venerdì 10 febbraio 2012

l’Unità 10.2.12
Incontri con le autorità politiche e con i giovani della primavera araba
Su Monti «La nuova immagine non risolve tutto, ma ci permette di lavorare»
Bersani a Tunisi: È finito l’isolamento italiano, ora riforme
Il segretario del Pd a Tunisi incontra le autorità politiche e i ragazzi della primavera araba. Da qui Bersani commenta il viaggio di Monti negli Stati Uniti («segno della ritrovata credibilità») e parla del futuro del governo.
di Simone Collini


«Io alla vostra età facevo il 68 ma qui c’è ben di più». Quando su Tunisi cala la sera Bersani è seduto al tavolo di un bar del centro circondato da una ventina di giovani che hanno partecipato alla rivoluzione che un anno fa ha posto fine al regime di Ben Ali.
Sono blogger, esponenti di associazioni per i diritti umani, studenti che appoggiano i partiti di opposizione e ragazze col velo che difendono le posizioni di Ennahdha, il partito islamista moderato che oggi è la prima forza del Paese. Spiegano a questo – unico – leader di una forza progressista europea che è venuto in Tunisia per l’anniversario della rivoluzione dei gelsomini quali sono oggi i principali problemi politici ed economici con cui fare i conti. Discutono tra di loro, anche. E animatamente. Ma c’è una parola che ripetono tutti e che li unisce nei loro ragionamenti: democrazia.
Sotto i bei capelli neri di una ragazza che sta col capo scoperto si vede una brutta cicatrice bianca. Può essersela procurata in mille modi, ma sarà il filo spinato che è ancora qua fuori a tagliare parecchie strade, saranno i racconti delle botte e degli amici che ci hanno lasciato la pelle, ma insomma l’idea che viene in mente è una e però ti guardi bene dal fare domande che non siano strettamente politiche.
«Ho capito molto di più parlando con voi che negli incontri ufficiali», sorride Bersani.
Prima di arrivare qui il leader del Pd ha incontrato il presidente dell’Assemblea costituente Mustapha Ben Jaafar e il primo ministro Hamadi Jebali. Con loro ha parlato di come l’Italia può accompagnare positivamente il processo democratico, come può aiutare, attraverso investimenti e collaborazioni economiche, ad affrontare le difficoltà di un Paese che ha un tasso di disoccupazione del 20% e stipendi medi per chi ha lavoro di circa 500 dinari, poco più di 250 euro. Con i ragazzi che hanno partecipato alla rivoluzione Bersani evita frasi di rito sulle nuove generazioni futuro dell’umanità e dà invece un paio di consigli. Questo è uno: «Dedicate molta attenzione alle nuove regole riguardanti l’informazione, bisogna evitare le concentrazioni, noi abbiamo sottovalutato il problema ed è stato un disastro».
La scelta di venire in Tunisia è strategica per Bersani, per il quale l’Italia deve riconquistare un ruolo da protagonista nelle relazioni tra l’Europa e i Paesi del Mediterraneo. «Dobbiamo smetterla di guardarci i piedi, noi italiani ed europei. Se non ci sarà un intreccio tra le due sponde del Mediterraneo sarà difficile consolidare il processo democratico in corso in quest’area».
IL «SEGNO» DI MONTI
Il leader del Pd legge di primo mattino con soddisfazione l’intervista di Obama in cui il presidente degli Stati Uniti dice che l’Europa e l’Italia hanno un particolare ruolo da giocare nel processo democratico in cui sono impegnate Tunisia, Egitto e Libano. «Che tempismo», scherza con i suoi collaboratori. Ma il suo ragionamento è che «anche una parte del nostro futuro dipende dal futuro di questi stati», che «Obama ha ragione e non si può chiedere agli Stati Uniti di fare il mestiere dell’Unione europea» e che una forza che si candida a governare il Paese deve seguire con attenzione quanto avviene in quest’area.
L’Italia, dopo gli imbarazzanti anni di Berlusconi, ha ritrovato «credibilità». E la visita di Monti negli Stati Uniti e le parole di Obama ne sono il «segno», dice il leader del Pd seguendo a distanza i risultati del viaggio a Washington del presidente del Consiglio. Però Bersani non nasconde che ci siano ancora dei «problemi», che «la diversa immagine dell’Italia nel mondo ci consente non di risolvere i problemi, ma di metterci al lavoro». Ed è in questo senso che vanno le sollecitazioni del leader del Pd, quando dice che «va bene la riforma del mercato del lavoro ma oltre alle regole servono politiche che favoriscano una maggiore occupazione» («noi lavoriamo perché l’agenda sia questa e porteremo qualche idea», assicura). O quando sostiene che l’Italia debba caratterizzarsi per politiche alternative a quelle della Germania, perché «il rigore ci vuole ma la linea della Merkel non è condivisibile e ci porta alla recessione».

La Stampa 10.2.12
Sul dopo “Porcellum” il Pd sfida il Cavaliere
di Marcello Sorgi


L’ arrivo sul tavolo di Berlusconi di una proposta scritta di riforma della legge elettorale firmata Violante ha imposto alla discussione che ha impegnato tutti i partiti (tranne Di Pietro) in questa settimana un imprevisto segno di concretezza. Finora infatti non si era arrivati più in là di un impegno generico. Adesso, invece, scripta manent: vuol dire che, come si era intuito fin dall’inizio, il Pd sta al gioco e vuole andare fino in fondo nel confronto con il Pdl: pazienza se qualcuno nel partito mugugnerà in nome dell’indimenticato antiberlusconismo.
Il fatto poi che il Cavaliere abbia subito voluto sottoporre al vertice del suo partito il testo inviato da Violante sta a significare che anche il Pdl vuole condurre la trattativa senza ripensamenti e senza lasciarsi condizionare da veti e pregiudiziali. D'altra parte la proposta Violante - bipolare e proporzionale, in grado di garantire una rappresentanza, sia pure simbolica, ai partiti più piccoli, concentrando però la sfida tra i due maggiori - è concepita in modo da portare il negoziato su un piano pragmatico e concreto. Il Pd abbandona ufficialmente il maggioritario a doppio turno, per lunghissimo tempo la sua bandiera, e mette giù un'ipotesi flessibile, che tenta di contemperare le esigenze più diverse, e soprattutto che riconduce a un meccanismo proporzionale l'assegnazione dei seggi e di un eventuale premio di maggioranza. In questo senso l'ultima versione del Pd è un pefetto mix di sistema spagnolo e tedesco. Con l’obiettivo di limitare fortemente la possibilità di garantire uno spazio sicuro al Terzo polo e a una prospettiva centrista. Lo schema Violante infatti prevede che Casini a un certo punto scelga tra centrosinistra e centrodestra.
Inoltre, anche se la soglia di sbarramento è ipotizzata a stadi diversi, proprio per consentire a tutti, anche ai più piccoli, di presentarsi e concorrere, un partito come la Lega, con il suo potenziale dieci per cento che gli assegnano i sondaggi, potrebbe gareggiare tranquillamente con i più forti e restare decisivo nella formazione dei governi. E tuttavia, come dimostra l'ostruzionismo del Carroccio ieri contro l'approvazione del decreto svuotacarceri, Bossi non se ne dà per inteso. E con lui Di Pietro, il cui futuro elettorale, e la possibilità di tornare alleato del Pd, si prospetterebbero più incerti. E ancora, Vendola, che nel 2013 si gioca la partita di riportare in Parlamento la sinistra radicale.

l’Unità 10.2.12
Il reducismo liberista non è di sinistra
di Ronny Mazzocchi


Nel momento in cui l’intero occidente sta pagando le conseguenze non solo del lungo trentennio liberista ma anche delle errate politiche economiche messe in cantiere nell’ultimo periodo, una certa destra italiana cerca maldestramente di riproporre la figura di Margaret Thatcher come modello da seguire per l’azione del governo Monti.
La cosa non stupisce: quando una ideologia viene travolta dagli eventi e si avvia una nuova fase politica, gli ultimi reduci della stagione precedente cercano sempre di salvare il proprio percorso politico e culturale rifacendosi alle figure gloriose della propria vicenda storica. Lo fecero i fascisti che, di fronte alla catastrofe del regime, elencavano con noiosa ripetitività i successi mussoliniani, alternando leggendari racconti sui treni sempre in orario a narrazioni nostalgiche sulla possibilità di dormire con la porta aperta. Più tardi lo fecero anche alcuni irriducibili intellettuali sovietici, che cercarono di  richiamare alla memoria le figure di Lenin e financo di Stalin quando le polveri alzate dalla caduta del muro di Berlino non si erano ancora posate. Ora dev’essere il turno dei liberisti.
L’esaltazione della Thatcher e di Reagan sembra il triste rifugio di un gruppo di studiosi che, di fronte alla bancarotta intellettuale di un credo che ha governato il mondo in questi anni, cerca conforto evocando le figure leggendarie dei bei tempi andati.
A stupire è che da noi l’enfatizzazione dei presunti successi di quella lunga fase avvenga su un giornale progressista come Repubblica, con un editoriale in prima pagina a firma di Alessandro De Nicola sulle «lezioni» che dovremmo prendere dalla Thatcher. Che le politiche della Lady di Ferro siano poco compatibili con il pensiero riformatore dovrebbe essere scontato. Infatti, se il cuore dell’azione politica di un qualsiasi partito di centrosinistra è la riduzione delle diseguaglianze, non c’è dubbio che le scelte del governo conservatore inglese negli anni Ottanta sono andate nella direzione diametralmente opposta.
Nel globale aumento della sperequazione nella divisione del reddito e della ricchezza osservato dalla fine degli anni Settanta, l’Inghilterra può vantare un triste primato, avendo visto aumentare l’ineguaglianza di circa un terzo nell’arco di poco più di un decennio.
Ma anche lo stile politico della Iron Lady lascia qualche perplessità: l’idea di affrontare con ferocia tutti i corpi sociali è chiaramente animata dalla convinzione che ogni figura intermedia fra i singoli individui e il governo sia inutile e dannosa. Cosa abbia a che vedere questo con il pensiero progressista è qualcosa che forse Repubblica e i suoi editorialisti dovrebbero spiegarci.

l’Unità 10.2.12
Meno mobilità sociale più diseguaglianze
In Italia i figli degli operai hanno sempre minori opportunità Se non si affronta questo nodo sarà difficile tornare a crescere
di Nicola Cacace


L’Italia è tra i Paesi industriali dove la concentrazione della ricchezza, le diseguaglianze sociali, la mobilità geografica e l’immobilità sociale sono ai livelli massimi. Milioni vivono questa realtà sulla loro pelle, molti la conoscono, tranne, sembra, alcuni professori molto bravi nei rispettivi campi. Solo in Italia, il 45% della ricchezza privata è posseduta dal 10% delle famiglie mentre il 50% possiede meno del 10%, un amministratore delegato come Marchionne può arrivare a guadagnare 500 volte il suo operaio (il prof. Valletta, capo della Fiat negli anni Sessanta guadagnava 50 volte il suo operaio), il legame tra i redditi di papà e quelli del figlio è così stretto che quasi metà dei figli dei professionisti, avvocati, architetti, medici, hanno successo nella stessa professione del padre mentre meno del 10% dei figli di operai ha speranza di fare un salto di classe (dati Censis), dal 1990 al 2005 il passaggio dal Sud al Nord ha coinvolto 2 milioni di persone, di cui la metà diplomati e laureati, mobilità record nell’eurozona.
Luigi Einaudi ricordava che «per governare occorre anzitutto conoscere». A sentire le uscite di alcuni nostri ministri sui giovani descritti come bamboccioni, mammoni o sfigati, c’è da dubitare sulle loro conoscenze. Proprio ieri il Censis ha illustrato i risultati di una ricerca sulla «mobilità sociale», partendo dai dati Istat sull’istruzione e le professioni: «Rispetto alle generazioni precedenti oggi c’è un blocco nel passaggio da un livello sociale ad un altro». A distanza di anni sembra di sentire le parole di un altro grande, Achille Campanile, secondo cui «nascere povero in Italia equivale ad una condanna ai lavori forzati a vita».
Purtroppo la situazione sembra peggiorata negli anni. Perché le diseguaglianze sociali sono aumentate dai tempi di Campanile, come testimoniano tutti i dati, da Eurostat ad Ocse, che mostrano l’Italia seconda per diseguaglianza in Europa solo alla Grecia patria di evasori fiscali e alla Gran Bretagna impoverita dalle politiche liberiste e classiste della Thatcher. L’indice di Gini misura le diseguaglianze di reddito tra ricchi e poveri, con valori che vanno da zero, perfetta eguaglianza di redditi tra le persone, ed uno, massima diseguaglianza di reddito. Tutti i Paesi con indice di Gini inferiore a 0,3 sono a minor diseguaglianza sociale e si dà il caso che questi siano anche i Paesi che meglio di altri stanno superando la crisi occidentale.
I principali Paesi europei ad alta eguaglianza sociale, con indice di Gini inferiore a 0,3 sono Germania, Francia, Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia e questi Paesi sono anche quelli che hanno salari più alti, sindacati forti, lavoro tutelato, sono attrattivi di investimenti esteri e sono diventati anche tra i più ricchi per reddito procapite. Oggi che si comincia a parlare anche di crescita, spero che i nostri professoriministri, oltre a fare bene i loro compiti settoriali, sappiano essere più attenti ai dati generali, su mobilità geografica e sociale, diseguaglianze, etc., tutti dati che in Italia confliggono con le caratteristiche della società della conoscenza centrata sulla risorsa umana, la sua formazione continua e i suoi diritti. Altro che andare lancia in resta contro l’art. 18, «che impedirebbe gli investimenti esteri». Il Paese europeo con i salari più alti e i diritti sindacali più rigorosi, la Svezia, ha il record europeo ed occidentale degli investimenti diretti esteri in entrata, sino al 30% degli investimenti fissi contro il nostro 2%. L’augurio che facciamo ai professori che ci governano è che ricordino sempre le parole di Luigi Einaudi sull’importanza di «conoscere per governare», risparmiandoci uscite politicamente improvvide e tecnicamente sbagliate.

l’Unità 10.2.12
Continuano le trattative in vista del tavolo sul mercato del lavoro
Cgil, Cisl, Uil «Gli ammortizzatori sociali vanno estesi» a chi non li ha
I sindacati insistono: «La riforma non si fa senza risorse nuove»
Marcegaglia ha incontrato il ministro Fornero: «Abbiamo aprlato anche di articolo 18». Ma i leader sindacali insistono: «Norma di civiltà che non è in discussione». Resta il nodo risorse per gli ammortizzatori.
di Luigina Venturelli


I tempi narrativi e gli interrogativi lasciati in sospeso potrebbero essere quelli di una sceneggiatura cinematografica. Il dibattito preliminare alla riforma del mercato del lavoro continua a caricarsi di suspence: si concluderà, accordo o meno, con una modifica anche dell’articolo 18? L’esecutivo ne parla, con alterne fortune ed accenni più o meno espliciti, da settimane. Ed ogni volta, di fronte alla reazione compatta e furibonda dei sindacati, il tema viene temporaneamente archiviato. Ma non definitivamente.
IL FANTASMA DELL’ARTICOLO 18
Complici, soprattutto, le pressioni di Confindustria per l’abolizione della norma simbolo dello Statuto dei lavoratori. Anche ieri la presidente uscente Emma Marcegaglia, al termine di un lungo incontro informale con il ministro del Welfare Elsa Fornero, ha puntualizzato di aver parlato «non solo di articolo 18, ma anche di quello». Smentendo così le dichiarazioni opposte dei tre leader confederali, che ritengono impropria una discussione sulla facilità di licenziamento in questo momento di emergenza occupazionale.
Il dubbio non viene sciolto nemmeno dal tavolo tecnico permanente deciso da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria per dare un contributo tecnico al governo in vista della riforma del mercato del lavoro. Ieri pomeriggio la prima riunione
delle parti sociali (la successiva, causa allarmismo maltempo, è prevista per lunedì) per discutere ha riferito ancora la presidente degli industriali di «apprendistato, contratto di inserimento, quella che il ministro chiama la cattiva flessibilità in entrata, riforma degli ammortizzatori sociali, ed anche di articolo 18». Ma, su quest’ultimo punto, i rappresentanti sindacali al tavolo hanno mantenuto la consegna del silenzio.
Ne hanno parlato, invece, i tre leader confederali, ieri in piazza del pantheon a Roma per un presidio unitario sulla riforma previdenziale (resta ancora da sciogliere, infatti, il nodo delle oltre 60mila persone “esodate o mobilitate” che in seguito alla riforma Fornero rischiano di restare per anni senza uno stipendio e senza pensione). Innanzitutto per smentire le indiscrezioni di stampa su un possibile scambio tra i sindacati e il governo, per ottenere qualcosa sulle pensioni al prezzo di una posizione più morbida sui licenziamenti senza giusta causa: «L’art.18 è una norma di civiltà. E su questo non c’è nessuna possibilità di ragionare» ha chiarito la segretaria della Cgil, Susanna Camusso.
IL NODO DEGLI AMMORTIZZATORI
Ma c’è un altro argomento su cui la trattativa tra parti sociali e Palazzo Chigi rischia di farsi più difficile del previsto: quello degli ammortizzatori sociali o, meglio, delle risorse messe a disposizione per la loro riforma, che i sindacati vorrebbero estensiva, per dotare di coperture di welfare anche i lavoratori che ne sono privi. Il ministro Fornero ha già messo le mani avanti, definendo «drammatici» i vincoli d bilancio esistenti. Ma non ci sta la leader di Corso Italia: «Non si può fare senza soldi. Non la possono pagare i lavoratori e non si possono caricare le imprese».
Sugli stessi toni il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, «fiducioso» sulla possibilità di trovare un accordo sulla riforma del lavoro con le imprese «se gli imprenditori sono in buona fede e riferendosi all’articolo 18 se non vogliono un trofeo». Prova ne sia l’intesa già trovata con le associazioni datoriali sugli ammortizzatori. Ovviamente, per «mantenere quelli che ci sono» e, soprattutto, per «rafforzarli».
Anche per il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, sono necessarie «nuove risorse». In tal senso «la dichiarazione del ministro Fornero sul fatto che non ci sono soldi non è incoraggiante». Rischia, piuttosto, di inasprire il dibattito complessivo: «Non vorremmo che l’unica riforma sia quella che fa aumentare coloro che perdono il posto di lavoro, rendendo più facili i licenziamenti».

Corriere della Sera 10.2.12
Capitalismo, tigre da domare
Gli effetti ambigui del processo di «distruzione creatrice»
di Michele Salvati


S ulla stampa anglosassone si fanno sempre più frequenti le voci di allarme sul futuro del capitalismo e in particolare sul difficile rapporto tra capitalismo e democrazia. Capitalismo, non economia di mercato o altri eufemismi. Americani e inglesi, di destra o di sinistra, non hanno i nostri pudori e danno alla cosa il suo nome, quello che Karl Marx ha contribuito a diffondere e al quale ha eretto quello straordinario monumento che è Il Capitale. Spesso quelle voci prendono spunto da manifestazioni di indignazione e di rivolta contro aspetti penosi e offensivi della situazione economica e sociale com'è percepita in singoli contesti nazionali: nei Paesi anglosassoni ciò che provoca il maggior risentimento è l'impressionante alterazione nella distribuzione del reddito degli ultimi trent'anni, il contrasto tra le condizioni di vita stazionarie del ceto medio e lo stratosferico incremento nei redditi dell'1 per cento più ricco della popolazione. Possibile che la democrazia, il «governo del popolo» (dunque del 99 per cento, come gridavano gli slogan dei dimostranti a Wall Street o a Zuccotti Park), non riesca a invertire queste tendenze? Che cosa c'è di malato in questa forma di governo, se ciò non avviene?
Sulle fluttuazioni nella distribuzione del reddito, sulle fasi di benessere o malessere che la gran parte delle popolazioni dei Paesi capitalistici ha attraversato nel dopoguerra, sulle ragioni per cui la democrazia non è riuscita ad assicurare al ceto medio le condizioni di vita decorose e stabili dei «trent'anni gloriosi» tra il 1950 e il 1980, la letteratura è sterminata e qui mi limito a segnalare due libri che ne trattano in modo semplice e illuminante: Ricchezza e democrazia, di Kevin Phillips (Garzanti, 2005), e Aftershock, di Robert Reich (Fazi, 2011). Vorrei invece accennare a un problema che sta a monte della distribuzione del reddito in singoli Paesi e spiega perché le singole democrazie nazionali e le organizzazioni politiche internazionali fanno fatica ad addomesticare un animale selvaggio com'è il capitalismo mondiale.
Il capitalismo è una straordinaria fonte di innovazione e di ricchezza; ma è anche la causa di grandi sofferenze, del degrado di intere comunità, della rottura di assetti sociali e modi di vita cui ci si era assuefatti. Per restare a casa nostra, si pensi a quel che è avvenuto a Prato, mirabilmente e ingenuamente descritto nel libro di Edoardo Nesi, Storia della mia gente. O si pensi a quel che in parte è avvenuto, e in parte maggiore può avvenire, se avrà corso la strategia di Marchionne. A livello mondiale tutto questo avviene in migliaia di comunità, per milioni di persone. Ma per un numero ancor maggiore di comunità e di persone l'esperienza è opposta, perché il gioco non è a somma zero: Prato langue, ma le imprese cinesi prosperano; Termini Imerese chiude, ma Detroit e Belo Horizonte si espandono. Più fondamentalmente: è la grande esperienza dell'uscita dalla miseria cui i modi di produzione tradizionali costringevano Paesi non ancora inseriti nel capitalismo mondiale, dell'eliminazione dell'idiozia rurale che a quella miseria si accompagna, avrebbe detto il vecchio Marx. E tutti questi sconvolgimenti avvengono quando le cose vanno bene, quando «il vento di bufera della distruzione creatrice», come Schumpeter ha mirabilmente definito il processo di sviluppo capitalistico, soffia nella sua fase ascendente. Ma è carattere proprio di questo processo anche quello di dare luogo, periodicamente, a crisi devastanti, in cui il gioco diventa a somma pesantemente negativa e i costi collettivi superano di gran lunga i vantaggi: è timore diffuso, speriamo infondato, che il capitalismo sia alle soglie di una di queste crisi.
I costi dello sviluppo capitalistico mondiale possono essere attenuati, se non evitati? E, soprattutto, possono essere impedite depressioni devastanti dell'attività economica? La mia risposta è: sì, ma è molto difficile, perché le forze che sprigionano questi effetti sono immense e i modi di cui disponiamo per controllarle — la politica, la democrazia — sono deboli.
Tornerò ad argomentare questa mia convinzione in un altro articolo e per ora concludo con una metafora, con un parallelo tratto dalla fisica e che dà un'idea della sproporzione di forze e della difficoltà del compito. Tutti sanno, persino un modesto economista, che se potessimo controllare il processo di fusione nucleare avremmo risolto per sempre, e in modo non inquinante, il problema energetico che assilla il pianeta. La difficoltà è che il calore sprigionato dalla fusione — è quello del sole — è enorme e che i modi che i fisici stanno sperimentando per ingabbiarlo e utilizzarlo per la produzione di energia — campi magnetici, mi sembra di aver capito — si sono sinora rivelati inadatti al compito.
La metafora è evidente: il calore prodotto dalla fusione è il capitalismo e i campi magnetici di controllo sono le politiche nazionali e internazionali con le quali si cerca di addomesticarlo. I fisici non disperano di trovare una soluzione al loro problema. Forse una soluzione politica (... e democratica?) non è impossibile per l'addomesticamento del capitalismo. Per trent'anni, dopo la guerra, ci si è riusciti. Perché non ora?

l’Unità 10.2.12
La Santa Sede ribatte all’articolo de l’Unità: «Da noi piena collaborazione»
Il Cdr del giornale: nella nota sono stati usati toni inaccettabili
Il Vaticano difende lo Ior: «Scelta da tempo la trasparenza»
Dura nota di padre Lombardi contro un articolo de l’Unità e contro La7.
di Roberto Monteforte


Il nuovo Ior non si tocca. Il Vaticano difende innanzitutto la trasparenza della nuova gestione. Non fa bene neanche alla Chiesa, soprattutto alla sua credibilità, quell’alone di opacità e di mistero su operazioni economico-finanziarie condotte negli scorsi anni dallo Ior (Istituto per le opere di religione) che hanno finito per alimentare sospetti e accuse sulla banca vaticana come quella di favorire il riciclaggio.
La linea Ratzinger è chiara. Avviare con decisione l’«operazione trasparenza», definendo sistemi di controllo e responsabilità precise sulle operazioni finanziarie compiute dai diversi soggetti della Santa Sede. A questo risponde la costituzione di un’autority specifica l’Aif (Autorità di informazione finanziaria) presieduta dal cardinale Attilio Nicora, istituita dal Papa con il motu proprio del 30 dicembre 2010, che ha anche introdotto nuove norme «per la prevenzione ed il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario», diventate operative dal 1 ̊ aprile 2011. È così che la Santa Sede ha potuto aderire ai trattati internazionali sul riciclaggio e sul contrasto dei reati finanziari. Un’operazione che ha comportato cambiamenti significativi, il superamento di resistenze interne. Un nuovo corso difeso dalla Segreteria di Stato che è intenzionata a ribattere alle accuse mosse dai media allo Ior e all’attività dell’Autorità di informazione finanziaria. Per questo l’altra sera il direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha contestato con una nota sia alcuni servizi della trasmissione «Gli Intoccabili» di La7 dedicati allo Ior, sia un articolo pubblicato l’altro ieri da l’Unità a firma di Angela Camuso.
ACCUSE E REPLICHE
Padre Lombardi definisce «infondate e false» le informazioni sullo Ior contenute nella trasmissione di La7. Puntualizza: lo Ior «non è una banca», ma «una Fondazione di diritto sia civile che canonico regolata da un proprio statuto», quindi «non mantiene riserve e non concede prestiti come una banca». Non è una «banca off-shore», ma risponde alla giurisdizione vaticana, compresa «la legge antiriciclaggio» adottata «proprio per essere in linea con gli standard internazionali». All’accusa, mossa durante la trasmissione, di non collaborare con la magistratura italiana, soprattutto per le indagini su fatti relativi a periodi precedenti l’entrata in vigore della legge sulla trasparenza del 1 ̊ aprile 2011, la Santa Sede nega che la collaborazione sia mancata e assicura che nessuna «resistenza» vi sarebbe stata da parte dello Ior a collaborare. Piena sarebbe stata anche la disponibilità verso la magistratura italiana. E la mancata risposta alla richiesta di rogatoria internazionale riguardante il caso Banco AmbrosianoCalvi, quelle inviate nel 2002? Non sarebbero mai arrivate in Vaticano.
Lombardi aveva già replicato in modo duro all’Unità che ha dato la notizia di quattro sacerdoti (monsignor Messina, don Bonaccorsi, don Palumbo e don Biasini) sotto inchiesta per riciclaggio avendo autorizzato operazioni sui loro conti aperti allo Ior. Lombardi ha contestato la ricostruzione dei fatti e ricordato che sin dal 2006-2007 lo Ior «ha attuato una verifica di tutti i conti e di clienti per accertare e riferire l'eventuale esistenza di transazioni sospette». Ha aggiunto pure che il direttore generale dell’Istituto, Paolo Cipriani, «ha cooperato con la magistratura e le altre autorità italiane».
I fatti denunciati dall’articolo non sono stati negati, ha replicato la Camuso. Una conferma ulteriore? La Procura di Roma attende da oltre sei mesi una risposta ad una sua richiesta di informazione su alcuni conti Ior oggetto di inchiesta. Il comitato di redazione de l’Unità ha espresso solidarietà alla collega per i toni «inaccettabili» usati nella nota vaticana.

Repubblica 10.2.12
"Conti in Germania? Sono più convenienti"
Caso Ior, il Vaticano replica alle accuse: non ostacoliamo le indagini
La Santa Sede: "Mai ricevuta la rogatoria su Calvi" Ma il documento è pubblico da tempo
di Marco Ansaldo

CITTÀ DEL VATICANO - «Il fatto è, detto con estrema semplicità, che in Italia (attenzione: in Italia, non in Germania) alcune banche tedesche sono più competitive. Costano meno. Tutto qui». Così una fonte vicina allo Ior spiega a Repubblica la recente decisione dell´Istituto Opere di Religione, impropriamente noto come la banca del Vaticano (è una Fondazione), di trasferire gran parte delle proprie attività finanziarie verso la Germania, abbandonando progressivamente la clientela italiana. Con un dettaglio interessante in più: cioè quello di operare non direttamente in Germania, ma con banche tedesche in territorio italiano.
Lo Ior torna a essere nell´occhio del ciclone. E la Santa Sede ha continuato ieri a difendere pubblicamente l´Istituto dalle novità emerse sui media riguardanti le indagini della magistratura. Con una seconda, durissima dichiarazione in due giorni, dopo quella fatta mercoledì che contestava il contenuto di un articolo de l´Unità sul coinvolgimento di 4 sacerdoti in attività finanziarie illecite, la sala stampa pontificia ha reagito alla nuova puntata della trasmissione "Gli intoccabili" de La7 sul Vaticano.
«Affermazioni infondate» - si legge nella nota - «informazioni false». La Santa Sede ha smentito di non collaborare con la giustizia italiana, e soprattutto di non aver risposto alle rogatorie per le indagini sull´omicidio di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato il 18 giugno 1982 a Londra. La sala stampa pontificia ha contestato quanto ha dichiarato nel programma tv il pm romano Luca Tescaroli - che appunto la Santa Sede non avrebbe risposto alle rogatorie sul caso - e ha precisato che «la rogatoria del 2002 non risulta pervenuta in Vaticano». «Alle altre due - ha affermato il comunicato - è stato fornito regolare riscontro, indirizzato all´Ambasciata d´Italia presso la Santa Sede».
La rogatoria del 2002, insieme con le altre due, è stata comunque pubblicata - ed era dunque consultabile - il 5 gennaio scorso sul sito www.repubblica.it "RE le inchieste", a firma di Fabio Tonacci e Francesco Viviano. Pubblicata anche con la richiesta fatta dal sostituto procuratore Tescaroli al nuovo ministro della Giustizia, Paola Severino, di attivarsi nei confronti del Vaticano.
La Santa Sede si è poi difesa affermando di non volere alcuno stop alle indagini. Nessuna «resistenza dello Ior a collaborare» con la giustizia. E inoltre «non corrisponde a verità» quella che è stata definita come «l´insinuazione» che «le norme vaticane non consentirebbero le indagini o i procedimenti penali relativi a periodi precedenti» il 1 aprile 2011.
Il documento in proposito mostrato in tv sarebbe piuttosto un incartamento «senza alcun valore ufficiale». In realtà, quello che la trasmissione ha mostrato l´altra sera presentandolo come un «documento riservatissimo» era stato già pubblicato lo scorso 31 gennaio sul quotidiano Il Fatto. Lo scritto riguardava una discussione interna allo Ior su come rispondere a richieste «relative a operazioni sospette o per le quali sono in corso procedimenti giudiziari». E lo scorso 1 febbraio il sito Vatican Insider aveva ricostruito che si trattava solo di un memo, cioè di un parere chiesto a un avvocato, anzi uno dei 4 richiesti, sia all´interno sia all´esterno del Vaticano, sull´atteggiamento da tenere rispetto alle richieste di indagini retroattive avanzate dai magistrati. Un documento dunque consultivo e transitorio. Alla fine, era stato deciso che lo Ior a determinate condizioni avrebbe risposto alle richieste dell´Autorità di vigilanza, anche se avrebbero riguardato gli anni precedenti all´entrata in vigore delle nuove norme.

Repubblica 10.2.12
Se lo Ior è una banca straniera
risponde Corrado Augias


Caro Augias,  la banca del Vaticano ha deciso di non utilizzare più gli istituti di credito italiani per i propri depositi, dopo che la Banca d' Italia ha imposto di considerare lo Ior una banca extracomunitaria. L'azzeramento dei rapporti fra Ior e altre dieci banche italiane emergerebbe dalla indagini della procura di Roma nell'ambito di un'inchiesta su presunte attività di riciclaggio legate ad operazioni avviate dalla banca vaticana. Per queste operazioni lo Ior potrebbe essere stato un tramite 'a sua insaputa'. Una pecunia che olet quindi potrebbe essere passata per le casse dello Ior senza che l'olezzo venisse avvertito. Da qui l'addio rivolto alle banche italiane, dato che quelle tedesche offrirebbero più vantaggi; e forse meno controlli. E le banche della diletta - ma in questo caso disdetta - nazione italiana ? Peggio per loro, a quanto pare.
Giovanni Moschini

Brutta notizia, se dobbiamo stare a quanto trapela da fonti vicine ad 'ambienti giudiziari'. Una circolare di Bankitalia ha giustamente incluso lo Ior (banca vaticana) tra quelle di paesi extracomunitari verso le quali vigono controlli 'rafforzati' in base ad un direttiva europea contro il riciclaggio. Si potrebbe dire che l'applicazione è stata troppo severa, trattandosi di una banca assistita in qualche modo dallo Spirito santo. Depongono però a favore della fermezza alcuni inquietanti precedenti. Il più grave è certamente stato quello della maxitangente Enimont, molte decine di miliardi di lire (la cifra esatta non è mai stata accertata) che transitarono attraverso la banca vaticana prima di sparire chissà dove. I due protagonisti della vicenda, l'imprenditore Raul Gardini e il presidente dell'Eni Gabriele Cagliari finirono entrambi suicidi. Un altro protagonista del maneggio fu Luigi Bisignani, ricomparso recentemente nelle cronache, che trovò nello Ior un terminale per le proprie manovre, salvo eclissarsi (con una valigia piena di soldi) quando le indagini lo individuarono. Nel suo 'Vaticano spa' (Chiarelettere ed.) Gianluigi Nuzzi ha raccontato tutto questo con ricchezza di nomi e di dettagli. Un particolare interessante è che quando le autorità italiane chiesero alla banca vaticana spiegazioni sulla Maxitangente, questa si limitò a rispondere che la richiesta diretta era irricevibile e che avrebbe dovuto essere inoltrata tramite rogatoria internazionale trattandosi della banca di uno Stato estero. Risposta giuridicamente impeccabile così come l'attuale disposizione di Bankitalia. Come 'Stato estero' d'altronde il Vaticano s'è sempre comportato anche in occasioni di indagini delicate come quelle sull'attentato al Papa, la scomparsa di Manuela Orlandi, il triplice omicidio delle guardie svizzere.

il Fatto Saturno 10.2.12
Scuse a Galileo, la  Chiesa ci ripensa
Censurato il gesuita che difende la scienza
di Riccardo Chiaberge


EPPUR SI MUOVE. Sì, ma all’indietro, come i gamberi. Sulle scuse a Galileo la Chiesa ci ripensa, e vent’anni dopo la storica svolta di Wojtyla (31 ottobre 1992) nel mondo cattolico tornano ad affiorare malumori e contrasti. L’organo dei gesuiti “La Civiltà Cattolica” ha respinto un articolo sull’argomento di padre Ennio Brovedani, che dello scienziato pisano è appassionato studioso e che nel maggio del 2009 promosse un memorabile convegno a Firenze con i massimi esperti mondiali, atei e credenti, alla presenza di Giorgio Napolitano. Ordinaria amministrazione, si dirà. La censura, nel clero e nei suoi organi di stampa, è cosa di tutti i giorni. Ma il caso Brovedani fa più scalpore del solito, per il tema e la statura del personaggio. E POI OGNI PAGINA di “Civiltà Cattolica” è sottoposta al vaglio preventivo della Segreteria di Stato, sicché dietro la bocciatura qualcuno intravede la manina del Cardinal Bertone. A quanto pare, insomma, il Vaticano che benedice il tecnico Monti (già studente modello di un liceo dei gesuiti) non ha ancora digerito, dopo ben quattro secoli, il tecnico Galileo.
Ma ecco i fatti. Nell’aprile scorso escono gli atti del Convegno fiorentino (editi da Olschki) e “Civiltà Cattolica” invita padre Ennio, presidente della Fondazione Stensen e animatore dell’iniziativa, a scrivere un saggio che riassuma i risultati salienti di quei cinque
giorni di discussione. Lui ci lavora a lungo, e per essere tranquillo manda il testo in lettura ad alcuni dei partecipanti, tra cui il filosofo superlaico Paolo Rossi Monti (che ci ha lasciati, a ottantotto anni, il 14 gennaio), e tutti apprezzano l’equilibrio della sua sintesi. Confortato da questi pareri, Brovedani manda il pezzo alla rivista dei gesuiti, ma – sorpresa! - nel rivedere le bozze ci trova dei tagli che non gli sembrano casuali, o dovuti a pure ragioni di spazio. Salta per esempio un passo sul significato attuale della condanna di Galileo nel quadro dei rapporti Stato-Chiesa, che ribadiva «il rispetto dovuto alla libertà di coscienza e all’autonomia e responsabilità personali, che dal punto di vista antropologico e teologico, rappresentano la manifestazione più alta della dignità e creaturalità umane». La libertà di coscienza più importante della Verità di cui il papa si proclama unico custode? Zac! Lo storico Alberto Melloni, alla luce del Concilio, metteva in guardia dal rischio che «la mentalità che aveva presieduto all’errore del 1633 si riproponesse su temi nuovi» come la contraccezione? Zac. Una bella sfoltita anche al discorso di padre Coyne, ex-direttore dell’Osservatorio vaticano, che si soffermava un po’ troppo sulle liti tra i membri della commissione di studio istituita da Giovanni Paolo II e presieduta dal Cardinale Poupard (quello, per intenderci, che avrebbe poi celebrato le nozze Briatore-Gregoraci, alla presenza di Berlusconi): non per niente i lavori durano undici anni, e il documento finale è zeppo di reticenze e di omissioni. Il fatto che le conclusioni vengano affidate a un discorso solenne del Papa, nota il sacerdote-astronomo, genera «profondi contrasti e perplessità» all’interno della Commissione. Zac. Più avanti, citando ancora Coyne, Brovedani scrive che «l’ammonizione del Card. Bellarmino avrebbe giocato un ruolo chiave nella condanna di Galileo nel 1633. Quali sarebbero state – si chiede – le conseguenze se, in questo caso, invece di esercitare la sua autorità la Chiesa avesse sospeso il giudizio? ». Che domande. Ri-zac! Le forbici dei gesuiti non risparmiano neppure il paragrafo finale sui modi per prevenire nuovi “casi Galileo”: sparisce il cenno alla «crescente interculturalità e interreligiosità» della civiltà contemporanea, termini espunti dal dizionario ratzingeriano.
Già così, erano censure pesanti. Ma da buon servitore di Cristo, padre Ennio si era ormai rassegnato a inghiottirle, quando qualcuno dalla redazione lo allertò che la faccenda non finiva lì, e che ulteriori modifiche e tagli sarebbero stati richiesti dalla Segreteria di Stato. Beh, questo è troppo, protesta Brovedani. Cosa diranno quelli che hanno letto e approvato il testo originale? E poi, che c’è di male nel mio articolo, peraltro sollecitato da voi? Errori dottrinali? Espressioni offensive verso la Chiesa o il Papa? Niente di tutto questo. E il Convegno non era stato salutato come un’anticipazione del “Cortile dei Gentili”, lo spazio comune tra atei e credenti voluto dal Cardinale Ravasi?
Fiato sprecato. I guardiani della “Civiltà Cattolica” non si lasciano commuovere. Confabulano a lungo e alla fine decidono che, onde evitare incidenti, è meglio soprassedere. Quell’articolo non uscirà mai. E dire che il nuovo direttore della rivista dei gesuiti, il 45enne Antonio Spadaro, insediato da pochi mesi, ha fama di innovatore. Un cyber-teologo onnipresente sul Web, con blog su Flannery O’Connor e la rivista online “Bombacarta”. «Il cristiano – sostiene – è chiamato a compiere un’opera di mediazione tra il Logos e la cultura digitale». Evidentemente, ci sono mediazioni che non riescono neanche a lui.
La verità è che per la Chiesa di Ratzinger il caso Galileo non è affatto chiuso. Sarebbe troppo comodo relegarlo in un lontano passato, “contestualizzarlo” nel quadro di un’epoca di conflitti religiosi esasperati, come se non avesse più nulla da insegnarci. Il rischio dello scontro scienza-religione è sempre in agguato, specialmente con gli sviluppi vertiginosi delle tecnologie biomediche, l’ingegneria genetica, la ricerca sulle staminali, la fecondazione assistita, che vanno a intaccare i capisaldi della filosofia naturale cattolica. E mentre il biologo miscredente (e grafomane) Edoardo Boncinelli ci spiega che La scienza non ha bisogno di Dio (Rizzoli, quattro miliardi di anni di evoluzione in 164 pagine) e nessuno lo censura, uomini di fede come padre Brovedani si sforzano di conciliare il Vangelo con la libertà di ricerca. E per questo vengono ridotti al silenzio.
Proprio ieri, intervenendo al convegno della Cei su “Gesù nostro contemporaneo” presso l’Università della Confindustria a Roma, l’arcivescovo di Milano Angelo Scola ha detto che «ogni censura fatta alla storia è condannata a fallire, proprio perché è una sorta di attentato oggettivo contro la libertà». Perfetto, eminenza. Provi a dirlo al suo collega Bertone.
Riccardo Chiaberge

il Fatto 10.2.12
Maledetta modernità
di Marco Politi


CHIESA E MODERNITÀ è un confronto-scontro che periodicamente si rinnova. L’emozione profonda che si prova guardando il crocifisso nella penombra di una chiesa spiega le ragioni dell’incidenza del cristianesimo attraverso i secoli. La corazza teocratica, di cui si è ammantata l’istituzione ecclesiastica cattolica nel corso di due millenni, spiega il perché di un cozzare ripetuto con l’evoluzione sociale e culturale dei tempi.
Sergio Romano e Beda Romano nel loro libro La Chiesa contro (Longanesi) illustrano bene il travaglio della Chiesa cattolica di fronte allo sviluppo dello Stato moderno. Storico e diplomatico acuto, Sergio Romano è moderato nel senso greco-romano del termine. Alieno dall’eccesso polemico e tendente a un equilibrio, che si sforza di comprendere le opposte ragioni. TANTO PIÙ persuasiva (e dunque inesorabile) è la sua analisi del lento e inevitabile processo che la Chiesa ha dovuto compiere per adattarsi a una convivenza con i principi dello stato liberale nel corso dell’Ottocento in Francia, in Germania e negli Stati Uniti. Proprio la pacatezza della sua esposizione mostra quanto le opposizioni iniziali si siano rivelate battaglie di retroguardia sfociate alla fine in accettazione della nuova forma di governo democratica.
E tuttavia la rivoluzione sessuale, il rimodellamento della famiglia e del convivere, le nuove tecnologie riproduttive e mediche hanno creato un nuovo terreno di scontro. Dove la Chiesa muove battaglia in parte a tutela di principi che sente radicati nel proprio messaggio, ma molto anche per il timore di perdere il controllo sociale che le derivava dall’essere per secoli autorità ultima in tutto ciò che riguardava nascita, matrimonio, morte. Però se altrove la società secolare e il senso dello stato pone un freno alle rivendicazioni della gerarchia, l’Italia rappresenta l’anello debole. Ci possono anche essere motivi storici, ma – sottolinea Sergio Romano – a Roma gioca un ruolo predominante una «classe politica più debole e opportunista» di quella con cui i pontefici devono confrontarsi in altri paesi dell’Europa cristiana. Perché, insiste l’autore, la Chiesa ha il diritto di predicare e di farsi ascoltare in tutti i modi, ma uno Stato liberale non può sottrarsi a regolamentare nuovi fenomeni sociali, tenuto conto che i diritti non sono immutabili e «iscritti una volta per tutte in un astratto codice del diritto naturale», bensì anch’essi creazioni storiche che si producono per governare la società nel suo sviluppo.
Quanto il dibattito su temi come la procreazione assistita, il matrimonio gay, l’eutanasia, i trapianti, la clonazione o il matrimonio dei preti sia avanzato e aperto in altri paesi europei lo testimonia la ricerca di Beda Romano. Il che non significa che ogni novità sia positiva. Il resoconto sul mercato degli espianti e sul commercio degli organi – un tanta di euro a “pezzo” – deve fare riflettere.
Al di là dei singoli temi sussiste peraltro una difficoltà di fondo delle religioni, almeno di quelle che si presentano come portatrici di un Assoluto, nell’accettare il pluralismo etico (che gli integralisti bollano di relativismo) che deve animare inevitabilmente le democrazie. La ricetta offerta dall’esperienza delle rivoluzioni americana e francese è stata quella della netta separazione tra Stato e Chiese. E tuttavia il revival dei movimenti e dei fondamentalismi religiosi contemporanei scuote fortemente questa parete divisoria. Democrazie e religioni (Donzelli) una ricerca a più voci, esplora i nuovi conflitti e mette anche in luce le fragilità dello Stato moderno dinanzi all’ineludibile richiesta di gruppi religiosi di contare in quanto tali nella sfera pubblica.
La via d’uscita non si intravvede, forse, tanto sul terreno teorico quanto nel diffondersi progressivo della soggettività individuale di massa, che si pone ad arbitro della stessa religione. Ma è inutile nascondersi che l’individualismo democratico è appannaggio di una parte soltanto del mondo. Computer, telefonini e t-shirt possono convivere anche con totalitarismi religiosi o meno.
Sergio Romano e Beda Romano, La Chiesa contro, Longanesi, pagg. 250, • 16,60
AA.VV., Democrazie e religioni, Donzelli, pagg. 198, • 25,00
Dell’autore è appena stato pubblicato il saggio Joseph Ratzinger. Crisi di un papato (Laterza, pagg. 327, • 18,00)

UN DOCUMENTO ESCLUSIVO E 5 BEN PAGINE OGGI SU IL FATTO SU PRESUNTI COMPLOTTI OMICIDI E LOTTE INTESTINE INTERNE AL VATICANO
tutto questo nelle edicole
il Fatto 10.2.12
Guerre poco sante
di Antonio Padellaro


Non sorprende che il portavoce vaticano definisca incredibile il documento che pubblichiamo (cos’altro dovrebbe dire?), così come non ci aspettiamo che il cardinale Castrillón e il cardinale Romeo, ciascuno per la parte che lo riguarda, svelino cosa si nasconde realmente dietro il contenuto sconvolgente di quelle pagine scritte in tedesco. Nella lunga storia della Chiesa, gli attentati alla vita dei pontefici non sono stati pochi (senza contare le morti sospette: Papa Luciani), ma è difficile ricordare una premonizione così datata: “Entro 12 mesi”. Tuttavia quelle pagine esistono e nessuna smentita potrà cancellarle. Si possono fare molte ipotesi. Una polpetta avvelenata all’interno della Santa Sede? Difficile credere che una ricostruzione così precisa sia il prodotto di una fabbrica deif alsi finalizzata a screditare due eminenti porpora-ti. Scoprire che nei Palazzi apostolici (da lì giunge l’appunto) si annidano corvi e serpenti non darebbe del Vaticano un’immagine ancora più desolante? Più realistico considerare autentico il documento Castrillón e verosimile il resoconto del viaggio cinese di Romeo. Per l’importanza delle fonti. Per le verifiche compiute dal Fatto. E anche perché la guerra (poco santa) tra fazioni e correnti intorno a Ratzinger non può certo sorprendere dopo gli imbrogli e le ruberie denunciate da monsignor Viganò con la lettera pubblicata dal Fatto. Una cosa è certa: da oggi in poi ci sarà molto da raccontare sui segreti che il trono di San Pietro non riesce più a celare.

La Stampa 10.2.12
Trova le differenze
di Massimo Gramellini


Nell’arco di tre mesi il settimanale più famoso del mondo ha dedicato la copertina a due premier diversissimi, nati incredibilmente nello stesso Paese: il nostro. Rimangono le questioni irrisolte. Chi ha le orecchie più grandi? Chi incarna la destra moderna? A chi si è ispirato Leonardo per il sorriso della Gioconda? Come è possibile che in appena tre mesi - il tempo che Alemanno impiega per mettere le catene - secondo il titolista di «Time» siamo passati dallo status di economia più pericolosa del pianeta a quello di ultima speranza d’Europa? Da chi comprereste una barzelletta usata? (Io da Monti: adoro l’umorismo lugubre). L’italiano medio somiglia a uno dei due o il suo sogno è essere Monti di giorno e Berlusconi la notte? Quando mai metteranno Bersani sulla copertina di «Time»?

La Stampa 10.2.12
Perché Barack ha bisogno di noi
di Francesco Guerrera


In America, lo chiamano «the perfect storm», l’uragano perfetto che sta inondando gli Usa con posti di lavoro e crescita. Una confluenza di fattori inaspettata – salari bassi, imprese con molti soldi e consumatori pronti di nuovo a spendere – ha fatto ripartire l’economia più grande del pianeta, dato respiro ai mercati e aumentato le chance che Barack Obama non debba traslocare dalla Casa Bianca a novembre.
Senza l’Europa, però, l’uragano non sarà perfetto. L’America ed il suo Presidente devono sperare che il vagone più importante trainato dalla locomotiva Usa non venga deragliato da crisi rovinose e beghe politiche. Le parole calorose di Obama nei confronti della leadership politica europea – compresa la professione di gran stima nei confronti di Mario Monti in questo giornale – non sono del tutto disinteressate.
Nel mondo della globalizzazione, nessun Paese è un’isola e gli Usa e l’Europa sono legati da relazioni commerciali che ne fanno compagni di viaggio inseparabili. Anche se le traiettorie economiche sono divergenti: l’America è in ripresa mentre l’Europa soffre la recessione. L’ America guarda avanti, con i suoi Facebook, Google e Apple, mentre il vecchio continente si lecca le ferite e contempla senza gioia anni ed anni di austerità per rimettere in sesto i conti.
Ma la relazione è simbiotica. Per Obama e l’America, la ripresa si trasformerà in vera crescita solo e se l’Europa starà fuori dai guai e ricomincia a comprare i prodotti e servizi made in Usa.
I numeri provenienti dagli Stati Uniti non sono affatto male. La crescita è ai livelli più alti in un anno e mezzo – il Pil statunitense è salito del 2.8% negli ultimi tre mesi del 2011. Timothy Geithner, il ministro delle Finanze, ha detto di recente che nel 2012, l’economia potrebbe crescere del 3%. Non è la Cina o l’India, ma nemmeno l’Italia o la Grecia.
Il dato più importante per la Casa Bianca non è però il Pil ma il tasso di disoccupazione – il tallone d’Achille dell’economia Usa e l’area in cui Obama è più vulnerabile dagli attacchi dei candidati Repubblicani, soprattutto un ex finanziere come Mitt Romney.
Anche su questo fronte, però, ci sono state buone notizie. A gennaio, il tasso di disoccupazione è calato all’8.3%, il livello più basso nell’arco dell’amministrazione Obama. Il trend è ancora più gratificante per gli uomini del Presidente: sono ormai cinque mesi di fila che la disoccupazione cala e gli esperti pensano che la tendenza continuerà nei prossimi mesi. Un bell’assist per un Presidente che dovrà andare a vincere voti nel Midwest – il cuore recondito e destrorso degli Stati Uniti dove l’industria manifatturiera regna sovrana. O nel Sud, dove la povertà abbonda e i posti di lavoro sono spariti come neve al sole nel corso degli ultimo decenni.
E’ per questo che, in visita ad una stazione dei pompieri in Virginia di recente, Obama ha preso la palla al balzo e ricordato a tutti che «la ripresa sta accelerando», prima di ammonire che «non si può ritornare alle politiche economiche che hanno causato la recessione».
Belle parole, espresse con il solito piglio oratorio di Obama, vero erede di Demostene, ma che serviranno a poco se la ripresa si ingolfa o smette di tirare.
Ed è qui che l’Europa conta. Analizzando i dati della crescita Usa è ovvio che gran parte delle buone nuove sono concentrate sul fronte interno. Fino ad ora, le imprese che hanno assunto più lavoratori sono prettamente domestiche, settori come i ristoranti, la sanità (che in America è quasi tutta privata) e i servizi professionali (gli avvocati, i notai e le segretarie).
L’industria manifatturiera – uno dei motori dell’economia Usa – non ha partecipato alla festa. Le imprese che producono beni, invece di servizi, hanno recuperato solo 400.000 dei 2 milioni e mezzo di posti di lavoro che hanno perso dall’inizio della crisi Usa.
Ed all’interno del settore, le società che vanno bene sono quelle che si affacciano sul mercato interno, come le «tre grandi di Detroit» – le case automobilistiche, compresa la «nostra» Chrysler – che tutti avevano dato per morte nel 2007-2008.
Non c’è simbolo più concreto della rinascita di Detroit dello spot lanciato dalla Chrysler la settimana scorsa a metà del Super Bowl – la finale del torneo di football Americano che è lo spettacolo più visto negli Stati Uniti. La voce rauca di Clint Eastwood che annuncia: «Siamo all’intervallo America. Rinasceremo nel secondo tempo».
Ma il risultato non dipenderà solo dall’America. Per continuare a trainare – e a ridurre la disoccupazione – gli Usa hanno bisogno di esportare e di esportare in Europa, visto che l’Asia compra poco dall’Occidente.
Al momento, i consumatori italiani, spagnoli e persino francesi e tedeschi non ne vogliono sapere. La crisi economica li sta costringendo a tirare la cinghia e a risparmiare i loro euro.
E’ una dicotomia che racchiude il dilemma economico transatlantico. Il «feelgood factor» - la spinta ai consumi del sentirsi bene – che sta aiutando l’economia Usa è assente dalla depressa, preoccupatissima Europa.
L’uragano perfetto non ha ancora attraversato l’Atlantico.

La Stampa 10.2.12
Italia-Usa, la diplomazia
“Dialogo con la Primavera araba L’America ci vuole in prima linea”
Il ministro degli Esteri Terzi: serve una nuova missione di osservatori in Siria
di Paolo Mastrolilli


Intervista Piena fiducia nella capacità dell’Italia di superare la crisi economica, e soprattutto di spingere l’Europa a porre l’accento sulla crescita e l’occupazione. Appoggio per l’idea di Roma di lanciare una Conferenza per la cooperazione con i Paesi del Mediterraneo, e convergenza sulle linee da adottare verso Siria, Afghanistan e Iran. Sono i punti fondamentali affrontati durante l’incontro di ieri al Dipartimento di Stato tra Hillary Clinton e Giulio Terzi, di cui il ministro degli Esteri italiano ci parla appena uscito dallo studio del segretario americano.
La Clinton ha espresso «fiducia nel governo e nel popolo italiano», per i sacrifici che sta affrontando allo scopo di uscire dalla crisi. Cosa ci chiede di fare?
«Il segretario ha espresso apprezzamento per il grandissimo lavoro che il governo italiano sta facendo per riportare stabilità nell’eurozona e inserire nelle misure gli obiettivi di crescita e occupazione, che qui vengono seguiti con molta attenzione».
Alcuni analisti dicono che l’Italia può svolgere un ruolo chiave di facilitatore nei rapporti tra Usa e Unione Europea, proprio allo scopo di convincere tutti i Paesi della Ue a fare il massimo sforzo possibile per rilanciare l’euro. Ne avete discusso?
«In questo momento c’è un’altissima credibilità del nostro Paese nel mondo americano. Si ritiene che l’Italia abbia un ruolo di grande peso e significato per favorire una forte dinamica di integrazione tra il mercato europeo e americano, ad esempio attraverso gli approfondimenti in corso a Bruxelles per realizzare un “single market” euroamericano, con la riduzione delle barriere tariffarie e il lavoro sugli standard. Sono misure che faciliterebbero molto la crescita e l’occupazione. In questo l’Italia ha un ruolo chiave nei rapporti transatlantici».
Roma intende lanciare una Conferenza per la cooperazione con i Paesi del Mediterraneo, che potrebbe diventare uno strumento permanente per favorire il rilancio dei Paesi cambiati dalla primavera araba. Washington è favorevole?
«C’è molto apprezzamento per l’enfasi che l’Italia sta dando al rapporto con i Paesi del Mediterraneo, per favorire il rafforzamento della democrazia. Processi come la primavera araba attraversano sempre tempeste e temporali. A Washington però c’è un senso di fiducia ed incoraggiamento per il ruolo costruttivo che possiamo avere sul piano bilaterale, e per riequilibrare le politiche europee di vicinato con il Mediterraneo, a partire dal prossimo periodo di prospettive finanziarie».
Come pensate di fermare la repressione in Siria?
«Abbiamo discusso dell’impegno a favorire una soluzione politica, e del fortissimo disappunto per la mancata approvazione della risoluzione Onu, che avrebbe dato ad Assad un segnale preciso, per uscire di scena o porre termine alle violenze. Condividiamoil lavoro della Lega Araba e l’intenzione di inviare una nuova missione di osservatori più incisiva e numerosa, per verificare le responsabilità ed esporre il regime. Questa missione potrebbe essere sostenuta da un gruppo di Amici del popolo siriano o della democrazia in Siria, composto dalla Lega Araba, il Consiglio di Cooperazione del Golfo e l’Unione europea, affinché presenti un fronte più ampio capace di cambiare radicalmente gli equilibri politici in modo rispettoso della volontà democratica del Paese».
Avete considerato l’opzione militare?
«Non ne ho avuto alcuna conferma. Sarebbe ardito pensare ad azioni umanitarie sostenute dalla forza, senza un passaggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu o l’appoggio della Lega Araba. Non è questa l’intenzione degli americani o degli europei».
Sull’Afghanistan, in vista del vertice Nato di Chicago, resta confermato il 2014 per il ritiro? E l’Italia che sostegno darà dopo quella data?
«Il percorso delineato a Lisbona verrà confermato a Chicago. Ci potrà essere un’accelerazione nel 2013, ma resterà una presenza fino al 2014. C’è grandissimo apprezzamento del lavoro eccellente compiuto dai soldati italiani per la sicurezza, l’addestramento delle forze locali e lo sviluppo della società civile».
Le sanzioni appena approvate contro l’Iran basteranno a risolvere la crisi, o bisogna considerare l’ipotesi militare?
«Abbiamo parlato di attuazione delle sanzioni. C’è consapevolezza che l’Italia sopporta dei costi, ma partecipa ad una linea a doppio binario: riportare l’Iran al tavolo della trattativa per evitare la militarizzazione del programma nucleare, e sostenere il sistema sanzionatorio. Sui temi strategici generali, poi, ci siamo accordati per tenere consultazioni più frequenti».

Corriere della Sera 10.2.12
Il declino della Sapienza all’ombra di Parentopoli
Al 430º posto nel mondo
Luigi Frati. Nell’ateneo dopo moglie e figlia anche il figlio del rettore
di Gian Antonio Stella


« Parentopoli? Ma perché non parlate di " Ignorantopoli"? Questo è il vero problema dell’università italiana. Voi giornalisti fate solo folklore! » , sibilò il rettore della Sapienza Luigi Frati al nostro Nino Luca. Ma la Procura non è d’accordo: papà, mamma, figlia e figlio docenti nella stessa facoltà sono troppi, come coincidenze. E sull'arrivo dell'ultimo Frati a Medicina ha aperto un fascicolo. Tanto più che «Parentopoli» e «Ignorantopoli», dicono le classifiche internazionali, possono coincidere.
Il rettore di quello che sul Web si vanta di essere il più grande ateneo italiano (nel senso di più affollato: 143 mila studenti, pari all'intera popolazione di Salerno o quelle di due capoluoghi come L'Aquila e Potenza insieme) era da tempo nel mirino di chi denuncia certi vizi del nostro sistema universitario.
Senese, un passato da sindacalista, uomo dalla capacità funambolica di fluttuare tra destra e sinistra, preside per un'eternità di Medicina dal lontano 1990 in cui Gava era ministro degli Interni e Chiesa si occupava amorevolmente dei vecchi ospiti del Pio Albergo Trivulzio e «altro», quello che i suoi studenti più perfidi hanno soprannominato «BaronFrati», è da sempre un uomo tutto casa e facoltà.
Al punto che non solo nella «sua» Medicina si sono via via accasate la moglie Luciana Rita Angeletti in Frati (laureata in Lettere: storia della Medicina) e la figlia Paola (laureata in Giurisprudenza: Medicina Legale) ma perfino il brindisi per le nozze della ragazza fu fatto lì. Indimenticabile il biglietto: «Il prof. Luigi Frati e il prof. Mario Piccoli, in occasione del matrimonio dei loro figli Paola Frati con Andrea Marziale e Federico Piccoli con Barbara Mafera, saranno lieti di festeggiarli con voi il giorno 25 maggio alle ore 13.00 presso l'aula Grande di Patologia Generale».
Arrivò una perfida e deliziosa «sposina» delle Iene, quella volta, a guastare un po' la giornata. Ma fu comunque un trionfo. Quasi pari, diciamo, alla passerella offerta dal nostro, anni dopo, a Muammar Gheddafi, salutato come uno statista e invitato nell'aula magna, sul palcoscenico più prestigioso, perché tenesse agli studenti una «lectio magistralis» su un tema davvero adatto al tiranno: la democrazia. Tema svolto tra risate sbigottite («demos è una parola araba che vuol dire popolo come "crazi" che vuol dire sedia: democrazia è il popolo che si siede sulle sedie!») mentre lui, il rettore, si lasciava andare in lodi per le prosperose amazzoni di scorta: «Le abbiamo apprezzate molto! Purtroppo c'è qui mia moglie...».
Adorato da chi ama il suo senso del potere e il linguaggio ruspante (resta immortale un video dove spiega agli studenti: «Nun date retta ai professori perché i professori si fanno i cazzi loro. I professori fanno i cazzi loro, lasciateli perdere!»), il giorno in cui si insediò come rettore liquidò le polemiche sul nepotismo così: «È stato fuori luogo tirare in ballo mia moglie, la professoressa Angeletti, perché lei è quella che è, io sono quello che sono. Non è lei che è "la moglie di", sono io che sono "il marito di"».
Il guaio è che oltre a essere «il marito di» Luciana Rita e «il padre di» Paola, è anche «il padre di» Giacomo. Che per fatalità è lui pure entrato nella facoltà di Medicina di papà: ricercatore a 28 anni, professore associato a 31. Come vinse il concorso lo rivelò una strepitosa puntata di Report: discusse «una prova orale sui trapianti cardiaci» davanti a una commissione composta da due professori di igiene e tre odontoiatri. E nessun cardiochirurgo.
«Ma lei si farebbe operare da uno che è stato giudicato da una commissione di Odontostomatologi?», chiese Sabrina Giannini, l'inviata della trasmissione di Milena Gabanelli a uno dei commissari, Vito Antonio Malagnino. Farfugliò: «Io... Non parliamo di cuore o di fegato, però...». «Secondo lei tre dentisti e due specialisti d'igiene potevano adeguatamente...». «Forse no però questo non è un problema mio...».
Vinta la selezione, il giovane professore viene più avanti chiamato come associato a Latina, dependance del Policlinico universitario di cui è rettore papà. Giusto un attimo prima, coincidenza, dell'entrata in vigore della riforma Gelmini contro il nepotismo. Quella che vieta di assumere come docenti nella stessa università i parenti dei rettori, dei direttori generali e dei membri del consiglio di amministrazione.
Ma queste, compreso un ricorso al Tar, erano solo le prime puntate della «Dinasty» fratiana. Il meglio, come hanno ricostruito Federica Angeli e Fabio Tonacci sulla cronaca romana di Repubblica, sarebbe arrivato nelle puntate successive. Occhio alle date: il 28 gennaio 2011 il rettore Luigi Frati sceglie come commissario straordinario del Policlinico Antonio Capparelli. Qualche settimana dopo, il 22 marzo, lo nomina direttore generale. Passa meno di un mese e il 19 aprile Capparelli, togliendo un po' di posti letto a un altro reparto a costo di scatenare le ire di quanti si sentono «impoveriti», firma una delibera creando «l'Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» nell'ambito del dipartimento Cuore e grossi vasi e chiama da Latina, per ricoprire un ruolo paragonabile a quello di primario, Giacomo Frati. Cioè il rampollo dell'uomo che lo aveva appena promosso.
Ora, a pensar male si fa peccato e, in attesa del responso dell'inchiesta giudiziaria, noi vogliamo immaginare che la famiglia Frati sia composta di quattro geni: un genio lui, un genio la moglie, un genio la figlia, un genio il figlio. Ma la moglie di Cesare, si sa (vale anche per la figlia di Elsa Fornero, si capisce) deve essere al di sopra anche di ogni sospetto. Che giudizi possono farsi, gli stranieri, davanti a coincidenze come queste?
Sarà un caso se la reputazione dei nostri atenei nelle classifiche mondiali è così bassa? Dice l'ultimo Academic Ranking of World Universities elaborato dall'Institute of Higher Education della Jiao Tong University di Shanghai che, sulla base di sei parametri, la Sapienza si colloca nel gruppone tra il 100° il 150° posto. La Scuola Normale di Pisa, però, rielaborando i sei parametri utilizzati (numero di studenti vincitori di Premi Nobel e Medaglie Fields; numero di Premi Nobel in Fisica, Chimica, Medicina ed Economia e di medaglie Fields presenti nello staff; numero delle ricerche altamente citate di docenti, ricercatori, studenti; numero di articoli pubblicati su Nature e Science nel quinquennio precedente la classifica; numero di articoli indicizzati nel Science Citation Index e nel Social Science Citation Index; rapporto tra allievi/docenti/ricercatori e il punteggio complessivo relativo ai precedenti parametri) è arrivata a conclusioni diverse.
Se il calcolo viene fatto tenendo conto della dimensione di ogni università, sul pro capite, tutto cambia. E se la piccola ed elitaria Scuola Normale si inerpica al 10° posto dopo rivali inarrivabili come Harvard, Stanford, Mit di Boston o Berkeley, ecco che le altre italiane seguono a distanza: 113ª Milano Bicocca, 247ª la Statale milanese, 248ª Padova, 266ª Pisa e giù giù fino a ritrovare la Sapienza. Che stracarica di studenti ma anche al centro di perplessità come quelle segnalate, è addirittura al 430° posto. E torniamo alla domanda di Frati: qual è il problema, «Parentopoli», «Ignorantopoli» o forse forse tutte e due?

il Fatto 10.2.12
Caso Conti, la Finanza all’ente degli psicologi per il miracolo immobiliare


L’ inchiesta sulla “fortunata” compravendita del palazzo di via della Stampeia, che il 31 gennaio 2010 ha fruttato al sentaore Conti, del Pdl, ben 18 milioni in poche ore, è culminata ieri con il sequestro da parte della nucleo valutario della Gdf di tutti i documenti legati all'acquisizione dello stabile presso Idea Fimit di Massimo Caputi – la società immobiliare che per conto del Fondo Omega lo aveva venduto all' immobilare Estate2 a 26 milioni di euro – e presso l'Enpap, l'Ente di previdenza degli psicologi che lo aveva rilevato poche ore dopo a 44 milioni garantendo al senatore Conti, amministratore unico di Estate due, la plusvalenza di 18 milioni. A disporre l'acquisizione dei documenti è stato il procuratore aggiunto Caperna che, con i pm Fasanelli e Amelio, sta svolgendo accertamenti sui retroscena di questa vicenda, su cui è stato aperto un fascicolo, ancora a carico di ignoti, in cui il reato ipotizzato è peculato. Si tratta infatti di beni amministrati da un Ente pubblico.

il Fatto 10.2.12
“Europa” e il mistero del consulente
Paga 150mila euro un professionista anonimo che raccoglie poca pubblicità
di Carlo Tecce

Europa sta per festeggiare nove anni in edicola con 27,7 milioni di contributi pubblici ricevuti. Però, non ha mai potuto brindare per un bilancio in pareggio. Nemmeno il primo: un mese di esercizio, 16mila euro di rosso. Niente in confronto ai 5,2 milioni dispersi in questi nove anni. É banale la prima domanda per il giornale che fondò la Margherita e che gestiva Luigi Luisi: quanto vende? Non lo sa neppure il direttore Stefano Menichini: “Non siamo monitorati, non ho cifre precise. Credo che sfioriamo le 4mila copie, di cui forse 2mila abbonati”. Europa esce 260 volte l'anno al prezzo di 1 euro, i ricavi per vendite (453mila euro) quasi coincidono con le perdite in bilancio (345mila): dunque, in media 1.500 italiani ne acquistano una copia. I costi per il personale (1,6 milioni) incidono tanto per un organico di 25 dipendenti di cui 21 giornalisti. Ogni pagina del bilancio, che negli anni diventa più criptico, appare astrusa e spropositata per un giro di affari di 5 milioni di euro con ben 3 che bonifica lo Stato. E la voce “consulenze e prestazioni professionali” ricorrente e immotivata è quella che attira più attenzione: quasi un milione di euro in sette anni, sempre circa 150 mila euro l'anno, tranne 41mila nel 2010.
Menichini si fa trovare impreparato: “Non conosco la destinazione di quei soldi. Forse le collaborazioni? ”. No, per quelle pagate 233mila. “I contratti a progetto? ”. No, per quelli spendete 58mila. “Allora, aspetta chiedo all'amministratore delegato”. La sindrome Lusi, il tesoriere accusato di aver fatto sparire 13 milioni di euro dal patrimonio dell'ex partito Margherita, colpisce anche Menichini che, terrorizzato, si confessa: “In questi giorni mi studio il bilancio per capire se qualcosa di strano è accaduta persino a noi. Per il momento, mi sembra tutto chiaro e giustificato. Mi aveva colpito quella voce “consulenze e prestazioni professionali?
Posso darti il contatto dei responsabili, anzi, telefono io e ti faccio sapere. Sai, il nostro amministratore delegato è piuttosto anziano”. Il quesito resta sospeso.
Passa mezz'ora, il direttore richiama convinto di aver risolto i dubbi: “Non ho le carte qui sottomano, ma se non mi sbaglio, si riferiscono al gettone per l'amministratore delegato e per il presidente del Consiglio di amministrazione”. No, per l'amministratore delegato c'è uno stipendio di 75mila euro e per il presidente del Consiglio di amministrazione un rimborso di 18mila euro. Pausa. Aspettiamo Menichini invano con i dubbi che s'infittiscono di ora in ora. Proviamo a richiamare. Il direttore sta per chiudere il giornale, domani si torna in edicola con la speranza che l’inchiesta che coinvolge il tesoriere Lusi sorvoli su Europa senza lasciare tracce imbarazzanti.
STAVOLTA, Menichini ha la soluzione: “Posso dirti che si tratta di una consulenza che avevamo con un signore adesso anziano per la raccolta pubblicitaria”. Curioso: Europa pagava (e paga?) un professionista 150mila euro l’anno per racimolare poche centinaia di migliaia di euro in pubblicità? A volte un milioncino scarso, a volte mezzo. Ci riflette su, il direttore: “In effetti non è stata una scelta societaria fortunata. Non avevamo grossi benefici, il mercato non ci ha aiutato. Ma devi sapere - e cambia discorso - che noi, se ricordi, avevamo scritto su quell’idea di trasferire i giornali di partito su Internet. Beh, noi la pensiamo così”. Menichini va di fretta. C’è ancora tanto da spulciare nei bilanci di Europa firmati anche Luigi Lusi.

Repubblica 10.2.12
Tutti negano di aver avuto aiuti economici da Lusi. Eppure le regole permettevano di ottenerli
Fondi "riservati" per volantini e convegni l’ora della paura tra gli ex Margherita del Pd
L’ex tesoriere potrebbe aver creato altri conti, oltre ai due collegati alla T.T.T.
di Goffredo De Marchis


ROMA - E se Lusi avesse finanziato la politica anche attraverso i suoi conti segreti? Se l´ex tesoriere della Margherita avesse preso i soldi del partito per trasferirli su depositi della T.T.T., la sua società, non solo per comprare case ma anche per aiutare qualche politico? Da giorni ex dirigenti di Democrazia e libertà, sigla estinta 4 anni fa ma con la cassa piena, continuano a ripetere: «L´inchiesta è chiusa, la Procura ha già trovato tutto». Invece no. Adesso si dice che accanto ai due conti della T.T.T. già scoperti ce ne siano altri, foraggiati anch´essi con il denaro del finanziamento pubblico. E che da lì, fuori da ogni regola interna, siano finiti nelle tasche di qualcuno per campagne elettorali, voltantini, tipografie, affitti di sale, convegni. Non solo a sinistra. Anche al centro e a destra.
La voce dei conti segreti usati per la politica complica la situazione. Già oggi è impossibile trovare un solo dirigente della Margherita che ammetta di aver ricevuto un euro da Lusi, dalla nascita del Pd a oggi. Soldi che non avrebbero niente di illecito o di imbarazzante perché Dl poteva continuare ad "aiutare" i dirigenti che avevano scelto «la democrazia bipolare e una stabile collocazione nel centrosinistra», come si legge nella risposta della Margherita al ricorso di Carra e Lusetti, deputati passati all´Udc ed esclusi dall´attività di Dl. Lusi era in pratica un rubinetto che aveva l´obbligo di aprirsi in caso di iniziative, assemblee, feste di partito, manifesti. Però nessuno sembra avervi fatto ricorso. Lucio D´Ubaldo, senatore del Pd vicino a Beppe Fioroni, ricorda: «Gli chiesi un contributo per la mia rivista il Domani. Mi respinse con perdite». Gli uomini vicini a Dario Franceschini rispondono: «Non sapevamo nemmeno che esistesse questa possibilità». Matteo Renzi da Firenze ha smentito qualsiasi contributo per le primarie del 2009, per la campagna elettorale da sindaco e per il Big Bang della Leopolda. Da altri viene la stessa risposta. Ma il "tesoro" della Margherita poteva e doveva essere utilizzato per l´attività politica e semmai l´imbarazzo potrebbe nascere, guardando i conti correnti depositati ieri dagli avvocati del partito che resta parte lesa, da una disparità di trattamento tra i dirigenti ex Margherita. Se i soldi alla politica sono arrivati anche dai conti segreti di Lusi, dalla T.T.T. dalla società canadese, però, cambia tutto. Perché sono passati su quei depositi? Chi hanno finanziato? Quali equilibri hanno spostato negli ultimi difficili anni della politica italiana?

Repubblica 10.2.12
Soldi e politica. Partito democratico
Da Coop e banchieri i contributi più alti Mussari dona 185 mila euro in due anni


Nel 2008 il Pd riceve 6.310.702 euro da "persone fisiche" (sono soprattutto i contributi dei singoli parlamentari) e 1.489.017 euro da "persone giuridiche". Di queste ultime, società o enti interessati a finanziare il partito, sappiamo molto poco perché la maggior parte dei versamenti non supera i 50mila euro. L´unica dichiarata, con i suoi 60mila euro, è il Consorzio nazionale servizi, un enorme agglomerato di cooperative di ogni genere. Sono invece in chiaro i contributi ai partiti locali. Lì spiccano i 55mila euro al Pd di Alessandria dell´imprenditore Guido Ghisolfi, le coop costruzioni e gli editori Zanichelli a Bologna, la Delta immobiliare e i suoi 100mila euro al Pd di Genova, l´Eurotrade immobiliare che ne ha dati altrettanti a quello lombardo. E i banchieri: il Pd di Siena riceve da Giuseppe Mussari, presidente di Monte Paschi e dell´Abi, 85mila euro nel 2009 e 100mila nel 2010. E dal suo vice in Monte Paschi, Ernesto Rabizzi, 75mila euro nel 2010.

Repubblica 10.2.12
Quel filo rosso dalla P2 a Mani pulite
di Gherardo Colombo


All´inizio della mia attività di giudice istruttore mi succedeva di investigare su reati diversi dalla corruzione o dal finanziamento illecito dei partiti e via dicendo. Potevo supporre l´esistenza di illegalità da quel che leggevo sui giornali a proposito di inchieste condotte da colleghi, ma quando abbiamo trovato le carte della P2 ho avuto subito la certezza che ci trovavamo di fronte alla punta di un iceberg. Esaminando gli elenchi della loggia ci si imbatteva nei nomi di ministri, parlamentari, giornalisti, appartenenti ai servizi di sicurezza, militari, quasi tutte persone che, oltre ad aver giurato fedeltà alla Repubblica, avevano anche giurato fedeltà a quella associazione segreta. C´erano deputati che appartenevano a partiti assai diversi, che sostenevano politiche diverse e nello stesso tempo erano accomunati dal giuramento alla P2. (…)
Secondo me la corruzione non è diminuita, è diminuita la scoperta della corruzione, sono diminuiti i processi, ma non la corruzione. Se è avvenuto che diminuisse, è stato per un periodo molto limitato, questione di due o tre anni, durante i quali, peraltro, tanti si lamentavano che la Pubblica amministrazione non fosse più in grado di promuovere opere pubbliche a causa degli «ostacoli» posti dal nostro intervento. Ma, di fatto, già dal ‘95 il vento incominciava a cambiare. (…)
A me pare evidente che l´imperativo di far funzionare la giustizia nel rispetto dell´articolo 3 della Costituzione (l´uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge), che in Mani pulite, così come in qualsiasi altra indagine, abbiamo cercato di attuare, non si sia realizzato. Tra prescrizioni e leggi cambiate, alla fine il risultato processuale è stato molto limitato, e si è riaffermato il senso d´impunità che esisteva prima dell´inizio delle indagini e che già avevo sperimentato nella mia precedente esperienza. Tanto che fenomeni corruttivi hanno continuato a manifestarsi anche successivamente, sembra con una certa intensità. Temo quindi, per usare un´estrema sintesi, che Mani pulite, giudiziariamente, sia servita a poco o a «nulla», e che anche culturalmente sia servita a ben poco. (…)
Non scopriamo di certo oggi che proprio nella sede penale si realizza il monopolio della violenza da parte dello Stato, e che si può fare il magistrato o esasperando questa violenza o cercando di temperarla il più possibile e applicarla a tutti allo stesso modo. Personalmente credo che l´uso di questa violenza istituzionalizzata (tutto quel che fanno giudici e pubblici ministeri sarebbe reato se fosse compiuto da un privato cittadino: mettere in prigione equivale al sequestro di persona; perquisire una casa alla violazione di domicilio; sequestrare un oggetto al furto o alla rapina) in Mani pulite sia ricorsa con le stesse (anzi, con più tenui) modalità presenti nella generalità dei casi. Non credo minimamente che si possa paragonare un´indagine, una serie di processi agli eventi di cui hai parlato. Il processo penale è destinato all´accertamento di responsabilità personali in relazione a determinati reati, ed è questo che noi abbiamo fatto. Del resto, non era nostro compito fare altro. Se, come sembra anche a me, dal tentativo di realizzare la norma costituzionale dell´uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge si è passati alla riaffermazione della disparità, bisogna chiederne conto non ai magistrati ma alla politica.
(da "Farla franca. La legge è uguale per tutti?", e Franco Marzoli, Longanesi)

Repubblica 10.2.12
"Si ruba ancora ma per sé ecco perché 20 anni dopo Tangentopoli non è finita"
Faccia a faccia Greco-Cusani, la guardia e il ladro
di Piero Colaprico


I due hanno un rapporto curioso: in parte sono reduci, in parte sono proiettati al futuro: una sorta di esigenza "di fare qualche cosa" li accomuna
Le cricche spadroneggiano e i favori reciproci sono il sistema "gelatinoso" vigente. Ma chissà quando potrà essere debellato il sistema delle tangenti

MILANO - «Ah, ho capito, volete giocare a guardia e ladri», dice Sergio Cusani, indimenticabile imputato unico del «padre di tutti i processi» di Tangentopoli. La diretta tv dedicata al suo processo, con la carrellata di leader di partito a libro paga (Lega Nord compresa), polverizzò ogni record d´ascolto, e dette una spallata definitiva alla Prima Repubblica. «Accetto l´incontro solo se guardiamo un bel po´ al futuro, altrimenti so che perdiamo tempo, e perde tempo anche il lettore», premette il procuratore aggiunto Francesco Greco. È l´Highlander dell´antico pool Mani Pulite, il superstite di quella stagione rimasto al suo posto in procura. L´appuntamento è all´ora di colazione in un ristorante dietro il palazzo di giustizia. Di vista ci si conosce in tanti, spuntano avvocati, carabinieri, magistrati, giornalisti. Una signora spiega alle amiche: «Eh, già, sono vent´anni da Mani pulite, era il 17 febbraio del ´92 quando arrestarono Mario Chiesa. Da allora non è cambiato niente, "come prima, più di prima, ruberò"». Un collega saluta: «Vent´anni dopo, cavolo, ci pensi?, è cambiato tutto. Allora c´erano i politici, ora ci sono professori e banchieri».
Insomma, vent´anni dopo, è cambiato tutto o non è cambiato niente? «Se vogliamo capire, dovremmo fare una specie di "punto nave"», riassume Cusani, e Greco approva. I due hanno un rapporto curioso, in parte sono reduci, in parte sono proiettati al futuro: una sorta di esigenza di "fare qualche cosa" li accomuna. E Cusani – va detto – dopo il carcere (su più di 1.400 condannati, uno dei pochi a scontarlo) s´è esfiltrato da tutto, fa il consulente della Fiom e della Cgil, per un euro all´anno. Da un primo sguardo al passato viene rivelato un aspetto inedito anche per chi scrive: «No, l´arresto di Chiesa dentro la Baggina, che molti ritengono il punto di rottura, non fece scattare un particolare allarme rosso nella politica e nelle imprese. I politici si sentivano così potenti che ognuno pensava che dietro Di Pietro ci fosse un burattinaio, non si creò il panico, all´inizio, e la magistratura era considerata consonante con il potere politico», diciamo pure controllabile.
E allora, Cusani, quando capiste che si metteva male? «Quando i giornali non si fermarono. Nessuno ne fu capace». Il primo arrestato era socialista, e cioè del partito di Bettino Craxi, che il direttore Eugenio Scalfari aveva ribattezzato Ghino di Tacco, come il bandito che chiede il pizzo a ogni passaggio. Noi di Repubblica chiamammo quello che accadeva Tangentopoli, il neologismo dilagò, l´ondata giornalistica divenne uno tsunami «anche perché irruppe sulla scena della comunicazione la televisione, con le sue dirette a ritmo incessante», ricorda Cusani. E Bettino Craxi non ebbe il trattamento di favore del «giornalismo salvaguai» (copyright Clemente Mimun) di cui disporrà in seguito Silvio Berlusconi.
Segretari politici e amministrativi
Cusani aggiunge anche un´altra sfumatura: «Mentre i segretari politici si facevano la guerra in pubblico, i segretari amministrativi si sentivano in continuazione, avevano tutti il medesimo problema, mantenere gli enormi apparati territoriali dei partiti. Perciò si erano passati un´idea: "Prendiamo dall´elenco degli iscritti, che non sanno nulla, 500 nomi ogni mese, e fingiamo che ciascuno faccia una donazione sotto i 5 milioni di lire, non dichiarabili. In questo modo trasformiamo le somme in nero in finanziamenti ufficiali", e così andò, praticamente una lavanderia legale», e sicuramente bancaria.
Man mano che emergevano concussioni e corruzioni, l´opinione pubblica si schierò contro i politici. «A volte - spiega Greco - esistono delle alchimie impreviste. Se Antonio Di Pietro riusciva a fare interrogatori impensabili, e mi ricordo la sua domanda, "Ma in punta di diritto, i soldi li hai presi o non li hai presi?", tutto il nostro gruppo, il pool, interagiva. Colombo, Davigo, con il loro passato di inchieste difficili, io che mi ero sempre occupato di criminalità politico-finanziaria, con Icomec, Lombardfin, metropolitana milanese. Eravamo liberi e ci misero insieme e, come coordinatore, avevamo D´Ambrosio, rimasto uno "di battaglia". E Borrelli, procuratore capo, raffinata testa pensante, a farci da chioccia. A volte, ci dicevamo, è incredibile, non resiste nessuno. E se subivamo un attacco politico, l´opinione pubblica, finalmente informata dei fatti, ci dava sostegno…».
Per chi si ruba oggi
Gli occhi chiari del magistrato Greco, al paragone con quello che accade oggi, si rannuvolano: «Oggi, quando arrestiamo qualcuno, per esempio un dirigente dell´Enel che s´era preso 20 milioni, scopriamo che si tiene i soldi tutti per sé. Allora, quando scoprivamo un episodio di corruzione in un´azienda pubblica, emergevano flussi di denaro in direzione di vari partiti. Se pure qualche somma di denaro oggi finisce al politico, resta al politico, fine. Questo è un grande cambiamento criminale che racconta però il grande cambiamento della politica. La tangente, ai tempi di Mani pulite e anche prima, era il punto d´incontro. Era la sintesi, sbagliata finché si vuole, e infatti perseguita penalmente, tra la politica e l´imprenditoria. Cioè tra due soggetti diversi… I partiti avevano allora un ruolo di mediazione tra tutti gli interessi del Paese, quello dei cittadini, dei lavoratori, delle imprese, delle chiese e via dicendo». «La storia di Tangentopoli infatti non può essere letta come un unico filo, ma è un grande ordito. Mi spiego meglio. Oggi – dice Cusani - si parla molto di "Alta velocità" nelle ferrovie, bene, il programma degli appalti comincia prima del ´92, ma in che modo? Se c´erano cento imprese a spartirsi i lavori, in quell´occasione non si volle avere a che fare con troppi interlocutori. Venne deciso dall´alto che si doveva semplificare, e le società capofila degli appalti diventarono solo tre, Fiat, Eni, Iri, e tagliano fuori da quello che sarebbe stato il grande "appalto-paese" la Ferruzzi Montedison di Raul Gardini. E così intervengo io con i partiti».
Molte intermediazioni lasciano tracce, così come i pagamenti estero su estero, «e infatti – puntualizza il procuratore aggiunto – quasi nessuno parla dell´importanza delle rogatorie in Svizzera, ci davano velocemente gli estratti-conto». Lasciano tracce denari e bonifici, così come i gigantismi dei congressi dei partiti di governo, le campagne elettorali continue, i disinvolti comportamenti personali: i puff con i lingotti d´oro, il politico che mantiene un voto mandando un imprenditore a dare a un santuario una «elemosina che non si può rifiutare». Se fatti, reati e personaggi sono stranoti, il «punto nave» della lettura del Paese attraverso Tangentopoli che cosa dice?
Le cricche e i tecnocrati
«I partiti, screditati, perdono immagine e funzione, e gli imprenditori, con Berlusconi, entrano direttamente nella politica. Non portano più diritti e doveri dei cittadini, ma interessi privati e collettivi, dando il via anche alla politica dell´annuncio», dice Cusani. «E io dalla mia scrivania – continua Greco – non vedo più correre le mazzette tra imprenditori e politici, ma mi accorgo che alla crisi della politica corrisponde l´aumento vertiginoso della criminalità economica, con frodi, aggiotaggi, il riciclaggio. Il nuovo gangsterismo economico prospera anche senza partiti. Vedo le grandi imprese che attraverso quella che chiamano ottimizzazione fiscale sottraggono soldi alle casse dello Stato, e ridistribuiscono gli utili ai loro top manager, pagando un´aliquota prima del 12,5 per cento e ora del 23 per cento, quando sugli stipendi normali il prelievo è del 43 per cento. E magari questi bonus glieli pagano in parte anche alle isole Cayman o in qualche paradiso fiscale. Una volta, diciamo quando c´era Tangentopoli, il grande capo di una banca guadagnava cinquanta volte di più dell´usciere, ora, in questo nuovo sistema degli imprenditori entrati in politica, guadagna 250 volte, se non di più, tra superstipendio e superliquidazione».
Le cricche spadroneggiano e i favori reciproci (notti e massaggi con escort compresi), sono il sistema «gelatinoso» vigente. Ma chissà, domandiamo, attraverso il fisco, attraverso la trasparenza delle dichiarazioni dei redditi, potrà essere debellato il sistema basato sulle tangenti? Sia Greco, sia Cusani, sono meno ottimisti: «La società italiana s´è americanizzata, i partiti coincidono con i loro portavoce, Di Pietro, Casini, sino a ieri Berlusconi, o Fini, e si sono svuotati, mentre le lobby prendono il potere. Mai – puntualizza Cusani - si era visto, prima di oggi, un grande banchiere tradizionale come ministro economico, o no?». «Se le corporazioni si sono fatte Stato, se tassisti, notai, farmacisti e altri si ribellano, chi è rimasto a proteggere diritti e doveri?», domanda retorico Greco. «Si parla tanto dell´articolo 18, ma non mi pare che sia quello della licenziabilità il primo problema. Noi magistrati da anni chiediamo che, per il bene del Paese e del cittadino, la vicenda di Tangentopoli servisse a inquadrare meglio lo spessore dei reati, per punire il falso in bilancio, per comprendere la pericolosità delle frodi finanziarie, per tutelare il risparmiatore che ha avuto fiducia di imprenditori e banche. Nel frattempo, la corruzione è stata superata dal traffico di influenze, dal pubblico ufficiale che approfitta della propria funzione e del proprio ruolo. In America infliggono trent´anni di carcere, qui da noi nessun governo osa affrontare la questione. Solo che queste disuguaglianze sociali, in così forte aumento, mi ricordano un po´ il clima che c´era negli anni Novanta. C´è gente che rivuole la legalità, difende il diritto di vivere dignitosamente, onestamente».
Si fischia, si manifesta, la disoccupazione e il posto fisso che sparisce mettono angoscia e il «punto nave» dei due sembra dirci che vent´anni dopo Tangentopoli, e dopo le bugie di Berlusconi sullo «state tranquilli, la crisi non esiste», noi italiani siamo ancora in mare aperto: questo, in fondo, un po´ lo sapevamo. Però Greco e Cusani, testimoni del crollo della prima Repubblica, nell´orizzonte cercano a sorpresa una stella. Quella della Politica, e chissà se spunterà.

l’Unità 10.2.12
Rangeri, il manifesto «L’informazione è un bene pubblico»
Affollata conferenza stampa nella redazione del «manifesto». Appello ai lettori: «Comprateci» per rialzare le vendite, in attesa del «liquidatore». Il Pd: «Monti mantenga le promesse». Nel Milleproroghe l’editoria resta fuori.
di Natalia Lombardo


«Siamo giunti all’ultimo miglio della nostra battaglia» e «non sarà facile resistere, resistere, resistere» dopo i tagli dei fondi per l’editoria, ma il manifesto farà «di tutto» per continuare a esistere. Nella redazione del quotidiano che, dal 1971, vive il momento più duro e la condizione di «commissariato», novità per una cooperativa editoriale, in un’affollata conferenza stampa la direttrice Norma Rangeri torna a fare appello ai lettori perché le vendite risalgano. Potrebbe così cambiare l’ottica del «liquidatore» che arriverà entro il mese, dopo la «liquidazione coatta» firmata al ministero dello Sviluppo. Non è una delle tante sottoscrizioni lanciate in questi anni, ma è un fatto vitale, perché «l’informazione è un bene pubblico, e stanno uccidendo il pluralismo», denuncia Rangeri: «Chiediamo di comprare il manifesto tutti i giorni, perché abbiamo un bacino di lettori di 50mila lettori ma poi le vendite sono 20mila», è l’appello che aveva già lanciato sul sito e moltiplicato sui social network. Quindi «comprateci tutti i giorni», e magari «compratene due copie e una regalatela».
E ancora, la campagna «1000 per 1000», mille euro da mille persone, che potrebbe far tirare un respiro alla voce prima «eretica», poi comunque critica, della sinistra. Valentino Parlato, che diresse il manifesto a più riprese nell’arco di 35 anni (dal 1975 al 2010), è un tutt’uno col quotidiano e ammette che «il giornale nell'ultimo periodo si è addormentato ed ha ceduto copie», quindi «ora dobbiamo diventare più aggressivi, lanciare un giornale di lotta». Una sfida perché le vendite riprendano, ma se non sarà così «al commissario non resterà che sciogliere la cooperativa e mettere all'asta la testata», spiega Parlato. Nel ‘94 fu valutata 29 miliardi di vecchie lire, la cooperativa editrice possiede il 70% della società che detiene la testata, il restante 30% è diffuso tra persone fisiche, come il sindaco di Milano Pisapia.
Nella sede l’atmosfera è di tristezza ma con ironia, «sembrava una delle nostre assemblee» raccontano sul sito con foto di gruppo. Sono venuti gli ex direttori, Sandro Medici, Riccardo Barenghi, Mauro Paissan, e intellettuali come Sandro Portelli. Beppe Giulietti, portavoce di Articolo21, è furibondo: «Monti sta riuscendo dove non è riuscito Berlusconi», perché basterebbe che il governo si rendesse conto dell’urgenza per 100 testate e per il pluralismo, e che sbloccasse quei 53 milioni dal Fondo Letta (ora si chiama Fondo Monti), più altri 48 presi in considerazione. Giulietti e Carra (Udc), hanno chiesto un incontro con il sottosegretario Peluffo e propongono che sia «trasformato in legge l’odg presentato alla Camera» da tutti, e accolto dal governo.
È persa la battaglia nel Milleproroghe, spiega trafelato il senatore Pd, Vincenzo Vita: quando ha visto cassare gli emendamenti per salvare l’editoria ha detto: «Se non rimettono i fondi potrei non votare più la fiducia al governo». Matteo Orfini e Francesco Verducci, Pd, in difesa del pluralismo chiedono al premier di «tenere fede all’impegno preso di sostenere i giornali “veri”».

il Fatto 10.2.12
Dopo la liquidazione coatta
“il manifesto” non si rassegna, comincia la battaglia definitiva per sopravvivere
di Luca Telese


Il manifesto, nel suo giorno più difficile. Il giornale riunito come per un lutto, lo stanzone della redazione pieno di fumo, il senso del dramma che si avverte appena varcata la porta. Norma Rangeri parla lentamente, quasi pensando le parole – gravi – con cui apre la sua conferenza stampa: “Questo taglio ai fondi dell’editoria colpisce il nostro giornale e altri 200 in modo quasi letale. C’è rischio concreto, immediato di chiusura. C’è il rischio che Monti riesca dove Berlusconi ha fallito”.
PER CAPIRE quanto sia tragica l’atmosfera nella sede del quotidiano più antico della sinistra radicale (40 anni di vita, una bandiera nelle tasche di tanti lettori) basta contemplare il viso quasi scultoreo di Valentino Parlato, a fianco della direttrice. La mano del fondatore è appoggiata sulla fronte, la testa reclinata, gli occhi che si chiudono mentre scuote il capo. Parla poco, non nasconde il suo disagio: “Non sarà facile resistere, ma non ci arrendiamo”. La Rangeri invece è triste (ma anche incazzata). Si lascia sfuggire una battutaccia, sull’incertezza che aleggia da mesi intorno ai fondi che il governo dice di volere erogare, ma anche di voler tagliare, e che alla fine ha ridotto del 40 per cento: “Questo tira e molla rende impossibile qualsiasi piano industriale, qualsiasi forma di finanziamento: eppure conoscono bene i meccanismi del credito perché sono tutti banchieri”. Ancora più netta: “É un doppio attacco: quello della censura del potere e quello del malaffare di chi ha approfittato in questi anni di quei fondi senza averne diritto”. I redattori sono tutti in piedi, vecchi e giovani. Tre generazioni de il manifesto, tutti stretti nella sede di Trastevere, seconda casa del quotidiano comunista. Sono anni che il manifesto è in crisi, anni di campagne e sottoscrizioni, ma mai come questa volta il rischio di chiusura si è fatto terribilmente concreto.
Ieri, sul quotidiano, una delle firme del giornale, Matteo Bartocci, ha rivendicato gli sforzi per risanare un bilancio drammatico: “I sacrifici che abbiamo fatto in questi anni sono senza precedenti. Abbiamo ridotto tiratura e distribuzione all’osso, siamo l’unico quotidiano nazionale non full color, il che ci fa risparmiare, ma ci rende meno appetibili per la pubblicità”. E poi i numeri della redazione: nel 2006 avevamo 107 dipendenti. Ora sono 74, 52 giornalisti e 22 poligrafici. Di questi 74, però la metà è in cassa integrazione. Per cui il giornale è fatto da 35 persone. Eppure il commissario liquidatore nominato dal governo potrebbe chiudere ugualmente i battenti della società.
PARLATO, L’ULTIMO dei padri fondatori rimasti in redazione (visto che Rossana Rossanda abita a Parigi) dice: “Liquidazione non vuol dire chiusura. Se saremo in grado di aumentare le vendite, gli abbonamenti, se riusciremo a fare qualcosa di buono allora ci sono speranze concrete di poter continuare ad andare in edicola. Se le cose continueranno ad andar male non potremo fare altro che vendere la testata”. Poi parla Mario Salani, presidente di Mediacoop, l'Associazione dell'editoria in cooperativa: “Senza sapere quali sono le entrate si può solo chiudere”. Arrivano le domande, e la direttrice rincara: “Da anni denunciamo gli imbrogli intorno al finanziamento pubblico, i Lavitola, gli Angelucci e Caltagirone foraggiati come specchiati direttori ed editori. La pulizia nel settore è nostro interesse – aggiunge la Rangeri – alcune di queste irregolarità le abbiamo denunciate per primi”. Però il tema è se l’informazione sia un bene pubblico da tutelare: “È un modello che si sta affermando persino negli Usa come risposta ai problemi del conflitto di interessi e della libertà di informazione”. E poi: “Il mercato non è l'unico imparziale metro di giudizio sulla bontà di un'impresa informativa: chi lo invoca dovrebbe spiegare quale mercato esista oggi in Italia. Viviamo una situazione drogata, in cui la fetta più grossa della torta pubblicitaria viene mangiata dalla tv (56%), ai quotidiani rimangono le briciole (16,9%). Mentre si fa la foto della redazione, la Rangeri tratteggia la linea dell’ultima e più importante battaglia: “Se la qualità dell'informazione coincide con il profitto, la sfera pubblica diventa fragile terreno di un populismo governato dalle multinazionali delle news”. Poveri, ma onesti. E senza nessuna intenzione di arrendersi. Parlano in segno di solidarietà Beppe Giulietti, di Articolo 21 e Paolo Butturini di Stampa Romana, il sindacato. I partiti di sinistra sono assenti: "Conoscendoli mi sarei stupito del contrario", dice Parlato. E, solo per un attimo, una specie di sorriso amarissimo gli increspa il viso.

Corriere della Sera 10.9.12
«Comprate due copie» L'ultimo tentativo del «manifesto»
di M. Gu.


ROMA — «Senza fine» era il titolo di ieri, nove grandi caratteri in campo nero che scolpivano insieme paura e speranza. Ancora una volta il manifesto rischia di scomparire dalle edicole. Lo storico quotidiano dell'eresia comunista, fondato nel 1969 e diretto da firme storiche della sinistra come Luigi Pintor, Valentino Parlato, Luciana Castellina, Vittorio Foa, Rossana Rossanda, andrà in liquidazione coatta amministrativa, come deciso il 7 febbraio dal ministero dello Sviluppo per evitare il fallimento. Una brutta, luttuosa espressione che fotografa la «prova cruciale» a cui i tagli alla legge dell'editoria hanno costretto la testata diretta da Norma Rangeri. Il triste annuncio lo ha dato la redazione con un editoriale a tutta pagina dedicato alle «care lettrici e ai cari lettori», chiamati a «una sfida difficile e avvincente». I giornalisti lo dicono in conferenza stampa, il direttore lo rilancia in un video che rimbalza sul web: salvare il manifesto una volta ancora, comprare a partire da oggi due copie al giorno «tutti i giorni», perché nell'origine della storia della testata — scrivono — è racchiuso un germoglio di «vita futura». Nel 2006 il rischio della resa era concreto almeno quanto oggi, ma il giornale fu salvato dalle sottoscrizioni. Nel 2008 un'altra nottata buia e in fondo al tunnel, di nuovo, la luce. Come altre cento testate nazionali e locali il manifesto non potrà chiudere il bilancio del 2011: «Mario Monti e il ministro Passera — denunciano i giornalisti, riuniti in cooperativa contro il mercato "monarca assoluto" — potrebbero riuscire dove Berlusconi e Tremonti hanno fallito». Potrebbero, perché la redazione non molla, si batterà «contro le leggi di un mercato che della libertà d'informazione farebbe volentieri un grande falò» e ha fiducia nei suoi tenacissimi lettori. «Liquidazione non vuol dire chiusura — distilla speranza Parlato in un'affollata conferenza stampa, "addobbata" con le più celebri prime pagine —. Arriverà un liquidatore, vedrà i conti e deciderà. Ma se noi saremo in grado di rialzare le vendite ci sono speranze di continuare a vivere. Se invece le cose continueranno ad andare male, si dovrà vendere la testata...». Non servono solo i soldi, ma anche le idee: «Non ci ha fatto bene il governo dei tecnici, dobbiamo tornare a fare un giornale battente». C'è la solidarietà della Fnsi e c'è quella dei politici, che magari non hanno più il peso di un tempo ma almeno riescono a far sentire la propria voce. Nichi Vendola: «il manifesto è stato ed è uno dei protagonisti dei momenti belli e di quelli meno belli della storia della sinistra italiana. il manifesto ha bisogno di noi e ci siamo e noi abbiamo bisogno del manifesto». Un messaggio di incoraggiamento che si chiude con un appello al premier: «Il governo Monti si muova». Il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, promette «un gesto» e affida a Twitter il suo contributo: «il manifesto va salvato. Varie volte non lo condivido. Ma saremmo tutti più poveri...». Non può essere lasciato morire, concordano Matteo Orfini e Francesco Verducci, del dipartimento Cultura e Informazione del Pd: «Il governo sostenga la ricostituzione del fondo per l'editoria. Monti tenga fede all'impegno preso di sostenere i giornali veri». E il senatore Vincenzo Vita rilancia: restare con le mani in mano non si può, «la liquidazione coatta è un segnale di allarme gravissimo».

l’Unità 10.2.12
Strategie Il «Times»: il Pentagono ha preparato un piano di sostegno alle forze anti-Assad
Dal Golfo Missili anticarro e logistica anche dal Qatar, mentre da Riad arriva un fiume di soldi
Siria, la svolta degli Usa e dei Paesi arabi «Armeremo i ribelli»
Armi, tecnologia e un corridoio umanitario. Sia gli Usa che il Qatar e l’Arabia Saudita si stanno muovendo per fermare il massacro siriano per altre vie. Intanto l’esercito libero chiede anche una no-fly zone.
di Umberto De Giovannangeli

Ipreparativi sono entrati nella fase conclusiva. Il Pentagono ha messo a punto piani di emergenza per un’eventuale azione di sostegno ai ribelli siriani, già avviata in forme diverse da Qatar e Arabia Saudita. È quanto scrive il Times, precisando che da parte sua l’Esercito libero siriano (Esl) ha chiesto armi, no-fly zone e una zona di sicurezza in cui operare. Un funzionario americano ha precisato al quotidiano britannico che le opzioni allo studio degli Stati Uniti e dei suoi alleati sono la fornitura di armi ai ribelli e la creazione di un corridoio umanitario per proteggere i civili. Intanto, stando a quanto riferito da alcune fonti, il Qatar ha già fornito 3.000 telefoni satellitari all’opposizione siriana e sta valutando l’ipotesi di far arrivare all’Esl missili anticarro e attrezzature per la visione notturna, mentre Riad sta garantendo sostegno finanziario all’opposizione. Telefoni e non solo. Secondo Debka File, il sito web israeliano di intelligence, unità delle forze speciali di Gran Bretagna e Qatar si sono infiltrate a Homs e pur non partecipando direttamente ai combattimenti stanno fornendo assistenza tecnica e militare ai ribelli.
Dell’operazione «undercover», sempre secondo Debka, sarebbe a conoscenza, condividendola, anche la Turchia. «Alcune truppe dovrebbero essere inviate per porre fine alle uccisioni», aveva affermato l’emiro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Khalifa Al Than, in un’intervista alla Cbs.
Sheikh Zuherit Abassi, coordinatore logistico dell’Esl, ha detto, sempre al Times, che i ribelli hanno già chiesto la creazione di una no-fly zone e di una zona di sicurezza dove operare. «Se venissero garantite queste due condizioni, gran parte dell’esercito diserterebbe e si unirebbe a noi – ha sottolineato non stiamo chiedendo all’Occidente di intervenire, ma di darci le armi. Noi faremo il resto». «Vogliamo un sostegno militare. Abbiamo bisogno di materiali», ribadisce il comandante dell’Esl, durante una conferenza stampa organizzata vicino Damasco e diffusa su internet. L’uomo, che si è identificato come Mohammed, ha spiegato: «Gli uomini li abbiamo, ci mancano le armi. Non chiediamo truppe». «Ci stiamo confrontando con una delle peggiori macchine di morte al mondo», sottolinea Mohammed, precisando che i disertori possono utilizzare solo «armi leggere contro i carri armati». Un’internazionalizzazione del conflitto sembra già nelle cose: la Turchia, ormai in rottura totale col regime di Assad, ospita ai suoi confini il Free Syrian Army e a Iskenderum, nella provincia di Hatay, si è insediato da diversi mesi un comando multinazionale ristretto composto da ufficiali americani, inglesi, francesi, canadesi e arabi degli Emirati, del Qatar e dell’Arabia Saudita.
In questo scenario di guerra aperta, prosegue l’assalto delle forze di sicurezza siriane su Homs, città nel centro del Paese diventata il simbolo delle proteste contro il presidente Bashar al-Assad e sotto i bombardamenti da sei giorni. Lo riferiscono gli attivisti, precisando che da venerdì scorso, quando è iniziata l’operazione delle truppe fedeli al regime, le vittime sono centinaia.
Solo ieri, ha reso noto l’Osservatorio siriano per i diritti umani, in Siria sono state uccise 105 persone. Molte aree della città, che conta un milione di abitanti, rimangono sotto il controllo di soldati disertori. In un comunicato, Amnesty International afferma di aver ricevuto finora i nomi di 246 persone uccise a Homs, tra cui almeno 17 bambini. Alcuni degli uccisi erano combattenti armati, ma la maggioranza erano civili privi di armi. Altre centinaia di persone sono rimaste ferite e vengono curate in ospedali di fortuna o nelle loro abitazioni. Gli abitanti di Homs hanno riferito ad Amnesty che c’è grande carenza di personale medico, di attrezzature e di medicinali per curare i feriti. Lunedì un ospedale da campo che prestava cure tanto ai civili quanto ai combattenti è stato colpito dall’artiglieria delle forze lealiste.
SPY STORY
Dalla guerra sul campo a quella diplomatica. Che si arricchisce di una «spy story». La Germania ha deciso l’espulsione di quattro diplomatici siriani. A comunicarlo è il ministro degli Esteri Guido Westerwelle. Tre giorni fa a Berlino la polizia aveva fermato due siriani sospetti di attività di spionaggio contro gli oppositori del regime baathista. I due uomini sono ora in stato di arresto. I quattro dipendenti dell’ambasciata siriana, tre uomini e una donna, hanno tre giorni per lasciare il Paese. L’espulsione sarebbe stata decisa in relazione ai tentativi di intimidazione degli oppositori al regime siriano che vivono in Germania.

Corriere della Sera 10.2.12
Brigate internazionali in azione in Siria a fianco degli insorti
Già caduti in battaglia diversi libici
di Guido Olimpio


WASHINGTON — La «legione» libica che combatte al fianco dei ribelli siriani ricorda i suoi «martiri». Sulla stampa di Bengasi è infatti apparsa la notizia della morte di tre jihadisti partiti dalla città nordafricana. I fratelli Talal e Ahmed Faitouri, insieme al loro amico Ahmed Aqouri, sono caduti in uno scontro a fuoco a Homs. Chi li conosceva ha raccontato che avevano lasciato la Libia in dicembre per entrare, via Libano, nel territorio siriano. Interessante la data. Perché è proprio allora che il patto tra le due rivoluzioni entra in una nuova fase. In quei giorni, il presidente del Consiglio nazionale siriano Burhan Ghalioun incontra a Tripoli i nuovi dirigenti. E scatta il piano d'azione che porta i volontari in Siria. Quanti? Secondo alcuni 100-200 uomini, quasi 600 per altre fonti, sparpagliati tra Homs, Idlib e Rastan. Nessuno li ha fermati e nessuno li fermerà. Come ha detto ieri il ministro degli Esteri libico Ashour Bin Kayal: «È impossibile controllare il desiderio del popolo». Damasco è ormai un avversario, tanto è vero Tripoli ha decretato l'espulsione dei diplomatici siriani.
Allora non stupisce che la missione di sostegno alla rivolta sia coordinata dall'ex qaedista Abdelhakim Belhaj, figura di spicco della nuova Libia, e dal suo vice Mahdi Al Harati. Quest'ultimo è un personaggio dalla storia singolare. Residente da 20 anni a Dublino (Irlanda), Al Harati è tornato in Libia per combattere Gheddafi e in poco tempo è diventato uno dei leader della Brigata Tripoli, composta da esuli provenienti da Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti. Mille uomini, ben armati, con ottimo equipaggiamento che sono stati tra i primi a entrare nella caserma del Raìs. In seguito, Al Harati è rimasto al fianco di Belhaj ma quando sono nati contrasti con il Consiglio ha deciso di partire per un viaggio tra Dublino e il Qatar. Parentesi accompagnata da un episodio controverso. Il libico ha denunciato il furto di una grossa somma di denaro che gli sarebbe stata consegnata da «un agente della Cia». Frase che, ovviamente, ha alimentato sospetti e teorie su chi sia veramente l'ex esule. Sicuramente è molto dinamico. Perché Al Harati, già alla fine di dicembre, è in Siria. Lo testimonia un reporter francese con il quale si muove nei villaggi al confine con la Turchia. Di nuovo, i libici mostrano di essere preparati per la guerra. Visori notturni, telefoni satellitari Thuraya e Kalashnikov. Fonti arabe sostengono che i volontari hanno risalito una filiera che si dirama tra Cipro, Libano (Tripoli, nel Nord), Iskenderun (Turchia) e forse anche Giordania per poi approdare in Siria.
Nuclei che avrebbero l'appoggio di piccoli gruppi di forze speciali del Qatar, saudite e occidentali (in particolari britanniche). I due Paesi arabi, oltre ai consiglieri, ci mettono anche i soldi. Denaro con il quale verrebbe acquistato materiale trasferito con aerei cargo proprio a Iskenderun. In questa città si parla anche della presenza di un «ufficio avanzato» gestito da 007 incaricati di assistere i gruppi di disertori siriani. Per ora la pipeline ha portato solo «gocce», ma è probabile che gli aiuti possano crescere. Negli Usa, infatti, c'è chi invoca una fornitura massiccia agli insorti.
I movimenti di combattenti «stranieri» non sono sfuggiti all'occhio attento dei russi. I servizi segreti sono immersi nella realtà siriana, hanno uomini ovunque. E ieri Mosca ha espresso il proprio «allarme». Il regime, invece, continua gli attacchi a Homs. Quasi 80 le vittime, falciate da un pesante bombardamento.

Corriere della Sera 10.2.12
L'accusa del poeta Adonis


LONDRA — Adonis, considerato da molti il più grande poeta arabo vivente, ha condannato la dittatura del suo Paese di nascita, la Siria, e definito «selvaggi» i recenti bombardamenti della città di Homs. Il poeta 82enne, alawita come il raìs Bashar Al Assad, dal 1956 vive in Libano e in Francia. Criticato da molti arabi per le sue posizioni elitarie e la mancata condanna esplicita dei regimi autoritari, già in giugno aveva in realtà scritto una lettera aperta a Assad su un giornale di Beirut, invitandolo a «sacrificarsi per lasciar decidere al popolo sul proprio futuro». Allora, come nelle dichiarazioni di ieri a Londra, Adonis ha però condannato «tutte le violenze», comprese quelle dell'opposizione

Corriere della Sera 10.2.12
Discorsi che non durino più di un’ora,  così la Cina scopre l’opinione pubblica
di Marco Del Corona


Il compagno Wan Qingliang conosce la misura della virtù: un'ora. Un'ora soltanto. Tanto, secondo lui, dovrebbe parlare al massimo ciascun dirigente del Partito comunista cinese o amministratore pubblico durante gli appuntamenti importanti. Se il meeting fosse di profilo più basso si dovrebbe scendere a trenta minuti.
Wan Qingliang è dallo scorso dicembre il segretario comunista di Canton, la metropoli al cuore del Guangdong iperproduttivo, e durante un plenum del comitato cittadino ha proposto di mettere un tetto a una delle più vistose (e innocue) efferatezze del Partito: i discorsi dei suoi leader, dalla base ai vertici, dalle campagne alle cavernose vastità della Grande Sala del Popolo sulla Tienanmen.
Discorsi prolissi, spietatamente noiosi. Ore e ore di nulla. E poiché i veri capi danno l'esempio, Wan ha fatto notare che «mi sono fermato a 58 minuti». Non pago, ha infine suggerito — forse tra la costernazione dei produttori di carta — di ridurre il materiale scritto distribuito nelle occasioni ufficiali.
La capacità di sintesi è dote senza colore politico. Si potrebbe aggiungere che calmierare la durata degli interventi in Aula, ostruzionismi permettendo, costituirebbe anche in Occidente un utile taglio ai costi (come dire? Umani...) della politica. Tuttavia l'annuncio di Wan parla della Cina. E può voler dire due cose. O prova che, in modo non sistematico e a volte persino inconsapevole, la politica in Cina prende atto che c'è un'opinione pubblica di cui tener conto (il dibattito sui media sulle elezioni nel villaggio ex ribelle di Wukan lo conferma). Oppure segnala che a Pechino e dintorni ci si perde discutendo di inutili ritualità, mentre sopravvivono, e fanno la differenza, i metodi brutali delle lotte tra fazioni: vedi la rimozione da capo della polizia del vicesindaco di Chongqing, Wang Lijun, adesso sparito dopo aver trascorso — come ha confermato ieri la Xinhua — una notte nel consolato Usa di Chengdu (senza peraltro ricevere l'asilo politico).
Da Canton il segretario Wan dà argomenti agli ottimisti e ai pessimisti. Così è la Cina.

Corriere della Sera 10.2.12
Qualche domanda su Al Qaeda e sulla morte di Bin Laden
risponde Sergio Romano

Le vorrei porre alcune domande. 1) Qual è stato il ruolo effettivo di Osama Bin Laden nella pianificazione dell'11 settembre 2001? Io credo di aver compreso che Al Qaeda è organizzata secondo una logica orizzontale (come lei stesso ha affermato nella trasmissione «La storia siamo noi») e che le singole cellule terroristiche si organizzano in maniera indipendente tra loro, mantenendo la rotta
della leadership dei propri capi. Ma quanto sapeva Bin Laden dell'11 settembre? Ha progettato anche in minima parte l'attacco? O lo ha solamente finanziato? 2) Come giudica le teorie complottiste che sono fiorite attorno all'11 settembre e anche attorno alla morte di Bin Laden avvenuta in Pakistan nel maggio 2011? Sono frutto di mera fantasia o celano qualche verità? 3) Quale futuro vede per Al Qaeda? Quanto la morte del suo leader l'ha indebolita?
Lorenzo Grighi

Caro Grighi,
I primi video e i messaggi registrati di Osama Bin Laden dopo l'attacco alle Torri gemelle furono piuttosto generici. Approvò l'attentato, annunciò nuove operazioni, esortò i fedeli ad altre imprese, ma non disse nulla che lasciasse intravedere l'esistenza di una organizzazione capillare che aveva minuziosamente programmato l'attaco. Forse volle evitare qualsiasi indicazione che avrebbe giovato alla Cia e ai servizi d'informazione occidentali, ma le sue parole dettero l'impressione che Al Qaeda non fosse un'organizzazione piramidale, una struttura gerarchica guidata in ogni momento da uno stato maggiore segreto nascosto nei monti dell'Afghanistan o nei territori occidentali dello Stato pachistano.
Sapevamo che Al Qaeda era, alle origini, soltanto una base informatica in cui erano stati raccolti i nomi di tutti coloro che avevano combattuto in Afghanistan contro i sovietici quando Bin Laden, grazie al sostegno finanziario dell'Arabia Saudita e alla sua personale fortuna, era divenuto il tesoriere di una legione arabo-musulmana. Sapevamo anche che l'Afghanistan dei talebani aveva accolto Bin Laden, probabilmente dopo la sua fuga dal Sudan, e aveva permesso che sul suo territorio si costituissero campi di addestramento per volontari provenienti, tra l'altro, dall'Arabia Saudita, dallo Yemen, dalla Bosnia, dall'Algeria. E sapevamo infine che l'organizzazione aveva, accanto al carismatico sceicco yemenita, un ideologo nella persona di Ayman Muhammad Al Zawahiri, il medico egiziano che aveva militato in una costola radicale della Fratellanza musulmana e che è verosimilmente succeduto a Bin Laden dopo la sua morte.
È possibile che il vertice di Al Qaeda abbia distribuito denaro, consigli, esortazioni. Ma è probabile che le branche regionali si siano organizzate spontaneamente, abbiano adottato le loro particolari strategie e abbiano utilizzato Al Qaeda come un logo di riferimento. Quelle più importanti, negli ultimi anni, sono state Al Qaeda in Mesopotamia e Al Qaeda nel Maghreb. La prima si è costituita in Iraq dopo l'invasione americana e ha trovato alleati, paradossalmente, nei gruppi sunniti che erano la base politica del sistema di Saddam Hussein, un regime che aveva trattato Osama Bin Laden come un pericoloso nemico. La seconda, Al Qaeda nel Maghreb islamico, ha operato recentemente soprattutto nel Sahara e ha le sue origini, probabilmente, in Algeria e Marocco.
Per concludere, caro Grighi, credo che molte delle teorie in circolazione sull'11 settembre e sulla morte di Bin Laden siano, per l'appunto, «complottiste», vale a dire ispirate dalla convinzione che dietro le cose visibili vi sia sempre una verità invisibile in cui si nascondono responsabilità potenti e occulte. Non cerco di provarne la falsità perché so che è tempo perduto. Quanto al futuro di Al Qaeda, ho l'impressione che buona parte della sua forza propulsiva si sia consumata; ma temo che sia ancora capace di qualche pericoloso sussulto.


Corriere della Sera 10.2.12
Lo chiamavano il prof. De Tormentis
«Bisognava far sentire l’interrogato sotto il tuo dominio»
«Sono io l'uomo della squadra speciale anti Br»
di Fulvio Bufi


NAPOLI — Per chi lavorava in polizia non c'era niente da scherzare negli anni a cavallo tra la fine dei Settanta e l'inizio degli Ottanta, quando le Brigate Rosse sparavano e lo Stato combatteva contro i gruppi della lotta armata la sua battaglia più difficile. E non scherzava certo l'allora vicequestore Umberto Improta — che del nucleo speciale di investigatori formato dal Viminale per indagare sulle Br fu il capo operativo — quando affibbiò a un suo collega specializzato nel condurre gli interrogatori, il soprannome di professor De Tormentis. Sapeva quello che diceva, Improta, e stando alle denunce (tutte archiviate) presentate in quegli anni da alcuni brigatisti interrogati dal professore, il soprannome sintetizzava bene i suoi metodi di lavoro.
Metodi che, per come li raccontarono i brigatisti che li subirono, e per come li conferma oggi l'ex dirigente della Digos Rino Genova nelle testimonianze rilasciate prima a Nicola Rao, autore del libro «Colpo al cuore» (Sperling & Kupfer), e poi alla trasmissione «Chi l'ha visto?», che l'altro ieri si è occupata del professor De Tormentis, hanno un solo nome: torture. Con la tecnica del waterboarding, per la precisione, e cioè la somministrazione forzata di acqua salata che provoca nella vittima la sensazione dell'annegamento e in qualche caso anche gli effetti.
Il programma condotto da Federica Sciarelli ha raccolto anche la testimonianza di Enrico Triaca — br che nel 1978 subì il trattamento della squadra guidata dal professore —. Inoltre ha preferito per ora non diffondere il nome di De Tormentis. Il Corriere sceglie invece di farlo dopo aver avuto conferma di quel soprannome dal diretto interessato.
Il professor De Tormentis si chiama Nicola Ciocia, ha 78 anni, è pugliese di Bitonto ma vive a Napoli, città in cui negli anni Settanta diresse prima la squadra mobile e poi la sezione interregionale Campania e Molise dell'Ispettorato generale antiterrorismo. Dalla polizia si dimise nel 1984 con il grado di questore (non accettò la sede di Trapani) e fino a pochi anni fa ha fatto l'avvocato. Ora si è ritirato del tutto, esce raramente dalla sua casa sulla collina del Vomero, e di sé dice: «Io sono fascista mussoliniano. Per la legalità».
Lo si capirebbe anche se non lo dicesse, fosse solo per il busto del duce che tiene sulla libreria. Ciocia non ammette esplicitamente di aver praticato la tortura, anche se a dire il contrario non sono soltanto Genova e Triaca: agli atti di inchieste mai portate avanti ci sono le denunce di molti brigatisti, come per esempio Ennio Di Rocco, che con la sua confessione consentì vari arresti tra cui quello di Giovanni Senzani e per questo fu condannato a morte dalle Br e ucciso in carcere.
Se — come dicono — era bravo a estorcere ammissioni, Nicola Ciocia lo è altrettanto a schivare le domande dirette. Lo stato italiano praticò la tortura attraverso lei e la sua squadra per sconfiggere le Brigate Rosse? «Le Br hanno fatto stragi, e avrebbero continuato se non fossero state debellate da una azione decisa dello stato». Una azione che si concretizzò anche attraverso i suoi interrogatori? «Bisogna avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far sentire l'interrogato sotto il tuo assoluto dominio. Non serve far male fisicamente. Io in vita mia ho dato solo uno schiaffo a un nappista che non voleva dirmi il suo nome».
Ciocia sostiene che «non si può affermare che torturavamo i brigatisti, facendo passare noi per macellai e loro per persone inermi». Arriva a dire che «Di Rocco si mise spontaneamente a disposizione della giustizia», e su Triaca si lascia scappare un ambiguo «lui non ha parlato, quindi quei metodi non sempre funzionavano». E insiste pure: «La lotta al terrorismo non si poteva fare con il codice penale in mano, ma io ho fatto sempre e solo il mio dovere, ottenendo a volte risultati e a volte no. Perché non è vero che quei sistemi, quelle pratiche sono sempre efficaci».
«Quei metodi», «quei sistemi», «quelle pratiche»: sembrano tutti modi per non pronunciare la parola tortura. E Ciocia non la pronuncia: «Lo Stato si attivò per difendere la democrazia. I macellai erano loro, non noi».

Repubblica 10.2.12
Addio manicomi giudiziari da oggi mille detenuti in cerca di una seconda vita
di Alberto Custodero


Se il decreto Severino martedì alla Camera diventerà legge, il primo febbraio del 2013 avverrà la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari che ospitano i detenuti che, con sentenza passata in giudicato, vengono prosciolti per infermità mentale. Resta non risolto il nodo dei detenuti appartenenti a questa categoria in attesa di giudizio, che restano durante i tre gradi di giudizio ristretti nelle normali carceri, strutture non idonee alle loro condizioni. Il decreto svuota carceri ha sollevato numerose polemiche alle quali il ministro della Giustizia ha replicato. «Nessuno - ha detto Paola Severino - ha mai pensato di rilasciare in libertà persone pericolose: lo stato di detenzione rimarrà per i malati con disturbi mentali che hanno compiuto delitti, ma, con questa riforma sarà incentivata la loro cura e saranno restituiti alla vita civile quelli che sono guariti anche dal male mentale, perché guarire si può. Basta con gli "ergastoli bianchi"». L´associazione "Stop opg" approva la decisione politica di superamento degli opg. Ma - memore delle criticità emerse con la normativa Basaglia - ammonisce a non ripetere gli errori avvenuti con la legge 180, nel 1978, con il superamento degli ex ospedali psichiatrici. Allora i malati "ex op" furono per anni abbandonati a se stessi. Oggi, dice "Stop opg", c´è il rischio che «le venti strutture regionali si trasformino in nuovi opg sotto mentite spoglie. E c´è il rischio che i detenuti dimessi perché non più pericolosi (ma pur sempre malati) non trovino, una volta "liberi", strutture idonee ad accoglierli».

il Fatto Saturno 10.2.12
Rileggere Camus oggi
di Marco Filoni


C’È UN ESERCIZIO davvero salutare che oggi, ahinoi, sembra esser passato di moda: rileggere l’opera dei grandi classici. Ancor più salutare se a esser riletto è un autore che ha molto da dire al nostro tempo. È il caso di Albert Camus, scrittore e filosofo famoso, certo, Nobel per la letteratura nel 1957 a soli 44 anni, ma che dopo aver segnato come pochi altri gli anni del dopoguerra ha subito un’ostilità nemmeno troppo celata – cadendo presto, come spesso accade, in una specie di paradossale condizione nella quale tutti lo citano e nessuno più lo legge. Eppure le sue riflessioni sono vive, attuali, capaci di dare un senso alla comprensione della nostra realtà. L’occasione per mettere alla prova il suo pensiero è data dalla pubblicazione di un felice volume dal titolo Stranieri. Albert Camus e il nostro tempo, curato da Goffredo Fofi e Vittorio Giacopini per le edizioni Contrasto. Il libro è tanto ricco quanto ricca è la produzione di Camus: dallo scrittore al giornalista, dal filosofo all’autore di pièces di teatro, i saggi raccolti abbracciano la sua intera e breve parabola intellettuale. Oltre agli interessanti contributi (fra gli altri, quelli di Nicola Lagioia, Stefano Velotti, Piergiorgio Bellocchio, Franco Cassano, Marcello Flores e del nostro collaboratore Alessandro Leogrande) il volume è arricchito dalle testimonianze di Jean-Paul Sartre e di Nicola Chiaramonte, un testo dello stesso Camus e un dossier di immagini, meravigliose, dello scrittore ritratto dai migliori fotografi del secolo scorso. Impossibile riassumere la complessità delle tematiche affrontate. Basti riportare quanto scrive Fofi nell’introduzione in merito all’atmosfera del dopoguerra: «ci fu una risposta molto minoritaria, che chiameremo alla Camus, di chi non volle o non seppe chiudere gli occhi di fronte alla constatazione della fragilità, miseria, pravità dell’umano, rifiutando i veli delle ideologie e delle menzogne dominanti e dicendo a piena voce l’assurdo della condizione umana e l’orrore della Storia, ma cercando di non restare prigionieri di questa constatazione, di non restarne sopraffatti». Un’attitudine, questa, che costerà cara al suo autore. Come quando dichiarò che i campi di concentramento non erano scomparsi con la fine del nazismo, ma esistevano in Unione Sovietica. Per questo fu osteggiato dal Partito Comunista, da Sartre, divenuto ormai papa dell’esistenzialismo, e da tutti i sartriani dell’epoca. Eppure, a differenza di Sartre che si occupava soltanto di idee, Camus si occupava della realtà – cercando nelle sue opere di scoprirne il senso, provando a rispondere alla domanda: cosa possiamo fare della nostra vita? Non fu esistenzialista, come Sartre, piuttosto cercò di costruire un pensiero esistenziale. Morì in un famoso incidente stradale con il suo editore Michel Gallimard, a soli 46 anni. Sono passati più di cinquant’anni eppure, come scrive ancora Fofi, «ragionare onestamente su e con Camus è per noi un modo di non sentirci complici delle viltà del presente, e di amarlo ancora, questo presente, nonostante tutto».
Stranieri. Albert Camus e il nostro tempo, Contrasto, pagg. 175, • 18,90

il Fatto Saturno 10.2.12
Caro Saturno, non svilite la memoria
di Furio Colombo


CARO SATURNO, è accaduto questo. Per pura coincidenza un numero di Saturno è uscito il 27 gennaio. Il 27 gennaio, a causa della Legge 211, approvata dal Parlamento italiano nel luglio 2000, è Il giorno della Memoria. “Memoria” in questo caso vuol dire ricordare (o adoperarsi per far sapere) le immense stragi di esseri umani avvenute nel mondo nazista e fascista a causa delle leggi dette “razziali”, durante il dominio di quei regimi. Dunque memoria vuol dire “Shoah”. Per ricordare quel giorno Saturno ha scelto questi tre titoli: “Shoah, la rivolta degli ultimi testimoni. Molti sopravvissuti ai campi criticano lo sfruttamento mediatico dell’Olocausto”; “Auschwitz? Un viaggio inutile”; “E il Lager diventa business”. Per fortuna nessun titolo corrisponde all’articolo. Il primo racconta della triste riflessione di un grande sopravvissuto (Imre Kertész) sulle molte occasioni sprecate di memoria cerimoniale. Si riferisce al mondo, non all’Italia, dove non si è mai ricordato nulla prima del “Giorno della memoria”. Il secondo non dice che il viaggio è inutile, ma fa notare che è difficile. Il terzo non sostiene affatto il suo titolo perché non esiste e non si è formato mai alcun business intorno alla memoria della Shoah. Se mai, sia a destra che a sinistra, si è formato (o meglio: riorganizzato) il solito business del “complotto” e del negazionismo più o meno camuffato da “dissenso” contro Israele, che si trasforma subito in sentenza a carico degli ebrei.
Personalmente sono un po’ stupito che, in un Paese privo di memoria e dove manca quasi del tutto l’insegnamento della Storia, il supplemento culturale di un importante giornale italiano scelga, per un’intera pagina, tre titoli che liquidano un’esperienza (ritrovarsi per seguire il comandamento di Primo Levi in Se questo è un uomo) che resta rara, sporadica e tutt’altro che di massa in Italia. Mi sento di proporre che prima viene la notizia: l’Italia, presentata come il Paese buono che ha sempre offerto rifugio e salvezza, tormentata come gli altri popoli europei dai tedeschi cattivi, ha in realtà anche un altro volto, quello del grande complice. Ha votato all’unanimità leggi razziali dettagliate, accurate, tecnicamente peggiori di quelle naziste, e firmate dall’unico re europeo che abbia deliberatamente abbandonato i suoi cittadini ebrei alla deportazione nei campi di sterminio.
Come è detto nel testo brevissimo della legge che istituisce il Giorno della Memoria, il primo scopo è quello di stabilire per legge che la Shoah è un delitto italiano, le leggi razziali da una parte, il grande e totale silenzio dall’altra. Il secondo è quello di rendere possibile (possibile, non obbligatorio) un giorno di riflessione nelle scuole. Quella riflessione non c’è mai stata prima (mai vuol proprio dire mai, per intere generazioni scolastiche) e anche adesso è limitata a poche scuole in cui insegnanti intelligenti preparano gli studenti, offrono documenti e invitano persone (sopratutto sopravvissuti) a raccontare. Perché scoraggiarli, sapendo che spesso sono soli anche nelle loro scuole? Non ho mai visto alcuna iniziativa che assomigli a un business, e non ho mai incontrato qualcuno che, dopo Auschwitz, abbia detto “che viaggio inutile! ”. Ogni azione umana, specialmente se collettiva, può svolgersi a vari livelli, dalla mediocrità all’eccellenza. Ma la prima distinzione è tra buono e cattivo, tra utile e inutile, tra positivo (nel senso di lasciare almeno un seme di riflessione) e negativo (nel senso di abbandonare ciascuno alle scorrerie di ciò che sopravvive del razzismo e del pregiudizio con le sue radici oscure). Non sarebbe stato questo un interessante spazio di lavoro invece di passare ai lettori giovani un messaggio di scetticismo e di noncurante scredita-mento per qualcosa che è ancora ignorato o respinto dalla maggioranza degli insegnanti?
I titoli sono titoli, caro Furio. E i lettori di Saturno non si fermano ai titoli. r.c.

il Fatto 10.2.12
Improperi d’autore. Che arte l’insulto
Così Fredrich Nietzsche profanava Dante: “Una iena che scriveva poesie sulle tombe”
Le migliori ingiurie tra i protagonisti della letteratura mondiale
di Marco Filoni


Bei tempi quelli in cui gli scrittori sapevano insultarsi. Ma sul serio. Non come oggi, epoca triste, in cui regna un clima di benevolenza, pacche sulle spalle e “volemose tutti bene” in nome della comunanza letteraria – per poi, magari, serbare privati rancori e intimi pettegolezzi. Invece in passato alcuni scrittori non hanno taciuto idiosincrasie, antipatie e insofferenze per i loro colleghi. Senza ritegno, alla faccia del politicamente corretto. Per averne un assaggio basterà visitare uno dei nostri più interessanti siti culturali: l’Archivio Caltari. Sempre pieno di spunti, da qualche tempo traduce e offre al lettore italiano gli insulti più caustici raccolti dal sito americano “Flavor Wire”. Se ne trovano una cinquantina e c’è decisamente da divertirsi. Le migliori ingiurie, quelle più corrosive e maligne come solo gli scrittori sanno fare. Qualche esempio? Robert Louis Stevenson diceva di Walt Whitman: “È come un grosso cane a pelo lungo, che appena sciolto il guinzaglio, dissotterra tutte le spiagge del mondo e ulula alla luna”. O Vladimir Nabokov, che sul grande “tenebroso” Joseph Conrad scriveva: “Non riesco a sopportare lo stile negozio di souvenir di Conrad, le navi in bottiglia e le collane di cliché romanticizzati”.
Sin qui giudizi non particolarmente benevoli, ma nulla in confronto alla penna aspra e acida di alcuni mostri sacri. Il catalogo è ampio: “Una muccona piena di inchiostro” (Flaubert su George Sands) ; “Un ippopotamo che tenta di raccogliere un pisello” (H. G. Wells su Henry James) ; “Una iena che scriveva poesie sulle tombe” (Friedrich Nietzsche su Dante Alighieri) ; “Un bambino idiota che strilla in ospedale” (H. G. Wells su George Bernard Shaw) ; “Completamente rozzo, immaturo e oppositivo” (Virginia Woolf su Aldous Huxley). Ci sono poi quelli più raffinati, meno diretti, ma non per questo meno corrosivi. Come William Faulkner, il quale notava di Hemingway: “Non risulta aver adoperato mai parola che costringesse il lettore a consultare il dizionario”. Appena saputo, ecco come rispose Hemingway: “Povero Faulkner. Davvero crede che i paroloni suscitino forti emozioni? ”. Rimane geniale il gioco di parole di Gertrude Stein, chiamata a esprimere un giudizio su Ezra Pound: “Lui descrive villaggi. Sarebbe eccellente se tu fossi un villaggio, ma nel caso non lo fossi, allora non lo sarebbe”.
Mark Twain aveva una sorta di malessere fisico: “Non ci guadagno nulla a stroncare libri, e non lo faccio a meno che non li odii. Spesso ho provato a scrivere di Jane Austen, ma i suoi libri mi fanno diventare matto a tal punto che non riesco a nascondere la mia furia al lettore; perciò devo fermarmi ogni volta che comincio. Tutte le volte che leggo Orgoglio e Pregiudizio mi viene voglia di disseppellirla e colpirla sul cranio con la sua stessa tibia”. L’augurio di prendersela fisicamente con qualche collega perché irritante è abbastanza comune. Come il poeta Lord Byron, che di John Keats scriveva: “Ecco qui la poesia di Keats piscia-a-letto, e tre romanzi da iddio sa chi... Non più Keats, vi supplico: scorticatelo vivo; se qualcuno fra voi non è disposto a farlo, lo dovrò fare io in persona: non c’è posto per quelle schifezze idiote nel genere umano”.
Nemmeno i grandi classici vengono risparmiati: gli intoccabili, i capolavori eterni della letteratura. Prendiamo il Don Chisciotte di Cervantes: a parte che quelli che l’hanno letto sono davvero pochi, ma è realmente imperdibile? A sentire Martin Amis, proprio no: “Leggere il Don Chisciotte può essere paragonato a una visita per un periodo di tempo indeterminato da un tuo vecchio parente, il più insopportabile, con i suoi acidi scherzetti, le sozze abitudini, le reminescenze inarrestabili, e vecchi amici tremendi. Quando l’esperienza è finita e i vecchi ragazzi si accomiatano alla fine, verserai lacrime davvero, non lacrime di sollievo o di rimpianto, ma d’orgoglio. Ce l’hai fatta, a dispetto di quello che il Don Chisciotte poteva farti”. Che dire poi di Voltaire, il grande illuminista, il faro della ragione contro le oscurità della barbarie e dell’ignoranza? Charles Baudelaire non aveva troppi dubbi: “Mi sono annoiato in Francia – e la ragione principale è che tutti assomigliano a Voltaire... il re degli imbecilli, il principe dei superficiali, l’anti-artista, il portavoce delle portinaie…”. Per non parlare poi dell’Ulisse di James Joyce, forse l’opera più odiata e sopravvalutata da lettori e scrittori. Ecco cosa ne pensavano, nell’ordine, Virginia Woolf e D. H. Lawrence: “L’opera di un nauseabondo studente universitario che si schiaccia i brufoli”; “Dio mio... Nient’altro che avanzi, torsoli di citazioni bibliche, e tutto il resto cotto nel brodo di una deliberata, giornalistica lascivia”. Per finire con un bel terzetto secco: “Ci sono due modi per disprezzare la poesia: uno è disprezzarla, l’altro è leggere Pope” (Oscar Wilde su Alexander Pope) ; “Provare entusiasmo per Poe è segno di uno stadio di pensiero decisamente primitivo” (Henry James su Edgar Allan Poe) ; “Quello non è scrivere, è battere a macchina” (Truman Capote su Jack Kerouac).
È da notare anche un’evidente discriminazione di genere. Gli scrittori hanno sempre usato un po’ di sarcasmo, nemmeno troppo velato, per le loro colleghe donne. Per esempio Ralph Waldo Emerson su Jane Austen: “I romanzi della signorina Austen... mi appaiono volgari nel tono, sterili nell’invenzione artistica, imprigionati nelle noiose convenzioni della società inglese, senza genio, intelligenza, o conoscenza del mondo. Mai la vita è stata così costretta e angusta. Il problema principale è… la sua propensione al matrimonio”.
In tempi più recenti scopriamo quella cinica malalingua di Gore Vidal. Dopo aver letto Il prigioniero del sesso di Norman Mailer, sentenziò senza proroghe: “Come tre giorni di mestruazioni! ”. E su Truman Capote: “È in tutto è per tutto una casalinga del Kansas, pregiudizi compresi”. Per non dire poi dei due maledetti della letteratura americana degli ultimi vent’anni. Quando uscì American Psycho di Bret Easton Ellis, David Foster Wallace scrisse: “Per un po’ blandisce spudoratamente il sadismo del pubblico, ma alla fine è chiaro che il vero oggetto del sadismo è il lettore stesso”. Evidentemente Bret Easton Ellis non la prese bene, e non troppo elegantemente si è espresso così una ventina d’anni dopo, soltanto a poche settimane dalla morte del collega: “È troppo presto? E troppo presto, vero? Bè, io non lo stimo. Il giornalismo è pedestre, le storie confuse e piene di quel finto sentimentalismo del Midwest, e Infinite Jest è illeggibile”. Amen. Che poi, a dirla tutta, stiamo parlando dell’Olimpo letterario: anche se cattivissimi, questi giudizi sono comunque rivolti a scrittori veri, che possono piacere o meno, possono esser odiati, ma rimangono in definitiva grandi narratori. Non c’è un nome fra quelli citati che non meriti di esser letto. E poi un po’ di cattiveria (quella intelligente però, non quella pettegola e autoreferenziale) non ha mai fatto male al mondo delle lettere. Serve a tener la corda tesa. Che è sempre meglio di una corda allentata. Anche perché, diceva William Gass (a proposito di un romanzo di Jay McInerney), che il solo “vantaggio di una scrittura che sembra una corda allentata sta nel fatto che lo scrittore non ci si può impiccare”.

Repubblica 10.2.12
Jankélévitch, esploratore del pensiero quotidiano
La filosofia del “non so che”
di Roberto Esposito


Come Bergson il pensatore francese si dedica alle pieghe della vita, dalla musica al silenzio E lo spiega nel suo ultimo saggio "Da qualche parte nell´incompiuto"
Non si può chiedere all´acrobata di spiegare come fa a camminare su un filo
L´idea è quella di capire come l´esistenza sia fatta di fenomeni pulviscolari

In una stagione, come questa, caratterizzata dalla assoluta incertezza delle prospettive e quasi da un´inafferrabilità di ciò che sta al fondo dell´esperienza quotidiana, il pensiero di Valdimir Jankélévitch, espressamente rivolto alle figure del non-so-che e dell´incompiuto torna ad interpellarci. "Un lampo… poi la notte! - O fuggitiva beltà,/ per il cui sguardo all´improvviso sono rinato,/ non potrò vederti che nell´eternità?/ In un altro luogo, ben lontano di qui, e troppo tardi, mai forse!/ Perché ignoro dove fuggi, e tu non sai dove io vado".
E´ difficile trovare qualcosa che, più di questi versi di Baudelaire, dedicati A una passante (in I Fiori del male), restituisca l´ispirazione e la tonalità di fondo del filosofo, di cui, a pochi mesi di distanza da Il non-so-che e il quasi-niente, esce adesso, sempre da Einaudi, e ancora a cura e con una intensa introduzione di Enrica Lisciani Petrini, Da qualche parte nell´incompiuto. Nelle pagine iniziali del libro - costituito da una lunga intervista fattagli dall´allieva e scrittrice Béatrice Berlowitz - , il filosofo descrive l´Occasione come un lampo fuggitivo, una traccia inafferrabile, una stella cadente che scompare nel momento stesso in cui si accende. In essa la novità irrompe, improvvisa, nel teatro del mondo, per poi esplodere in mille frammenti. Per afferrarla prima che si dissolva, bisogna attendere l´attimo propizio, anticipandola nei suoi movimenti repentini come il cacciatore con una velocissima preda. E´ perciò che all´Occasione ci si avvicina sulla punta dell´anima - afferma Giovanni della Croce -, sapendo che difficilmente tornerà a battere una seconda volta alla nostra porta.
E tuttavia non si deve scambiare quest´attenzione all´aspetto instabile delle cose, al rincorrersi abbagliante e caduco delle apparenze, con una sorta di relativismo etico. L´intera vita di Jankélévitch sta a dimostrare il contrario. Iscritto nel 1940 al Front populaire, quando vengono promulgate le leggi razziali in Francia il filosofo ebreo-francese di origine russa entra in clandestinità per battersi nella Resistenza. Dopo la guerra il suo impegno, sempre nella sinistra, non viene mai meno, per trovare nel Sessantotto una nuova occasione di militanza, fino alla battaglia in difesa dell´insegnamento della filosofia nei Licei. E allora? Come conciliare l´eleganza impalpabile, la seduzione dello charme, la leggerezza di una scrittura aderente fino alle più intime fibre al carattere chiaroscurale dell´esistenza, con la dura intransigenza etica delle sue scelte e anche con un testardo rigore filosofico? La curatrice italiana del libro lo spiega richiamandosi al plafond bergsoniano di Jankélévitch: considerando, come fa appunto Bergson, l´intera realtà un flusso temporale in continuo mutamento, egli esclude che si possa accedere all´essenza ultima delle cose, che resta così imperscrutabile ed ineffabile. Ma proprio per questo, all´interno dell´unico mondo in cui si snoda la nostra vita abbiamo piena libertà di comportamento e dunque tutta la responsabilità delle nostre azioni.
Naturalmente, essendo la realtà stessa costituita da un tessuto mobile, sfrangiato e plurale, anche il nostro atteggiamento non potrà essere definito da un rigido schema normativo, dovrà tenere conto di situazioni diverse, aderendo alle infinite pieghe della vita come di volta in volta ci si presenta. Da qui non solo il rifiuto di ogni imperativo categorico di matrice kantiana, ma anche la dichiarata sintonia con un sociologo del quotidiano come Simmel - su cui si veda la recentissima monografia di Antonio De Simone Conflitto e società (Liguori). Ciò che li unisce è una medesima sensibilità per i fenomeni più ordinari, pulviscolari, dell´esistenza - il tutto-il-giorno di tutti i giorni, come egli stesso si esprime. Al suo fondo vi è il rifiuto di ogni pretesa di conoscere l´intero significato di ciò che si sta facendo, della vita effettiva colta nel suo semplice farsi. Se si chiede all´acrobata come fa a mantenersi sulla punta della guglia di Notre-Dame, egli perderà l´equilibrio e si schiaccerà al suolo, come la farfalla che, avvicinatasi troppo al fuoco, rischia di diventare un pizzico di ceneri.
Ciò non vuol dire, per Jankélévitch, chiudersi nel recinto dell´assoluta immanenza - come accade, invece, a Deleuze lungo l´altra filiera che si origina da Bergson. Non a caso resta forte in lui il richiamo alla mistica - ebraica, spagnola ed anche russa. Lo stesso tema del "non-so-che" è, del resto, riconducibile a quell´Angelus Silesius che in uno dei suoi primi distici del Pellegrino cherubico, scrive "Ciò che sono non lo so ancora, ciò che so, non lo sono più". Il punto da cogliere, per penetrare nel nucleo più intimo del discorso di Jankélévitch, in una forma che lo accosta ad autori altrettanto eterodossi come Georges Bataille e Michel Leiris, è che la sfera del mistico, o del sacro, non trascende il piano del quotidiano, ma fa tutt´uno con esso (si veda, di Leiris, lo straordinario testo Il sacro nella vita quotidiana, ora in Il collegio di sociologia, Bollati Boringhieri 1991). E´ così che tutte quelle che possono sembrare delle aporie non sono altro che la paradossale convergenza dei contrari sottesa all´intera riflessione di Jankélévitch.
Essi, tutt´altro che escludersi, o ricomporsi in una sintesi dialettica, si coappartengono, fino a costituire l´uno il cuore segreto dell´altro. Così accade, nella sfera dell´etica, per il rapporto, apparentemente antinomico, tra l´esperienza del perdono e l´irredimibilità della colpa. Una volta fatto, il male non si cancella - nulla può portare in vita l´esistenza violata o distrutta, come quella del popolo ebraico nel genocidio. Da questo punto di vista il crimine è in sé imperdonabile. Ma proprio ciò che è in sé imperdonabile sfida il perdono a toccare il suo margine più estremo, come un amore non ricambiato è, più di ogni altro, il "puro amore" - atto di dedizione assoluta, senza condizioni o ricompense.
E´ la stessa relazione contraddittoria che lega in un unico nodo musica e silenzio. Non soltanto la musica è circondata, scandita, inaugurata dal silenzio. Nel suo fondo inascoltato, è silenzio essa stessa. La musica vive del silenzio, come nei pianissimo di Albéniz, nei passaggi tonali di Debussy, nelle battute mute di Liszt. In queste pagine su musica e silenzio, musicali anche esse, Jankélévitch dà il meglio di se stesso. Il silenzio è origine, materia e fine della musica. Un respiro tacito che la penetra e l´avvolge spingendola oltre se stessa verso quell´ineffabile che esprime il mistero stesso della vita. E che altro è, la vita, per venire all´ultimo contrasto, se non insieme il contrario e il luogo elettivo della morte. Più che ciò che resiste alla morte, come ancora sosteneva il grande medico Bichat, la vita è ciò che resiste a qualcosa che è essa stessa. Essa è la prima contraddizione da cui tutte le altre provengono. Perciò l´immagine minacciosa dello scheletro con la falce è insieme errata e giusta. La morte non è un drago che aggredisca la vita dall´esterno, ma una forza della vita che, senza dirci come, dove e quando, nasce al suo interno fino ad inghiottirla nel suo vuoto di senso.

Corriere della Sera 10.2.12
Sono 3.500 i pazienti in stato vegetativo. Più aiuti dalle donne
Nutriti in modo artificiale 3 su 10
di Margherita De Bac

ROMA — Trentotto anni. Da 38 anni chiuso in un sonno profondo e irreversibile. Accudito in casa dalla mamma in un paesino della Calabria. Triste primato italiano e forse mondiale. Un uomo che dopo un incidente avvenuto nell'infanzia non ha più recuperato contatti e percezione dell'ambiente. È lì, come tanti altri, curato dall'amore materno. Come lo è stata Eluana Englaro, morta il 9 febbraio di tre anni fa. Dalla sua storia lo stimolo a istituire, non senza polemiche, una Giornata nazionale di riflessione. «Ci siamo stupiti anche noi di trovare un caso così antico»: non nasconde la sorpresa di ricercatrice Matilde Leonardi, neurologa dell'Istituto Besta, coordinatrice di un progetto avviato due anni fa dal ministero della Salute per scoprire il pianeta delle persone in stato vegetativo e di minima coscienza, due fasi dei disturbi successivi al coma. «Non parliamo di morti viventi, ma di vivi» chiarisce Adriano Pessina, docente di bioetica alla Cattolica.
I dati scientifici sono stati presentati ieri dal ministro della Salute Renato Balduzzi, impegnato nell'ambito dei limiti di bilancio «a dare la priorità ai più fragili, ai non autosufficienti che non saranno abbandonati». Un appuntamento disertato da 36 associazioni che rappresentano i familiari dei malati: «Chi siamo, quanti siamo e dove siamo, noi lo sappiamo bene da tempo — è scritto in un loro comunicato —. Quello che avremmo voluto sapere è cosa fare per il futuro. Visto che si annunciano anche numerose novità scientifiche». «È necessario sostenere le famiglie — dice Paolo Maria Rossini, neurologo della Cattolica di Roma e collaboratore del San Raffaele di Cassino — e approfondire la ricerca perché in queste persone il cervello percepisce e si esprime in modo diverso: dobbiamo riuscire a decodificare questi input per capire così i primi segnali di un possibile risveglio. Ma in Italia assistenza e ricerca sono all'avanguardia». Quella di ieri è solo la prima tappa di un percorso di mappatura avviato dall'ex sottosegretario Eugenia Roccella con l'obiettivo di scoprire come sopravvivono malati e famiglie. E indagare su come, a parità di patologia, può cambiare il «benessere». La condizione di questi malati è rivelata da diverse sfumature che non dipendono solo dalla severità dei sintomi e dalle «capacità residue», ma soprattutto dai fattori esterni: ore di assistenza, alimentazione, coinvolgimento e atteggiamento culturale degli operatori socio sanitari. Ecco perché il progetto parla di «Funzionamento e disabilità».
Non esistono studi così dettagliati al mondo, i risultati saranno pubblicati e approfonditi. Di certo c'è che in stato vegetativo oggi ci siano almeno 3 mila-3.500 persone. Intorno alle quali si sviluppano comportamenti diversi. La maggior parte delle donne riportano a casa il compagno, gli uomini quasi mai. Tutti i genitori riportano a casa i figli. Ma sono pochissimi i figli che accolgono con sé il genitore. Preferiscono lasciarlo in istituto. Si pensava che in linea con la letteratura internazionale la sopravvivenza media fosse 15 anni. Invece sono stati contati molti casi in cui questa è superiore a 20 anni.
La raccolta dei dati abbraccia il periodo marzo 2009-marzo 2010: un campione di 602 pazienti (566 adulti e 36 bambini) in 78 centri italiani, oltre 75 associazioni. Il 30% dei pazienti vengono alimentati e idratati anche in modo artificiale, quasi tutti (98%) sono in grado di respirare autonomamente, eppure vengono aiutati dal ventilatore automatico, mediamente prendono 4 farmaci al giorno. Secondo lo studio «tutte le persone con disordini della coscienza hanno grave disabilità, basso livello di funzionamento e altissimo bisogno di facilitazioni ambientali». Significa che dovrebbero essere assistite meglio. Poi l'analisi dei familiari. Età media 52 anni, 8 su 10 donne, la metà lavorano, oltre la metà dedicano tre ore al giorno all'assistenza, con notevoli ripercussioni sulla vita relazionale: niente amici e hobby, unico svago il cinema. In generale i parenti più stretti mantengono un livello d'ansia molto alto, che il tempo non riesce a stemperare. E sono molti di più di quanti si prevedesse i malati curati a casa e senza il sostegno di cure domiciliari. Cittadini dimenticati che le segnalazioni di medici di famiglia e piccoli istituti di suore coinvolti nella ricerca ci hanno in un certo senso «restituito».