pacifismo che contesta e contrasta l’idea di una
sovranità nazionale che giustifichi repressioni, pulizie etniche, stupri di massa, torture e bavagli come «affari interni» di uno Stato-nazione.
L’ingerenza non è solo un diritto. È un dovere. Da praticare, senza se e senza ma. È ciò vale oggi per la Siria. Il pacifismo non si chiama fuori, non abdica alla sua funzione di traino di una coscienza collettiva.
«Stragi, massacri, atrocità, torture, sangue, bombardamenti, violenza, morti, feriti. Quello che sta accadendo da quasi un anno in Siria è insopportabile. Fermare la violenza e la sua mostruosa spirale è difficile ma non impossibile, e in ogni caso è la sola cosa che si possa fare se davvero vogliamo evitare il peggio, cioè una lunghissima guerra civile che nessuno riesce a vincere ma che tutti finiscono per combattere. Noi compresi». A sostenerlo è la Tavola della Pace, che ha deciso di aderire a una manifestazione nazionale di solidarietà con il popolo siriano, indetta per domenica prossima a Roma dal Consiglio Nazionale Siriano. «L'intero Medio Oriente è al centro di uno scontro planetario si legge nella nota in cui la voglia di libertà e di giustizia per cui sono già morti tanti siriani si è già persa. A giocare con la vita e la morte dei siriani oggi ci sono tutte le potenze del Medio Oriente e i “grandi” della Terra. A loro non interessano i diritti umani, per loro i diritti umani sono solo un'arma da scagliare contro qualcuno quando serve.
Il regime di Assad va condannato per tutte le atrocità commesse, ma la sua condanna non può diventare il pretesto per altri massacri. Per questo oggi non possiamo che lavorare per fermare gli scontri e le armi». Denuncia e impegno: un mix virtuoso, tanto più quando assume una dimensione sovranazionale. La dimensione giusta: quella europea. Un orizzonte a cui tendere.
Corriere della Sera 18.2.12
La separazione fra Stato e Chiesa farebbe bene al Tibet (e alla Cina)
di Marco Del Corona
Le autorità di Pechino avevano dato prova di coraggiosa liberalità. Settemila cittadini cinesi di etnia tibetana avevano ottenuto il permesso per visitare l'India e il Nepal tra la fine del 2011 e l'inizio di quest'anno. Molti si erano diretti nello Stato indiano del Bihar per seguire, tra il 31 dicembre e il 10 gennaio, gli insegnamenti del Dalai Lama, guida spirituale dei buddisti tibetani ma non più leader politico della diaspora. Un gesto generoso, da parte della Cina, coerente con l'immagine, e con la percezione di sé, di un Paese sicuro, tollerante, autorevole. Ieri, però, la organizzazione non governativa americana Human Rights Watch (Hrw), in concomitanza con le battute finali del viaggio del vicepresidente Xi Jinping negli Usa, ha comunicato che «centinaia» di quei tibetani sono stati arrestati e sottoposti a rieducazione. L'organizzazione aggiunge che non accadeva dagli anni Settanta che la Repubblica Popolare detenesse tanti laici tibetani tutt'insieme.
Se confermato nei termini in cui ne parla Hrw, l'episodio va messo in relazione con la sequenza di autoimmolazioni di tibetani da un anno a questa parte, soprattutto nel Sichuan occidentale. Ciò che fermi e rieducazione mostrano, però, è — più ancora dell'ovvia violazione della libertà di coscienza — l'incapacità della Cina di uscire dall'identità Stato-religione. In un Paese dove le fedi organizzate legali sono cinque e sono controllate dallo Stato, risulta inconcepibile che un atto di devozione nei confronti del Dalai Lama possa essere esclusivamente religioso, senza risvolti politici.
Ovvio, nessuno può escludere che alcuni dei pellegrini in India fossero teste calde del «separatismo», ma è un dato di fatto che il Dalai Lama, Nobel per la Pace, resta un leader religioso che l'anno scorso ha abbandonato ogni incarico politico, ed è un dato di fatto che sia lui sia il «governo in esilio» chiedono per il Tibet autonomia all'interno della Cina, non l'indipendenza. In questo caso una separazione fra Stato e chiesa (buddista) avrebbe fatto bene a tutti. Ai tibetani. E anche alla leadership di Pechino, potenza globale.
il Fatto 18 2.12
“Io, medico arrabbiato nell’inferno del San Camillo
L’inchiesta della Procura, i Nas, un primario sospeso ma il collasso del Pronto soccorso era stato denunciato nel 2008
di Silvia D’Onghia
Io non mi sento sconfitta, mi sento incazzata”. Maddalena Schiano è un medico del Pronto soccorso del San Camillo, il nosocomio romano dove – come il Fatto ha denunciato anche con un video domenica scorsa – i pazienti vengono addirittura curati a terra. La Procura della Capitale ha aperto un’inchiesta, allargando gli accertamenti anche ad altri Pronto soccorso e inviando i Nas a verificare le condizioni delle strutture. Ieri si è scoperto che il primario di chirurgia d’urgenza del San Camillo, Donato Antonellis, è in distacco sindacale dal primo febbraio. L’inchiesta, questa volta interna, è partita dopo le denunce, già nel 2007, per lesioni gravi e gravissime proprio nel reparto da lui diretto.
Ma, mentre il caso mediatico ha messo in moto la macchina della giustizia (e della politica: le dichiarazioni si sprecano), nel Pronto soccorso non è cambiato nulla. “Sono all’inferno”, ammette la dottoressa Schiano, mentre dà indicazioni agli infermieri, risponde al telefono e cerca un posto tranquillo in cui poter parlare. Ha i minuti contati, i pazienti sono sempre troppi. “Faccio i turni al codice giallo/rosso (i più gravi, ndr): mattina, pomeriggio e notte. Quest’ultimo mi capita in media due volte a settimana, dura 12 ore ed è il più difficile. Quando arrivo, prendo la coda della giornata, eredito un numero spaventoso di pazienti che non so dove mettere perchè i posti letto sono finiti. Li devo rivalutare tutti. Ci sono quelli ‘critici’ che rischiano di essere instabili, quelli che hanno bisogno di conforto, quelli arrabbiati perchè sono lì da troppe ore. E nel frattempo arrivano i nuovi. Le ho detto, è un inferno”.
MA PERCHÉ accade tutto questo, e non soltanto al San Camillo? La causa è da cercare nella drastica riduzione dei posti letto operata dalle Regioni per rientrare dal debito sanitario. “Se si raddoppiassero i medici senza aver ripristinato un numero adeguato di letti, non si risolverebbe nulla”, spiega Ruggero Pastorelli, presidente Fadoi Lazio. Nel caso del San Camillo, il sovraffollamento è dovuto anche alla chiusura dei pronto soccorso del Sant’Eugenio e del Cto Alesini, ospedali che smaltivano un ampio bacino d’utenza. “Io ho anche la funzione di team leader – prosegue la dottoressa Schiano –, devo riuscire a risolvere la situazione dei posti letto. A volte sono bloccate anche le camere operatorie, allora dobbiamo riuscire a spostare pazienti, anche di notte, per liberarle”.
Una condizione che, in realtà, è precipitata nell’ultimo anno, ma che al San Camillo denunciano da tempo. Nel dicembre 2008 Sandro Petrolati, cardiologo e componente della segreteria nazionale dell’Anaao (uno dei principali sindacati dei medici), ha firmato personalmente un esposto presentato in Procura. La denuncia era la stessa: pazienti non curati come si dovrebbe, spazi e servizi (anche igienici) inadeguati, personale costretto a lavorare in situazioni al limite. Dal 2008 la causa è ancora in corso, però nel frattempo sono cambiati i numeri: se prima il tempo di attesa era di 24-36 ore, oggi possono trascorrere anche 5 giorni prima che un paziente venga ricoverato. Senza che nessuno faccia niente.
“È UNA QUESTIONE di dignità – spiega Maddalena Schiano – non soltanto per il nostro lavoro, ma per i cittadini. Viviamo, noi e il personale infermieristico e paramedico, in una condizione di perenne frustrazione. Quando i familiari di un anziano si arrabbiano con noi, e hanno ragione, l’unica risposta che possiamo dare è ‘non dipende da noi’. Qualcuno lo capisce, qualcun altro no. Vede, il lavoro in un Pronto soccorso dovrebbe essere stimolante, mai uguale a se stesso. Siamo gli unici medici che a Natale non ricevononeancheunregaloecerto non diventiamo ricchi (lo stipendio medio di un assunto è di 70 mila euro lordi all’anno, ndr), ma chi se ne frega. La cosa più importante è salvare la vita alla gente”. Già, ma come fare a garantire l’assistenza? “La missione di un Pronto soccorso sarebbe quella di accettare un paziente, stabilizzarlo, fare una diagnosi e dargli un posto letto. Invece ci troviamo a dover somministrare antibiotici, che in alcuni casi diventano farmaci salva-vita, a ore diverse, e intanto dobbiamo intervenire su due infarti e un politrauma. Il rischio di errore è elevatissimo”. I riflettori si sono accesi su Roma, ma il dramma riguarda tutta l’Italia. La Funzione pubblica Cgil ha calcolato che nel 2009 ci sono stati quasi 3,8 accessi ogni 10 abitanti e di questi solo il 15% è stato ricoverato.
Repubblica 18.2.12
Se all'Italia l'arte di arrangiarsi non basta più
di Ilvo Diamanti
Quelle differenze che in alcuni casi sono una ricchezza, rischiano ora di trasformarsi in elementi di divisione
Se c´è poca stima nelle istituzioni, lo Stato si indebolisce non solo a livello interno, ma anche internazionale
Un saggio di Ilvo Diamanti spiega perché, per uscire dalla crisi di oggi, sono sempre più necessari solidarietà cooperazione e senso civico
Questo è un paese di "italiani nonostante". Nonostante tutto, italiani (come recita il titolo di un volume di Edmondo Berselli). Il 2011 non è stato un anno come gli altri. Per l´Italia e sul piano globale è stato segnato da una crisi profonda, che ha scosso l´intero sistema delle relazioni e dei riferimenti territoriali, al punto da mettere in discussione le basi stesse della nostra identità nazionale, rendendole meno efficaci e, in una certa misura, più fragili. Vale la pena di riflettere ulteriormente, anche se brevemente, sui mutamenti economici e politici avvenuti negli ultimi mesi, ma soprattutto sulle conseguenze che possono avere sull´identità territoriale degli italiani. E viceversa.
Va detto, in premessa, che la "debolezza" e la frammentazione dell´identità nazionale, che caratterizzano il nostro Paese, non costituiscono necessariamente un problema. Possono, al contrario, costituire anch´esse una risorsa, in quanto rendono più facile l´adattamento culturale, ma anche operativo, in tempi di fluidità dei riferimenti territoriali. In un´epoca, cioè, nella quale sono cambiati e continuano a cambiare le cornici istituzionali, all´interno e all´esterno degli Stati nazionali.
Si pensi, a solo titolo di esempio, alle difficoltà che incontra l´unificazione europea, ma anche al ruolo assunto dagli organismi supernazionali che regolano l´economia, la finanza e i mercati. Si pensi ancora, alle trasformazioni in atto nell´organizzazione territoriale dello Stato, in direzione del decentramento e del federalismo.
Un´identità articolata e flessibile, come quella italiana, è certamente in grado di adattarsi a questi mutamenti molto meglio di altri paesi, dotati di riferimenti di valore e istituzionali forti e definiti, ma caratterizzati, anche per questo, da maggiore rigidità, sul piano sociale e culturale.
La crisi economica e finanziaria globale del 2011, però, ha, in parte, rovesciato questo schema. Ha, cioè, trasformato l´identità "provvisoria" degli italiani in un limite, piuttosto che in un "vantaggio" adattivo e competitivo.
La "sfiducia pubblica" e la bassa densità di "senso civico", in particolare, sono divenuti ostacoli. Vincoli difficili da sostenere, di fronte alla necessità di coesione e di coinvolgimento necessaria ad affrontare non solo i costi economici e fiscali, ma anche il rischio della dispersione "centrifuga" della società. La stessa vocazione a "fare da soli", ad arrangiarsi a livello locale e familiare appare un problema, in una crisi che vede confrontarsi e scontrarsi le economie ‘nazionali´ nel teatro europeo e globale.
Oggi, in altri termini, appare difficile salvarsi da soli, "nonostante" lo Stato. Senza senso di "cooperazione". In altri termini: senza civismo.
Un basso grado di civismo e di fiducia nelle istituzioni, infatti, indebolisce la legittimità dello Stato non solo a livello interno, ma internazionale. A maggior ragione se si accompagna a un atteggiamento di distacco, per non dire disprezzo del sistema politico e dei partiti. D´altronde, in Italia, il sistema partitico è identificato con lo Stato nazionale.
Da ciò derivano conseguenze pesanti, nelle sedi negoziali internazionali: la Ue, in particolare. Ma anche sui mercati, che percepiscono la debolezza del sistema partitico e del governo come un moltiplicatore della crisi economica.
In un certo senso, il famigerato spread, entrato nel linguaggio comune durante la crisi finanziaria degli ultimi mesi, non definisce solo il differenziale tra i titoli di Stato italiani e tedeschi. È un indice della incredibilità stessa dello Stato (e del sistema politico), garante della nostra economia di fronte alle istituzioni e ai mercati, in ambito internazionale.
Da ciò, una seconda conseguenza, che riguarda – e indebolisce – le radici stesse dell´identità italiana. Infatti, se la nostra capacità di adattamento non ci permette più di reagire alla crisi e alle difficoltà economiche, allora la nostra stessa identità sociale viene messa in discussione.
Perché l´arte di arrangiarsi, di trasformare i problemi in opportunità è costitutiva del nostro "specifico" nazionale. Se non ci aiuta a risollevarci di fronte alle avversità, allora anche la fiducia in noi stessi si sfarina. Di qui il rischio di una spirale viziosa e auto-deleteria. Infatti, se le nostre arti e le nostre virtù nazionali non ci permettono, come in altre fasi, di superare la crisi, la crisi stessa ne corrode l´efficacia e la forza. Ne converte gli effetti: da virtù in vizi.
Lo stesso discorso vale per i nostri particolarismi e per le nostre differenze territoriali, che in questa fase rischiano di diventare fratture, elementi di divisione. Perché i costi della crisi sono elevati e lo Stato non è in grado di mediare, tanto meno, di imporre la propria autorità, ma deve comunque ridurre le risorse e i margini di autonomia degli enti periferici. I localismi rischiano, così, di produrre tensioni, di divenire dissolutivi.
Piuttosto che contro il contesto "nazionale", i contesti locali minacciano di porsi in contrasto reciproco. Tra di loro. Modificando il modello tradizionale e sperimentato, che ci propone come un popolo di e italiani. Milanesi e italiani. Napoletani e italiani. Bolognesi e italiani. Marchigiani e italiani. In direzione di un popolo di milanesi, napoletani, bolognesi, marchigiani. E basta. Non siamo, ovviamente, alla dissoluzione del nostro modello. Tanto meno dell´Italia. Tuttavia, in questa fase assai più che in passato, una società senza Stato rischia di scomporsi. E l´arte di arrangiarsi, senza civismo, non ci salverà.
Repubblica 18.2.12
La civiltà dei feticci
Quando gli oggetti di adorazione diventano creazioni artistiche
di Valeri Magrelli
La dimensione della visualità ora preponderante è indagata e non bollata
Dal vello d´oro degli Argonauti ai film, un saggio di Massimo Fusillo riflette sul valore simbolico delle "cose" tra letteratura e nuovi linguaggi
Tutte le storie di Dickens sono ricche di "installazioni" con suppellettili
Ci sono due maniere per mettersi in rapporto con le cose che popolano il nostro mondo quotidiano. La prima è quella espressa nel primo Novecento dal comico tedesco Karl Valentin: «Gli oggetti sono perfidi. Tutte le difficoltà nascono dal fatto che li si deve affrontare per adoperarli. Una volta usciti dal loro stato di quiete, essi si vendicano perfidamente».
Tale atteggiamento è il lontano erede di una tradizione che, prima delle rivolte degli oggetti descritte da Poe e disegnate da Grandville, riguarda i cicli figurativi delle Tentazioni di Sant´Antonio illustrati da Bruegel, Huys o Bosch. Ebbene, come spiegò uno storico dell´arte quale Jurgis Baltrusaitis, queste bizzarre varianti delle sacre rappresentazioni risalgono in realtà alla civiltà cinese, e hanno il loro archetipo nei tormenti di un martire buddista.
Diventate creature viventi e nemiche, le cose aggrediscono chi tenta di resistere loro. Soltanto un pio orientale o un anacoreta cristiano potranno arginare l´insurrezione. Ma lasciamo la parola a un grande poeta, Rilke: «Là dove c´è uno che raccoglie se stesso, un solitario (...) ecco che quegli provoca la contraddizione, lo scherno, l´odio delle suppellettili degenerate (...) Allora esse si riuniscono fra loro per turbarlo, spaventarlo, confonderlo, e sanno di riuscire a farlo. Allora cominciano, ammiccando l´una all´altra, la tentazione, che cresce poi nello smisurato e trascina tutti gli esseri e Dio stesso contro quell´uno che forse resiste: il santo».
Ci sono due maniere, dicevamo, per mettersi in rapporto con le cose. Se la prima si svolge nel segno dell´antagonismo, sacro o profano, la seconda è al contrario caratterizzata da una passione irresistibile. Proprio sulle infinite forme di un simile amore, si concentra uno studio di Massimo Fusillo, Feticci (il Mulino, pagg. 205, euro 20, con 31 illustrazioni a colori). Come spiega il sottotitolo, la questione investe Letteratura, cinema, arti visive, ma sempre per un unico scopo: esaminare quell´antico fenomeno che porta le cose, investite di valori simbolici ed emotivi, a trasformarsi in feticci, ossia in oggetti di adorazione (come quelli scoperti con l´esperienza colonialista in Africa). L´idea portante del volume consiste nel radicale ribaltamento di senso relativo a tale termine. Quella proposta da Fusillo, insomma, corrisponde a una vera e propria rivoluzione culturale, in linea con alcune fra le più recenti tendenze di ricerca estetica. Di solito, infatti, il concetto di feticcio, elaborato dall´antropologia e dalla psicanalisi, riceve «connotazioni negativi di inautenticità». Tutto il contrario con questo acuto saggio, basato sulla convinzione che esista un nesso privilegiato tra creatività artistica e feticismo. E sull´idea che la dimensione della "visualità" (distinta dalla visione) sempre più preponderante nel nostro tempo vada indagata come fattore culturale e non bollata con la semplice etichetta di "tirannia delle immagini".
Fin qui la parte strettamente teorica del testo, che ha tra i suoi pregi quello di svelare alcune direttrici di ricerca ancora poco note oltre la cerchia degli specialisti. È il caso dei cosiddetti Thing Theory, Object Studies o Rubbish Theory ("teoria delle cose", "studi sugli oggetti", "teoria del pattume"), emersi nell´ultimo decennio come pratiche interdisciplinari che interessano etnografi, archeologi, storici, storici dell´arte, filosofi e critici letterari (nell´ottobre scorso l´Università di Salerno ha dedicato un intero convegno all´argomento). Questo nuovo campo della cultura materiale si interroga su «come gli uomini costruiscono le cose, e come viceversa le cose costruiscono gli uomini». Intellettuali quali Bruno Latour, Alfred Gell, Tim Ingold, Graham Harman, Web Keane, Daniel Miller e W. J. T. Mitchell e Appadurai (che ha parlato di "feticismo metodologico"), indagano cioè quel fenomeno per cui gli oggetti giungono a illuminare il loro contesto umano e sociale.
Ma torniamo a Fusillo, il cui lavoro consiste essenzialmente nel ricostruire la storia e la tipologia dell´oggetto feticcio, spaziando dall´epoca ellenistica (con un magnifico capitolo sulle Argonautiche di Apollonio Rodio), fino agli ultimi esempi narrativi, cinematografici e artistici (magistrale l´analisi di Underworld di Don DeLillo). Dopo una densa introduzione sui rapporti del feticcio con la merce (da Marx a Benjamin) e il desiderio (da Binet a Freud), già il primo capitolo ci scaraventa in una serie di vicissitudini che vertono su oggetti "inestimabili". Vediamo allora scorrere il vello d´oro inseguito da Giasone e la palla d´oro che la dea Afrodite promette a suo figlio Eros, il ventaglio in Goldoni e Oscar Wilde, il bicchiere inciso nelle Affinità elettive di Goethe, le "installazioni" di suppellettili che gremiscono i romanzi di Dickens, su su fino alla sputacchiera nei Figli della mezzanotte di Salman Rushdie, al Museo dell´innocenza (puro inno all´oggetto memoriale) progettato da Pamuk, o all´oggetto porno in Palahniuk. L´elenco degli scrittori esaminati, però, sarebbe troppo lungo. Piuttosto, meritano d´essere segnalati artisti folli come Raymond Isidore, autore di una cattedrale di detriti, o personaggi estremi come i fratelli Colyer (ripresi in un racconto di Doctorow), morti nel 1947 di "disposofobia", una sindrome consistente nell´accumulo compulsivo di oggetti, che li portò a spegnersi in una casa stracolma di ciarpame, rottami e rifiuti.
Resterebbe da dire delle minuziose perlustrazioni artistiche (con Louise Bourgeois e Pistoletto), e cinematografiche (da Elia Kazan a Joseph von Sternberg). A tale proposito si sarebbe potuta citare la leggendaria palla di vetro in Quarto potere di Orson Welles. Ma il libro vive anche della sfida a proseguire il cammino tracciato da Fusillo, in modo da integrare la già ricchissima messe dei suoi documenti. Feticci, amuleti, talismani: la caccia è aperta.
La Stampa TuttoLibri 18.2.12
Cervello. Tre libri raccontano il viaggio nell’organo più misterioso del nostro corpo per scoprire dove nasce la libertà dell’uomo nel prendere decisioni
Nella coscienza c’è un brusio di neuroni
di Piero Bianucci
Margriet Sitskoorn «I sette peccati capitali del cervello» Orme Editori pp. 176, 16,50 Frase chiave: «Grazie all’ossitocina è possibile rendere gli individui più generosi dell’80%»
Arnaldo Benini «La coscienza imperfetta» Garzanti pp. 147, 18 Frase chiave: «Il cervello prima indaga, poi decide che cosa fare. Di queste operazioni non si ha coscienza»
Lamberto Maffei «La libertà di essere diversi» il Mulino, pp. 181, 15 Frase chiave: «La riflessione e lo studio possono far crescere il nostro ambito di libertà?»
L’operaio Phineas Gage ebbe il cranio trapassato da una stanga visse 12 anni, ma perse il senso della morale Ma davvero siamo avari solo per mancanza di ossitocina o lussuriosi per azione della dopamina?
Decidete se leggere questo articolo o voltare pagina. Vi sentite liberi? Certamente sì. Ma con la risonanza magnetica funzionale un neurologo può «vedere» la vostra decisione prima che l’abbiate presa in modo consapevole. Dunque dov’è libero arbitrio? Che merito c’è nel fare il bene anziché il male? Addio etica.
Qualche mese fa la fondazione americana Templeton ha stanziato 4,4 milioni di dollari per chiarire se siete davvero liberi di voltare pagina. Questione antica. Già il filosofo Baruch Spinoza (1632-1677) spiegava l’illusione della libertà con l’ignoranza delle cause complesse che ci portano a compiere scelte e prendere decisioni. Oggi sappiamo che queste cause sono un vortice di segnali elettrici scambiati tra i 120 miliardi di neuroni che costituiscono il cervello umano. Attenzione però a non ridurlo a una macchina. Il Dna disegna geneticamente il cervello, ma ambiente e cultura ogni giorno lo plasmano, e dai neuroni emerge una personalità unica.
Lamberto Maffei, presidente dell’Accademia dei Lincei, professore emerito alla Scuola Normale di Pisa, illustre studioso della percezione visiva, nel saggio La libertà di essere diversi riesamina il problema del libero arbitrio alla luce delle conoscenze più recenti. Fu Benjamin Libet nel 1979 a dimostrare con un esperimento che la corteccia motoria si attiva prima dell’atto volontario. Per 8 decimi di secondo non siamo consapevoli di una decisione che è già stata presa. Presa da chi? O da che cosa?
E’ difficile accettare che il libero arbitrio si riduca a segnali elettrici. La libertà forse emerge proprio dalla complessità del cervello. «Teoricamente – dice Maffei – i gradi di libertà del cervello sono pressoché infiniti (...) i possibili stati dei neuroni sono circa 2 elevato a 10 alla 11. Un numero colossale, più grande del numero di particelle dell’universo». Non solo. Il cervello, organo che pesa il 2 per cento del nostro corpo, da solo assorbe un quarto dell’energia che bruciamo, ed è minima la differenza di consumo tra il sonno e la veglia. L’attività neuronale è come un «rumore bianco», cioè casuale, nel quale paradossalmente il segnale significativo assume più evidenza appena supera una determinata soglia. Il continuo brusio dei neuroni – suggerisce Maffei – potrebbe essere all’origine del pensiero e della libertà, o almeno della illusoria percezione che ne abbiamo.
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Chicago ha messo dei ratti di fronte a una scelta: mangiare della cioccolata o liberare un compagno imprigionato in un tubo. L’esito è stato pubblicato nello scorso dicembre: alcuni ratti preferivano liberare il loro simile e poi dividere con lui la cioccolata. Sembra improbabile che sia una scelta etica, la volontà di compiere un’opera buona anziché adottare un comportamento egoistico. Più probabilmente, i neuroni specchio, quelli dell’empatia scoperti nel 1995 da Giacomo Rizzolatti, prevalgono sul desiderio di cibo. Anche da questo esperimento la libertà di optare tra bene e male esce sconfitta.
Arnaldo Benini, docente di neurologia all’Università di Zurigo, in La coscienza imperfetta, invita a non cercare l’introvabile e ricorda che quando si studia il cervello «l’esploratore, per la prima volta nella storia della ricerca, coincide con l’esplorato». In altre parole, per comprendere il cervello, ci vorrebbe un meta-cervello che non abbiamo. La coscienza sarà sempre imperfetta perché non potrà mai abbracciare tutta se stessa. Ed è vano almanaccare sull’enigma dell’emergere del pensiero e della morale: biologicamente «il compito essenziale dei cervelli, quello umano incluso, è di prendersi cura della sopravvivenza del corpo di cui fanno parte». Alla fisicità si riducono anche i prodotti più nobili dell’intelligenza, per esempio quel pensiero distillato che è la letteratura. Rassegniamoci: «Lingue e letterature esistono fin quando ci sono cervelli che le parlano, le scrivono e le leggono». Ce n’è anche per Kant. Tempo e spazio non sono categorie «a priori» della mente ma esperienze apprese, e quanto alla «legge morale che è in noi», Benini ci sbatte in faccia «la banalità del male» (e quindi anche del bene?). «Per compiere un delitto immane – dice Benini – Eichmann non aveva bisogno che di essere un uomo qualunque», «la coscienza del bene e del male è emersa come meccanismo del cervello durante un lunghissimo processo naturale, l’evoluzione, la cui regola è la sofferenza del più debole che soccombe».
E’ così che la neuropsicologa dell’Università di Tilburg (Olanda) Margriet Sitskoorn può aprire I sette peccati capitali del cervello con il caso di Phineas Gage, un bravo capooperaio che il 13 settembre 1848 ebbe il cranio trapassato da una stanga di ferro mentre lavorava alla costruzione di una ferrovia: campò ancora 12 anni, ma aveva perso il senso morale. L’etica stava tutta nei neuroni di cui l’incidente l’aveva privato. Di qui è breve il passo che vanifica ogni colpa. Siamo avari per scarsità di ossitocina, erotomani per eccesso di testosterone, lussuriosi per azione della dopamina. Ma non sarà troppo semplice?
La Stampa TuttoLibri 18.2.12
Storia La rivista fondata sessant’anni fa da Paci: una vasta impronta interdisciplinare
Aut aut, il respiro della filosofia
di Gianni Vattimo
Pier Aldo Rovatti (a cura di) IL CORAGGIO DELLA FILOSOFIA. AUT AUT 1951-2011 Il Saggiatore, pp.533, 25
Un particolare della «Scuola di Atene» (1509-1511) di Raffaello Sanzio
Non conosciamo quasi nessun volume dello stesso genere paragonabile, per valore intrinseco e utilità culturale (non solo specialistica) simile a quello che da qualche settimana è stato pubblicato, a cura di Pier Aldo Rovatti, con il titolo Il coraggio della filosofia. Aut aut 1951-2011. Come si sarà capito, è la storia della rivista filosofica nata sessant’anni fa per iniziativa di Enzo Paci, allora professore di filosofia a Milano, che ha continuato a vivere anche dopo la scomparsa del suo fondatore ad opera di un gruppo tra i più interessanti dei giovani filosofi italiani sotto la direzione appunto di Pier Aldo Rovatti.
Il carattere relativamente straordinario di questo volume è anzitutto di essere bensì nato da un intento commemorativo-celebrativo, trasformandosi però in una specie di enciclopedia del pensiero filosofico italiano ed europeo degli ultimi sei decenni. Lo sottolineiamo perché può capitare che un libro simile venga accolto con benevola ma poco impegnata attenzione: una sorta di omaggio dovuto sia alla memoria del fondatore sia all’impegno con cui, nel corso di più di mezzo secolo, li autori vi hanno collaborato. In fondo, i lettori di Aut aut - che sono rimasti numerosi e costantemente aumentati in questi anni - ritrovano qui una antologia di cose che avevano già letto. Eppure rileggere tanti testi - da quello inaugurale e molto denso con cui Paci iniziava il lavoro della rivista, ai tanti che gli sono succeduti niente affatto caratterizzati da una appartenenza di scuola, è come un ripercorrimento - critico e ancora «inventivo» - della storia del pensiero di una buona metà del secolo passato. Non solo della filosofia, e non solo italiana.
Quando Aut aut comincia le sue pubblicazioni, la cultura italiana è appena uscita dalla lunga parentesi del fascismo e vive anche sul piano politico il clima della ricostruzione, con l’entrata in scena di molte correnti di pensiero che erano rimaste silenti o relativamente ignorate negli anni precedenti: non solo l’esistenzialismo, ma le scuole anglosassoni (filosofia del linguaggio, neopositivismo) e poi, a partire soprattutto dagli anni Sessanta, la fenomenologia. Un orientamento che ha costitutivamente il «vantaggio», rispetto ad altre linee di pensiero, di aprire la filosofia a una vasta gamma di rapporti interdisciplinari: il primo segretario di redazione di Aut aut, leggiamo nella nota iniziale di Rovatti, fu Gillo Dorfles, un filosofo che era, ed è tutt’oggi, anche un grande critico d’arte. Con Paci lavorò pure il musicologo Luigi Rognoni, e costante fu l’attenzione per la critica letteraria (nella raccolta attuale figura un importante saggio di Fortini) e per la psicoanalisi.
Il libro è scandito in decenni, e l’articolazione stessa mostra la connessione del lavoro filosofico con gli eventi della società italiana. I due blocchi più caratteristici della storia della rivista paiono essere quelli degli anni Sessanta e degli anni Settanta: il primo, centrato intorno alla «scoperta» del rapporto tra marxismo e fenomenologia (marcato dall’incontro con La crisi delle scienze europee di Husserl, che nell’antologia si conclude con un importante saggio di Paci sui movimenti studenteschi del Sessantotto) e il secondo messo sotto la categoria dei «bisogni», dove compaiono Agnes Heller, Toni Negri, Cacciari. Il marxismo rimane un interlocutore costante della rivista (che va considerata anche, al di là dei singoli contributi personali in articoli e libri, il vero grande lavoro filosofico del suo direttore, Rovatti) ; ma via via entrano in gioco altre voci, non solo l’ermeneutica ovviamente, anch’essa legata alla tradizione fenomenologica, ma più tardi Foucault, Deleuze, Derrida. Un curioso piccolo articolo di Hans Blumenberg (ripreso da un giornale tedesco del 1987: L’Essere, un MacGuffin) sembra voler prendere le distanze dal primo grande allievo di Husserl, Martin Heidegger. Verso il quale, tuttavia, non ci fu mai alcun ostracismo, in Aut aut, piuttosto una sorta di cauta osmosi che dura anche oggi e che contribuisce a fare della rivista un punto di riferimento indispensabile, non solo italiano, di ogni pensiero militante. "Come interlocutore costante il marxismo, si aprì all’esistenzialismo, alle scuole anglosassoni, alla fenomenologia Primo segretario fu Gillo Dorfles, costante sarà l’attenzione per la psicoanalisi"
Corriere della Sera 18.2.12
La decadenza del capitalismo ridotto come una foglia secca
Vorrebbe dominare il mondo ma è sottomesso alla tecnica
di Emanuele Severino
Durante una crisi come quella che stiamo vivendo si rafforza il fastidio per tutte le forme di cultura che non aiutano a risolvere problemi economici o politici ben precisi. In una nave che affonda, chi non aiuta a chiudere le falle è un peso inutile. Si vuole «ciò che serve», e serva innanzitutto ora, qui.
Ma anche l'estimatore di ciò che serve può capire che in sostanza si agisce a caso, e dunque è un caso che l'agire serva, se non si sa in che mondo si vive, quale sia il suo passato, verso dove esso stia andando. Se si lavora alle falle senza sapere che ci si trova su una nave che affonda, non si sa nemmeno di star lavorando alle falle. Invece di riparare il danno, lo si aggrava.
Accreditate a dire in che mondo ci troviamo sono oggi soprattutto le discipline scientifiche. Dove i metodi e i parametri delle scienze fisico-matematiche tendono a diventare i modelli non solo delle altre scienze, ma anche del modo in cui si organizzano le istituzioni sociali. Non solo, ma sono tali metodi e parametri — molto più omogenei rispetto a quelli delle altre scienze — a stabilire la configurazione dell'apparato tecnico di cui si servono le grandi forze che oggi, dopo la fine del comunismo sovietico, intendono guidare il mondo: capitalismo, democrazia, cristianità, islam, quella specie di simbiosi di capitalismo e comunismo che è venuta a formarsi in Cina.
Queste forze si servono della tecnica; ossia la tecnica è ciò che più serve per realizzare gli scopi, peraltro tra loro contrastanti, che esse intendono realizzare. Nella maggior parte dei Paesi economicamente avanzati, quel che oggi serve per uscire dalla crisi ha lo scopo di rimettere in sesto la forma capitalistica della produzione della ricchezza (una forma che è il quadro, o il contenitore, in cui ricevono senso anche le varie istanze di «rigore», «equità», «crescita»). La tecnica è ciò che più serve per perpetuare tale forma.
Tuttavia si sorvola sulle implicazioni del rapporto tra il mezzo (ciò che serve) e lo scopo (ciò che si vuole produrre), e quindi tra la tecnica e le forze che intendono servirsi di essa per realizzare i loro scopi. Si sottovaluta tra l'altro la circostanza che, servendo, il mezzo si indebolisce, si logora, si consuma; e che è inevitabile che ciò accada affinché lo scopo viva e si mantenga sano e integro il più possibile. Appunto per questo, quando si vuol raggiungere uno scopo, sono i mezzi logorati e consumati a esser sostituiti: non si sostituisce lo scopo (che per il capitalismo è un mondo capitalista, per la democrazia un mondo democratico e così via).
Per perpetuare se stesso — e il discorso vale anche per tutte quelle altre forze che oggi vogliono mettersi alla guida del mondo — il capitalismo si serve di una consistente frazione dell'apparato tecnico-scientifico. Ma proprio perché se ne serve, lo regola. Quindi lo limita. Ad esempio non gli consente di servire altri «padroni» e di attivare forme alternative di potenza; rinchiude la ricerca di innovazioni all'interno di una certa area e ne stabilisce la direzione; la concorrenza impedisce a ogni gruppo capitalistico di render noti agli altri gruppi i propri progressi nella ricerca; non produce merci per chi non ha denaro per comprarle, ecc. Pertanto, anche se ne sostituisce continuamente gli operatori umani, le macchine, i meccanismi e le apparecchiature particolari, il capitalismo frena l'insieme di tale apparato: lo indebolisce, ne logora le potenzialità, lo consuma.
Ma indebolire e consumare l'apparato tecnico di cui il capitalismo si serve allo scopo di tenere in vita se stesso significa indebolire il mezzo che deve realizzare tale scopo, significa cioè impedire la realizzazione dello scopo (in generale — per quanto l'affermazione possa suonare fastidiosa o capziosa — servirsi di un mezzo per raggiungere un certo scopo significa ostacolare la realizzazione di tale scopo. Una contraddizione, questa, che, daccapo, non riguarda soltanto il capitalismo, ma anche tutte quelle altre forze di cui si è detto). Si aggiunga che la tecnica è oggi il mezzo più potente per realizzare scopi e quindi, se i singoli elementi da cui esso è composto possono e debbono esser sostituiti continuamente, l'apparato, invece, nel suo insieme, non può esser sostituito da alcun altro mezzo che abbia la stessa potenza ed efficacia.
Ora, tutto questo va messo in relazione all'ulteriore circostanza che il capitalismo e ognuna di quelle altre forze si trovano tra di loro in conflitto. In questa situazione, lo scopo di ognuna di esse viene a essere costituito non solo da ciò che la definisce e la differenzia, ma anche dalla salvaguardia e dal potenziamento del mezzo — la tecnica — con cui essa intende realizzare i propri scopi specifici prevalendo sugli scopi delle forze antagoniste.
Ad esempio, l'intenzione originaria del capitalismo è di avere come scopo ultimo, unico e specifico l'incremento del profitto privato. Ma di fatto il capitalismo è costretto a tradire le proprie intenzioni. Infatti, se e poiché i suoi avversari — poniamo l'economia cinese o l'integralismo islamico — per prevalere rafforzano le loro tecniche più di quanto il capitalismo non rafforzi le proprie, allora o il capitalismo lascia che l'avversario prevalga, e quindi perisce, oppure, per non perire ed esser lui a prevalere, deve rinunciare ad avere come scopo ultimo e unico l'incremento del profitto, ossia deve assumere come scopo ultimo anche un potenziamento tale, dell'insieme delle proprie tecniche, che sia maggiore di quello messo in atto dall'avversario.
Ma rafforzarle in questo modo è l'opposto di quel lasciarle logorare che è dovuto al loro essere assunte come mezzo che ha il compito di far vivere lo scopo. Nel proprio scopo, il capitalismo viene cioè a dare spazio a quel potenziamento e toglie spazio al proprio scopo specifico e originario (l'incremento del profitto privato). Sì che anche in questo caso il capitalismo, indebolendo il proprio scopo caratterizzante e originario, incomincia a perire. Sia che perda sia che vinca, perisce. Giacché — e questo è uno dei nodi concettuali decisivi sui quali le scienze economiche (ma non solo esse) sorvolano — se lo scopo di un agire cambia, l'agire stesso diventa qualcosa di diverso da ciò che era. Nel caso considerato: l'agire non è più capitalistico, è diventato o sta diventando qualcosa di diverso, che si tratta di decifrare (solo i cattivi osservatori credono che sia rimasto identico).
E ognuna delle forze che oggi si propongono di guidare il mondo è attesa dalla stessa sorte del capitalismo: se non riescono a prevalere sul proprio avversario tecnicamente più potente periscono; ma periscono anche se prevalgono; giacché possono prevalere solo potenziando le proprie tecniche fino a farle diventare la parte preponderante dei loro scopi. Ciò significa che il nostro è il tempo in cui è destinata a prevalere l'organizzazione tecnico-scientifica del mondo (con tutte le precisazioni che da più di quarant'anni vado indicando). Nella sua essenza, il mondo in cui quelle forze credono di vivere è già morto. Come le foglie secche ancora attaccate ai rami.
Molte le diagnosi. L'attuale crisi economica — si dice — è dovuta alla separazione tra capitalismo industriale e quello finanziario; la crisi può essere superata liberando la morale (soprattutto cristiana) o la politica dalla loro soggezione all'economia; può essere superata ritornando a Marx e voltando le spalle all'economia di mercato. Tutte diagnosi (sempre più insistenti, comunque, quelle che, anche senza guardare a Marx, affermano la fine del capitalismo) che non fanno i conti con la sequenza concettuale sopra richiamata, e quindi non possono sapere in che mondo oggi viviamo.
Pertanto, chi è estimatore di ciò che serve alla sopravvivenza del capitalismo — o delle altre grandi forze del vecchio mondo — e agisce sulla base di quelle diagnosi è il servitore di un cadavere. Il che non esclude che le sue azioni possano essere utili, e perfino molto utili, a imbalsamare le foglie secche, tenendole attaccate ai rami ancora per un po', e perfino per un bel po' — ma in tal modo ritardando la trasformazione a cui il mondo è destinato.
L'amatore di «ciò che serve» (ma un abisso si apre sotto i piedi di questa espressione) non deve dunque servire i morti, ma ciò che sta nascendo, ossia quel nuovo, immane e spaesante Leviatano che è l'organizzazione scientifico-tecnologica del mondo e pertanto dell'economia, della politica, della morale. Incommensurabilmente più decisiva di qualsiasi forma di «governo tecnico», questa organizzazione conduce al rovesciamento del mondo: invece di servire le grandi forze sopravvissute che ancora si illudono di padroneggiarla, è essa a servirsi di tali forze per aumentare all'infinito la propria potenza. E se oggi il capitalismo coinvolge sempre di più gli Stati (tradendo la propria vocazione originaria), ciò significa che anche gli Stati stanno diventando, da padroni, servitori dell'apparato scientifico-tecnologico.
Durante questo rovesciamento tutto si trasfigura, tutto diventa ambiguo e disorientante, il mondo sembra incomprensibile. È la crisi del vecchio mondo. Bisogna saperla decifrare (e andando molto più al largo, in mare aperto, rispetto alle stesse considerazioni qui richiamate).
Corriere della Sera 18.2.12
Cosa c'è (di sbagliato) nella testa degli adolescenti
Perché una ragazza che sa tutto sulle nascite si ritrova incinta?
La pubertà precoce e le influenze sul cervello
di Paola D’Amico
Maria Claudia ha tredici anni ma è come se la parte del suo cervello che governa le emozioni ne avesse qualcuno in più e quella dell'autocontrollo qualcuno in meno. «Perché sono salita sul motorino di Ada senza casco sapendo che mi sarei giocata la festa di sabato? Boh, l'ho fatto. Punto». L'alzata di spalle consacra il risultato dell'ennesima zuffa: 1 a 0 per il sistema del suo cervello più sviluppato ma anche più impulsivo e irrazionale. Per spiegare quello che Maria Claudia ignora Ronald Dahl, psicoterapeuta alla University of California, paragona il cervello di un ragazzo a un'auto: «L'adolescente di oggi sviluppa il proprio acceleratore prima di saper sterzare o frenare». «E, visto che oggi si entra prima nella pubertà (perché si mangia di più, parrebbe ndr) e più tardi nell'età adulta le accelerate senza sterzate e/o frenate si moltiplicano», completa la metafora lo psicoanalista Massimo Ammaniti. «Per guidare serve esperienza».
Si chiedeva qualche giorno fa il Wall Street Journal: che c'è di sbagliato nel cervello degli adolescenti? Perché una ragazza che sa tutto sul controllo delle nascite si ritrova incinta? Cosa è successo a quel ragazzo che tanto si è distinto al liceo ma poi ha lasciato l'università e, lavoro dopo lavoro, ora vive nel seminterrato dei genitori? La risposta è la stessa che la neuropsichiatra olandese Eveline Crone ha dato nel suo saggio fresco di stampa Nella testa degli adolescenti (Urra–Feltrinelli): le stranezze di questa età «intrepida» sono figlie dello squilibrio tra diverse parti del cervello. Di quel bombardamento ormonale che va ad attivare l'area di regolazione delle emozioni (tanto sensibile alle ricompense, soprattutto sociali: sovrastimate, rispetto ai rischi) senza che i sistemi di controllo si siano del tutto sviluppati per mancanza di esperienza. Un dialogo imperfetto che dà vita a comportamenti impulsivi e irrazionali.
Niente di diverso rispetto ai ragazzi di un tempo. La shakesperiana tragedia di Romeo e Giulietta lo dimostra: «Questi comportamenti sono tipici dei giovani di tutte le epoche», dice la responsabile del Brain and Development Laboratory dell'Università di Leida. Ma mentre la tredicenne Giulietta sarebbe diventata moglie e madre entro un anno o due, nelle nostre Giuliette (più precoci dei maschi e a rischio sul fronte sesso) il tumulto d'amore si manifesta 20 anni prima di sfociare in maternità. E i nostri Romeo potrebbero restare sotto l'influenza della regina Mab fino alla laurea. Ciò che è davvero cambiato negli ultimi due secoli, e soprattutto rispetto alla generazione passata, sono proprio i tempi di sviluppo dei due sistemi neurali e psicologici che interagiscono per trasformare i bambini in adulti: il primo, il sistema limbico, ha a che fare con emozione e motivazione; il secondo, in particolare la corteccia prefrontale, con controllo delle emozioni, processi decisionali, panificazioni a lungo termine. E dipende molto di più dall'esperienza. «Oggi la pubertà arriva prima e prima entra in gioco anche il sistema motivazionale — spiega Ammaniti —, ma i ragazzi, nella fase del rischio, "decido io", del nessuna regola e del distacco dalla famiglia, hanno anche poca esperienza delle cose dell'età adulta». Non sono più stupidi. Anzi, sono anche più intelligenti (hanno QI più alti, e questo ritarderebbe lo sviluppo del lobo frontale). Il fatto è che c'è il liceo col suo modello di apprendimento a tuttotondo lontano anni luce dall'apprendistato delle società del passato. Ci sono le «n» attività pomeridiane. «Ma compiti come l'apparecchiare o l'accudire i fratellini, il dare ripetizioni o trovare un lavoretto estivo sono ormai un'eccezione. Esperienza e regole (spesso trascurate per paura del conflitto) sono fondamentali».
Il paradosso sottolineato da psicoterapeuti e sociologi è quello evidente in tanti giovani: colti, intelligenti e vivaci ma incapaci si scegliere la propria strada, di impegnarsi in un particolare lavoro o rapporto. Proprio perché la loro area di controllo non è stata modellata dall'esperienza. «È sbagliato credere che un'area del cervello è confinata lì, svolge quel preciso compito ed è inflessibile. Il cervello è potente proprio perché le sue parti interagiscono e sono sensibili all'esperienza» spiega il neuroscienziato Vittorio Gallese, sconcertato dal vedere studenti universitari accompagnati agli esami dai genitori. «Detto questo: tutte le sue parti sono allenabili, a tutte le età».
Ecco così che i genitori («troppo amici») possono imparare ad allenare non solo quello che lo psicoterapeuta dell'età evolutiva Gustavo Pietropolli Charmet chiama il ragazzo creativo («narciso e fragile, troppe aspettative») ma anche il ragazzo apprendista. «Senza paura di rompere quel pacifismo che lo tiene nella famiglia dell'affetto fino ai 30 anni», afferma mettendo in guardia dal consegnare tutto alle neuroscienze. «C'è una vertiginosa anticipazione delle competenze alle quali vanno affiancate più occasioni per apprendere dall'esperienza». Lavoretti in casa (rifare il letto o sparecchiare), ma anche a scuola (ordinare la biblioteca o raccogliere le foglie in giardino). Potrebbe valere così di più un tirocinio differenziato di guida dell'aumento di un anno o due l'età per prendere la patente. Un apprendistato di tante ore di doposcuola. Se per gran parte della nostra storia i bambini hanno iniziato i loro stage di vita a sei anni perché aspettare i 27?
Alessandra Mangiarotti
Corriere della Sera 18.2.12
Cartagine riscoperta
Non fu distrutta ma solo sepolta
Cinquemila metri di mosaici
e palazzi di cinque piani che gli scavi stanno riportando alla luce
di Massimo Nava
La storia, come sempre scritta dai vincitori, racconta che i cartaginesi, antenati degli odierni tunisini, erano barbari, incolti, violenti. E che andavano distrutti — «Carthago delenda est» — essendo una costante minaccia per l'impero romano. L'archeologia spiega una storia diversa. Non fu scontro di civiltà, ma guerra fra due imperi per la supremazia nel Mediterraneo, fra popoli che per molto tempo ebbero importanti relazioni commerciali e culturali, di cui sono rimaste eccezionali tracce nel territorio. L'archeologia smentisce in parte anche la versione epica, secondo la quale la fine di Annibale segnò la distruzione fisica di Cartagine. In realtà i romani non la rasero al suolo, ma la ricoprirono di resti e terriccio per costruire un'altra città. Il paradosso storico è che ad essere distrutte quasi senza più traccia dai vandali di Genserico furono le architetture delle epoche successive, come quelle bizantine.
Oggi i resti dell'antica Cartagine sono ben visibili, attorno all'acropoli che domina la Tunisi moderna, grazie al programma patrocinato dall'Unesco, di cui è responsabile il famoso archeologo Azedine Beschaouch, il quale ha curato anche i lavori alla reggia cambogiana di Angkor prima di accettare l'incarico di ministro della cultura nella nuova Tunisia nata dalla rivoluzione dei gelsomini.
Come molte personalità della diaspora, anche Beschaouch si è messo a disposizione del Paese, entrando a far parte del governo provvisorio che ha l'arduo compito di gestire la transizione dopo le elezioni di domenica scorsa, fra tensioni sociali, crisi economica, rischi di derive fondamentaliste e delusione della gioventù che ha fatto la rivoluzione: altamente qualificata, ma senza prospettive. E il primo obiettivo del governo è proprio il rilancio del turismo che direttamente o meno dà lavoro a un terzo della popolazione e che dopo la caduta del regime ha perso quasi la metà delle presenze. Il suo slogan, che riprende al contrario il detto romano, è «Servanda Cartagine», salvare Cartagine, portare all'attenzione mondiale tremila anni di storia, le radici fenice, romane, cristiane, bizantine e arabe della Tunisia.
La stabilità del Paese dovrebbe facilitare in fretta il recupero, tanto più che il turismo tunisino si avvale d'infrastrutture di alto livello a prezzi ancora piuttosto accessibili. Sotto il regime di Ben Ali si è incentivato il turismo balneare e più recentemente la formula talassoterapia-rimessa in forma. Oggi si punta anche sulla valorizzazione dell'enorme patrimonio archeologico, finora un po' trascurato dal turismo da spiaggia e lasciato in disparte dai circuiti organizzati. «Oltre che violenta e repressiva, la dittatura di Ben Ali ha esaltato la mediocrità culturale, favorito privilegi e saccheggio di risorse», è la diagnosi stringata di Beschaouch, impegnato nel recupero di terreni archeologici su cui i cortigiani del regime avevano avviato speculazioni edilizie e delle opere d'arte trafugate. «Ma ritengo che dopo la rivoluzione almeno tre quarti degli oggetti archeologici siano stati recuperati. E stiamo collaborando con l'Interpol per recuperare il resto».
Acropoli vista mare
«C'è ancora molto da scoprire», dice indicando, dall'acropoli di Cartagine, l'antico porto dei tempi di Annibale: un'ansa naturale, con un'isola artificiale nel mezzo. I nemici si erano convinti dei poteri soprannaturali dei cartaginesi, dato che le navi da guerra davano l'impressione di scomparire all'improvviso, una volta imboccato l'ingresso del porto. «Gli scavi — racconta Beschaouch — hanno confermato l'esistenza di una grande civiltà. C'erano palazzi di quattro o cinque piani, illuminati ad olio (che era l'oro nero dell'epoca). Dalle iscrizioni, sappiamo che qui si insegnavano il latino e il greco». Il foro romano, fatto costruire da Augusto e ampliato da Adriano, copre tutta la piattaforma della collina di Byrsa e domina l'odierna Tunisi.
In un'ala del museo di Cartagine, è stata recentemente allestita la sala del guerriero punico, uno scheletro ritrovato perfettamente intatto in una tomba del VI secolo avanti Cristo. Si trattava probabilmente di un personaggio importante, data la quantità di oggetti ritrovati all'interno del sarcofago. Oggetti che appunto confermano l'alta qualità manifatturiera dell'epoca.
Cinquemila metri di mosaici
Dall'acropoli, ci spostiamo al museo del Bardo, il più antico museo del mondo arabo, restituito all'antico splendore, ampliato e ammodernato dopo anni di lavori che si concluderanno la prossima primavera. La parte nuova, un insieme di parallelepipedi bianchi si sposa perfettamente con lo stile andaluso-moresco dei palazzi che hanno ospitato il vecchio museo. Si tratta della più importante collezione mondiale di mosaici — oltre cinquemila metri quadri — gran parte dei quali qui trasferiti dai luoghi archeologici della Tunisia. È l'eredità della scuola africana che si sviluppa a partire dal secondo secolo avanti Cristo fino all'epoca bizantina.
Ho potuto ammirare quello dedicato a Virgilio, fra le Muse che ispirarono l'Eneide, prima del temporaneo trasferimento a Mantova, nell'ambito delle celebrazioni virgiliane. «Questo mosaico è la nostra Gioconda», dice Taher Ghalia, il curatore del museo. Virgilio non ha mai vissuto a Cartagine, ma il cantore della romanità ha cominciato qui il suo cammino poetico. I mosaici, al di là dell'eccezionale valore artistico, sono anche un'emozionante rappresentazione della vita quotidiana, della mitologia e delle attività attraverso diverse epoche, fino allo sviluppo del cristianesimo. Si racconta che Agostino, arrivato da Cartagine a Milano, si fosse stupito delle strade buie, mentre nella sua Cartagine erano rischiarate dalle lampade ad olio.
Le piccole polis
La più straordinaria scoperta all'interno della Tunisia (bisogna calcolare almeno tre ore di auto, su strade non particolarmente confortevoli) è l'antica città di Thugga, oggi ribattezzata Dougga, spettacolare insediamento che in epoca punica e romana rappresentava il crocevia commerciale del «granaio del Mediterraneo», come spiega il curatore Mustapha Kanoussi. Fra Tunisi e Dougga c'erano almeno una quindicina di piccole «polis». Ciò che colpisce a Dougga sono l'ampiezza delle vestigia e il livello di conservazione delle architetture che permettono di riscoprire l'urbanesimo degli autoctoni e dei successivi dominatori: teatro, templi, colonne, terme, strade, case e il tipico foro romano. Nella storia della città si riflettono le vicende dell'antica e della moderna Tunisia. «La pianta urbana e la collocazione degli edifici pubblici — spiega Kanoussi — raccontano la collaborazione e la convivenza pacifica fra i residenti numidi e i nuovi coloni romani». Ai piedi del bellissimo mausoleo di origine libica, è stata trovata la stele (oggi esposta al British Museum) che ha permesso di decifrare l'alfabeto punico e libico, al pari della più famosa stele di Rosetta che permise di decifrare i geroglifici. Un luogo eccezionale, che merita molto di più dei sessantamila turisti all'anno finora registrati.