l’Unità 17.2.12
L’iniziativa del 1 ̊ marzo
Basta con le parole della destra sulla crisi, serve una base comune
Il pensiero cattolico può aiutare il Pd a vincere il liberismo
di Stefano Fassina
Le fantasiose e strumentali ricostruzioni giornalistiche dell’oggetto di un seminario organizzato dal sottoscritto e altri dirigenti del Pd hanno alimentato un dibattito utile, come confermano gli interventi di Pierluigi Castagnetti e Franco Marini su questo giornale. Tuttavia, l’attenzione è stata concentrata su un inesistente documento «da presentare agli organi dirigenti» per una presunta «proposta di trasformare il Pd in un partito socialdemocratico sullo schema del Partito socialista europeo» (Eugenio Scalfari, domenica scorsa).
Chiarita l’assenza dell’uno e dell’altra, sulle ragioni economiche e politiche delle relazioni con i partiti progressisti europei ha scritto bene qui Matteo Orfini e, soprattutto, ha risposto a Scalfari su Repubblica, con saggezza e chiarezza, Pier Luigi Bersani. Mi preme soltanto aggiungere un punto: le forze costitutive del Pd non sono le uniche al mondo consapevoli del «tempo nuovo». I partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei non sono «cani morti». Sono, almeno quanto il Pd, alla ricerca di risposte adeguate, quindi innovative, a sfide inedite. Hanno capito anche loro che il Novecento è finito e, con esso, il fordismo, l’operaio massa, il partito di massa, il consumo di massa e il keynesismo nazionale. Sono, anche loro, ma in modo meno correntizio e personalistico, plurali sul piano delle culture politiche.
È vero, gli altri non hanno cambiato tre o quattro volte denominazione al “contenitore”, come hanno fatto, invece, in continuità di contenuti, i partiti fondatori del Pd dopo la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli. Si continuano a chiamare socialisti, socialdemocratici e laburisti, ma non sono fermi a Bad Godesberg. Rappresentano, in media, un terzo dell’elettorato dei rispettivi Paesi e sono attesi al Governo nelle due più grandi nazioni dell’area euro. Forse, qualche informazione in più sulla realtà effettiva della variegata e dinamica famiglia socialista europea aiuterebbe una discussione meno astratta e fuorviante.
Le fantasiose e strumentali ricostruzioni giornalistiche hanno messo in ombra l’oggetto prioritario del seminario del prossimo 1 ̊ Marzo: le letture della «Grande Transizione» in corso, in particolare la lettura data dalla Chiesa di Benedetto XVI. In altri termini, il tentativo di contribuire a dare al Pd «una base politico-culturale comune» della quale lamentano l’assenza, non senza ragioni, Emanuele Macaluso e Paolo Franchi nei loro commenti allo scambio Scalfari-Bersani.
I promotori del seminario sono convinti che il secolare pensiero sociale della Chiesa, aggiornato nell’analisi del passaggio di fase in atto, offre l’opportunità per rianimare e amalgamare in un impasto inedito e adeguato alle sfide del tempo le rinsecchite culture politiche approdate nel Pd. In particolare, considerano che la Caritas in veritate e i documenti vaticani tematici a essa seguiti (ad esempio, il position paper del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace per il G20 di Cannes), definiscono un terreno di confronto straordinariamente fertile anche per chi, contaminato in gioventù dal socialismo europeo, ritiene decisivo per un partito progressista del XXI secolo andare oltre i confini del liberalismo, orientare l’identità del Pd verso la valorizzazione della persona che lavora e recuperare dalla improvvisata soffitta del nuovismo l’ambizione a dare soggettività politica autonoma al lavoro subordinato, in tutte le sue forme, per nutrire una democrazia effettiva.
Oggi è evidente che il neoliberismo ha fallito: la svalutazione del lavoro, incluse le classi medie, come via della competitività è insostenibile sul piano economico e democratico. Tuttavia, la concentrazione di ricchezza e, conseguentemente, potere economico, politico e mediatico sostenuta dal neoliberismo nell’ultimo trentennio continua a imporre l’agenda di policy (vedi il dramma Grecia). Siamo al «trionfo delle idee fallite» anche perché il neoliberismo, seppure in versione light, ha segnato le «terze vie» e, da noi, i derivati del Pci e di parte della Dc (quella di centrosinistra), e, inevitabilmente, i primi passi del Pd. Al punto che, sulla questione cruciale del lavoro, una parte di noi, una minoranza, per fortuna trasversale alle antiche provenienze, persevera: usa il lessico della destra, inventa i «lavoratori iper-garantiti» e accusa di razzismo generazionale i sindacati in quanto responsabili dell’«apartheid» dei precari.
Per il Pd, il consolidamento di una base culturale comune è necessario, oltre che possibile. Senza una lettura condivisa del tornante storico è difficile strutturare un’identità autonoma. Senza sicurezza di sé, si ha paura dell’altro. Così, qualunque movimento rispetto alla famiglia dei socialisti europei è impossibile o forzato e disgregativo. Ma senza un soggetto dei progressisti europei siamo impotenti e perdenti nei confini nazionali.
l’Unità 17.2.12
Il leader Pd: «Il problema non è il finanziamento pubblico ma la mancanza di trasparenza»
Rai «Vertice Monti-segretari? Magari. Ma per parlare di una nuova governance, non di nomine»
Bersani: «La priorità è riformare i partiti Facciamo in fretta»
Depositata dal Pd la proposta di legge sui partiti. Bersani difende il finanziamento: «No al dibattito tra miliardari». E sulla Rai: «Vertice Monti-segretari? Magari ci fosse. Ma se si parla di nomine non sono interessato».
di Simone Collini
«Già cinquant’anni prima di Pericle si discusse il tema e si decise, in polemica con l’oligarchia, che se si voleva una democrazia la politica doveva essere finanziata». E pazienza se 2500 anni dopo la discussione sia ancora tutt’altro che chiusa perché «oggi “partito” è una parola difficile», perché il termine «casta» è ormai di uso comune e perché anche in tempi di governi tecnici il vento dell’antipolitica è decisamente forte. Pier Luigi Bersani difende il finanziamento pubblico ai partiti e spiega che il problema non è la sua cancellazione o riduzione indiscriminata ma la «trasparenza». L’anomalia italiana, dice il leader del Pd, non è che le forze politiche incassino dei rimborsi per le spese elettorali, ma «che non ci sia una legge sui partiti»: «E questa è la priorità numero uno».
DIRITTI E DOVERI
Per questo il Pd ha unificato tutti i testi presentati su questo tema dai suoi parlamentari e depositato una proposta di legge per attuare l’articolo 49 della Costituzione, sollecitando le altre forze politiche a non tirarsi indietro. In sette articoli il Pd chiede che i partiti diventino «associazioni riconosciute dotate di personalità giuridica», che accedano al finanziamento pubblico «esclusivamente i partiti che rispettano i requisiti di democrazia interna e di trasparenza ed abbiano ottenuto l’elezione di almeno un rappresentante sotto il proprio simbolo», che sia fissata a cinquemila euro (e non più 50 mila) la soglia oltre la quale i contributi sono soggetti a dichiarazione, che ci sia una certificazione obbligatoria del rendiconto e che siano decurtati del 25% i rimborsi elettorali «per i partiti che non adottano nel loro statuto in forma stabile le primarie».
Bersani presenta la proposta di legge nella sede del Pd insieme al tesoriere Antonio Misiani, al suo predecessore Mauro Agostini, a Salvatore Vassallo e a Pierluigi Castagnetti, spiegando che su questo tema il suo partito è pronto a una «accelerazione straordinaria per un risultato credibile». E se una convergenza con il testo depositato dall’Udc è possibile, ora, dice Bersani «aspettiamo qualche idea anche dal Pdl».
Il leader del Pd ha deciso di insistere su questo tasto perché se da un lato «dice una fesseria chi sostiene che siamo ancora in tangentopoli» è anche vero che vent’anni dopo Mani pulite non siamo ancora usciti del tutto dalla «transizione» e la storia non deve assolutamente ripetersi come nei primi anni 90. «Allora ne siamo usciti con risposte dalla piegatura populista, quando invece la risposta è un sistema politico efficiente e pulito». Se Bersani difende i partiti e il finanziamento pubblico ad esso assegnato è perché la democrazia non può essere «un dibattito tra miliardari» e perché ormai è fin troppo chiaro che «le scorciatoie ci hanno allungato la strada».
NO A DIBATTITI TRA MILIARDARI
Ora che c’è un governo tecnico ad occuparsi del risanamento economico e finanziario, i partiti possono impegnarsi in una seria «autoriforma» del sistema politico perché l’emergenza non riguarda solo i conti pubblici: «C’è in gioco la democrazia». Dopo questa fase, è il ragionamento di Bersani, non ci dovrà essere una nuova legislatura caratterizzata da larghe intese: saranno i partiti, dotati di autorevolezza e credibilità, a contendersi il governo del paese. «Dopo Monti non ci sarà il Cencelli. Se tocca al Pd lo promettiamo.
Ci sarà un governo ugualmente autorevole, con competenze, ma che avrà una maggioranza parlamentare univoca, solida, compatta, che oggi purtroppo non c’è per motiazioni politiche». Che oggi non ci sia una maggioranza parlamentare viene fuori anche dalla discussione sulla gestione della Rai. Da indiscrezioni si viene a sapere che Monti vorrebbe incontrare i leader delle forze che lo sostengono per affrontare la questione di una legge al riguardo e Bersani, commentando l’ipotesi che a breve ci sia questo vertice, con i suoi dice: «Magari ci fosse».
NUOVA GOVERNANCE RAI
Ma il segretario del Pd dice anche che se verrà chiamato a discutere solo di un «abbellimento» del Cda di viale Mazzini il suo partito si tirerà fuori. «La Rai è un’azienda pubblica in decadenza tecnologica, industriale e di prodotto. Ha un padrone, che non sono i partiti perché io non mi sento pro-quota il padrone della Rai, ma è il Tesoro. Da lì deve venire un’iniziativa per la governance in grado di affrontare il tema industriale. Serve un capo azienda che decida e affronti i problemi, serve una nuova governance. Se non si farà questo e si parla ancora di nomine, per quanto autorevoli, non sono interessato. Fossero pure 5 o 7 premi Nobel, fosse pure Einstein, con questo assetto noi non partecipiamo. Questo dirò al governo».
Il Pdl va all’attacco criticando il fatto che Bersani chieda un intervento del governo su questo tema e chiede di discutere invece la questione in Parlamento. Ma il Pd, che pure ha depositato più di una proposta di legge sul tema (una è a prima firma Bersani) non si fida. Il sospetto è che il Pdl voglia solo prendere tempo per lasciare tutto così com’è.
il Fatto 17.2.12
Pd, “oltre” tutto e il contrario di tutto
di Fabrizio d’Esposito
Cambiare i partiti (Pier Luigi Bersani). Oppure andare oltre i partiti (Goffredo Bettini). Nel frattempo la gente in carne e ossa va a votare alle primarie e sceglie fuori dal mazzo della nomenklatura. Genova, l’ultima frontiera o lezione. Ma la nomenklatura medesima non si rassegna e resiste con il dibattito. A partire dall’oltrismo, moderna malattia infantile della sinistra. Un tempo bisognava andare oltre il Pci, poi oltre il Pds, poi ancora oltre i Ds. Ora è giunto il momento di andare oltre il Pd. O forse solo oltre il povero Bersani.
In un albergo dalle parti della Cristoforo Colombo, a Roma, torna sulla scena Goffredo Bettini, il king-maker del veltronismo, sia quello buono sia quello cattivo. Un seminario che promuove anche il suo ultimo libro dal titolo: “Oltre i partiti”. Il convegno è di due giorni ed è iniziato ieri con un tema chilometrico: “Un solo grande campo del cambiamento: inclusivo, aperto, plurale, democratico”. La passione di Bettini è sempre stata il trasversalismo dialogante (anche con Berlusconi) e così si trova davvero di tutto al raduno organizzato da “Democratici in Rete”: Bertinotti, Fioroni, Latorre, Veltroni, Chiamparino, il finiano Croppi, Zedda, Paola Concia, Leoluca Orlando, Andrea Orlando, Merola, Barbara Palombelli, la Melandri, Migliore, Vitali, Tonini, Tronti, finanche Mar-razzo. C’è la foto di Vasto ma anche l’oltre della foto di Vasto. Il primo intervento è di Bertinotti che incendia il seminario con un’invettiva contro il governo Monti che ha sospeso la democrazia. Orlando (quello dell’Idv) aggiunge che con il Professore sono al potere banche e massoneria ma anche il Vaticano. Oltre Monti, oltre tutto e il contrario di tutto. Sempre Bertinotti se la prende con il capo dello Stato: “Napolitano sostiene che la questione sociale non può essere invocata per bloccare le riforme: una cosa indicibile”. Finalmente, i cronisti delle agenzie di stampa hanno qualcosa da scrivere. L’ex dalemiano, Latorre però non ci sta: “Bertinotti sbaglia su Napolitano”. Sono gli accidenti dell’oltrismo che sposa il “ma-anchismo”.
La ciccia vera, quella che conta, arriva ovviamente da Bettini. Qual è il problema? Fare un congresso del Pd per rilanciare un partito afono e senza coraggio, che assomma i vizi del Pci e della Dc ed è soffocato dal correntismo. Insomma: fare fuori Bersani. L’eterno circolo vizioso dell’ultima generazione del Pci, oggi tutti sessantenni. Veltroni fece il Pd e Prodi cadde, Veltroni stesso si candidò a premier e perse e fu scalzato da Bersani, benedetto da D’Alema. Adesso il tentativo è di ricominciare daccapo, anche se di D’Alema si sono perse le tracce. Nel frattempo, appunto, la gente si mette in fila, al freddo e al gelo, e va a votare Doria alle primarie di Genova. Stordito dallo scandalo Lusi-Margherita, ieri il Pd di Bersani ha proposto di cambiare i partiti, non andare oltre. Sono proposte sulla democrazia interna e sulla trasparenza dei bilanci e dei rimborsi. In pratica l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione (in realtà, uno dei primi che ci provò fu qualche anno fa, da destra, Storace, ma nessuno se lo filò). Ci voleva Lusi, a ridosso del ventesimo anniversario di Tangentopoli. Nella scheda consegnata ai giornalisti, spicca l’ipotesi di regolamentare le primarie per legge. Di fatto una smentita ai dubbi di Bersani dopo la sorpresa di Genova. Il segretario fa una conferenza stampa nella sede nazionale dei democrat a Roma, in via San-t’Andrea delle Fratte. Al terzo piano. Bersani è più Bersani del solito e sembra Crozza: “Mica sono noccioline questa è la democrazia”. Adesso però il suo refrain ossessivo è “ventre a terra”. A Genova con Doria “ventre a terra”. Fare le riforme “ventre a terra”. Circola un sospetto: più si aggiungono riforme al menu dell’inciucione tripartisan con Pdl e Terzo Polo e più si allontana la prospettiva di un accordo veloce sulla legge elettorale. Riforme istituzionali, riforma dei partiti, riforma elettorale. Un po’ troppo. Chi bluffa? Bersani parla, ma neanche una parola sulla polemica che da giorni sta dilaniando molti pensatori illustri della rive gauche di casa nostra: la possibilità di riscrivere il Dna socialdemocratico del Pd. Un passo in direzione opposta all’oltrismo di Bettini. Qual è la via giusta? Per tutta la Seconda Repubblica la sinistra si è interrogata sulla terza di via. Oltre il comunismo e la socialdemocrazia. Alla vigilia della Terza Repubblica la formula ancora non c’è ma Bersani promette: “Dopo Monti non ci sarà il Cencelli, faremo funzionare il Paese”. All’uscita, i giornalisti presenti si accontenterebbero di un obiettivo più modesto: il funzionamento dei due ascensori al terzo piano della sede del Pd. Uno è fuori servizio e l’altro ha un fila chilometrica. Impossibile scendere a piedi. Almeno trenta minuti per guadagnare l’agognata cabina e scendere. Prigionieri del caos. Metafora perfetta per il Pd.
il Riformista 17.2.12
Pd sempre in fibrillazione E torna alla carica Bettini
Bersani vuole riformare i partiti Bettini vuole riformare i democrat
L’ex ideologo veltroniano attacca il Pd: «Afono, balcanizzato, in preda a una degenerazionepersonalistica. Serve un congresso anticipato per allargare il campo»
di Ettore Maria Colombo
Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha convocato telecamere e taccuini al Nazareno, suo quartier generale del Pd, per illustrare la proposta di riforma del finanziamento pubblico ai partiti targata Pd. Arriva, la pdl democrat (scritta da Salvatore Vassallo, Pierluigi Castagnetti e altri), dopo quelle degli altri partiti.
Ma trattasi di una proposta di legge seria e corposa. La illustra Bersani stesso: «Bisogna dare attuazione all’art. 49 Costituzione sui partiti, ma non si può cancellare il finanziamento(aipartiti,ndr)osi rischia che la politica sia fatta sola da miliardari. L’anomalia – spiega – non è il finanziamento pubblico, ma una vera legge sui partiti!». Nell’attesa, Bersani e la sua maggioranza dovrebbero cominciare, però, a guardare un po’ meglio a casa loro. E non solo per il caso Genova o, più in generale, il caos primarie, rispetto a cui, sempre ieri, Bersani ha ribadito che «a Palermo la nostra candidata è la Borsellino (che è di SeL in realtà, ndr)». Succede, infatti, che se veltroniani e fioroniani sono già scesi al piede di guerra e su diversi fronti, anche la sinistra interna, o ciò che ne resta, del Pd è entrata in grande e forte fibrilla-
zione. A Roma e nel Lazio, per dire, la sola candidata che potrebbe dar qualche dispiacere alla fortissima candidatura del popolare e trasversale Enrico Gasbarra per le primarie alla carica di segretario regionale del Pd Lazio (si vota domenica 19 febbraio)è la giovane Marta Leonori. Sostenuta dall’area Meta-Marino, ma cresciuta in orbita dalemiana e appoggiata (a Viterbo e non solo) da Ugo Sposetti e altri ex-Ds, sta raccogliendo consensi insperati mentre l’altro candidato, Giovanni Bachelet, resta fermo al palo.
Ieri, però, la notizia, abbattutasi come un colpo di maglio sull’establishment del Pd, è arrivato da un “arieccolo”, come si usa dire. Goffredo Bettini (ex figiociotto, ex ingraiano negli anni ’80, ex inventore del modello Roma, quello di Rutelli prima e Veltroni, ma pure di Badaloni e Marrazzo), infatti, is back. Dopo anni di esilio volontario, in cui s’è dimesso da tutto (dal Pd, di cui era il numero due, nel Pd di Veltroni, ma anche da senatore) Bettini torna in campo. Ieri pomeriggio, infatti, nelle more di un seminario super-dotto e, all’apparenza, innocuo (“Oltre i partiti”, il titolo, titolo anche dell’ultimo libro di Bettini) promosso da Democratici in Rete, creatura e associazione bettiniana e dalla rivista Democrazia e diritto di Mario Tronti (rivista ieri fucina dell’ingraismo e dell’operaismo, oggi trontiana e basta, ma in piena sinergia con Bettini), Bettini ne ha avute per tutti.
Il parterre de roi, del resto, era notevole: dall’ex-rifondarolo Fausto Bertinotti all’ex-popolare Beppe Fioroni, dall’ex-dalemiano-Lothar Nicola Latorre all’ex-retino Leoluca Orlando, dai sindaci made in casa Vendola come Massimo Zedda di Cagliari ai pochi rimasti in mano al Pd (Torino, Bologna, etc.). Bettini come ha preso la parola, ha tirato il siluro. «Bisogna costruire un unico soggetto democratico e aperto», ha detto, «con una partecipazione deliberante di iscritti e cittadini e un punto di vista autonomo sul cambiamento». Bettinese, si dirà. No, era solo l’inizio. Poi, subito, arriva la stoccata. «Il Pd è un partito afono nella società, dove c’è tanta brava gente, ma senz’anima e balcanizzato: dopo anni di speranze e di promesse si è ripiegato su se stesso, assommando i vizi di Pci e Dc», dice e, poi, spiega: «È sempre più urgente mettersi al lavoro per costruire un grandecampoplurale,inclusivo e democratico che trovi l’essenziale che unisce». «Il Pd – continua il j’accuse bettiniano – è in preda a una degenerazione personalistica, a correnti senza riferimento politico, l’assillo solo per ruoli istituzionali, per l’accaparramento di preferenze». Fin qui siamo nella pars destruens, ma poi arriva pure la pars costruens. «Serve un congresso anticipato del Pd per allargare il campo e, prima delle prossime elezioni politiche, è necessario che il Pd tenga un congresso». Straordinario, cioè. Il cui obiettivo sarebbe uno solo: destituire, di fatto, Bersani, e cambiare linea e volto al Pd.
il Riformista 17.2.12
celentanite
L’annichilito Bertinotti
di Cinzia Leone
Con un exploit di fantasia, a Roma al seminario sul futuro della sinistra “Un solo grande cambiamento”, Bertinotti decide di cambiare le parole di Napolitano: «Ho sentito dire al presidente che la questione sociale è importante ma non può essere invocata per bloccare le riforme: è indicibile». Così indicibile da non essere mai stato detto. Il primo a sollevare il dubbio è il prudente Nicola Latorre: «Napolitano ha detto una cosa ben diversa: la coesione sociale non è immobilismo bensì una massima intesa tra le forze sociali e politiche per obiettivi di cambiamento e riforma».
Davanti a un parterre composto da Bettini, Fioroni, Melandri, Nerozzi, Zedda, Gasbarra e Migliore, un po’ di confusione è da mettere in conto.
«Un’imposizione dall’alto che arriva a chiedere anche modifiche costituzionali. Un annichilimento della democrazia conclude appassionato Bertinotti È bonapartismo. Un governo tecnocrate che riposa nell’idea “o me o il caos”». Meglio il caos del subcomandante “annichilito” e in piena sindrome da Celentano?
l’Unità 17.2.12
A sfidare Gasbarra (70 per cento nei circoli), Leonori e Bachelet
Seggi aperti dalle 8 alle 20. Si vota anche per l’assemblea regionale
Primarie del Lazio. Domenica corsa a tre per la segreteria Pd
Potranno votare tutti i cittadini dell’Ue residenti nella Regione
Domenica parte la corsa a tre per la segreteria del Pd del Lazio. La sfida è tra Enrico Gasbarra (appoggiato da ben quattro liste), Giovanni Bachelet (ulivista) e Marta Leonori (area Marino).
di Mariagrazia Gerina
Speriamo che non vengano a votarci solo parenti e amici», si lascia sfuggire (si fa per dire) Marta Leonori, classe ’77, con una buona dose di polemica. E sperando, ovviamente, di essere smentita dalla partecipazione degli elettori. Domenica il popolo del Pd è chiamato a eleggere il prossimo segretario democratico del Lazio. Con le primarie. E lei, da candidata, avrebbe voluto un po’ più di pubblicità «istituzionale» per l’evento. «Le primarie dovrebbero essere un momento di coinvolgimento: se non le comunichiamo, magari con mezzi non troppo onerosi, diventano uno strumento spuntato», osserva. E invece, niente manifesti, a parte quelli dei singoli candidati. Solo qualche manchette sui giornali e all’ultimo, da ieri, gli sms agli iscritti.
«Gli elettori li stiamo informando noi», concorda l’altro candidato “outsider” Giovanni Bachelet, bindiano doc, mentre volantina davanti alla libreria Feltrinelli di via Appia. «L’informazione istituzionale è stata molto modesta, per usare un eufemismo», spiega. «Peccato, perché a essere indebolito, se ci dovesse essere una scarsa partecipazione, sarebbe l’intero partito».
Già abbastanza sofferente, per altro. Reduce, nel Lazio, da due sconfitte pesanti: prima il Campidoglio nel 2008, poi l’affaire Marrazzo, la vittoria di Renata Polverini nel 2010. E non solo. «Veniamo da un commissariamento di cinquecento giorni», ricorda Enrico Gasbarra, ex presidente della Provincia negli anni del «Modello Roma», che all’appuntamento di domenica si presenta forte di 16.452 voti (pari al 70%), raccolti nei congressi di circolo, prima fase del processo elettorale. E suggerisce di guardare con maggiore ottimismo ai prossimi appuntamenti. «Le primarie sono solo il primo passo», ricorda. Davanti, la sfida per il Campidoglio, che vede in pole position Zingaretti, suo sostenitore e quella per le Regionali. «So il lavoro che ci aspetta, ma non condivido la flagellazione: 24mila persone (su 42mila aventi diritto ndr) che sono andate a votare nei circoli del Pd sono una dimostrazione importante», suggerisce.
PORTE APERTE
Alle primarie di domenica, potranno votare per eleggere il segretario del Lazio e i membri dell’assemblea regionale anche i 6mila nuovi iscritti rimasti esclusi dalla prima fase elettorale. Come pure tutti gli altri potenziali elettori del Pd. Il diritto di «partecipare» è esteso a tutti i cittadini italiani (e dell’Ue) residenti nel Lazio, come pure ai cittadini in possesso del permesso di soggiorno «che, a partire dal compimento del sedicesimo anno di età, si riconoscono nella proposta politica del partito». A tutti verrà chiesto un contributo di 2 euro.
I seggi elettorali saranno allestiti nei circoli del Pd del Lazio, aperti dalle 8 del mattino alle 20 di sera. L’elenco è sul sito del Pd Lazio. Basta inserire il proprio comune e il proprio numero di tessera elettorale per conoscere qual è il circolo (quello più vicino a casa) in cui si deve votare («un sistema di ricerca che ho adottato io per primo», rivendica Bachelet). Sulla scheda, insieme ai nomi dei candidati alla guida del Pd Lazio, quelli delle liste che li sostengono. «Se non Marta chi?» per Leonori (direttrice di Italianieuropei, appoggiata da Ignazio Marino ma anche dal tesoriere dei Ds Ugo Sposetti). «Con Bachelet il Pd fa quel che dice», quella a sostegno del deputato del Pd vicino a Rosy Bindi, che ha l’appoggio anche di una parte dell’area Marino. Ben quattro, invece, le liste a sostegno di Enrico Gasbarra: «A sinistra», in cui è confluita anche l’area Marino schierata nella prima fase con Marco Pacciotti, «Partecipazione democratica», «Uniti per vincere», «Democratici con Gasbarra», che invece rimescolano un po’ tutte le componenti di maggioranza che appoggiano Gasbarra. Un pregio secondo il candidato. Un difetto secondo i suoi avversari: tanta pluralità potrebbe rivoltarsi contro il segretario, una volta eletto.
il Fatto 17.2.12
Le strategie contrapposte
L’amnistia e la partita doppia sull’8 per mille
Nel 1989 la S. Sede percepisce 406 miliardi di lire all’anno. Oggi ne arrivano quasi 2.000
di Marco Politi
Fiducia”, esclama il cardinale Bertone uscendo dall’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. “Il vostro sostegno e le vostre preghiere”, sussurra Mario Monti a mons. Paglia. Il tradizionale vertice Governo-Chiesa, che si tiene ogni anno in occasione dell’anniversario dei Patti Lateranensi, avviene in un clima di relax, sorrisi e sintonia.
“Non può essere il problema dell’Ici a mettere in discussione il rapporto tra Italia e Vaticano”, sostiene il presidente del Senato Renato Schifani. Giura e garantisce l’ambasciatore Francesco Maria Greco: “Non si è parlato di Ici. Si è parlato di tutto ma non di Ici”. Non c’è motivo di non credergli.
Vaticano e Cei, in realtà, erano a conoscenza in anticipo dell’architettura della lettera del premier Monti al vicepresidente della Commissione europea Almunia. Non conoscevano la lettera del testo, ma la “soluzione” era già stata comunicata per canali riservati e soprattutto il presidente del Consiglio si era speso durante la visita in Vaticano il 14 febbraio – parlando con il Segretario di Stato Bertone – a spiegare che il pasticcio dell’esenzione agli immobili ecclesiastici, dove si praticano attività commerciali seppure in maniera “non esclusiva”, andava rapidamente cancellato per evitare \una pesante multa retroattiva ai danni della Chiesa.
La morale di questa storia è duplice. Vaticano e Cei hanno accettato la linea Monti soltanto dinanzi alla forza bruta dell’intervento europeo. La soluzione del premier implica una tacita amnistia per le massicce evasioni del passato. L’esempio della piccola iniziativa della giunta Alemanno fa testo. É bastata un’azione-sondaggio presso alcuni istituti religiosi di Roma e si sono recuperati improvvisamente 9 milioni di euro.
Anche senza avventurarsi nei calcoli di chi prevede circa due miliardi di introiti, si può ragionevolmente prevedere che una cifra tra i quattrocento e i cinquecento milioni possa essere recuperata.
Non è casuale il gioco delle parti della Cei, che sottolinea si tratti di una iniziativa “unilaterale” del governo rispetto alla quale i vescovi si riservano di esaminare il testo del futuro decreto. Perché sulla terminologia precisa, che verrà impiegata, e particolarmente sui metodi di calcolo della superficie no profit e della superficie commerciale di uno stesso immobile ecclesiastico si giocano milioni di euro.
Il premier può certamente vantare a suo merito l’aver portato nell’alveo della pulizia e della correttezza fiscale una materia, che definire grigia era già un eufemismo. “Linea ineccepibile”, ha commentato durante il ricevimento in ambasciata Pier Ferdinando Casini: segno che l’ok di massima delle autorità vaticane era già arrivato. E tuttavia si pone l’interrogativo se e in che maniera i vertici della Cei intendono collaborare fattivamente per fare emergere il sommerso fiscale degli enti ecclesiastici che praticano attività commerciali. Un conto è il fatto che la finanza debba scovare ad uno ad uno gli ex-furbetti, un conto è che dalla Cei partano direttive (e si controlli) che ogni ente presenti uno stato dell’attività veritiero alla prossima dichiarazione dei redditi.
Da questo punto di vista Monti, per allinearsi agli standard europei più avanzati, dovrebbe richiedere (come fa la Germania) che qualunque istituzione – quindi anche le diocesi – percepisca fondi pubblici, è tenuta a presentare il bilancio dei suoi beni mobili e immobili. Questo sarebbe il passo decisivo verso la moralizzazione fiscale delle proprietà ecclesiastiche. Certo, in un primo tempo si alzerebbero lamenti biblici contro chissà quale attentato alla libertà della Chiesa, ma poi verrebbero a cessare. L’esperienza di questi mesi rivela che, appena si accennò a rivedere la legislazione sull’Ici, partirono bordate di indignazione e vittimismo da parte degli ultras clericali. Voci affievolitesi, quando i cardinali Bertone e Bagnasco hanno riconosciuto che il problema esisteva. Per risanare il bilancio italiano si pone peraltro un’altra questione al governo Monti. Il premier ha la facoltà di attivare la commissione italo-vaticana per rivedere il gettito dell’8 per mille dell’Irpef. È previsto dalla riforma del Concordato del 1984. È noto, infatti, che gli introiti della Chiesa sono cresciuti in modo abnorme e sproporzionato alla sua struttura. Nel 1989 la Chiesa percepiva 406 miliardi di lire all’anno con le vecchie norme sulla congrua. Oggi il miliardo di euro, che incassa, equivale a quasi 2000 miliardi di lire. Perciò una revisione è urgente.
Mentre radicali e atei dello Uaar gridavano in strada slogan per l’abolizione del Concordato, nelle sale dell’ambasciata si sono svolte le conversazioni politiche. Monti è venuto quasi con il governo al completo. Prima si è intrattenuto con Bertone e Bagnasco sui temi “bilaterali” tra Italia e Vaticano, poi con l’arrivo del presidente Napolitano si è passati alle questioni internazionali con particolare attenzione alle vicende europee, le crisi nel Vicino Oriente e la difficile situazione dei cristiani mediorientali.
La Stampa 17.2.12
L’hotel dei preti. Lusso, wireless e niente imposta
Il diacono Magni: “Viviamo con le rette Se lo Stato ci chiede soldi, chiudiamo”
di Fabio Poletti
Al pensionato San Filippo Neri di via Mercalli, cento e una camera tutte wireless in una avveniristica torretta semicurva su sei piani, fanno già due conti: «Se la proprietà dell’immobile deve pagare anche l’Ici, ci aumenta l’affitto. Se ci aumenta l’affitto, noi aumentiamo le rette del convitto. Se no, chiudiamo». Il diacono Luigi Magni che dirige questa fondazione in pieno centro a Milano non avrà l’aria del mercante nel tempio, ma gli affari sono affari. E nell’anno della crisi, qualcuno dovrà pure pagare i conti. L’Anci calcola che l’Ici degli immobili ecclesiastici vale più o meno 600 milioni di euro. Mario Staderini dei Radicali, che su questo sta facendo una battaglia da tempo, giura che non è facile spremere gli istituti religiosi nemmeno del dovuto: «Sono difficili i controlli. Dietro ogni istituto c’è un giro di proprietà impossibili da risalire. Bisogna fidarsi dell’autocertificazione delle singole strutture». Solo a Milano, sempre secondo i Radicali, tra chi beneficiava dell’esenzione dell’Ici e chi non ne avrebbe dovuto beneficiare ma evadeva alla grande, ci sarebbero almeno diciotto strutture religiose. Ufficialmente si tratta di pensionati, convitti e luoghi di ricovero per anziani sacerdoti. All’occasione si trasformano in alberghi più o meno di lusso, con tanto di sito ufficiale: «Viaggi spirituali turismo religioso». Le tariffe - come al convitto San Filippo Neri per studenti universitari solo maschi - sono assai concorrenziali. Una singola con doccia va da 5mila e 500 euro a 6 mila e 500 euro per dieci mesi, a seconda se si vogliano pure asciugamani freschi di bucato e candidi tappetini. E alla fine la camera deluxe con la connessione wireless che viaggia a cento mega, fa nemmeno 22 euro al giorno a neanche dieci minuti a piedi da piazza Duomo e da tutte le università.
Sarebbe bello pensare ad una tariffa assai caritatevole. Ma Luigi Magni giura che è solo una banalissima legge di mercato: «La struttura va avanti con cinque dipendenti. La mensa è gestita dai residenti. Noi ci accolliamo l’affitto dell’immobile, le spese per le utenze e l’impresa di pulizia. Stop». Ufficialmente il pensionato è aperto solo agli universitari, ma in certe occasioni si trasforma in albergo. C’è pure qualche camera matrimoniale. Il problema è trovare un buco. Di sicuro non all’inizio di giugno, quando Benedetto XVI sarà a Milano. Sorride Magni, il diacono: «Ah, in quel periodo da noi no di certo, tutte le camere sono occupate dagli studenti sotto esame. Mi sa che ha sbagliato data... ».
Ma non sono momenti tanto da ridere dalle parti della Fondazione Vincenziana, nata negli Anni Cinquanta sotto la benedizione del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster - sette convitti tra Milano, Lissone e Magenta che negli ultimi tre anni sono diventati quattro per la crisi - e adesso finita sotto la scure di Mario Monti. A sentire il diacono Luigi Magni sembra di ascoltare uno di quei commercianti che vivono nel terrore dei controlli del fisco: «C’è la crisi ma noi abbiamo già i nostri problemi economici: viviamo solo grazie alle rette dei nostri ospiti, non abbiamo aiuti dallo Stato. Adesso lo Stato ci chiede altri soldi. Se ce la facciamo, bene. Se no, saremo costretti a chiudere».
Il «paga sempre Pantalone», sembra funzionare anche da queste parti. Tutto dipenderà da Mario Monti. E dalla proprietà della palazzina di via Mercalli data in affitto alla Vincenziana che gestisce il pensionato San Filippo: dalla Fondazione Oratorio San Carlo in società con la Fondazione diffusione della fede, sotto lo stretto controllo della Diocesi di Milano. Ma mettersi d’accordo non deve essere troppo complicato, basta fare giusto due passi visto che la sede della Vincenziana è in piazza Fontana 2, nel cuore del cuore di Milano, lo stesso indirizzo dell’Arcidiocesi eretta all’ombra del Duomo.
l’Unità 17.2.12
Intervista a Gian Carlo Caselli
«Grazie a Mani pulite non abbiamo fatto la fine dell’Argentina»
Il procuratore capo di Torino: allora si fermò l’esplosione della corruzione e dell’indebitamento Oggi c’è di nuovo un male che paghiamo tutti
di Oreste Pivetta
L’allarme della Corte dei Conti: in Italia dilagano corruzione, illegalità e malaffare. Questo è il titolo. Nel ventesimo anniversario di Mani pulite: in Italia si celebra pure la scoperta delle malefatte. Dottor Caselli, ci verrebbe da commentare la notizia, quanto denuncia la Corte dei Conti, in modo molto semplice: già sappiamo tutto del dilagare di corruzione, illegalità e malaffare. Ma le chiediamo: è cambiato qualcosa rispetto a venti anni fa, rispetto a trenta anni fa... sempre la stessa corruzione, sempre la stessa illegalità, sempre lo stesso malaffare?
Gian Carlo Caselli, procuratore capo a Torino, nel tribunale delle storiche sentenze Thyssen e Eternit, ha appena scritto un libro, pubblicato da Melampo, la casa editrice di Nando dalla Chiesa, il cui titolo è già un avvertimento: «Assalto alla giustizia» (lo presenterà lunedì a Milano, alla Feltrinelli di piazza del Duomo). Dottor Caselli, insomma, come rivede questi venti o trent’anni?
«Credo intanto che i colleghi milanesi con l’inchiesta Mani pulite abbiano conquistato un merito grandissimo. Potrei per Torino rivendicare una sorta di primogenitura, perché si cominciò a Torino con l’inchiesta che coinvolse il vicesindaco Enzo Biffi Gentili e il faccendiere Adriano Zampini...». Entrambi socialisti. La giunta cadde, a denunciarli era stato lo stesso sindaco comunista, Diego Novelli. Non possiamo dimenticare, se si parla di tangenti, il presidente della giunta regionale ligure, Alberto Teardo, lui pure socialista, arrestato per corruzione. Siamo nel 1983...
«L’inchiesta milanese andò oltre, non solo evidenziando quel bubbone purulento che infettava l’intera società italiana, ma soprattutto chiarendo che si trattava di qualcosa di sistemico, che pervadeva questa nostra società in ogni sua manifestazione tra politica, economia, amministrazione, qualcosa che non lasciava scampo agli onesti. Questa azione investigativa ha dato risultati importanti ovviamente da un punto di vista processuale, ma ha raggiunto un obiettivo ben più rilevante in senso generale. L’opera della Magistratura, frenando in quel frangente il dilagare della corruzione e quindi della spesa pubblica e quindi dell’indebitamento, ha salvato l’Italia dal baratro, quello stesso baratro in cui sarebbe invece precipitata, negli stessi anni novanta, l’Argentina. L’Argentina, indebitata e corrotta, andò a rotoli. Dal baratro è risalita, ma a costo di pesantissimi sacrifici. L’Italia venne messe in tempo al riparo dal disastro. Se ci riuscimmo fu anche grazie alla tenacia e alla intelligenza di quei magistrati».
È una considerazione importante. Allora non seguimmo l’Argentina. Oggi non siamo la Grecia, ma potremmo specchiarci nella Grecia... malgrado dimensioni e ruoli diversi.
«La denuncia della Corte dei Conti è severissima e i numeri dicono di qualcosa di vergognoso: se l’ammontare che si calcola della corruzione sale a sessanta miliardi di euro, questo significa un costo annuo pro capite di mille euro, una tassa aggiuntiva e occulta, una sottrazione di risorse che potrebbero trovare ben altro impiego. Ciascuno di noi versa di tasca propria ai corrotti mille euro. Meno corruzione e più legalità: in questa equazione sta la possibilità di garantire più servizi ai cittadini, treni che viaggiano puntuali, una scuola che insegna meglio, periferie illuminate, asili per i nostri bambini. La gente dovrebbe essere ben consapevole di quanto si paga e come si paga la corruzione degli altri, a quante cose deve rinunciare. La corruzione è rapina della vita, sottrae futuro ai giovani. Tuttavia, prospera». Torniamo a Mani pulite e alla domanda: che cosa è cambiato? Sono cambiati i partiti. O sono morti. Per il resto?
«Mi viene da citare Pier Camillo Davigo, che disse: stiamo assistendo alla selezione della specie, sono sopravvissuti i predatori più rapaci. Il problema si è incancrenito». Veniamo alle responsabilità. «Penso che una politica gelosa del proprio primato avrebbe marcato la propria sovranità, agendo in piena autonomia, senza temere di mettere in campo strumenti adeguati per sconfiggere la corruzione. Invece pochissimo si è fatto e se mai si è fatto perché i controlli venissero meno e le leggi venissero indebolite, mentre si tentava in vario modo di delegittimare i magistrati».
Golpisti, malati di mente, eversivi, cancro da estirpare. Ricordiamo i manifesti elettorali di qualche mese fa soltanto: “Fuori le Br dalle procure”. Questi erano insulti. Poi si dovrebbero citare le riforme “epocali” della giustizia: il processo prima “breve” e poi “lungo”, la “prescrizione breve”, la separazione delle carriere. Per ridurre l’indipendenza della magistratura, consegnare al potere politico il controllo delle indagini. Nel suo libro lei scrive di “sabotaggio istituzionale”. Che fare? «Basterebbe intanto ratificare la convenzione di Strasburgo». Hanno ratificato la Bulgaria, l’Albania, la Macedonia, la Georgia, il Montenegro, la Francia, la Spagna. L’Italia no. Neppure la Germania peraltro. Belisario, capogruppo dell’Idv, ha chiesto ieri di portare in aula la ratifica.
«Sarebbe un primo passo. È un documento che risale al 1999. In tredici anni non s’è trovato il modo di accoglierlo nella nostra legislazione. Eppure lì sono scritte regole fondamentali, si danno indicazioni chiare per una lotta più incisiva alla corruzione. Già scritte. Già pronte».
Siamo un Paese che forse nella corruzione si è adagiato, rassegnato o complice...
«Penso a don Ciotti che ha raccolto un milione e duecentomila firme a sostegno di una proposta che contiene anche i suggerimenti per un’azione legislativa. Tra l’altro si propone la confisca dei beni dei corrotti, non solo di quelli dei mafiosi. Un milione e duecentomila firme. Non mi pare che qualcuno abbia raccolto la sfida».
La Stampa 17.2.12
Intervista
“La corruzione c’era e rispetto ad allora non è cambiato nulla”
L’ex pm Colombo: persa un’occasione per sradicare il sistema
di Paolo Colonnello
Tra tutti i magistrati «che fecero l'impresa», l'ex giudice Gherardo Colombo è forse quello che più di altri ha sentito sulla propria pelle l'insostenibile leggerezza dell'effetto di Mani Pulite sulla società. L'esperienza è ben raccontata nel libro appena uscito «Farla franca» (Longanesi). Dopo un ultimo incarico come giudice di Cassazione («dove si devono affrontare 40 cause per volta»), Colombo ha riposto in un armadio la toga usata per 33 anni. È diventato presidente della Garzanti e si dedica a un lavoro quotidiano nelle scuole o nelle parrocchie per parlare di regole: «Ho impegni fino a metà del 2013 e richieste per quasi 1.200 incontri». Un lavoro fatto di treni e aerei da cui scendere e salire per raggiungere anche luoghi sperduti dove spiegare la Costituzione e confrontarsi con la fame di valori e idee che travalica le perenni emergenze quotidiane del Paese.
Anche per Colombo dunque, Mani Pulite è stata un'occasione persa? Una rivoluzione mancata?
«Non si può paragonare un'indagine penale a una rivoluzione. La funzione di un procedimento penale è stabilire se un reato è stato commesso e chi lo ha commesso. Certo aver fatto emergere un sistema di corruzione così articolato poteva rappresentare lo spunto perché in altre sedi si cercasse di sradicare questo sistema. Invece non è stato fatto per niente. Tanto che oggi ci ritroviamo con gli stessi problemi. In questo senso Mani Pulite è stata un'occasione mancata».
Per quale motivo?
«Perché credo che quando non veniva approvata, la corruzione era comunque tollerata, salvo eccezioni rare. È una questione di atteggiamento culturale che non riguarda solo la corruzione ma le regole più in generale, da quelle più semplici e di minor impatto, come il divieto di sosta, fino a quelle più rilevanti. È un atteggiamento generale secondo il quale le regole sono una specie variabile che quando infastidiscono si possono tranquillamente trasgredire. Da noi il termine responsabilità esprime qualcosa di completamente inesistente».
Il famoso Dna degli italiani?
«Non è una questione genetica ma di scarsa maturità dipendente da una serie di elementi, tra i quali il fatto di essere una nazione ancora giovane, dominata per lunghissimi periodi da stranieri, che non ha sentito il vento della riforma luterana ed è propensa a far confusione sul concetto di perdono teso sempre a ciò che si farà, non a ciò che si è fatto».
Ripartiamo da una sua vecchia intervista che fece scalpore: la società del ricatto.
«Il ragionamento sulle mancate scoperte nel campo della corruzione è semplice: finché non emerge tutto, chi ha commesso insieme ad altri fatti illeciti ha la possibilità di ricattare colui di cui sa. Allora non si è più liberi né autonomi. Si è condizionati».
E secondo lei «a che punto è la notte»?
«Difficile da dire. Non sempre è necessario il ricatto, talvolta basta la semplice connivenza. Il mio pensiero era questo: se, come succede, non si cerca di eliminare la corruzione, è perché non lo si può fare, perché non si è liberi di farlo. Oggi direi che non si fa perché non lo si vuole fare. Anche se non ho più gli strumenti che avevo da magistrato per portare le prove, oggi la mia impressione e che la corruzione sia ancora ampiamente diffusa, mi pare che non sia cambiato molto rispetto ad allora».
È la nostra classe politica ad essere malata?
«Non è questione di malattia ma di cultura, di modo di pensare. E le faccio presente che i politici sono eletti dai cittadini, non vengono da Marte».
Giuliano Ferrara ha sempre sostenuto che per fare politica devi essere ricattabile, ovvero affidabile per il «sistema».
«Io credo che in un sistema sociale come quello previsto dalla nostra Costituzione sia necessario esattamente il contrario. A prescindere da Ferrara, noi non siamo ancora arrivati a comprendere effettivamente il concetto di democrazia. L'affermazione costituzionale secondo la quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale è il presupposto essenziale perché si possa pensare che il governo debba appartenere al popolo. Voglio dire che il presupposto della democrazia è una valutazione positiva dell'essere umano e delle sue capacità: la democrazia può essere esercitata soltanto da esseri liberi e responsabili, non da persone ricattabili».
Per essersi occupato di Mani Pulite lei ha subito 5 procedimenti disciplinari. Berlusconi vi ha definiti «antropologicamente diversi». Cosa hanno fatto i magistrati di questo Paese per meritarsi tanta ostilità?
«La mia interpretazione, che è evidentemente un'opinione, è che esistesse un modo di sentire molto diffuso secondo il quale non si può andare a guardare in certi cassetti».
Lei oggi afferma di non credere più all' efficacia del carcere come funzione rieducativa.
«È così, oggi sono convintissimo che il carcere oltre a non essere in sintonia con il riconoscimento della dignità umana è anche assolutamente inadeguato a svolgere funzioni di tutela della sicurezza. Non ho mai pensato fosse una cosa bella mettere in prigione le persone. Però quando ho cominciato la mia carriera di magistrato pensavo fosse necessario e indispensabile. Questa idea l'ho, progressivamente, radicalmente cambiata».
Ma se tornasse a fare il pm, come si comporterebbe?
«Sarà un caso che non faccio più il magistrato? »
il Fatto 17.2.12
Vent’anni di stupidaggini su Mani Pulite
Perché molti partiti e intellettuali non accettano la giustizia
di Massimo Fini
Nel 2000 Marco Travaglio pubblicò il “Manuale del perfetto impunito. Come delinquere e vivere felici” (ed. Garzanti). Nella prefazione, di cui pubblichiamo ampi stralci, Massimo Fini metteva alla berlina ”le infinite truffe linguistiche, i sofismi, i paralogismi, le invenzioni, le falsità, le menzogne con cui, a partire dall’arresto di Mario Chiesa, una variopinta compagnia di politici, di intellettuali, di giornalisti, di giuristi, qualche volta di sinistra, molto più spesso di destra, ha cercato di delegittimare le inchieste della magistratura”. Parole che sembrano scritte oggi.
Naturalmente la fairy band non ce l’ha, per carità, con tutta la magistratura, ma solo con “certe procure”, peccato che siano regolarmente quelle che indagano su lorsignori, sui colletti bianchi, sui “ladri in guanti gialli”, sui tangentisti, sui corrotti, insomma sugli esponenti della classe politica e dirigente. Si levano alti elogi alle “procure che lavorano sodo e in silenzio”, ma basta che una di queste si svegli dal letargo e metta sotto inchiesta un cardinale che subito viene precipitata nel girone delle “toghe rosse” (...).
SI COSTRUISCE la leggenda di una “rivoluzione giudiziaria” che non è mai esistita – non ci può essere alcuna rivoluzione quando i giudici applicano la legge, semmai si tratta di un atto di conservazione – per poter poi dire che i magistrati esercitano una “indebita supplenza” della politica. Si sono inventate di sana pianta categorie giuridiche mai prese in considerazione da alcun Codice Penale, come l’“accanimento giudiziario” e la “modica quantità” di falsi in bilancio. A corto di argomenti, si è gridatocheleinchiestediManiPulite danneggiavano l’economia italiana e l’immagine del nostro Paese nel mondo. (...) Si è arrivati a ipotizzare che “i comportamenti previsti dalla legge come reati cessano di esserlo se la coscienza morale dominante non li considera tali” (Tremonti). È la logica con cui un tempo, in Sicilia, si legittimava il “delitto d’onore”. Seguendola si dovrebbero abolire oggi tutti i reati fiscali. Ma su questa strada ci si è spinti anche oltre: la punibilità o meno di un cittadino dipenderebbe dal consenso che ha o non ha presso l’opinione pubblica (Angelo Panebianco, fra gli altri).
I REATI non sono più tali a seconda della tipologia dei fatti, ma dei loro autori. Resta da chiarire come debba essere quantificato questo consenso: ci vogliono gli 8 milioni di voti di Berlusconi o ne bastano 4, o 2, o uno? Il bello è che, come nota Travaglio, queste tesi inaudite vengono sostenute proprio da coloro che più strillano contro la “giustizia di piazza” e il “giacobinismo”, come il molto commendevole prof. Panebianco. I magistrati hanno sempre torto. Se incarcerano (i colletti bianchi) perché incarcerano, se scarcerano (i poveri cristi) perché scarcerano. Se il gip manda avanti l’inchiesta, è “appiattito sul pm”; se non lo fa, il pm è un mascalzone. Se una Corte d’appello riforma la sentenza di un tribunale non significa che sta funzionando il sistema delle garanzie, ma che i giudici di primo grado sono autori di un “complotto” (altra parola magica e taumaturgica della band). Se la magistratura colpisce un uomo politico quando è in declino, è maramalda; se lo inquisisce quando è sulla cresta dell’onda, fa “giustizia politica” (...).
Si è sostenuto, soprattutto da Gianni Baget Bozzo, ma non solo, che in Italia ci sarebbe stata una “guerra civile” e che bisogna quindi arrivare alla “pacificazione nazionale”. Cioè gli italiani che hanno rispettato le leggi dovrebbero “pacificarsi” con quelli che le hanno violate, con i ladri, i tangentisti, i taglieggiatori, i rackettari, i concussori, i corrotti, i corruttori, con coloro che han lucrato sui cimiteri, sui malati, sugli aiuti al terzo mondo, pagato i giudici per aggiustare sentenze, truffato orfanelle.
Si è affermato che Mani Pulite ha colpito “solo alcuni e non altri” senza considerare che qualsiasi topo d’appartamento, preso con le mani nel sacco dal poliziotto, può dire la stessa cosa: “Perché te la prendi proprio con me, quando in questo momento altri cento stanno facendo quel che faccio io? ”. Ma la truffa linguistica e logica che fa da suggello a tutte le altre, e le completa, è la formula “bisogna uscire da Tangentopoli” (con un’amnistia o un indulto). Perché non significa niente o l’esatto contrario di ciò che vuol fare intendere. Forse che, amnistiando gli stupratori, usciamo da Stupropoli? I mafiosi da Mafiopoli? I ladri da Ladropoli? (...)
Per decenni la classe politica e dirigente italiana si è completamente disinteressata della giustizia. Finché erano i cittadini qualunque a essere stritolati da una macchina giudiziaria farraginosa e bizantina – la cui inefficienza è da imputare molto più al legislatore, cioè a quella stessa classe politica, che all’insipienza dei magistrati – tutto andava bene, anche la carcerazione preventiva di 4, 8, 10 anni.
ANZI erano proprio molti di coloro che oggi, a destra, si sono scoperti “garantisti” a sostenere la legittimità e la necessità di un simile sconcio (penso, fra i tanti altri, al caso di Pietro Valpreda, l’anarchico accusato della strage di Piazza Fontana, tenuto per quattro anni in galera senza processo fra il plauso dei giornali della borghesia imprenditora). Ma è bastato che alcuni indagati “eccellenti” patissero custodie cautelari di un paio di settimane perché si gridasse allo scandalo, alle “manette facili” e si scoprisse l’“emergenza giustizia”. È nato quindi un “garantismo” caciarone, confusionario, peloso e strumentale, che tutto ha a cuore tranneilbuonfunzionamentodella giustizia. Se l’avesse, si sarebbe focalizzato sul problema dei problemi, l’abnorme lunghezza dei processi, da cui dipendono quasi tutti gli altri: dalla durata, altrettanto abnorme, delle carcerazioni preventive all’impossibilità di tutelare, col segreto istruttorio, l’onorabilità delle persone coinvolte a qualsiasi titolo in un procedimento penale. Se, come avviene in Gran Bretagna, le istruttorie, quando c’è un imputato detenuto, durano mediamente dai 28 ai 32 giorni (a seconda della diversa composizione del Giurì, e quindi della diversa gravità del reato), anche la custodia cautelare non può durare di più. (...)
FARSI un mese di carcere da innocenti è un brutto incidente, ma superabile, soprattutto se il processo segue subito dopo e al cittadino viene restituita in tempi ragionevoli la propria onorabilità sociale. Farsi carcerazioni preventive di mesi, anni, lustri è invece la distruzione di una vita (...). La durata dei processi è quindi il nodo cruciale. Ma la nostra classe dirigente ha preferito esercitarsi in estenuanti dibattiti su questioni marginali, se non addirittura risibili (separazione delle carriere, distinzione delle funzioni, diversa composizione del Csm, distinzione fra gip e gup, “terzietà” del giudice), oppure si è ingegnata a inserire nell’ordinamento altre “garanzie” che rallentano ulteriormente un processo già appesantito da un’infinità di ricorsi, controlli, verifiche, controverifiche, nullità, invalidità, ricusazioni, eccezioni, competenze e incompetenze per materia, territorio e funzione, il tutto spalmato – caso unico al mondo – su tre gradi di giudizio. Si tratta di un “garantismo” che, con l’aria di difendere i diritti dell’indagato, li pregiudica gravemente. Perché l’interesse primario dell’innocente è arrivare a sentenza il più presto possibile, quello del colpevole è non arrivarci mai.
NON siamo quindi così ingenui e sprovveduti da non capire che lo scopo della band scopertasi improvvisamente “garantista” è tutt’altro: salvare i ladri di regime dalle conseguenze penali delle loro malefatte, passate, presenti e future. Per questo è in atto da anni, a opera di una buona parte della classe politica e dirigente, oltre a un poderoso apparato informativo alla cui testa ci sono le televisioni e i giornali di uno dei principali indagati, l’on. Berlusconi, una campagna capillare, costante, urlata e violenta di de-legittimazione della magistratura. (...)
Questa campagna forsennata e dissennata avrà, anzi ha già, conseguenze devastanti sul nostro vivere sociale. Se infatti la classe dirigente è la prima a dar mostra di non credere alle leggi, che sono le sue leggi, alle istituzioni, che sono le sue istituzioni, alla magistratura, che è la sua magistratura, con quale autorità e con quale efficacia può pretendere il rispetto dagli emarginati, dagli immigrati, dagli squatter, dai poveracci, dagli abitanti delle periferie, insomma da tutti coloro che dal dissolvimento di questo sistema hanno da perdere – per dirla con Marx – solo le loro catene? Che concezione può farsi della magistratura, delle leggi che è chiamata ad applicare e, in definitiva, dello stesso Stato democratico e liberale, il cittadino comune quando sente che un ex presidente del Consiglio, possibile futuro premier, leader del più consistente partito del Paese, liberale per giunta, come l’onorevole Silvio Berlusconi, convocato dal Tribunale di Milano di domenica (negli altri giorni infatti, per non presentarsi, c’è il pretesto dell’attività parlamentare), risponde beffardamente e impunemente: “Ioladomenicavadoamessa”? Se l’on. Berlusconi mostra un tale disprezzo per un sistema da cui ha avuto tutto, che opinione deve averne chi da questo sistema non ha avuto niente?
LA CLASSE dirigente di questo paese è seduta su una polveriera con un cerino acceso. Ma non se ne rende conto. Adesso, allarmata dalla cosiddetta microcriminalità, propone – a destra come a sinistra – la “tolleranza zero”. Vale a dire il pugno di ferro di polizia e magistratura per i reati da strada e ogni possibile garanzia invece per quelli finanziari e di corruzione. Ma questa è la vecchia, cara, schifosa giustizia di classe, dato che a commettere i reati da strada sono i poveracci, mentre quelli finanziari e di corruzione sono tipici della classe dirigente. Per giustificare questo razzismo giuridico si dice che i reati da strada creano maggior “allarme sociale”. Ma un tangentista che lucra miliardi non è socialmente meno pericoloso di un topo d’appartamento o di uno scippatore, è solo più silenzioso e occulto. Inoltre, in una società dominata dall’economia, i reati finanziari non perdono gravità, ma l’acquistano. (...) Violando la legge si può lucrare una ricchezza indebita, costituirsi una posizione di potere, anche politico, e inquinare la vita democratica del Paese. (...)
NESSUNA classe dirigente degna di questo nome ha mai de-legittimato la magistratura. Non lo fecero nemmeno quelli della Prima Repubblica. Bisognava aspettare i neofiti della Seconda. Qualsiasi classe dirigente, per quanto corrotta, si rende conto della pericolosità di una simile operazione. La magistratura è come l’arbitro di una partita di calcio. Dell’arbitro si può dire che sbaglia, che non ci vede, che è mediocre, ma se alcuni giocatori cominciano a sostenere che l’arbitro è stato comprato e negano la legittimità dei suoi fischi quando sono contrari, peraltro chiedendone il rispetto quando sono a favore, la partita finisce in una colossale zuffa, perché, prima o poi, anche tutti gli altri giocatori seguiranno il loro esempio. Fuor di metafora: si rompe il patto sociale. E chi detiene il potere ha tutto da perdere da un’eventualità di questo genere. Ecco che cosa rischiano lorsignori a furia di baloccarsi, pur di salvare qualche potente tycoon preso con le mani nella marmellata, con gli “accanimenti giudiziari”, i “complotti”, le “toghe rosse” e le altre sciocchezze in malafede che Marco Travaglio cataloga diligentemente nel suo Manuale del perfetto impunito.
Corriere della Sera 17.2.12
«La corruzione sta dilagando»
Allarme della Corte dei Conti 20 anni dopo Mani Pulite
«Illegalità, corruzione e malaffare» sono «ancora notevolmente presenti»: allarme della Corte dei Conti a vent'anni da Mani Pulite. La corruzione «dilagante» costa 60 miliardi all'anno. Quasi due condanne al giorno per i funzionari pubblici.
di Lorenzo Salvia
«Corruzione e malaffare costano 60 miliardi l'anno»
Il presidente della Corte dei Conti: record di evasione dell'Iva
ROMA — Venti anni dopo Mani Pulite non è cambiato nulla. «Illegalità, corruzione e malaffare sono fenomeni ancora notevolmente presenti nel Paese», dice il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino, inaugurando l'anno giudiziario. Anzi «le dimensioni di questi fenomeni sono di gran lunga superiori a quelle che vengono faticosamente alla luce». In prima fila c'è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, tra le sue mani la lunga relazione tecnica con i numeri di questa eterna Tangentopoli. Trecento pagine e una lunga serie di segni più.
Cresce il numero delle sentenze di condanna per i funzionari pubblici: l'anno scorso ne sono arrivate quasi due al giorno, in tutto 566, cento in più rispetto a due anni prima. Cresce del 60% rispetto all'anno precedente il danno erariale, cioè i soldi sfilati dalle tasche di tutti noi: 354 milioni di euro, la stessa somma che il governo prevedeva di incassare ogni anno con il pedaggio sulle autostrade gratuite, come la Salerno-Reggio Calabria. Ma sono solo granelli di sabbia. Le stime della Funzione pubblica dicono che la corruzione ci ruba 60 miliardi di euro l'anno ma nel 2011 sono arrivate condanne «solo» per 75 milioni. Un male non solo antico ma anche eterno? «Bisognerebbe fare come per la mafia — dice Giampaolino — e cioè costruire un vero e proprio momento di lotta». Anche perché le strade del malaffare sono infinite e sempre più raffinate. Ci sono ancora i ladri tradizionali, come i due dipendenti dell'Università di Napoli che giorno dopo giorno si sono infilati in tasca 10 mila euro in marche da bollo. Ma più spesso ci si muove nella zona grigia delle consulenze, «assegnate per obiettivi personalistici» come dice il procuratore generale aggiunto Maria Teresa Arganelli. Solo due esempi. Un funzionario della Regione Liguria che aveva appaltato all'esterno, per 40 mila euro, uno studio sugli «assetti organizzativi» degli uffici. Per poi ricevere dal consulente una «relazione sostanzialmente riproduttiva della precedente». Oppure il Parco del Pollino, in Basilicata, che aveva commissionato uno spot da 100 mila euro, salvo poi accorgersi di non avere soldi per farlo passare in tv.
Non è un caso se poi lo stesso disprezzo delle regole si trasferisce verso il basso, contagiando il cittadino comune. Il presidente Giampaolino ricorda che, considerando solo l'Iva, in Italia l'evasione è pari «al 36%, il valore di gran lunga il più elevato tra i grandi Paesi europei, con l'eccezione della Spagna». E le cose non vanno meglio quando si cerca di recuperare i soldi nascosti al Fisco. Proprio ieri sono stati prorogati i termini della sovratassa per chi ha usato lo scudo fiscale riportando in Italia i capitali che aveva all'estero. Ma a dieci anni dal condono tombale del 2002 — ricorda la Corte dei Conti — ci sono da recuperare ancora 4,2 miliardi di euro promessi da chi voleva mettersi in regola. Dopo le prime rate hanno smesso di pagare. Hanno venduto tutto, tecnicamente sono incapienti, non devono nemmeno un euro di tasse. In confronto Mario Chiesa era davvero solo un mariuolo.
La Stampa 17.2.12
L’imposta indiretta non pagata
Iva evasa, così si truffa lo Stato
Niente scontrini, fatture false, riciclo di denaro: i modi per eludere il fisco
di Roberto Giovannini
La diagnosi della Corte dei Conti è impietosa: in Italia l’evasione fiscale sull' Iva supera il 36 per cento, ed è uno dei valori più elevati tra i grandi paesi europei. Solo la Spagna, con il 39%, ci supera. Una fotografia impietosa, drammatica di una realtà che conosciamo direttamente fin troppo bene nel momento in cui non ci viene consegnata fattura o scontrino. Che viene confermata quando i cosiddetti «blitz» delle Fiamme Gialle moltiplicano per quattro o per dieci i ricavi dichiarati dai commercianti. O quando le cronache ci svelano le mille e mille truffe escogitate (e solo di rado svelate) per creare falsi crediti Iva per cifre milionarie. Imbrogli e «cattive abitudini» che non solo fanno mancare alle casse dello Stato decine di miliardi ogni anno, ma che penalizzano tutti i cittadini onesti, costretti a sopportare una pressione fiscale reale pesantissima che non avrebbe ragion d’essere se tutti pagassero il giusto. Ieri il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino ha ricordato che «sulla base delle analisi e degli studi svolti vanno ritenute attendibili le stime che quantificano in almeno 100-120 miliardi di euro le imposte evase annualmente».
L’azione di contrasto all’evasione della principale delle imposte indirette forse si è fatta più massiccia in questi mesi, ma non si può negare che i risultati siano comunque troppo modesti rispetto alle necessità. A leggere i risultati del lavoro della Guardia di Finanza nel 2011, l’anno da poco concluso ha visto l’individuazione di ben 8 miliardi di Iva evasa. L’evasione più consistente e sofisticata, spiegano alle Fiamme Gialle, è quella che scaturisce «dalle triangolazioni fra società collocate nei paradisi fiscali, dalle intestazioni fittizie di patrimoni, dalle grosse operazioni elusive». Prova ne sia i 2 miliardi di Iva evasa con le cosiddette «frodi carosello», come nel caso della vicenda TelecomFastweb. Oppure la storia scoperta giusto ieri: una società fiorentina di moda che ha evaso ben 686 milioni di euro truccando la produzione di borse e capi di abbigliamento in Cina, riciclando i profitti in strutture alberghiere e ristoranti negli Stati Uniti. Un’operazione che coinvolgeva ben undici società controllate, 5 ad Hong Kong e 6 alle Isole Vergini.
La realtà è quella di un’imposta che è afflitta da un’evasione di circa 40 miliardi di euro, secondo alcune stime: 26,2 miliardi legati a una sottofatturazione delle vendite (in pratica la mancata fatturazione ed effettuazione degli scontrini fiscali), 7 miliardi da costi non sostenuti (ovvero da false compensazioni fiscali solo cartacee) e 8 miliardi dalle «frodi carosello». Questa e altre stime le fornisce Roberto Convenevole, che per dieci anni è stato capo ufficio studi dell’Agenzia delle Entrate, e che nel 2009 ha scritto un libro proprio sulla regina delle imposte dirette, «La materia oscura dell’Iva».
Un testo che - tra l’altro - evidenzia un paradosso: in Francia, il gettito dell’Iva vale il doppio di quello dell’Irpef, l’imposta sui redditi delle persone fisiche. In Italia accade esattamente l’opposto: il gettito Iva è la metà del gettito Irpef. «I blitz di questo periodo - spiega Convenevole - evidenziano chiaramente che soprattutto nel commercio e nei servizi c’è una massiccia sottofatturazione». Il secondo problema riguarda l’Iva intracomunitaria: in Europa le esportazioni non sono gravate di Iva, e l’imposta invece va riscossa al momento dell’importazione. In questo passaggio si generano appunto le «frodi carosello»: nulla di più facile che mettere in campo finte esportazioni, finte importazioni e finte lavorazioni di merci che servono solo a generare inesistenti diritti a crediti Iva, ovvero soldi che lo Stato deve rimborsare ai contribuenti sotto forma di compensazioni d’imposta. Nel 2007 questa «Iva negativa» da compensare valeva quasi 46 miliardi di euro; una bella fetta di questi crediti è del tutto virtuale e truffaldina.
Ma cosa fanno, in Francia, dove l’Iva è l’architrave del sistema fiscale, che noi italiani non facciamo? «Semplicemente è la sconsolata osservazione di Convenevole - sono più bravi di noi a gestire questa imposta. Hanno regole e soprattutto strumenti più moderni ed efficaci». E cosa dovremmo fare per evitare o limitare l’evasione dell’Iva? Un primo passo, spiega l’esperto, è quello di anticipare il più possibile rispetto alla chiusura dell’anno fiscale il momento delle dichiarazioni Iva dei contribuenti: più si ritarda il momento della dichiarazione, più tempo c’è a disposizione per fare trucchi e imbrogli. Il secondo passo dovrebbe essere il ripristino della dichiarazione sintetica Iva (abolita nel 1977), ovvero un documento da allegare al modulo F24 con cui i contribuenti girano l’Iva incassata all’Erario. Sulla dichiarazione sintetica andrebbe scritto il volume d’affari e le imposte connesse: sarebbe un grande aiuto per chi deve svolgere i controlli, oggi costretto ad entrare in azione con molto ritardo. Infine, visto che il fattore chiave per combattere l’evasione Iva è il taglio dei tempi - come detto, più tempo trascorre, più è facile imbrogliare - così come avviene in molti altri paesi sarebbe utile collegare telematicamente in tempo reale i registratori di cassa con l’anagrafe tributaria.
il Fatto 17.2.12
MicroMega speciale Tangentopoli
A vent’anni da Mani Pulite, Micromega lancia in edicola una speciale iniziativa editoriale. Dal 14 febbraio, nella serie “I Classici”, la rivista di politica e cultura diretta da Paolo Flores D’Arcais ripubblica lo storico numero del bimestrale dal titolo “Resistere, resistere, resistere!”,uscito nel gennaio 2002, nel decennale dell’inchiesta. All’interno i dialoghi dei protagonisti del pool e di altri importanti personalità della cultura italiana chiamate a tracciare un bilancio sulla “rivoluzione della legalità” iniziata con Mani Pulite e poi, forse, arenatasi. Tra le voci quella di Antonio Tabucchi a colloquio con Francesco Saverio Borrelli, di Carlo Lucarelli e Antonio Di Pietro, di Giuliano Ferrara e Piercamillo Davigo e le analisi di Paolo Flores d’Arcais, Guido Rossi e Marco Travaglio a cui si aggiunge una cronologia di Paolo Biondani. Oggi al teatro “Puccini” di Milano, (corso Buenos Aires 33), Di Pietro, Orlando, Tabacci, Barbacetto, Travaglio terranno l’incontro “Vent’anni da Mani Pulite e rubano ancora”.
l’Unità 17.2.12
La sorpresa dei fondi all’editoria: più aiuti ai grandi gruppi
Alla continua polemica contro i giornali di idee si è aggiunto ieri De Benedetti
Ma vanno agli editori più potenti i maggiori sconti statali, dalla carta allo stato di crisi
La replica Fnsi: «È un dovere impedire la scomparsa di voci dell’informazione»
di Natalia Lombardi
Per favore, togliamo i finanziamenti all’editoria laddove l’editoria non sta in piedi da sola. Non si tengono in piedi i morti, perché c’è puzza di cadavere»: a dire queste parole è Carlo De Benedetti, presidente del gruppo editoriale L’Espresso, a margine della lectio magistralis che ha tenuto ieri alla facoltà di Economia dell’Università di Palermo.
A capo di uno dei più consistenti gruppi che edita La Repubblica, L’Espresso, molti quotidiani locali, Radio Capital, DeeJay e M2o e relative tv, De Benedetti in modo indistinto prende spunto dalle truffe (denunciate dalla Federazione della Stampa e da Mediacoop) sul finanziamento pubblico per dire «guardiamo ai giornali di oggi e agli abusi che vengono fatti» e che continuano. «Bisognerebbe togliere tutti i finanziamenti pubblici che poi finiscono normalmente in violazione delle leggi, in furti e abusi», ha proseguito, per «lasciare campo libero all'editoria sana», mentre «i giornali di partito se li paghino i partiti. Se hanno già i rimborsi elettorali non si capisce perché noi contribuenti dobbiamo pagare i giornali di partiti. Se li paghino loro». Appare contraddittorio, però, giudicare «un errore, una smargiassata» l’uscita di Celentano: «L’idea di chiudere alcuni giornali è una cosa di cattivo gusto, contro la libertà di stampa che lui invoca».
Il sostegno pubblico. Peccato che proprio contro questi abusi le testate non commericali stiano insistendo invano da anni perché i governi rivedano i criteri di assegnazione dei fondi e li riservi solo ai «giornali veri». Promessa fatta anche dal premier Monti, ma nel frattempo molti giornali chiudono davvero. Il finanziamento pubblico alla stampa nasce come garanzia del pluralismo, nel rispetto costituzionale della libertà d’informazione. Ma nell’ondata «anti casta» si può perdere di vista una differenza sostanziale: i grandi quotidiani e periodici hanno risorse dalla pubblicità, preclusa dagli investitori ai giornali di opinione.
Ma anche i grandi gruppi editoriali godono di sostegni pubblici, come tutti: nel 2011 gli sconti sulle tasse per l’acquisto della carta sono stati di 30 milioni di euro in credito d’imposta; ammonta dai 30 ai 40 milioni il fondo per le agevolazioni del 50% sulle tariffe telefoniche. Lo «sconto» pubblico più consistente, e che incide molto su chi vende più copie (i grandi gruppi), è l’Iva al 4% sul venduto in edicola, ma applicato solo sul 20% del totale, mentre il restante 80% è esente, e anche sugli abbonamenti incassati. Su questi ultimi sono state tagliate le agevolazioni, colpendo Il Sole24ore e Avvenire.
C’è poi il capitolo degli «stati di crisi» che hanno devastato le redazioni, anche di giornali che non avevano bilanci in rosso sangue: in totale dal 2009 sono stati prepensionati 597 giornalisti (su circa 18.500) anche grazie al fondo di 20 milioni di euro della Presidenza del Consiglio. Al gruppo L’Espresso, per esempio, è stato riconosciuto lo stato di crisi dal dicembre 2009 al novembre 2010 e ha usufruito di 92 prepensionamenti: 34 al Sole24ore, dall’aprile 2010 al marzo 2012; il gruppo Rcs quotidiani, che edita Il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport, dal novembre 2009 al novembre 2011 ha mandato in pensione anticipata 87 giornalisti, per i periodici altri 34 e, in un nuovo stato di crisi dovrebbero essere 31. Il gruppo Mondadori (periodici) dal dicembre 2009 al novembre 2011 ha utilizzato il fondo per 52 prepensionamenti. E così tante altre testate, da La Stampa (34 giornalisti) al Messaggero (38, più 15 al Mattino di Napoli e 14 al Gazzettino di Padova, per parlare del gruppo Caltagirone).
In una nota la Fnsi risponde che «il finanziamento pubblico all'editoria è necessario per tutte quelle realtà dell'informazione non meramente commerciali, di idee o di voci minoritarie, di promozioni di forme di autoimprenditorialità cooperativa che non possono contare sulle risorse di capitani di impresa come l'ing. De Benedetti». E se «i morti (i giornali chiusi) non si possono certo tenere in vita», la mano pubblica ha il dovere «di impedire la scomparsa di voci dell’informazione o, peggio, provocare suicidi assistiti». Il tutto all’insegna della «trasparenza» per escludere chi «ricorre ad espedienti, a violazioni o abusi», regole valide per tutti, precisa la Fnsi.
il Fatto 17.2.12
De Benedetti: “Togliamo i finanziamenti ai giornali morti”
Per cortesia togliamo il finanziamento all'editoria che non sta in piedi da sola. In un momento di difficoltà del Paese non si tengono in piedi i morti, poi c’è puzza di cadavere”. A parlare così è il presidente del gruppo editoriale L'Espresso, Carlo de Benedetti a margine della lectio magistralis: “Essere imprenditori” oggi nella facoltà di Economia a Palermo rispondendo a chi gli chiedeva il suo parere sull’opportunità di mantenere i contributi statali all'editoria. Secondo De Benedetti, “si dovrebbero togliere tutti i finanziamenti pubblici ai giornali che poi finiscono in violazioni e abusi. Ritengo ha concluso che bisogna lasciare campo libero all'editoria sana, i partiti se la paghino loro, hanno già il rimborso elettorale. Non si capisce perchè dobbiamo pagare ancora per i giornali di partito".
il Riformista 17.2.12
De Benedetti, editore sano da 4 euro a pezzo
di Marcello Del Bosco
Durante una pausa del suo ventennale risiko per scalare la leadership di un partito, l’ing. De Benedetti ha trovato tempo e voglia di scagliarsi contro i piccoli giornali auspicando una “soluzione finale” che faccia tabula rasa. «Per favore, togliamo i finanziamenti all’editoria laddove l’editoria non sta in piedi da sola. Non si tengono in piedi i morti, perché c’è puzza di cadavere» ha tuonato l’ingegnere, candidandosi al ruolo di becchino-capo. Tanto più che dai quotidiani defunti si può ereditare qualche lettore vivente.
Ora, che a De Benedetti tutti i discorsi sul pluralismo, sulla libertà di informazione, sull’esigenza di un paese civile di avere il massimo di voci libere e non condizionate dai poteri forti, facciano un baffo non è proprio una sorpresa. Avete banche? Conti in Svizzera? Siete soci di multinazionali? No? E allora state zitti e non rompete gli zebedei. Più interessante è capire cosa intenda l’ingegnere per “editoria sana”, lui che con la ristrutturazione di Repubblica (prepensionamenti e contratti di solidarietà a iosa) i suoi contributi pubblici li ha incassati da un pezzo, e che continua a ricevere sgravi fiscali e altri contributi. Ancor meglio.
Qualche settimana fa a un giornalista della Gazzetta di Modena, Giovanni Tizian, è stata assegnata una scorta per le minacce ricevute dopo le sue denunce. Sotto silenzio è passata però quella parte della storia in cui il cronista nel pudico imbarazzo sindacale raccontava di essere pagato quattro euro a pezzo dal giornale (di proprietà del gruppo editoriale che fa capo a De Benedetti). Mistero svelato. Si potesse tornare allo scudiscio, alle catene e al manganello, l’editoria sarebbe florida e opulenta.
Un ex stretto collaboratore dell’ingegnere, per inquadrare l’uomo, raccontava l’aneddoto del giovane e rampante imprenditore che licenzia l’anziano tutore da un umile impiego di contabile. E di fronte ai lamenti del vecchio (che ricorda di avergli salvato la vita, di averlo fatto studiare ed arricchire e di essere il padrino dei suoi figli) il giovanotto sbotta: «Già, ma cosa hai fatto per me negli ultimi tre mesi?».
Grazie, comunque, a Carlo De Benedetti per aver voluto mostrare di quale pasta è fatto. Nei salotti più radical-chic non vedevano l’ora di aprire il dibattito sulla concezione liberaldemocratica nel secolo nascente: con argomenti forti.
l’Unità 17.2.12
Per giovani e donne lavoro in calo continuo
Il presidente Istat alla Camera: nei primi 9 mesi 2011 persi altri 80mila posti
Nella fascia 15-24 anni disoccupazione al 31%, la più alta in Europa dopo la Spagna
Meno di una donna su due lavora, e solo il 30% nel Sud
di Laura Matteucci
Non si arresta l’emorragia dell’occupazione giovanile. Desolante, anche se attesa, l’audizione alla Camera del presidente Istat Enrico Giovannini: «A fronte di una moderata crescita complessiva, nella media dei primi tre trimestri del 2011, l’occupazione dei giovani ha subìto una flessione del 2,5%», il che significa che sono andati persi altri 80mila posti di lavoro. Nello stesso periodo, «il tasso di disoccupazione dei giovani tra 18 e 29 anni è sceso dal 20,5% del primo trimestre 2011 al 18,6% del terzo trimestre, rimanendo almeno 11 punti percentuali al di sopra di quello complessivo. Tuttavia, se si considera la fascia di età 15-24 anni, come proposto dall’Unione europea, la disoccupazione sale al 31%, la più alta dopo la Spagna».
Dopo la forte caduta nel biennio 2009-2010, l’occupazione dei giovani insomma continua a calare. Analoga la sorte di quella delle donne. «Meno di una donna su due lavora e solo il 30% nel Sud», continua Giovannini. Non bastasse, le donne «continuano a essere occupate in lavori precari più frequentemente degli uomini e permangono in condizioni di precarietà più a lungo nel tempo». Una condizione che fa emergere una elevata distanza dell’Italia dai principali paesi europei: «Circa 16 punti percentuali di occupazione in meno riprende il presidente Istat rispetto a Francia e Spagna. Specularmente, il tasso d’inattività delle donne italiane rimane tra i più alti in ambito europeo, determinando un’incidenza relativamente modesta della disoccupazione femminile e pari al 9,6%, un punto al di sopra della media nazionale, anche con una punta del 15,4% nel Mezzogiorno».
C’è poi la difficoltà delle donne «a permanere sul lavoro in concomitanza con una gravidanza e le dimissioni in bianco hanno riguardato 800mila donne nel corso della loro vita». Non solo. Il presidente Istat parla di una «elevata asimmetria» dei ruoli che disincentiva la partecipazione: «Se si considera il lavoro totale, le occupate lavorano un’ora più degli uomini al giorno e si fanno carico di più del 70% del lavoro familiare». Per la Cgil «il dramma dei giovani è determinato dalla crisi e dalle regole del lavoro», dice il segretario confederale Fulvio Fammoni commentando le cifre fornite da Giovannini. «Quando si tireranno le somme, si vedrà che nel 2011 si saranno persi oltre 100mila occupati tra i giovani, mentre l’80% delle assunzioni è con contratti di lavoro precari. Sta in questi numeri l’agenda delle riforme necessarie al paese: sviluppo, crescita e lotta alla precarietà». Dalla Cgia di Mestre, una lettura parzialmente diversa: se è vero che nei primi 9 mesi del 2011 sono stati persi 80mila posti di lavoro tra i giovani, sempre nel 2011, sostiene, sono stati 45.250 i posti di lavoro per i giovani che le imprese hanno dichiarato di non essere riuscite a reperire sul mercato del lavoro, vuoi per il ridotto numero di candidati che hanno risposto alle inserzioni (pari a circa il 47,6% del totale), vuoi per l’impreparazione di chi si è presentato al colloquio (52,4%). La Cgia ha effettuato un’elaborazione su dati Excelsior-ministero del Lavoro. Le figure professionali più difficili da rinvenire sono state quelle dei commessi (quasi 5mila posti di difficile reperimento), camerieri (poco più di 2.300 posti), parrucchieri/ estetiste (oltre 1.800), informatici e telematici (quasi 1.400), contabili (1.270), elettricisti (oltre 1.250), meccanici auto (1.250), tecnici della vendita (1.100), idraulici e posatori di tubazioni, in entrambi i casi circa 1.000.
Corriere della Sera 17.2.12
E Vattimo sbeffeggiò l'Essere: è come un mobile con le tarme
Il pensatore torinese critica le posizioni del «nuovo realismo»
di Edoardo Camurri
«Non ci sono fatti, solo interpretazioni. Anche questa è un'interpretazione» tuonava più di un secolo fa quella bestia bionda di Friedrich Nietzsche, e oggi Vattimo continua a ripeterlo con una certa acribia anche se (a eccezione forse di qualche bramino) in molti si ostinano (loro malgrado) a sperimentare quanto la realtà sia dura a morire. Se si legge il suo ultimo libro, Della realtà. Fini della filosofia (Garzanti), la volontà di Vattimo di dissolvere la realtà è così radicale che finisce con il dissolvere perfino la realtà di un suo ex allievo, e ora durissimo rivale, come Maurizio Ferraris sostenitore del cosiddetto «nuovo realismo». Insomma, Vattimo non lo cita mai, per quanto sia evidente che uno dei principali obiettivi polemici del libro sia proprio l'esistenza di Maurizio Ferraris in quanto tale. Si potrebbe obiettare: ma questa forma di gossip teoretico cosa c'entra con un testo e con la sua analisi critica? In teoria nulla, se non fosse che è lo stesso Vattimo a giustificare una lettura sospettosa delle diatribe filosofiche: «Persino il richiamo all'oggettività delle cose come sono in sé stesse pesa solo in quanto è una tesi di qualcuno contro qualcun altro, e cioè in quanto è una interpretazione motivata da progetti, insofferenze, interessi anche nel senso migliore della parola» (p. 95).
Chi, come chi scrive, ha frequentato a lungo le lezioni di Vattimo, si divertiva molto a sentire il maestro riassumere la sua posizione con l'affermazione: «L'Essere è camolato», un modo piemontese per dire che l'Essere ha le tarme. Con Heidegger, Vattimo sostiene: la conoscenza non è adeguazione di un soggetto all'oggetto, l'Essere della filosofia non va pensato come un ente o come un dio presente che sta dinanzi a noi (o più spesso sopra di noi in posizione di dominio).
L'Essere è un progetto dentro il quale l'uomo è da sempre gettato. Esempio: se scrivessimo che esistono gli ippogrifi, ci prendereste per scemi non perché avete esplorato in lungo e in largo e nel tempo e nello spazio l'universo al punto da escludere radicalmente l'esistenza di questi animali metà cavalli e metà grifoni, ma perché viviamo in un mondo nel quale si sa già, in partenza, e sulla base di qualche confortevole pregiudizio, che gli ippogrifi non esistono. Quando si nasce si ereditano un linguaggio, delle credenze e dei significati che consentono all'uomo di articolare un discorso all'interno del quale (e questo è un interessante paradosso su cui Vattimo spesso si concentra nel suo libro) ci si può perfino illudere di essere realisti. Scrive Vattimo in Della realtà. Fini della filosofia (p. 46): «In quanto esistenti, dunque, noi siamo sempre bestimmt, intonati, orientati secondo preferenze e repulsioni, mai semplicemente-presenti (vorhanden) in mezzo agli oggetti (…). Questa è l'idea di esistenza come "progetto"».
Non stupirebbe, a questo punto del discorso, intravedere però qualche manina alzata pronta a obiettare: quello che sostiene Vattimo è un fatto, non un'interpretazione; si sta contraddicendo, anche lui finisce col descrivere obiettivamente la struttura dell'Essere. Ed è questa osservazione, una variante dell'obiezione antica contro lo scetticismo (affermare l'impossibilità della verità è una verità), a rendere conturbante Della realtà. Fini della filosofia. Perché Vattimo risponde innanzitutto rivendicando, con Nietzsche, il carattere interpretativo della sua posizione per poi chiedersi un po' stupito (p. 85): «L'argomento logico contro lo scetticismo ha mai convinto qualcuno ad abbandonare le sue "convinzioni" scettiche?». Non siamo all'anything goes, all'idea che tutto vada bene, ma all'insistenza che un «banale errore logico» non possa liquidare l'approdo nichilista a cui è giunta la storia della filosofia, il destino dentro il quale l'uomo è gettato e dove tenta di progettare la realtà che più desidera. Nulla di nuovo. Ma forse qualcosa di noioso e di inquietante. Noioso perché, come scriveva il grande poeta polacco Czeslaw Milosz, il nichilismo è ormai diventato una prerogativa della cultura di massa, nonché il segno di riconoscimento delle menti ordinarie; e inquietante perché grazie a idee come queste, e stranamente in nome di un'istanza di libertà comune alle avanguardie dei primi del Novecento, Heidegger divenne nazista e Vattimo, che lo difende dicendo che si autofraintese, oggi invita a boicottare Israele, abbraccia Fidel Castro («Gli ho preso il viso tra le mani — raccontò — con qualche lacrima agli occhi»), sostiene che con l'11 settembre: «Gli americani hanno fatto esperimenti sul proprio popolo»; eccetera.
Se si rigetta la possibilità di una teoria vera e propria, il rischio è concepire il pensiero come sostanzialmente asservito e dipendente dalla vita o dalla storia e, senza voler fare una reductio ad Hitlerum (una teoria non è confutata dal fatto che le è capitato di essere condivisa da Hitler), sembra che la posizione di Vattimo, ragionevole in teoria (l'Essere è camolato), in pratica corra il rischio di dimenticarsi dell'Essere per assolutizzare le camole e i rosicchiatori della realtà. Non è una situazione tanto allegra anche perché l'alternativa (classica e platonica) per sfuggire a questo pericolo non è più allettante: non divulghiamo nel dettaglio come stanno le cose, il nichilismo, eccetera, perché questa visione è incompatibile con la vita e al suo posto edifichiamo miti e nobili menzogne dentro i quali costruire un mondo decente ma falso. Entrambe le posizioni sono insieme conservatrici e rivoluzionarie. Scrive ancora Vattimo in Della realtà. Fini della filosofia (p. 109): «Proporre un diverso ordine storico-sociale, anche a partire dall'insoddisfazione per alcuni aspetti del paradigma vigente, è possibile non certo con argomenti "cogenti" di tipo ostensivo — "ti mostro che" — ma solo con discorsi edificanti — "non ti pare che sarebbe meglio se"».
Tutto finisce quindi col dipendere da una decisione. E la decisione può essere più o meno efficace a seconda di quanto siamo spregiudicati o di quanto siamo capaci di porci in ascolto dell'essere e dei progetti che l'essere ha in serbo per noi. Liberati dalla realtà, finiamo così con il diventare vittime della propaganda.
il Fatto Saturno 17.2.12
Il Mandela del Salento: «Così i neri fecero sciopero»
L’ingegner Sagnet, bracciante per casoYvan, studente al Politecnico di Torino va a raccogliere pomodori in Puglia. E diventa leader della rivolta
di Alessandro Leogrande
PERCHÉ MAI proprio quel giorno anziché un altro? In Shah-in-shah, l’appassionante reportage sul crollo del regime di Reza Pahlavi, Ryszard Kapuscinski si interroga sulla genesi dei moti di rivolta. Perché, si chiede, la gente in genere accetta la miseria e l’oppressione come se disegnassero l’ordine naturale delle cose e poi all’improvviso, un giorno, quell’ordine salta in aria? «È un processo insolito», continua Kapuscinski, «che talvolta si compie in un attimo come per una specie di choc liberatorio: l’uomo si sbarazza della paura e si sente libero. Senza questo processo, non ci sarebbe alcuna rivoluzione». Viene da pensare a questo celebre passo del narratore polacco, leggendo il diario di Yvan Sagnet, portavoce l’estate scorsa di una singolare rivolta che ha scosso le campagne del Meridione d’Italia. Il diario è contenuto in Sulla pelle viva (DeriveApprodi), ed è davvero una pagina di storia contemporanea. PER LA PRIMA VOLTA, l’estate scorsa, centinaia di braccianti africani, vessati dai caporali nella raccolta dei pomodori, si sono ribellati contro un sistema di sfruttamento pre-moderno. Hanno incrociato le braccia e hanno bloccato la raccolta dell’oro rosso per almeno due settimane. Da quel momento, per la prima volta, qualcosa nel circolo vizioso di miseria e oppressione, che regola le raccolte agricole e lo sfruttamento delle braccia migranti nelle nostre campagne, si è rotto per sempre. È accaduto a Nardò, nel profondo Salento, e in pieno agosto, a due passi dagli ombrelloni di Gallipoli.
Yvan Sagnet, divenuto in breve uno dei leader della protesta, a Nardò ci è capitato quasi per caso. Studente di ingegneria al Politecnico di Torino, è nato in Douala (in Camerun) nel 1985. Da quattro anni vive in Italia, e quando qualcuno gli ha proposto di andare a raccogliere angurie e pomodori all’altro capo del paese, non ci ha pensato due volte: era l’unico modo per pagare le tasse universitarie. Solo dopo essere giunto lì ha scoperto il sotto-mondo del caporalato: «Un’altra Africa, un’altra Italia».
Sagnet spiega molto bene quale sia stata «la scintilla della protesta», l’attimo in cui ogni sopruso è apparso inaccettabile. Dall’istante in cui hanno sfidato il loro caporale, guardandolo negli occhi e rifiutando i suoi ordini, una gabbia disciplinare è andata in frantumi. Ma per capire la portata di quel gesto, occorre spiegare anche la “legge” infranta, il “normale” sistema di sfruttamento cui si sono opposti. Nelle campagne del Sud Italia si è realizzato un intreccio perverso tra globalizzazione e arcaicità. I frutti della terra non vengono più raccolti dai cafoni di Levi o Silone, bensì da braccianti tunisini, sudanesi, ivoriani, ghanesi, rumeni, bulgari... L’irrompere in massa di questa manodopera globale ha prodotto la più radicale trasformazione antropologica del Mezzogiorno rurale degli ultimi 15-20 anni. Tuttavia si lavora ancora sotto caporale, esattamente come un secolo fa. La giornata di un bracciante africano è drammaticamente simile a quella di un lavoratore dei tempi di Di Vittorio, come se nulla intorno fosse cambiato. Stessa fame, stessa sete, stessa precarietà. Stesso sistema di lavoro. Nella raccolta del pomodoro ad esempio, i braccianti di Nardò sono stati pagati a cottimo: 3,50 euro per ogni cassone di pomodoro raccolto. Un cassone contiene 4 quintali di prodotto, e un uomo adulto, ben allenato, mediamente riesce a riempirne 6-7, in un “turno” che va dalle 4,00 del mattino fino alle 6,00 di pomeriggio. Poi, però, a quella magra paga vanno sottratti 5 euro da dare al caporale, il signore dei campi, l’unico intermediario tra quelle braccia senza diritti e le imprese italiane che se ne servono.
In genere tutto questo viene accettato senza ribellarsi. Qualche anno fa, nella stessa Puglia, un’inchiesta della magistratura sulla riduzione in schiavitù nel comparto agricolo fece emergere addirittura parecchi casi di braccianti uccisi o scomparsi, probabilmente per il semplice fatto di essersi ribellati ai loro kapò. Raramente ci sono stati, negli ultimi anni, esplosioni di rabbia contro quest’ordine delle cose. È accaduto a Rosarno, certo. Ma ciò che è successo a Nardò, in Salento, segna uno spartiacque. Non si è trattato di un semplice moto di ribellione, ma di uno sciopero autorganizzato che ha raggiunto forme particolarmente mature di organizzazione e di riflessione.
Sicuramente ci sono dei fattori che lo hanno favorito. Innanzitutto, i braccianti entrati in sciopero erano alloggiati presso una masseria, all’interno della quale lo scambio di idee con associazioni antirazziste, sindacalisti e attivisti di base contro il lavoro nero è stato forte. La somma delle loro storie individuali ha fatto il resto. Nei campi di Nardò c’erano anche ragazzi africani appena sbarcati dalla Libia. Tuttavia la maggior parte di essi vivevano in Italia da più di dieci anni, e sovente, a causa della crisi, erano stati espulsi dalle fabbriche del Nord. Approdati al Sud, è stato proprio il confronto tra le due condizioni di lavoro e di vita ad accendere la protesta.
Terzo fattore: lo sciopero ha fatto emergere dei portavoce. Non uno, ma parecchi. La vicenda umana di Sagnet non è l’unica, ma è sicuramente la più significativa. Nelle sue parole è possibile leggere qualcosa di antico e allo stesso tempo spiccatamente universalista. In una Italia sempre più multiculturale iniziano a emergere, intorno alle semplici idee di libertà e di giustizia, e intorno al rifiuto dell’oppressione più brutale, forme di associazione, di rappresentanza e di racconto del tutto nuove.
il Fatto Saturno 17.2.12
La masseria della lotta
di Yvan Sagnet
IL GIORNO dello sciopero, sabato 30 luglio, c’erano più di dodici gruppi di lavoratori mandati a lavorare nei campi di raccolta delle angurie e dei pomodori. Il gruppo con cui lavoravo e che raccoglieva i pomodori era composto da 28 sudanesi, 11 ghanesi, 5 burkinabe e 1 camerunese, io. D’altra parte, ero l’unico camerunense in tutta la Masseria. Nel mio gruppo già il primo giorno mi ricordo della discussione che ebbi con il caporale che mi aveva rimproverato di non aver lavorato adeguatamente, cioè di non aver raccolto i pomodori caduti per terra. Quello fu un momento particolare perché si creò un elemento psicologico nuovo che diede la forza ad alcuni miei compagni di discutere anche loro con il caporale, molto esigente e aggressivo, che si faceva chiamare M., di nazionalità sudanese. DURANTE le pause con i colleghi non sudanesi si criticavano le pratiche e i metodi di questo caporale; i braccianti sudanesi non prendevano parte alle discussioni per paura e in parte per “rispetto” di M., che veniva considerato da molti come il capo della comunità, nonostante si rendessero conto di quanto ingiusto fosse il suo comportamento. In seguito una buona parte di lavoratori sudanesi iniziò a partecipare alle discussioni e a prendere coraggio rivendicando singolarmente i propri diritti e pretendendo maggiore rispetto dal caporale.
Il primo giorno dello sciopero era la mia quinta giornata di lavoro e si percepiva una sorta di nuova unità tra di noi che, finalmente, non era legata alla nazionalità. Anche nel campo si respirava una tensione condivisa pronta a esplodere. I lavoratori avevano cominciato a parlare delle condizioni di lavoro e M. iniziava a temermi forse perché ero uno studente universitario ed ero riconosciuto, anche per questo, come punto di riferimento tra i lavoratori.
Sabato 30 luglio c’era un datore di lavoro italiano nei campi: egli chiese a M. di farci raccogliere solo i pomodori migliori, un’ulteriore operazione di selezione che avrebbe rallentato enormemente il nostro lavoro e diminuito la nostra paga. M. voleva fare bella figura e mostrare al suo capo italiano come governava il suo gruppo di lavoratori. Si avvicinò a un mio collega ghanese e gli disse che stava lavorando male, minacciandolo di cacciarlo dal campo. Il ragazzo ghanese non si lasciò intimidire e lo accusò di privilegiare i sudanesi; la discussione continuò finché io e un altro lavoratore di origine ghanese ci avvicinammo per cercare di mediare, chiedendo a M. di alzare il prezzo del cassone da tre e cinquanta a sei euro. Quel faticoso lavoro di selezione doveva essere pagato in modo adeguato. M. si rifiutò, ma noi insistemmo, forti del fatto che tutti gli altri braccianti che fino a quel momento non erano intervenuti si erano fermati e uniti alla protesta. A quel punto le nostre differenze nazionali si dissolsero e anche i sudanesi si unirono alla contrattazione. Davanti all’ostinazione del caporale abbandonammo tutti insieme il campo e tornammo alla Masseria.
Di solito a quell’ora della giornata il campo è quasi deserto perché la maggior parte dei lavoratori è nei campi; in effetti c’erano solo quanti non avevano trovato occupazione. Spiegammo a loro e ai volontari delle associazioni Brigate di solidarietà attiva e Finis Terrae, che si occupano della gestione e dei servizi dentro il campo, perché eravamo tornati così presto e insieme agli altri migranti andammo a fare il primo blocco stradale sulla provinciale Nardò-Lecce; eravamo una trentina. Le forze dell’ordine, intervenute quasi subito, ci consigliarono di non continuare a bloccare la strada perché era contro la legge. Cosi ritornammo all’interno della Masseria e due ore dopo facemmo la nostra prima riunione tra il commissario di polizia di Nardò, la Cgil e le associazioni Finis Terrae e Bsa, che sostenevano le nostre rivendicazioni. La sera, dopo che i nostri colleghi erano tornati dai campi, abbiamo fatto la nostra prima assemblea auto-convocata sotto gli occhi dei media spiegando perché scioperavamo e quali erano le nostre rivendicazioni: volevamo i contratti regolari, la fine del caporalato, contatti diretti tra aziende e lavoratori, l’apertura di un centro per l’impiego dentro la masseria, un aumento del salario, più medici, miglioramento dell’accoglienza e delle condizioni di vita dentro il campo. Eravamo pronti a non ritornare al lavoro fino a quando le nostre rivendicazioni non fossero state accolte.
Quella sera la “parola d’ordine” era che nessuno doveva andare a lavorare; per assicurarci che tutti rispettassero la decisione e per agire in anticipo sui caporali ci siamo svegliati un’ora prima della partenza abituale dei lavoratori, verso le due di notte, per fare i picchetti in tutti i punti d’ingresso e uscita della Masseria. È stato un successo totale. Di solito a quell’ora ci sono un sacco di persone che si preparano per andare a lavorare e i furgoncini dei caporali riscaldano i motori per trasportare i lavoratori, ma quel giorno quasi il 90% di loro dormiva ancora e i pulmini dei caporali erano fermi. Solo verso l’alba qualche persona e alcuni veicoli si avvicinarono, ma con fermezza ricordammo e spiegammo loro la necessità di scioperare. Eravamo determinati e abbiamo evitato le risse e gli scontri; anche se non sono mancate ingiurie e minacce da parte di caporali arrabbiati di perdere una giornata di lavoro. Non volevamo correre il rischio che lo sciopero si impantanasse in una descrizione mediatica di scontri tra stranieri, una strumentalizzazione che siamo riusciti a evitare. Volevamo che la gente sapesse che il nostro sciopero era una rivendicazione sociale, volevamo essere considerati come lavoratori che meritano tutti i diritti: un contratto regolare, l’indennità di disoccupazione, gli strumenti di lavoro come i guanti, le scarpe anti-infortunistica.
Le difficoltà culturali e linguistiche erano molte, non era facile trasmettere il messaggio ad altri colleghi. C’erano quelli che parlavano francese come i burkinabe, gli ivoriani, i togolesi, i beninesi; altri parlavano l’inglese come i ghanesi, i nigeriani, gli etiopi, i somali; altri parlavano l’arabo, come i sudanesi, i tunisini, i marocchini, gli egiziani, gli algerini. Abbiamo pensato di creare una “direzione” composta da membri di ogni comunità, e così si è creato un gruppo di tre tunisini, due sudanesi, due burkinabe, un ghanese e io. Andavamo a trasmettere i messaggi alla nostra comunità linguistica, facevamo le assemblee ogni sera con l’obiettivo di discutere con i lavoratori la situazione e per cercare di tenere duro fino a quando le aziende non fossero venute a farci contratti regolari e non avessero smesso di farci lavorare con i caporali.
il Fatto Saturno 17.2.12
Falsi miti / 1
Pericle, democratico perfetto. A parole
L’Epitafio dell’ateniese, declamato in tivù come ideale politico, in realtà è soltanto retorica. Come spiega Canfora
di Giorgio Ieranò
QUALCHE SETTIMANA fa Pericle è sceso in campo contro Berlusconi. Lo ha fatto su La7, nel programma di Gad Lerner, L’Infedele. Nello studio televisivo risuonavano le parole pronunciate dallo statista ateniese nell’orazione per i caduti della guerra contro Sparta (431 a. C.): il famoso Epitafio di Pericle, a noi noto nella trascrizione, più o meno fedele, dello storico Tucidide. L’attrice Lucrezia Lante della Rovere recitava. Il pubblico ascoltava l’elogio delle regole democratiche, della sobrietà, del senso civico. Si celebravano il rispetto delle leggi, il primato del bene pubblico sull’interesse privato. Pareva quasi che Pericle fosse pronto a sostenere il governo Monti. Non è la prima volta, del resto, che Pericle scende in campo. È già successo nel 1961, quando John Fitzgerald Kennedy ha modellato il suo discorso di insediamento alla Casa Bianca proprio sull’Epitafio. Un secolo prima lo aveva fatto Abramo Lincoln nel discorso funebre per i caduti di Gettysburg (1863), arruolando implicitamente Pericle nella guerra di secessione contro i sudisti, al netto, ovviamente, di ogni riferimento allo schiavismo dell’Atene democratica. In anni più recenti, il ritornello pericleo “Noi ad Atene facciamo così” (che peraltro nel testo di Tucidide non si trova) si è sentito spesso. Paolo Rossi l’ha portato in giro per i teatri e le piazze d’Italia, suscitando lo zelo censorio di alcuni.
Quanto zelo malriposto. Tucidide si farebbe forse delle gran risate se sapesse che il suo testo viene brandito come il manifesto della buona democrazia. Lui che apprezzava sì Pericle ma per ragioni opposte: perché il suo governo, diceva, era «una democrazia a parole ma nei fatti il governo di uno solo». L’Epitafio di Pericle non è un ingenuo e appassionato elogio della democrazia. È una ricostruzione, non priva di malizia, della retorica patriottica nella polis democratica, fatta da chi, Tucidide, riteneva la democrazia una disgrazia. Comunque sia, le continue recitazioni dell’Epitafio testimoniano un dato indiscutibile: la straordinaria vitalità, attraverso i secoli, del mito di Atene come città ideale e come democrazia perfetta. Per smontare questo mito, e per comprendere tutte le ambiguità dell’Epitafio, bisogna leggere l’ultimo libro di Luciano Canfora. Un libro nemico dei luoghi comuni che è quasi una summa dei molti studi che Canfora ha dedicato alla Grecia classica. Un saggio dove il rigore dell’intelligenza e la pratica appassionata della filologia sono un sano antidoto alle ovvietà sull’Atene di Pericle. Il mito di Atene, come Canfora mostra nel dettaglio, è una monumentale costruzione ideologica. Molti, già nell’antichità, ne hanno additato le crepe (dallo schiavismo alla condanna a morte di Socrate). Altri l’hanno consacrato a modello: l’Inghilterra moderna, per esempio, ha riconosciuto spesso in Atene, potenza marittima al tempo stesso democratica e imperiale, il suo specchio ideale.
Del mito di Atene si prende ogni volta, secondo convenienza, ciò che serve. Nessuno, oggi, va per le piazze recitando il secondo discorso di Pericle, che Tucidide riporta subito dopo l’Epitafio, e dove il leader ateniese esibisce una logica cinicamente imperialista. L’impero ateniese, dice, «è come una tirannide: esercitarla può essere ingiusto ma abbandonarla ci espone al pericolo». Quindi, conclude, è inutile che le anime belle giochino a fare i pacifisti: la guerra è un dovere. Ad Atene si faceva anche così.
Si capisce, dunque, che un uomo di sinistra come Umberto Eco si sia stufato di sentir tirare in ballo Pericle. Sull’ultimo Almanacco del bibliofilo (Edizioni Rovello), Eco ha scritto un saggio scanzonato in cui sostiene che il discorso di Pericle non è antiberlusconiano ma ultraberlusconiano: un esempio di retorica populista, anzi di “populismo Mediaset”. Pericle regalava al popolo ingressi gratis a teatro? I soliti circenses, commenta Eco. Certo, si può capire che uno sia stufo del “Noi ad Atene facciamo così”. Ma Eco, per amore del paradosso, si diverte a esagerare in senso opposto (come gli ha subito rimproverato Emanuele Greco, direttore della Scuola archeologica italiana di Atene, sul blog filelle ni.wordpress.com ). In fondo, a teatro gli ateniesi vedevano Eschilo, mica Paperissima. Insomma, il mito di Atene sarà anche falso. Resta il fatto che, dopo 2500 anni, continuiamo a sviscerare il discorso di Pericle. Viceversa, non viene spontaneo immaginarsi l’umanità futura mentre s’interroga appassionatamente sui discorsi di Scilipoti.
Luciano Canfora, Il mondo di Atene, La-terza, pagg. 518, • 22,00
il Fatto Saturno 17.2.12
Falsi miti / 3
Babilonia, mon amour
di Dino Baldi
PRIMA CHE L’UOMO arrivasse sulla terra, anche gli dèi dovevano faticare per vivere. Un giorno gli Igigi, divinità giovani e di rango inferiore sottomesse ai più anziani Annunaki, buttarono la zappa e incrociarono le braccia. Venne allora deciso di forgiare dei nuovi servitori che provvedessero al sostentamento di tutte le creature celesti: si impastò dell’argilla con il sangue di uno degli dèi ribelli, si aggiunse uno sputo della dea madre Mami, e da quel composto di terreno e divino nacque l’uomo. Quando anche gli uomini si ribellarono al proprio destino di fatica, gli dèi decisero di distruggere i loro golem disubbidienti e scatenarono un diluvio dal quale si salvò solo l’arca di Atrahasis. L’umanità alla fine non scomparve, ma da allora conobbe la malattia, e le altre sciagure che durano fino a oggi. Questo mito così crudele e raffinato, tra i più antichi della storia umana, è nato più o meno quattromila anni fa a Babilonia, la “porta di dio” fondata dalla regina Semiramide, che ospitava due delle sette meraviglie del mondo antico (i giardini pensili e le mura) e al cui centro svettava la ziqqurat sacra al dio Marduk, diventata poi nella tradizione ebraica l’occasione per punire la superbia degli uomini con l’esplosione delle lingue. Questa che era la città meglio ordinata dell’antichità, patria del diritto e modello di civiltà, per essere stata anche la prigione degli ebrei in esilio si trasformò in seguito per un contrappasso paradossale in “Babilonia la grande, madre delle prostitute e degli orrori della terra”: queste e altre storie si possono leggere nell’ambizioso volume di Paolo Brusasco, docente di archeologia e storia dell’arte del vicino oriente antico a Genova (Babilonia. All’origine del mito, Cortina), e se le molte notizie paiono qui più ammassate che governate con coerenza (forse perché il caos ben si associa a Babilonia), emerge comunque bene come la capitale mesopotamica sia un luogo di primati fondamentali nella storia dell’uomo, ancora oggi troppo sottovalutato a vantaggio di altre meglio raccomandate civiltà antiche. Nel racconto di Brusasco colpisce in particolare il destino archeologico della città, dai primi scavi di rapina fino agli ultimi terribili anni, nei quali questo fragile sito di mattoni crudi ha sofferto forse più che in tutta la sua storia precedente: non tanto per i drastici interventi ricostruttivi dell’epoca di Saddam, finalizzati a rinnovare strumentalmente il mito; ben più funesta, e micidiale sul piano ideologico, è stata la costruzione nel 2003 di una base militare alleata proprio nel mezzo delle rovine (per proteggerle, naturalmente), che costringerà gli archeologi a considerare d’ora in poi nelle proprie stratigrafie anche un ultimo e particolarmente invasivo livello anglo-americano. Dopo questo stupro l’occidente, o perlomeno un certo occidente, ha perso il diritto a propagandare, tra le proprie virtù distintive, la pietas verso la storia, ed è questa forse l’ultima lezione impartita da Babilonia al mondo.
il Fatto Saturno 17.2.12
Déjà vu
Come ti rimastico l’avanguardia Usa
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma la rassegna sul Guggenheim ripropone opere (da Pollock a Rothko) già esposte pochi anni fa
di Simone Verde
ERANO SOLO SEI ANNI che il blockbuster Guggenheim mancava dal Palaexpo, il polo espositivo romano. Dopo l’antologica della collezione alle Scuderie del Quirinale nel 2005 ecco perciò Il Guggenheim. L’avanguardia americana, fino al 6 maggio al Palazzo delle Esposizioni. Ovviamente è successo l’inevitabile e cioè che, malgrado i temi delle due iniziative siano diversi, si sono verificate le immancabili sovrapposizioni. Il risultato è che nove pezzi su cinquantanove, ovvero oltre il 15 per cento del totale, sono gli stessi. Una percentuale trascurabile, si dirà. Un po’ meno se si considera che sono tra le opere più significative: tre Pollock su cinque, due Rothko su tre, l’unico Motherwell, un Warhol su due, eccetera. Bucato lo scoop di mostre da franchising, così, la domanda è questa: che senso ha?
La rassegna avrebbe comunque senso se fosse pensata come iniziazione alla cultura estetica americana del primo e del secondo dopoguerra. Come spunto per raccontare l’originale sintesi tra intellettualismo modernista e spiritualismo tradizionale con cui gli Stati Uniti hanno vissuto l’avventura industriale. L’affrancarsi dall’arte europea, avvenuta con la grandezza crescente delle tele che propongono un’immersione metafisica nella forma e nel colore. Tranne alcune succinte scansioni cronologiche (otto in tutto), invece, la mostra è priva di un apparato didattico, non c’è una scheda di un singolo autore o di una singola opera. Varrebbe la pena ricordare che una mostra è l’esposizione di opere attorno a una tesi storiografica e non un’esposizione di opere tout court. Il Palazzo delle esposizioni, cioè, nel totale disimpegno dei suoi numerosi dipendenti, sembra più una galleria d’arte che un’istituzione culturale. Chi glielo spiega, allora, al visitatore, chi sono artisti meno noti come Richard Pousette-Dart o Conrad Marca-Relli? Non serve neanche rifarsi allo smilzo catalogo. Anche qui, e per la cifra di 45 euro, neanche una scheda, ma tante immagini introdotte da tre generici saggi, dove, in assenza dell’essenziale, c’è però spazio per un aneddotico L’America vista dall’Italia di Daniela Lancioni. Vecchio refrain tanto caro all’istituzione, d’altronde, che nel 2006 con una lettura classicista e anticontemporanea di Rothko, puntata a una sua supposta scoperta del genius loci italico, aprì i battenti. Insomma, tutto ciò per quale mission?
Forse, l’attrazione turistica. Ma come esserne sicuri, visto che tra le mostre più visitate del 2011, il Palazzo delle Esposizioni figura solo al 23° posto, con la rassegna su Teotihuacan con poco più di 50mila visitatori? È vero che l’azienda nello stesso anno ha sbancato con i 400 anni dalla morte di Caravaggio alle Scuderie, ma su quell’iniziativa gravarono ben altre polemiche. In ogni caso, per rimanere nell’ambito dell’economia della cultura, valga quanto scritto in questi giorni da Citymorphosis, il nono rapporto Ci-vita sulle politiche culturali delle città (edito da Giunti). Dove si legge ciò che tutti sanno, ovvero che gli investimenti in cultura sono redditizi quando contribuiscono alle infrastrutture intellettuali della creatività. Quando attraverso mirati programmi di divulgazione permettono la condivisione dei codici culturali, funzionano da stimolo e promuovono nuove identità sociali. Spiega Pietro Va-lentino nel suo contributo che dagli anni della deindustrializzazione in poi le politiche culturali si sono indirizzate sempre più verso l’industria creativa, unica capace di far vincere alle aree urbane la sfida della globalizzazione. Economia della cultura, cioè, come diffusione di contenuti e volano di dibattito, non come mero supporto al settore turistico. Il che significa, però, lavoro vero, divulgazione seria e qualità scientifica, anche quando si è costretti a comprare pacchetti-mostre già pronti. Al Palaexpo, d’altronde, lo sanno di certo: se non si lavora alla creazione di nuovo pubblico attivo, il rischio, dopo un po’, è la saturazione. Comunque.
Il Guggenheim. L’avanguardia americana, Roma, Palazzo delle esposizioni, fino al 6 maggio ( www.palazzoesposizioni.it )
Corriere della Sera 17.2.12
Dalla Foxconn alla Proview Affari e rischi in Oriente Cina e Apple, duello di titani
Business e diritti umani Ritirati gli iPad dopo le ispezioni alla ditta che li produce
di Marco Del Corona
PECHINO — Quel che è globale nel mondo, in Cina lo sta diventando un po' meno. Ha cominciato Shijiazhuang, capoluogo dell'Hebei, la provincia che circonda quasi per intero Pechino. Altre città sono venute dopo, da Zhengzhou a Xuzhou e Qingdao. Via l'iPad dai negozi, via dai rivenditori autorizzati e, per prudenza, via anche da quelli un po' meno autorizzati. Le autorità hanno cominciato a sequestrare il prodotto sulla base di una sentenza dell'anno scorso che, per quanto non definitiva, attesta che il nome «iPad» sia stato di fatto usurpato dalla Apple: apparterrebbe, invece, a una società di Shenzhen. È la Proview Technology ad aver fatto ricorso ai magistrati e, a macchia di leopardo, l'iniziativa ha cominciato a diffondersi. Anche la popolare catena di negozi di casalinghi ed elettronica Gome ha cessato di vendere iPad, idem Amazon e altri siti online. Le dogane hanno ricevuto la richiesta di bloccare l'import ed export dei tablet.
La Shenzhen Proview Technology sostiene di aver depositato il nome «iPad» nel 2001. Il marchio sarebbe stato venduto dalla Proview Taiwan — società associata a quella cinese senza tuttavia rappresentarla legalmente — alla britannica IP Application Development Limited per la cifra di 44 mila dollari. Così, almeno, secondo i legali cinesi. Era il 2009, un anno prima che la Apple da Cupertino lanciasse il suo tablet, e proprio allora il gruppo britannico cedette all'azienda di Cupertino il marchio per 10 sterline soltanto.
Il bubbone è esploso — secondo la ricostruzione dei media cinesi — soltanto quando la Apple ha introdotto nella Repubblica Popolare l'iPad. Le autorità competenti avrebbero così provocato la reazione della Apple. Che l'anno scorso ha fatto causa in un tribunale del Guangdong per difendere il suo diritto a impiegare il marchio iPad. In un intrico di iniziative legali, si è arrivati alla situazione attuale: per ora ha ragione la Proview, che può dunque chiedere il sequestro dell'iPad, ma manca ancora la sentenza definitiva. Una corte di Pudong, a Shanghai, dovrebbe esprimersi sull'argomento mercoledì 22, mentre altri procedimenti promossi dalla Proview sarebbero in corso a Huizhou e a Shenzhen. La Apple, dal canto suo, ha replicato brandendo la sentenza di una corte di Hong Kong secondo la quale la Proview di Shenzhen e quella taiwanese fossero di fatto la stessa entità. Inoltre, tra un paio di settimane l'Alta Corte del Popolo del Guangdong dovrebbe esprimersi su un ricorso degli statunitensi.
Sono una ventina gli uffici amministrativi di una decina di province a indagare sulla questione. Un groviglio di burocrazie. Per la Apple, già sotto osservazione per le condizioni di lavoro negli stabilimenti che producono o assemblano i suoi prodotti, è un ulteriore attacco in un mercato che, da solo, garantisce il 16% del suo fatturato globale. Il China Daily, quotidiano in inglese attraverso il quale Pechino spesso lancia segnali alla comunità internazionale, ha fatto sapere di aver ricevuto dalla Apple comunicazione che l'acquisto del marchio iPad dalla Proview consentiva di coprire 10 Paesi. Ben pubblicizzato dai media cinesi ed esploso in concomitanza con la visita del vicepresidente Xi Jinping negli Usa, il confronto promette di estendersi al futuro. L'avvocato della Proview, Xie Xianghui, ha avvertito che chiederà il bando anche per l'iPad3, ancora non commercializzato.