giovedì 9 febbraio 2012

La Stampa 9.2.12
Intervista a Barack Obama
“L’Italia fa passi impressionanti. Roma cruciale per superare la crisi”
Obama a La Stampa: Monti sta modernizzando l’economia, avanti così su deficit e crescita
di Maurizio Molinari


L’ Italia sta facendo passi impressionanti al fine di modernizzare la sua economia»: il presidente americano Barack Obama lo spiega in esclusiva a «La Stampa» a poche ore dall’odierno incontro con il premier Mario Monti nello Studio Ovale, esprimendo forte sostegno per le misure di risanamento adottate dal governo e delineando l’agenda dei rapporti con l’Europa.
“Gli Usa hanno un enorme interesse nel successo dell’euro. L’Europa ha un ruolo da giocare nel sostegno alla primavera araba È vitale il ruolo delle forze armate del vostro Paese in Afghanistan La Nato deve avere le capacità necessarie per le sfide del nostro tempo"

Il leader statunitense: fondamentale per noi la crescita dell’Europa. Oggi alla Casa Bianca il colloquio con il presidente del Consiglio Monti

Le parole di Obama testimoniano la convinzione che Monti sta guidando l’Italia verso i sacrifici necessari ed è un leader europeo con il quale discutere la comune ricetta di Usa-Ue per superare la crisi finanziaria. A testimoniarlo è che Monti nell’intervista alla tv «Pbs» aveva auspicato martedì maggiori firewall finanziari per l’Eurozona «perché mettendone di più grandi si riduce la possibilità di doverli usare» e Obama ora risponde «sono d’accordo», lasciando intendere la necessità di un maggior impegno della Germania. Il presidente descrive America e Europa alleate per battere la crisi finanziaria, aiutare le svolte democratiche in Medio Oriente e Nord Africa, costruire la difesa missilistica Nato e sostenere la transizione afghana. L’interesse americano per il risanamento italiano si deve alla convinzione che sia un passaggio cruciale per ridare stabilità all’Eurozona, scongiurando una nuova recessione negli Stati Uniti. A conferma dell’attenzione nei confronti dell’ospite, Pennsylvania Avenue lo accoglie con un cerimoniale che prevede dopo l’incontro nello Studio Ovale che Monti parli alla stampa al Pebble Beach, davanti all’entrata della West Wing. L’intervista che segue è un ulteriore gesto di attenzione nei confronti del nostro Paese perché finora Obama non ne aveva mai concesse in occasione della visita di un premier italiano a Washington.
Partiamo dalla crisi dell’Eurozona. In più occasioni lei ha espresso la necessità di un’espansione dei «firewall finanziari per l’Europa». Ritiene che l’attuale cooperazione fra i governi di Germania, Francia e Italia vada nella direzione giusta?
«La situazione finanziaria in Europa sarà al centro dell’agenda con il primo ministro Monti nell’Ufficio Ovale. Come ho detto durante la crisi, credo che l’Europa abbia la capacità economica e finanziaria per superare questa sfida. Durante gli ultimi due anni, l’Europa ha compiuto un certo numero di passi difficili e cruciali per affrontare la crisi che cresceva. In Italia e in Europa i cittadini stanno compiendo sacrifici dolorosi. Sotto la leadership del primo ministro Monti, l’Italia sta ora adottando passi impressionanti per modernizzare la sua economia, ridurre il proprio deficit attraverso una combinazione di misure su entrate e spese, riposizionando la nazione sul cammino verso la crescita. Più in generale i governi europei si sono uniti nel riformare l’architettura dell’Unione europea. Una delle lezioni che gli Stati Uniti hanno appreso durante la nostra recente crisi finanziaria è stata l’importanza di dimostrare ai nostri cittadini, alle nostre imprese, e ai mercati finanziari che eravamo impegnati a fare ciò che serviva per risolverla. Questo è il motivo perché abbiamo chiesto con urgenza ai nostri partner europei di erigere abbastanza firewall finanziari per evitare che la crisi si diffondesse. Sono d’accordo con quanto il primo ministro Monti ha detto: se l’Europa mette in atto firewall sufficientemente grandi si riduce la possibilità di doverli usare. Ciò che serve adesso è che tutti i governi europei dimostrino il loro impegno totale per il futuro dell’integrazione economica in Europa».
Perché la soluzione della crisi del debito nell’Eurozona è così importante per gli Stati Uniti?
«È così importante perché le nostre fortune economiche sono intrinsecamente legate e le relazioni con l’Europa sono una parte importante dei nostri sforzi per creare posti di lavoro e prosperità negli Stati Uniti. L’Unione europea è il singolo più grande partner economico dell’America, e il commercio e gli investimenti fra noi sostengono milioni di posti di lavoro su entrambi i lati dell’Atlantico. Le nostre banche e i nostri mercati finanziari sono profondamente connessi. Quando l’Europa va bene questo è positivo per i posti di lavoro e le aziende in America. Quando la crescita in Europa rallenta o i vostri mercati finanziari sono instabili, noi ne sentiamo le conseguenze, così come voi avete sentito l’impatto della crisi finanziaria americana quattro anni fa. Più semplicemente, gli Stati Uniti hanno un enorme interesse nella crescita dell’Europa e nel successo dell’area dell’euro. Questo è perché mi sono consultato strettamente e ripetutamente con le mie controparti europee durante la crisi. Ho condiviso con loro le lezioni rilevanti della nostra crisi recente mentre erano impegnate a fronteggiare questa sfida. Il mio incontro con il primo ministro Monti è l’ultimo passo di una cooperazione che continua. Ho intenzione di riaffermare al primo ministro il messaggio che ho portato ai miei partner europei in precedenza, nel caso più recente a Cannes durante il summit del G20: gli Stati Uniti continueranno a fare la loro parte per sostenere gli amici europei nel loro impegno per risolvere la crisi. Voglio solo aggiungere che si tratta di qualcosa che va oltre l’economia. Americani ed europei hanno un profondo legame di amicizia, forgiato in guerra e rafforzato in pace. Vogliamo davvero che l’Europa si riprenda e prosperi. Inoltre, l’Italia è uno dei nostri più importanti alleati e operiamo assieme all’Europa in qualsiasi cosa che facciamo nel mondo. Quando l’Europa è forte, prospera e sicura noi assieme siamo più efficaci, e il mondo è più prospero e pacifico».
In maggio nella sua Chicago ospiterà il summit della Nato. Uno dei temi sarà la transizione in Afghanistan. Qual è il ruolo che l’Italia può avere nello scenario del dopo-guerra?
«L’Italia ha avuto un ruolo cruciale e centrale nella Forza di assistenza e sicurezza internazionale della Nato in Afghanistan, uomini e donne delle vostre forze armate hanno servito con coraggio e altruismo, così come hanno fatto i vostri diplomatici e esperti di sviluppo. Assieme con i nostri partner afghani e la nostra coalizione di 50 nazioni, abbiamo compiuto progressi reali nel raggiungere gli obiettivi condivisi di sconfiggere Al Qaeda, spezzare l’avanzata dei taleban e addestrare le forze di sicurezza nazionali afghane affinché l’Afghanistan possa assumere la guida della sua sicurezza. Italiani coraggiosi hanno dato le loro vite per ottenere tali progressi e noi siamo grati del sostegno del popolo italiano a questa missione vitale. Apprezziamo l’impegno dell’Italia a rispettare gli accordi raggiunti al summit di Lisbona del 2010 per sostenere un processo di transizione guidato dagli afghani che è iniziato lo scorso anno, che consentirà loro di avere la responsabilità della sicurezza entro la fine del 2014. Aspetto di dare il benvenuto al primo ministro Monti e ai nostri colleghi capi di governo nella mia Chicago per il summit della Nato. Sarà un’opportunità per delineare la prossima fase della transizione in Afghanistan. La partnership strategica di lungo termine che l’Italia recentemente ha firmato con l’Afghanistan è un’affermazione forte e benvenuta sull’estensione dell’impegno dell’Italia oltre il 2014, proprio come gli Stati Uniti stanno costruendo una partnership duratura con il popolo afghano. Al tempo stesso, l’Italia e gli Stati Uniti si sono uniti al resto della comunità internazionale nell’offrire sostegno politico ad un processo di riconciliazione guidato dagli afghani che può contribuire a porre fine ad un’insurrezione che ha minacciato il popolo afghano e il resto del mondo per già troppo tempo.
Il summit di Chicago sarà anche un’opportunità per noi di consultarsi su altri temi dell’agenda Nato. La Nato è il pilastro dell’Alleanza transatlantica e della sicurezza europea. Come l’intervento in Libia ha dimostrato, è anche un pilastro della sicurezza globale. Guardando in avanti, abbiamo bisogno di assicurarci che quando la prossima crisi inattesa si manifesterà, saremo pronti a rispondere. Questo è il motivo per cui lo “Strategic Concept” della Nato sta preparando l’alleanza per le missioni e sfide del futuro. Questo è il motivo del perché i ministri della Difesa Nato recentemente hanno deciso di aggiornare le nostre capacità condivise di intelligence, sorveglianza e controllo. E questo spiega perché quando ospiterò il summit in maggio, faremo passi importanti per assicurare che la Nato abbia le capacità necessarie per affrontare le sfide del nostro tempo, inclusi i progressi verso il sistema di difesa missilistica Nato».
La Primavera araba si svolge non lontano dalle coste italiane. Come possono i nostri Paesi essere d’aiuto ai nuovi governi arabi affinché possano costruire società più stabili, libere e prospere?
«È stato un anno straordinario. In Medio Oriente e nel Nord Africa i cittadini si sono sollevati in nome della loro dignità e dei diritti universali. Le transizioni democratiche in Tunisia, Egitto e Libia sono in corso. Assieme alla comunità internazionale abbiamo chiarito che l’orrenda violenza contro il popolo siriano deve finire e che Bashar Assad deve dimettersi così che una transizione democratica possa iniziare immediatamente. Ognuna di queste nazioni affronterà esami politici e economici procedendo sulla strada della democrazia. Gli Stati Uniti e l’Europa condividono un profondo interesse nel successo di queste transizioni. Saranno i popoli della regione a determinare il loro futuro ma gli Stati Uniti e l’Europa possono e devono sostenerli in questo momento cruciale. Per questo ho fatto del sostegno alle riforme politiche ed economiche nella regione una linea d’azione degli Stati Uniti. Continueremo a sostenere le riforme democratiche e puntiamo ad un pacchetto di riforme economiche e di partnership per aiutare queste nazioni ad affrontare le difficoltà economiche che sono anche alla base delle richieste di cambiamento. Il sostegno internazionale può avvenire sotto molte forme, inclusi commercio e investimenti, assistenza tecnica per le elezioni, potenziamento della società civile e il sostegno fondamentale ai diritti universali. Grazie alla sua ricca esperienza storica in transizioni politiche, l’Europa ha un ruolo particolare da giocare. L’Italia è stata una tenace promotrice dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto in queste nazioni e noi rendiamo omaggio a tali sforzi per sostenere transizioni che rispettino tali valori. L’Italia ha inoltre dato contributi importanti al successo dei nostri sforzi per salvare vite e sostenere il popolo libico nel porre fine al regime di Gheddafi. Come ho detto in maggio, ci saranno pericoli che accompagneranno momenti promettenti ma sono sicuro che, con il vostro sostegno, vi saranno giorni migliori e di maggiore speranza per i popoli del Medio Oriente e del Nord Africa, che meritano gli stessi diritti e opportunità degli altri popoli del mondo».
Nel discorso che pronunciò a Berlino nel luglio del 2007 disse che “in questo nuovo secolo americani e europei dovranno fare entrambi di più, e non di meno”. Quali sono le nuove sfide comuni che abbiamo davanti?
«Viviamo in un’era nella quale i destini delle nazioni e dei popoli sono connessi come mai avvenuto prima. In un mondo dove le crisi finanziarie possono diffondersi rapidamente dobbiamo coordinare le nostre risposte, come abbiamo fatto al G-20, per assicurarci che la crescita globale sia bilanciata e sostenuta. Le nuove minacce attraversano confini e oceani, dobbiamo smantellare i network terroristici e fermare la diffusione delle armi nucleari, affrontare i cambiamenti climatici, combattere la carestia e le malattie. E poiché i cittadini rischiano le loro vite nelle strade del Medio Oriente e del Nord Africa, il mondo intero è in gioco nelle aspirazioni di una generazione impegnata a determinare il proprio destino. Dobbiamo affrontare assieme queste minacce e sfide. Non c’è maniera migliore di farlo che attraverso la nostra alleanza con l’Europa, che è la più stretta e forte del mondo, radicata in storia e valori comuni. Come ho detto spesso, la relazione dell’America con i nostri alleati e partner europei è il pilastro del nostro impegno nel mondo. Lo abbiamo visto in Afghanistan, dove le nostre forze sono spalla a spalla. Lo abbiamo visto in Libia, dove la Nato ha fronteggiato la necessità assumendosi la responsabilità della protezione civile, dell’embargo di armi e della imposizione della no-fly zone. L’Italia e le sue forze armate hanno avuto un ruolo vitale in queste missioni. La nostra partnership transatlantica è l’alleanza di maggiore successo e il più grande catalizzatore di azione globale. Sono determinato a fare in modo che resti tale».
Lei non ha antenati italiani ma, come ha detto intervenendo al gala della Fondazione italoamericana Niaf a Washington, è circondato da stretti consiglieri che ce l’hanno: da Leon Panetta a Janet Napolitano e il generale Raymond Odierno, dall’ex presidente della Camera Nancy Pelosi a Jim Messina e Alyssa Mastromonaco. Che cosa prova a lavorare circondato da tanti americani di origine italiana?
«Come presidente è un onore lavorare con così tanti colleghi e componenti dello staff con le radici in Italia. Sono gli ultimi di un lungo elenco di italiani-americani che hanno dato contributi durevoli alla prosperità e sicurezza dell’America, e sono orgoglioso di averne così tanti nel mio team. Sono anche orgoglioso di lavorare assieme a così tanti leader politici italiani-americani di talento, come la mia amica Nancy Pelosi che ha fatto la Storia diventando la prima donna a presiedere la Camera dei Rappresentanti. L’Italia può essere fiera del fatto che i suoi figli e le sue figlie continuano a dare contributi inestimabili al successo degli Stati Uniti e alla nostra partnership bilaterale. Ovviamente devo aggiungere che due persone come Danilo Gallinari e Marco Belinelli garantiscono un certo buon nome anche alla Nba».

La Stampa 9.2.12
A Roma il ruolo di ponte fra Ue e America
di Paolo Mastrolilli


L’ Italia può prendere il posto che aveva la Gran Bretagna nel facilitare i rapporti tra Usa e Ue, ora che Londra si è ritirata dai progetti per il rafforzamento dell’Unione. Roma può usare la sua influenza per spingere la Germania a concentrarsi sulla crescita, oltre che sull’austerità, necessaria per risolvere la crisi del debito».
Questa analisi di Charles Kupchan, studioso del Council on Foreign Relations, è condivisa da molti a Washington. Monti è atteso nella capitale Usa per dare due segnali: il primo sulla serietà delle riforme strutturali, e il secondo sulla capacità di mutare la cultura del paese. In cambio, «gli Usa diranno al mondo che stanno con Monti e faranno tutto il possibile affinché abbia successo», nota Moises Naim, analista del Carnegie Endowment for International Peace. Un’autorevole fonte dell’amministrazione conferma: «Il rapporto con l’Italia è caloroso, e sui temi di politica internazionale c’è una solida convergenza di vedute. Ma ci interessa molto quello che potete fare in Europa, per aiutare a superare la crisi economica».
Kupchan traduce così questo pensiero: «Obama ha ricevuto notizie incoraggianti, sul piano dell’occupazione e della ripresa americana, che lo aiutano in vista delle elezioni. Se però la Grecia fallisce, oppure si salva ma la crescita stagna in Europa, c’è il rischio che gli Usa tornino a frenare. Quindi l’amministrazione ha tutto l’interesse che gli europei combattano il debito senza paralizzare la loro economia, ma non può fare troppe pressioni per evitare l’accusa di ingerenza nelle questioni interne del continente. Monti ha dimostrato di condividere questo approccio, e Washington intende sostenerlo affinché usi la sua influenza per spingere la Merkel nella stessa direzione». È un’occasione unica per Roma, che Kupchan riassume così: «L’Italia è tornata nel grande gioco». «Un tempo questo ruolo lo avrebbe interpretato la Gran Bretagna, ma ora che Cameron si è ritirato dalla partita per la riforma dell’Unione, gli Usa hanno bisogno di una nuova sponda».
Naim condivide: «Italia e Usa erano alleati anche quando c’era Berlusconi, ma i suoi scandali hanno dato l’impressione che con lui non si potessero affrontare alla radice i temi fondamentali. Ora Monti deve convincere che non solo possiede gli strumenti tecnici per affrontare la crisi, ma ha pure l’abilità politica per guidare questa delicata trasformazione».

il Fatto 9.2.12
Cappotto tecnico
Monti consiglia sciarpe e guanti
di Enrico Fierro


Il Governo ha trovato la formula contro il Grande Freddo. Gli italiani non si spaventino, ma – rivela Palazzo Chigi rischiando di generare il panico di massa – le basse temperature “possono provocare problemi alla salute”. Non ci avevamo pensato! Quindi, cosa bisogna fare per evitare casi di “ipotermia” e “assideramento”? I consigli che arrivano da Palazzo Chigi sono nuovissimi, inediti, mai concepiti da mente umana. Eccoli, pubblicati su Governo.it  : “Assumete pasti e bevande calde, evitate gli alcolici perché non aiutano contro il freddo, al contrario, favoriscono la dispersione del calore prodotto dal corpo. Uscite nelle ore meno fredde: evitate, se possibile, la mattina e la sera se si soffre di malattie cardiovascolari o respiratorie indossate vestiti idonei: sciarpa, guanti, cappello, ed un caldo soprabito, sono ottimi ausili contro il freddo”. Quando si dice il governo dei professori.

il Fatto 9.2.12
Manifesto,  Passera manda il commissario


Arriva la liquidazione coatta amministrativa per il quotidiano il manifesto, decisa dal ministero dello Sviluppo economico. “Questa procedura particolare, alternativa alla liquidazione volontaria e riservata tra gli altri alle cooperative, cautela la cooperativa da eventuali rischi di fallimento”, scrive il collettivo del manifesto in una nota. Il ministero dello Sviluppo, di raccordo con la Lega nazionale delle cooperative, intermediario per la cooperativa del manifesto, ha avviato la liquidazione coatta. Che non significa, però, fallimento e chiusura, anzi, spiegano dal ministero che “ora la cooperativa è al riparo da rischi di fallimento, almeno per un certo periodo non dovrà portare i libri in tribunale”. Nella cooperativa che edita il “quotidiano comunista” diretto da Norma Rangeri arriverà quindi un commissario che si occuperà di vigilare sulla gestione amministrativa e di trattare con i creditori.
Il destino del giornale, fondato nel 1969 da Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Luciana Castellina e Valentino Parlato, dipende come sempre dai lettori e dall’aiuto dello Stato. Da oggi il quotidiano lancerà una nuova sottoscrizione per chiedere sostegno al suo pubblico, “e se avrà successo la procedura di liquidazione potrà essere ripensata e rivista”, dicono dal ministero guidato da Corrado Passera. Più complicato l’altro pilastro della sopravvivenza: con le ultime manovre il governo ha di fatto azzerato il fondo per l’editoria da 175 milioni che ne garantiva al manifesto oltre tre milioni all’anno. Al momento il sottosegretario all’Editoria Paolo Peluffo ha recuperato 50 milioni, limando qua e là altre spese si potrebbe arrivare a 70, a meno che Mario Monti non ne stanzi altri per decreto, cosa per ora improbabile. Questo per il manifesto potrebbe significare avere soltanto poco più di un milione per il bilancio 2010, impostato aspettandone tre.

l’Unità 9.2.12
Liquidazione coatta. È crisi a il manifesto
«Il governo intervenga»

Norma Rangeri: «Far morire il manifesto è far morire un pezzo di storia della sinistra»
Vita, Pd, Giulietti, Art.21: «Monti batta un colpo: a rischio 100 testate e 4000 lavoratori»
«il manifesto» rischia la chiusura: il ministero dello Sviluppo economico ha avviato la procedura di liquidazione coatta. Il giornale continua a uscire ma potrebbe fallire. La direttrice Rangeri: «Non ce ne andiamo in silenzio».
di Natalia Lombardo

Dopo Liberazione, il manifesto: una a una, rischiano la chiusura le voci della sinistra e non solo, le testate locali, diocesane, non profit. Il panorama pluralista della carta stampata si sta avviando verso la desertificazione, per l’effetto immediato del taglio dei fondi all’editoria per il 2011 al quale, nonostante le promesse, il governo Monti non sta ponendo riparo.
«È il momento più difficile della storia quarantennale de il Manifesto»: un comunicato del collettivo di giornalisti e lavoratori del quotidiano annuncia e conferma ciò che era stato lanciato in rete da Globalist. Il ministero dello Sviluppo economico ha avviato «la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa editrice il Manifesto». Una scelta che, per le cooperative, non rende immediata la sospensione della stampa, ma «il rischio della chiusura è fortissimo, però non ce ne andiamo in silenzio», avverte la direttrice Norma Rangeri. Oggi saranno lanciate una campagna di sottoscrizione e varie iniziative, in una conferenza stampa nella redazione di Trastevere. E in copertina le prime pagine con il titolo: «Senza fine», e Vauro nelle vignette urla al megafono: zitti no.
La procedura firmata con il ministero, spiega il comunicato, «è alternativa alla liquidazione volontaria e riservata tra gli altri alle cooperative, cautela la cooperativa da eventuali rischi di fallimento». Il liquidatore deciderà poi se il giornale avrà le risorse per uscire o no. La scelta della «liquidazione coatta» è stata «resa inevitabile dopo la riduzione drastica e retroattiva dei contributi pubblici per l'editoria non profit», spiega il collettivo, perché «nonostante le promesse di intervento fatte dal presidente del consiglio Mario Monti e l'esplicita richiesta in tal senso del presidente della Repubblica, a oggi nessuna soluzione è stata trovata». Fu proprio rispondendo alla domanda di Matteo Bartocci, cronista parlamentare del manifesto, che nella conferenza stampa di fine anno il premier Monti assicurò che sarebbe intervenuto per ripristinare il fondo per i giornali «veri».
PROMESSE MANCATE
«Ci hanno messo con le spalle al muro, ma non è detta l’ultima parola. Perché far morire il manifesto vuol dire far morire un pezzo della storia della sinistra», dice Norma Rangeri a l’Unità, «in una situazione di crisi della politica così pesante, questa è una crisi della cultura politica, non si misura in euro. Non a caso abbiamo un governo tecnico, ma sembra non voler intervenire nell’oligopolio informativo di chi ha pubblicità.
Fare informazione è diventata una merce come le altre chi resiste resiste, persino la Francia, governata dalla destra, ha aumentato i fondi per l’editoria».
In Italia, invece, i tagli di Tremonti hanno portato dai 414 milioni del 2008 ai 160 del 2011, dimezzati a 53 milioni circa per il 2012, spiega Lelio Grassucci, presidente emerito di Mediacoop. «Nel 2012 andrà peggio, si arriverà a un terzo dei fondi previsti per il 2011, già spesi». Perché i contributi sono erogati l’anno dopo e le banche non fanno prestiti.
Così si allunga l’elenco dei giornali chiusi o a rischio sopravvivenza. Liberazione (respinta la proposta dei lavoratori), Terra, Il manifesto, la stessa Unità, il Corriere Mercantile (il giornale più antico d’Italia), Il Domani, Noi Donne, Il Riformista; circa 100 testate diocesane, in difficoltà anche La Padania e Il Secolo.
Dopo le dimissioni del sottosegretario Malinconico la delega sull’editoria è passata a Paolo Peluffo. Ora bisogna vedere se il governo dirà sì agli emendamenti presentati al Senato sul Milleproroghe. «Oppure Monti deve emettere un decreto del-
la presidenza del Consiglio per accedere alla riserva del cosiddetto Fondo Letta», spiega Grassucci.
«La gravissima crisi che investe il manifesto è un ennesimo schiaffo alla libertà di informazione», commentano Vita, Pd, e Giulietti, di Articolo 21: «Si deve urlare al governo di rispondere a una situazione così pesante. Sono a rischio 100 testate e 4 mila posti di lavoro». Franco Siddi, segretario della Fnsi, rilancia l’allarme per «trovare le strade giuste. È stato fatto per Radio Radicale, il Manifesto non è certamente da meno, anzi».

Repubblica 9.2.12
Tagli ai soldi per l´editoria e calo delle vendite "il manifesto" in liquidazione
Ultimo appello ai lettori: "Aiutateci"
di Alessandra Longo


"Nessuna soluzione nonostante gli impegni di Monti e le richieste di Napolitano"
Il direttore Rangeri "Non si tratta solo di una prova di affetto ma anche di una prova politica"

ROMA - Il ministero per lo Sviluppo Economico «ha avviato la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa editrice «il manifesto». Il linguaggio è questo: crudo, burocratico. Non lo usa il "carnefice" ma le stesse vittime, cioè il collettivo del «manifesto» in una nota. Il giornale di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Valentino Parlato, Lucio Magri, Luciana Castellina e tanti altri conosce il suo «momento più difficile» nei suoi già tormentati 40 anni di vita. E´ in liquidazione, il decreto è stato firmato ieri. Difficile ammetterlo, anche se la crisi viene da lontano, difficile persino scriverlo, al punto che il primo a dare la notizia è il nuovo portale www. globalist. it, contenitore progressista di siti e firme indipendenti diretto da Gianni Cipriani. Primo pomeriggio: i colleghi della stampa cominciano a chiamare, ad informarsi, «il manifesto» è costretto ad elaborare pubblicamente il lutto. Non sono arrivati i fondi governativi per l´editoria, da tempo vanno male le vendite, la pubblicità. Non sono bastate la cassintegrazione, la riduzione drastica di costi e pagine. Impossibile andare avanti: «Nonostante le promesse di intervento fatte dal presidente del consiglio Mario Monti e l´esplicita richiesta in tal senso del presidente della Repubblica, a oggi nessuna soluzione è stata trovata», recita il comunicato ufficiale del collettivo. A questo punto la procedura di liquidazione è «inevitabile», un atto obbligato.
Norma Rangeri, direttore attualmente in carica, (le ha provate tutte, anche a dare le dimissioni «come stimolo»), aggiunge amara: «Dove non è riuscito Berlusconi, ecco che ci è riuscito Monti». «Delitto politico»: lo definiscono così. Bilancio in rosso, non un euro in cassa, l´ultimo stipendio pieno la sessantina di giornalisti e amministrativi sopravvissuti l´ha preso nel settembre 2011. «Se «il manifesto» chiuderà - dice la Rangeri - vorrà dire che avrà vinto quel mercato fasullo che considera l´informazione una merce e la sua legge sarà legge per tutti». Si sentono «uccisi dall´oligopolio informativo», travolti dalla «crisi profonda della sinistra», «dal deficit di cultura politica di questo Paese».
Ore di riunione. Poi, a tarda sera, sul sito del quotidiano, la conferma della messa in liquidazione. Prima pagina, sfondo nero e un titolo forte: «Ci vogliono chiudere». Non si arrendono, però, «rilanciano», annunciano «una campagna straordinaria a sostegno del giornale», chiedono aiuto ai lettori. Videoeditoriale della Rangeri in nero: «Abbiamo avuto tante crisi, ma questa è la più seria, la più grave, anche per il contesto politico esterno in cui ci troviamo». Appello ai molti lettori diventati «saltuari» per colpa della crisi: «Vi chiediamo di comprare il giornale tutti i giorni. Da soli non ce la facciamo più. Abbiamo bisogno di voi». Oggi, alle 14, conferenza stampa nella sede romana di via Bargoni. Intanto si pensa al titolo di apertura. Qualcuno propone «Senza di noi», altri sponsorizzano «Zitti mai». Prima pagina monotematica, quella odierna, non ci saranno altre notizie.
Quei 50 milioni promessi dal governo per l´editoria minore (sono a rischio 100 testate e quattromila posti di lavoro) non sono arrivati in tempo, decretando già la fine di «Liberazione». Ora tocca al «manifesto». C´è rabbia: «Ringraziamo Monti e Passera». Scuro in volto, Valentino Parlato se ne va a casa. Presto, magari nel suo ufficio, si siederà «il liquidatore», a valutare bilanci, a decidere cosa fare. Compatti nella denuncia, i colleghi del «manifesto» si dividono nell´immaginare lo scenario del «dopo». Chi pensa ad un piano di salvataggio che tuteli la storia del giornale così com´è, magari in versione ridotta (Dice Rangeri: «Il manifesto» di carta deve resistere e trovare il modo di stare in edicola»). Chi invece vagheggia, ancora sottotraccia, qualcosa di nuovo, «perché la nostra crisi non è solo economica, ma anche di progettualità». La testata è di proprietà della Manifesto Spa (che non è in liquidazione) e può teoricamente essere affittata. La bad company fallisce, la new company prende il nome e lancia magari un prodotto nuovo, online. Suggestioni che circolano, nessuno se ne attribuisce, in questa fase, la paternità.
Norma Rangeri si congeda, per il momento, dai lettori: «Quella che vi chiediamo non è solo una prova di affetto, di amore per la testata, è anche una prova politica».

Repubblica 9.2.12
Emergenza, sindrome dell’8 settembre
Dalle alluvioni alle nevicate la sindrome dell’8 settembre
di Guido Crainz


Risaltano l´incapacità o la non volontà di previsione e decisione l´inadeguatezza delle istituzioni, la generosità della società civile
Si sta parlando di scelte soggettive, non di una eterna indole italiana. L´irresponsabilità politica ha lasciato segni profondi
Le polemiche seguite agli ultimi eventi climatici riaprono il problema dell´impreparazione storica del Paese alla gestione di eventi straordinari 

Nelle emergenze nazionali l´evento storico più frequentemente evocato dai commenti è forse l´8 settembre del ´43 (immediatamente seguito da Caporetto), e non è del tutto sbagliato.
ichiama incapacità  o non volontà  di previsione e di decisione, vergogne dei pubblici poteri, dissolvimento delle istituzioni, affannarsi generoso ma impotente di alcune parti, almeno, della società civile. È parte anch´esso di una storia nazionale, e meno di tre anni fa a L´Aquila abbiamo fatto i conti di nuovo con la nostra difficoltà ad imparare dalle esperienze del passato: sia da quelle positive che da quelle negative. Furono allora ignorati e osteggiati quel decentramento e quella capacità di preservare identità e memoria collettiva che erano stati centrali nel Friuli del 1976, e poi nelle Marche e nell´Umbria del 1997. E "scoprimmo" allora che era stata invece riproposta negli anni una scelta già compiuta in precedenza con conseguenze pesantissime: la Protezione civile di Guido Bertolaso aveva infatti ampliato il proprio raggio d´azione ben al di là delle emergenze. Si era fatta carico dei più diversi "grandi eventi", e sin di quelli più estranei alla propria ragion d´essere. Esattamente come era successo con esiti disastrosi nella ricostruzione dell´Irpina, con l´allargarsi degli interventi (e degli sperperi, e degli intrecci fra corruzione, politica e cosche) sino ad aree e a questioni che con il sisma non avevano nulla a che fare. Quella deformazione stava per esser resa definitiva, estendendo a dismisura l´assenza di controlli e vincoli: quell´esito fu impedito all´ultimo istante non da un ripensamento del governo ma dalla provvidenziale pubblicazione di intercettazioni che rivelavano verminai.
Di scelte, di decisioni soggettive stiamo dunque parlando. Non di un´eterna indole degli italiani ma di responsabilità politiche: o meglio, di una irresponsabilità della politica che ha lasciato segni profondi.
Talora anche denunce di altissimo profilo rimasero inascoltate. Così fu proprio all´indomani del dramma irpino, quando il Presidente della Repubblica Pertini irruppe dai teleschermi nelle case degli italiani per denunciare carenze gravi dei soccorsi e per condannare al tempo stesso vergogne del passato. Disse con forza che non avrebbe dovuto ripetersi un altro Belice ma non ebbe ascolto. Pochi mesi dopo si svolse ancora sotto i suoi occhi, davanti al pozzo di Vermicino e nell´agonia di Alfredino Rampi, una rappresentazione della nostra impreparazione, inefficienza e improvvisazione. Era al tempo stesso l´annuncio di quanto i media stavano invadendo e trasformando il nostro vivere anche su questo terreno. La Protezione civile ebbe origine allora: era l´impegno ad un mutamento radicale, non più rinviabile.
Certo, nel paralizzarsi delle città e delle vie di comunicazione dopo nevicate molto meno drammatiche che in altri Paesi tutto sembra ripetersi negli anni, con poche variazioni. Nel gennaio del 1985, ad esempio, non si erano ancora spente le polemiche sull´imprevidenza di Roma che Milano veniva bloccata dalla "nevicata del secolo" (termine già coniato in precedenti occasioni, per la verità): e l´immagine inquietante di un´efficienza perduta veniva a turbare per un attimo il frenetico ottimismo della "Milano da bere".
In realtà da noi sarebbero molto più necessarie che altrove misure di prevenzione, cure costanti e interventi metodici nei confronti dei territori a rischio: basti pensare allo "sfasciume pendulo sul mare" di cui parlava Giustino Fortunato più di un secolo fa per certe parti del Mezzogiorno. O alle basse terre gravitanti sul Delta del Po, bonificate da un lavoro plurisecolare ma inevitabilmente esposte alle insidie del grande fiume: dalle alluvioni ottocentesche raccontate da Riccardo Bacchelli ne Il Mulino del Po a quella del 1951, che diede una potente spinta all´esodo. Sino alla piena del 1994, ancora nella memoria. E naturalmente si pensi, per altri versi, alle aree devastate dalla speculazione o a quelle degradate dallo spopolamento. Eppure l´incuria è diventata col tempo quasi la regola: e troppo tardi e fugacemente ci interroghiamo su quel che avremmo potuto e dovuto fare. Come nella Sarno del 1998 o nella Valtellina del 1987 e molte altre volte ancora. L´elenco sarebbe davvero lungo e in molti casi il disastro, ben lungi dall´essere dovuto solo alla natura, è stato favorito o provocato da responsabilità dirette e gravissime, come nel Vajont del 1963.
Spesso, va aggiunto, le carenze istituzionali sono state parzialmente compensate grazie a un volontariato appassionato e generoso: è un termometro del Paese e c´è da allarmarsi se si allenta, se ci appare meno diffuso e vigile. E certo ha dato il meglio di sé quando ha potuto incontrarsi con istituzioni all´altezza dei loro compiti e con una più ampia partecipazione delle popolazioni. Non è accaduto spesso ma è accaduto: dalla Firenze invasa dalle acque del 1966 al Friuli di dieci anni dopo, e sino a tempi recenti.
La nostra storia ha dunque molti volti ma ci dice anche che la "sindrome dell´8 settembre" può essere sconfitta. La capacità o l´incapacità del Paese di attrezzarsi per far fronte alle emergenze è dunque un aspetto centrale. O meglio: è un elemento decisivo per una rifondazione della politica che abbia nel suo orizzonte non le prossime elezioni ma le prossime generazioni.

Repubblica 9.2.12
Il declino dei partiti e il potere economico
di Nadia Urbinati


La combinazione di capitalismo e democrazia costituisce un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possiede i primi accetta istituzioni politiche nelle quali le decisioni sono l´aggregato di voti che hanno uguale peso. Il keynesianesimo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda. Il compromesso con l´esistente dottrina economica consistette nell´assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché invece di assistere i poveri come aveva fatto nei decenni precedenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Questo comportò l´incremento della domanda e la ripresa dell´occupazione. Come ebbe a dire Léon Blum, una migliore distribuzione può rivitalizzare l´occupazione e nello stesso tempo soddisfare la giustizia sociale.
L´esito del compromesso tra democrazia e capitalismo fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell´interesse generale della società la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L´allargamento dei consumi privati aveva messo in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario "piena occupazione e eguaglianza politica" fu la costituzione materiale delle costituzioni democratiche dalla fine della Seconda guerra mondiale. L´esito fu che l´allocazione delle risorse economiche  dal lavoro ai beni sociali e primari ai servizi fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole.
Quel tempo è finito. La combinazione tra democrazia e capitalismo è interrotta, il compromesso sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisioni, in particolare quella che ha il potere economico. Il declino dei partiti non ha solo fattori politici alla sua origine. La fase nella quale lo Stato si curava dell´emancipazione delle classi oppresse è chiusa. Ora è l´altra classe a gestire le relazioni pubbliche. Non c´è bisogno di scomodare Marx per registrare questi mutamenti. La diagnosi è alla portata del pubblico.
L´ideologia keynesiana poteva funzionare fino a quando l´accumulazione del capitale andava negli investimenti e nell´allargamento del consumo. Negli Anni 80 una nuova filosofia ha cominciato a prendere piede: politica di diminuzione delle tasse per consentire una nuova redistribuzione ma questa volta a favore dei profitti, con la giustificazione per gli elettori che ciò serviva a stimolare gli investimenti. Ma la riduzione delle tasse non ha liberato risorse per gli investimenti produttivi ma per quelli finanziari. Il tipo degli investimenti è quindi cambiato con il capitalismo della rendita finanziaria. Quale compromesso la democrazia potrà siglare con questo capitalismo?
A partire dagli Anni 80 l´accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l´accumulazione si è liberata dai vincoli dell´investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull´impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l´aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l´indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l´Europa si sta dibattendo in questi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegna a mai dire mai. Un altro cambiamento, forse meno indolore benché non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche.
La democrazia che aveva siglato il compromesso col capitalismo aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l´eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro deve tornare a essere un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha questo significato.
Si ripete da più parti che questo articolo ha comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l´Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si dice, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l´interferenza della politica. Il limite della "giusta causa" che l´articolo 18 impone, è un limite che segnala la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro deve rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell´articolo rispecchia quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabilisce la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senz´altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide. Questo articolo è la conseguenza naturale dell´articolo 41 della Costituzione poiché impone una responsabilità di cittadinanza alla sfera degli interessi economici.
Valutando questa fase di restaurazione delle relazioni politiche tra le classi dovremmo farci questa domanda: che tipo di società sarà una società nella quale l´accumulazione è libera da ogni vincolo politico, da ogni limite di distribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, da ogni responsabilità verso l´ambiente, la salute di chi lavora e di chi consuma? Siamo certi di voler vivere in una società di questo tipo?

il Fatto 9.2.12
Non c’è solo Lusi. Pure i Radicali sono stati derubati


Non c’è solo Luigi Lusi della Margherita fra i tesorieri di partito accusati di appropriazione indebita. Un’altra storia simile, anche se si tratta di una cifra molto più contenuta, arriva dal Partito Radicale con l’ex tesoriere Pasquale Quinto, detto Danilo, condannato poche settimane fa in via definitiva a dieci mesi di reclusione per appropriazione indebita aggravata e continuata”. La notizia è un’anticipazione del settimanale Panorama. “Multe, bollette, centri benessere, ristoranti, hotel: queste spese personali – riporta il settimanale – venivano iscritte nel bilancio dei Radicali come sopravvenienze passive da parte del tesoriere, per anni stretto collaboratore di Marco Pannella. Ora Quinto collabora con l’Osservatore Romano e con la diocesi di Bari, mentre i Radicali hanno pronta una richiesta di risarcimento nei suoi confronti di 230 mila euro”. La precisazione dei Radicali non si è fatta attendere: “In merito ad alcune sintesi fatte sulle anticipazioni del settimanale Panorama relativamente alla condanna definitiva dell’ex Tesoriere del Partito Radicale per appropriazione indebita – ha dichiarato il deputato Maurizio Turco – è da sottolineare che il nostro caso è l’unico nella storia della Repubblica che ha visto arrivare prima il partito della magistratura. E ogni volta che la Magistratura è arrivata si è trovata di fronte a dei partiti con dirigenti ingenui o distratti. Noi abbiamo controllato, appurato, denunciato”. La vicenda dei Radicali arriva pochi giorni dopo l’inchiesta della Procura di Roma sui milioni che Lusi avrebbe sottratto alla Margherita, un partito che sostanzialmente non esiste più, ma che gestiva un patrimonio consistente. E ieri il Fatto, e altri giornali, hanno riportato la questione dei 26 milioni di euro scomparsi dalla Fondazione che gestiva le risorse della vecchia Alleanza Nazionale.

l’Unità 9.2.12
Yehoshua: «Chi ha tradito il sogno della mia Israele»
L’intervista «La logica coloniale è devastante»
«Israele ha perso il sogno di essere un Paese normale e con confini definiti»
Il grande scrittore mette sotto accusa la «logica coloniale» che garantisce impunità per gli insediamenti illegali e anche per le violenze contro il «nemico»
La mia Gerusalemme: «La cultura nazionalista e l’estremismo religioso se la prendono con l’altro, anche se donna laica o pacifista israeliano»
di Umberto De Giovannangeli


Non si può mascherare un fallimento politico con una improvvida fuga in avanti, quale è, a mio avviso, vagheggiare uno Stato binazionale. Sono sempre più convinto che la pace, che passa necessariamente attraverso la separazione di due popoli in due Stati, non è una concessione fatta ai palestinesi ma è un’esigenza vitale per un Paese, Israele, che intende preservare i sue due caratteri fondanti: l’identità ebraica e la democrazia».
A sostenerlo è uno dei grandi della letteratura israeliana: Abraham Bet Yehoshua, il cui ultimo romanzo, La scena perduta (Einaudi) è già un bestseller internazionale.
Rilanciare l’idea di due Stati per due popoli significa anche affrontare un tema caro a Yehoshua: quello dei confini. Un tema fondamentale, riflette lo scrittore israeliano, «perché la mancanza di confini fra due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. Ed anche perché definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si incentrava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nel fare d’Israele un Paese normale. La conquista della normalità: è il sogno da realizzare, l’approdo finale, la conquista di una vita, il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari – come lo è ogni popolo – senza preoccuparci di perdere l’identità».
Perché è importante per Israele non abbandonare una riflessione, che è culturale oltre che politica, sul tema dei confini?
«Definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si realizzava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nella capacità di fare d’Israele un Paese normale. Lei mi chiedeva cos’è per me la pace? La risposta è semplice e al tempo stesso terribilmente difficile da realizzare: la pace è la conquista della normalità. E quando ci sarà la pace e il quadro normale dello Stato d’Israele consentirà il riconoscimento definitivo del consesso dei popoli, e in particolare dei popoli dell’area in cui ci troviamo, ci renderemo conto che “normalità” non è una parola spregevole ma, al contrario, l’ingresso in una epoca nuova e ricca di possibilità, in cui il popolo ebraico potrà modellare il proprio destino, produrre una propria cultura completa. Si dimostrerà il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari come lo è ogni popolo senza preoccuparci di perdere l’identità».
«D’altro canto, l’abbattimento del "Muro" che riguarda noi israeliani e i palestinesi continua lo scrittore non può portare con sé l’idea di una unificazione tra due entità nazionali che restano comunque separate. Voglio essere ancora più esplicito: l’opposto del "Muro", la sua alternativa non è uno Stato binazionale, che era e resta una soluzione impraticabile». Su cosa fonda questa valutazione? «Alla base vi sono ragioni molteplici e di diversa natura. In questo conflitto israeliani e palestinesi hanno rafforzato le rispettive identità nazionali, oltre che una diffidenza reciproca. Alla fine, spero e credo, ci sarà pace ma mai “amore”. Se pace sarà, sarà la pace dei generali, come Yitzhak Rabin, che combatterono per una vita contro il nemico e da questa esperienza trassero la convinzione che non esiste una via militare alla sicurezza e alla normalità per Israele. E poi alla base della separazione in due Stati c’è anche un’altra ragione che investe l’essenza di Israele, che rimanda alla sua identità ebraica. Ed è proprio per preservare questa identità, insieme ai suoi caratteri democratici, che occorre separarci riconoscendo all’altro, ai palestinesi, il diritto, che porta con sé anche obblighi e doveri, ad un proprio Stato».
In Israele si discute molto sul pericolo interno, rappresentato dall’estrema destra ultranazionalista. A suo avviso esiste un nesso, e se sì quale, tra la pace e la sconfitta dell’estrema destra radicale?
«La pace con i palestinesi, e la fine del regime di occupazione nei Territori, non è una gentile concessione al “nemico”, ma è la condizione fondamentale per preservare il nostro sistema democratico e quei valori che ne sono a fondamento».
Insisto su questo punto: perché la fine dell’occupazione può divenire un efficace antidoto contro l’affermarsi di una cultura e di una pratica estremista in Israele?
«Perché spazza via quella cultura dell’emergenza sulla base della quale c’è chi tende a mettere tra parentesi qualsiasi altra cosa. Noi non stiamo parlando di territori di oltremare, stiamo parlando di città palestinesi che sono a pochi chilometri da Gerusalemme o da Haifa. Si confiscano terre palestinesi illegalmente, si permette che coloni che risiedono in insediamenti illegali possano compiere atti provocatori contro i palestinesi senza per questo incorrere nelle pene che analoghe azioni comporterebbero se commesse in Israele e contro altri cittadini israeliani. Questa logica colonialista rischia di trasformarsi in un cancro le cui metastasi aggrediscono il corpo sano di Israele. L’emergenzialismo rischia sempre più di divenire sinonimo di impunità; e l’impunità porta con sé la convinzione che tutto sia lecito, anche usare violenza all’altro da sè, sia esso una donna laica o un pacifista considerato come un traditore da schiacciare. Non mi riferisco solo all’estrema destra politica. Anche l'universo religioso, con tutte le sue correnti, sta diventando sempre più oltranzista, inventando nuovi divieti e forme di tormento. Chi avrebbe mai pensato che nella mia città natale, Gerusalemme, sarebbe stata introdotta la separazione tra donne e uomini su alcune linee di trasporto urbano? Chi avrebbe mai pensato che gli ultra ortodossi avrebbero conquistato interi quartieri in varie città proibendo ai loro seguaci di affittare appartamenti agli arabi? Anche qui c’è un legame con il tema della pace e di uno Stato palestinese: quanto più i toni del dibattito sulla creazione di questo Stato si smorzano, e le reali differenze politiche sul tema scompaiono, con una sinistra che sbiadisce la sua identità e smarrisce la propria memoria storica, tanto più in Israele si risveglia un'impetuosa ondata nazionalista che tende a ledee inviolabili diritti civili».
Nelle scorse settimane, lei ha tenuto un ciclo di conferenze in Italia in occasione della Giornata della Memoria. Cosa significa oggi per Israele «farsi carico» della Shoah?
«Pur caricandoci di un grande peso, l'Olocausto ci pone di fronte a delle sfide chiare. Come figli delle vittime, ci incombe l'obbligo di enunciare al mondo alcuni insegnamenti fondamentali. Il primo è la profonda repulsione per il razzismo e per il nazionalismo. Abbiamo visto sulle nostri carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e ogni popolo. Dobbiamo portare la bandiera dell'opposizione al razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni. L’Olocausto ricorda a tutti che gli ebrei hanno sofferto in modo indicibile. Guai se questa verità cadesse nell’oblìo. Nonostante questo, gli ebrei non hanno ricevuto un certificato di rettitudine. Per essere uomini retti bisogna fare qualcosa di buono. E qualcosa di buono è anche lottare affinché i palestinesi abbiano i nostri stessi diritti».

il Fatto 9.2.12
Abusi d’Oltretevere
“Volevo farmi suora, un prete si è fatto me”
di Marco Politi


Ho iniziato a fare direzione spirituale quando avevo 18 anni e la storia è iniziata quasi subito. Il don aveva capito il mio punto debole, la carenza d’affetto e, piano piano, lavorando sulla mia psiche fragile, è riuscito a mettermi in testa che l’amore, l’affetto, è un bene che si può vendere e comprare. La nostra frase era “Cinque minuti di quello che vuoi tu in cambio di cinque minuti di quello che voglio io”. Io volevo solamente sfogarmi, parlare dei miei problemi ed essere abbracciata, volevo essere messa al centro dell’attenzione, cosa che non accadeva mai nella mia famiglia.
La prima volta è stato così. “Ti porto in camera, ci sdraiamo sul letto così ti abbraccio meglio”. Ero talmente inesperta che non avevo mai visto un pene in vita mia, non sapevo come si facevano certe cose, ma poi ho dovuto imparare per forza. Stavamo su quel letto, c’erano volte in cui io dovevo semplicemente stare ferma e lui mi ravanava dappertutto e volte in cui si sedeva sul mio collo e io avevo paura di soffocare.
In camera sua c’era un crocifisso di legno pesante, proprio sopra il letto. Io avevo il terrore che quel crocifisso potesse cadermi in testa. Poi lui si rivestiva in fretta, mi buttava i vestiti e mi diceva di andarmene, aveva fretta di liberarsi di me.
Adesso Emanuela Violani (lo pseudonimo che ha scelto) ha più di ventisei anni. Il diario le è servito per rielaborare il trauma. Per cinque anni, in un paesino di campagna, è stata abusata da un prete. Aveva più di diciott’anni. Non era una minore. “Soltanto” una ragazza fragilissima, dedita all’alcol, manipolata come oggetto sessuale.
Era prete da poco. Ogni tanto andavamo al parcheggio del cimitero ed era sempre la solita storia: ho dovuto pagare tutto quello che mi ha dato. Ogni tanto mi portava al cinema o a mangiare una pizza. Io ero contenta perché non uscivo mai, solo che poi al ritorno andavamo a finire sempre in qualche parcheggio isolato e lì non mi doveva abbracciare per cinque minuti, dovevo subito iniziare. Per due anni mi sono ubriacata quasi tutti i fine settimana e quando non bevevo, andavo dal don perché avevo bisogno di riempire il vuoto della mia anima. Capivo che lui mi stava usando, ma io volevo stare con qualcuno. Ho anche avuto disturbi alimentari, mi nutrivo quasi esclusivamente di latte e nell’estate 2003 sono arrivata a pesare 41 chili. Era agosto, faceva caldo, stavo talmente male che non mi interessava della mia verginità, avrei dato tutto pur di essere presa in braccio e coccolata per qualche minuto, ma quando mi sono accorta che faceva sul serio, mi sono spaventata, ho iniziato a sentire male e gli ho detto di fermarsi. Lui (cento e più chili contro i miei quarantuno) con una mano mi teneva ferma e con l’altra mi tappava la bocca, poi ricordo il sangue, un “vaffanculo” detto da me e un “lo volevi anche tu” detto da lui. Ci ho messo un anno a capire che cosa mi era successo veramente, ho capito che razza d’uomo era solo quando ci siamo rivisti dopo diversi mesi e mi ha sbattuta fuori casa perché non volevo fare porcate con lui.
Da giovane Emanuela, molto credente, voleva diventare suora missionaria. Ora dice: “Volevo farmi suora e il prete si è fatto me”.
Mi sono confessata da don D. Ho detto che avevo commesso un solo grande peccato: “Atti impuri con un prete” e lui mi ha detto cose orribili, mi ha detto che io ero il demonio sulla terra, che se quel prete dava la comunione dopo essere stato con me rovinava la sua comunità. Ero lì in ginocchio in quella chiesa scura con un pretino anziano che mi faceva cadere addosso dei massi enormi e non sapevo come difendermi. Non voleva darmi l’assoluzione, ma poi si è convinto e mi ha detto di non rifare più certe cose. Io sono uscita dal confessionale di corsa perché lui voleva vedermi, facevo fatica a stare in piedi, facevo fatica a parlare, ero sbiancata.
Emanuela per chiedere aiuto si confida, mandando lettere a un altro sacerdote.
Don B. le leggeva ma un giorno le ha buttate via perché quando facevo le cose con don G. io descrivevo nei minimi dettagli le porcate che facevamo. Don B. ha buttato via questi miei “resoconti” perché ha detto che potrebbero finire nelle mani sbagliate. Quando a don B. in una lettera ho descritto per filo e per segno della violenza e ho chiesto: “È stata violenza? ”, lui mi ha presa in un angolo della chiesa e, sottovoce per non farsi sentire, mi ha detto: “Se le cose sono andate come le hai descritte, sì, è stata violenza”, poi ssst, silenzio e se n’è andato”.
Don Virginio Colmegna, che a Milano dirige la Casa della Carità, afferma di aver letto il diario di Emanuela con “fatica, disgusto e conati di vomito”, augurandosi che il violentatore “ammantato di potere religioso” si assuma le sue responsabilità e decida di “rompere la copertura ipocrita del silenzio”. Nel diario, Emanuela scrive di un incidente. A me ha confessato di essersi gettata da un ponte.
Venti giorni dopo l’operazione, venti giorni soltanto dopo che mi hanno aperto la testa, mi hanno ricostruita con il metallo e con le viti, mi hanno tirato fuori le ossa della faccia che erano entrate… venti giorni dopo don G. mi ha detto che non ero più buona neanche a fare pompini.
Ho voluto rompere la cortina dello pseudonimo. Ho rintracciato Emanuela per sapere cosa è accaduto dopo. Mi ha detto al telefono che per anni, dopo che si rifiutava di vedere il suo violentatore, il prete l’ha per-seguitata con messaggini. Finalmente lo ha denunciato per violenza. In Questura le hanno risposto che era passato troppo tempo. È andata dal vescovo. Il tribunale ecclesiastico doveva intervenire, ma nulla è successo. Il prete ha confessato di avere compiuto un “atto di debolezza”, ora è parroco. Le hanno proposto di versare una somma di denaro a un’associazione benefica da lei indicata. Così, per non dovere ammettere pubblicamente responsabilità, Emanuela ha rifiutato.
In Vaticano l'altro giorno hanno organizzato una veglia per le vittime, ma discutono ancora se rendere obbligatorio o no che il vescovo denunci i preti criminali.
Diario segreto dei miei giorni feroci di Emanuela Violani

Corriere della Sera 9.2.12
Vaticano, i fondi dello Ior trasferiti in banche tedesche
Chiuso il rapporto con nove istituti di credito italiani
di Sergio Bocconi


MILANO — Ancora una volta lo Ior, il forziere del Vaticano, è sotto i riflettori da parte della Procura di Roma. Secondo quanto riferito da alcune agenzie citando «ambienti giudiziari», lo Ior avrebbe provveduto a trasferire gran parte dei fondi depositati presso nove banche italiane, di cui è cliente, fra le quali Intesa Sanpaolo e Unicredit, in istituti di credito tedeschi.
Per quale ragione lo Ior avrebbe deciso di interrompere i rapporti con gli istituti del nostro Paese? Sempre secondo fonti giudiziarie, il «trasloco» sarebbe legato all'entrata in vigore della circolare con la quale Bankitalia ha incluso l'istituto, presieduto da Ettore Gotti Tedeschi e guidato dal direttore generale Paolo Cipriani, nella lista dei Paesi extracomunitari verso i cui istituti le banche italiane devono applicare le verifiche e i controlli «rafforzati» previsti dal decreto 231 del 2007 (cioè le disposizione che hanno dato attuazione alla direttiva europea antiriciclaggio).
Il progressivo azzeramento della operatività dello Ior con gli istituti italiani sarebbe emerso dall'esame dei rapporti finanziari acquisiti dalla Procura di Roma nell'ambito dell'inchiesta sullo Ior che, nel settembre 2010, ha portato al sequestro di 23 milioni trasferiti dall'istituto Vaticano, attraverso il Credito Artigiano, alla Jp Morgan Frankfurt (20 milioni) e alla Banca del Fucino (3 milioni). Secondo i giudici i trasferimenti erano avvenuti senza comunicare per conto di chi erano stati disposti, né la natura e lo scopo delle due operazioni. In particolare, lo Ior aveva chiesto al Credito Artigiano di disporre le due operazioni di bonifico e la banca, che nei mesi precedenti aveva ricevuto, come tutti gli altri istituti di credito, la circolare della Banca d'Italia che obbliga nei rapporti con lo Ior, istituto extracomunitario, a rispettare gli obblighi di verifica rafforzata, ha chiesto al Vaticano di fornire informazioni su beneficiari e scopo delle operazioni. Ma le risposte non erano arrivate, l'Artigiano lo ha segnalato a Bankitalia, si è mossa la Procura e si è arrivati al sequestro. Gli avvocati della Santa Sede hanno in seguito precisato che si trattava di operazioni di tesoreria: la somma maggiore, cioè i 20 milioni trasferiti a Francoforte, doveva essere investita in titoli di Stato tedeschi.
L'inchiesta, che aveva visto indagati sia Gotti Tedeschi sia Cipriani appunto per omesse comunicazioni in violazione alla normativa antiriciclaggio, è rimasta aperta anche dopo che, nel giugno 2011, è stato autorizzato il dissequestro della somma. Tra i motivi della revoca del provvedimento, respinta una prima volta alla fine del 2010, c'è stata l'emanazione da parte del Vaticano di una legge sulla «prevenzione e il contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose» e l'istituzione di un'Autorità di informazione finanziaria (Aif). Sempre secondo quanto riportato dalle agenzie, in Procura si fa notare che l'Aif ha risposto alle domande degli inquirenti solo in una occasione.


Corriere della Sera 9.2.12
«Alla Scala danzatrici anoressiche» Il corpo di ballo: falso
di P. Pan.


MILANO — Licenziata dalla Scala per averne leso l'immagine, ignorata dal sindacato al quale «non si è rivolta», completamente scaricata dalle colleghe, Mariafrancesca Garritano — la ballerina da mesi in contrasto con il teatro dopo la pubblicazione del libro-denuncia La verità vi prego sulla danza — trova un'insperata difesa, per paradosso, proprio nelle «Iene». Che questa sera, nel consueto appuntamento su Italia 1 (ore 21), manderanno in onda un'intervista alla madre di un'allieva e a una ex studentessa dell'Accademia della Scala «malata di anoressia» (si dice), che ribadiscono le situazioni descritte dalla Garritano.
«Mia figlia ha dei disturbi alimentari come tutte le sue compagne, e quasi tutte le ragazze in Accademia sono in amenorrea», dichiara la madre dell'allieva. Mentre l'ex studentessa ricorda alcuni richiami (di passate gestioni) del tipo: «Tutti i giorni ti fanno delle osservazioni come: sei un alieno, hai il bacino troppo corto, le gambe troppo lunghe», che potrebbero favorire disagio psicologico alla base dell'anoressia. Che però è una seria malattia psichiatrica, mentre oggi si tende ad abusare del termine anche solo per definire una diminuzione di peso autoindotto.
Un abuso che non piace al corpo di ballo della Scala, che definisce le tesi della Garritano «strumentalizzazione dei fatti a scopo pubblicitario». E lo stesso fa la Scuola di ballo della Scala, che sottolinea come le ragazze siano seguite da medici e dietologi. «Quando sono uscite le prime dichiarazioni sull'anoressia, siamo rimasti basiti e amareggiati — si legge nella nota del corpo di ballo —. Ci siamo sentiti strumentalizzati e al sospetto che ci si trovasse di fronte a uno sfruttamento costruito per fini personali». Nella nota si ricorda che la Garritano rilasciò un'intervista all'Observer dichiarando che alla Scala «una ragazza su cinque è anoressica» e «sette su 10 non hanno più il flusso mestruale». Il teatro fa sapere che nove étoile sono, attualmente, in maternità.
Nella bagarre sollevata da questa situazione si sono tuffati anche i politici, con varie richieste di chiarimento e interpellanze. Nel vortice, il sindaco Giuliano Pisapia (che è presidente del teatro) fa da pompiere: «Ho letto sui giornali del licenziamento e nel prossimo consiglio di amministrazione porrò il problema, mi informerò. Io so per certo che la Scala su questo tema è molto attenta».

La Stampa 9.2.12
“Anoressia? Non alla Scala” Ma le Iene rilanciano
La madre di un’allieva: “Tutte hanno disturbi alimentari”
di Claudia Ferrero


«La verità, vi prego, sulla danza» Il libro di Maria Francesca Garritano (foto) ex ballerina della Scala, e le sue interviste successive, hanno scatenato molte polemiche e causato il suo licenziamento.
Subito le accuse, riassunte, perché tutto prende le mosse da qui: alla Scala «una ragazza su cinque è anoressica», le danzatrici «gareggiano, oltre che per essere le migliori sul palco, anche per chi mangia meno» e pare la norma - «la stragrande maggioranza delle ballerine (7 su 10) non ha più il flusso mestruale», tanto «che molte non riescono ad avere figli». Eccolo il sogno di ogni bambina che va in frantumi. Mariafrancesca Garritano, nel rilasciare la famosa intervista all’ Observer, ha schiantato la sua carriera e oggi osserva da neo licenziata quanto ha scatenato, in attesa dei procedimenti legali. La Scala non ci sta, e ieri ha rotto finalmente il silenzio: «Non esiste un’emergenza anoressia e chiunque graviti attorno alla nostra realtà lo sa bene». Ma altre ballerine, altre madri di allieve stanno parlando. Come questa, che stasera si racconta a Le Iene Show su Italia 1: «Mia figlia ha disturbi alimentari come tutte le sue compagne. Si guardano ossessivamente tra loro, si controllano il peso. Quasi tutte le ragazze in Accademia sono in amenorrea (non hanno il ciclo mestruale, primi sintomi fisici dell’anoressia, ndr) ». O quest’altra, ex studentessa dell’Accademia malata di anoressia: «Tutti i giorni ti fanno delle osservazioni, “sei un alieno, hai la testa troppo grossa, il bacino troppo corto, le gambe troppo lunghe”».
Sadismo? «Disciplina, studio, rigore. Sono le tre regole d’oro per l’assoluta riuscita di un danzatore - ricordava tempo fa Frédéric Olivieri, celebre étoile internazionale, alla guida della compagnia del balletto del Teatro alla Scala -. Ma non condivido eccessi in nessun campo. Bisogna essere molto psicologi per stare accanto a dei bambini, saper instaurare rapporti di assoluta fiducia. Ma non bisogna nemmeno illuderli... ». D’altra parte un paio d’anni fa anche l’Opera di Parigi era stata presa di mira per la «durezza della scuola» e Libération aveva parlato di una specie di «persecuzione morale», con testimonianze del tipo «Ti demoliscono, ti dicono “non arriverai a niente”, “sei troppo grasso”».
«Non esiste un’emergenza anoressia - si legge nel documento del Corpo di Ballo del Teatro alla Scala -. Siamo rimasti basiti e amareggiati. Ci siamo sentiti strumentalizzati» e sospettano che tutto sia una trovata promozionale per il libro della Garritano La verità, vi prego, sulla danza!. E ancora: «Si parla di allarme alla Scala. Tutto ciò non solo è falso ma è anche lesivo per l’immagine della compagnia e dei suoi singoli elementi».
A questo si aggiungono le spiegazioni della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala: all’Accademia non c’è la presenza fissa di un dietologo «per la mancanza di casi critici», rassicurano. «Ogni anno i nuovi allievi sono sottoposti a visite cardiologiche e ortopediche. Poi durante l’anno ci sono controlli, il servizio medico ortopedico è presente due volte la settimana mentre tutti i giorni c’è il fisioterapista». Per quanto riguarda l’alimentazione, gli alunni che hanno dei problemi sono indirizzati a tre medici dietologi e questo vale nel caso in cui «l’allievo/a ingrassa o dimagrisce per effetto di una dieta non equilibrata, oppure nel caso di aumento di peso dovuto al passaggio in età adolescenziale, ma sempre dal punto di vista della corretta ed equilibrata assunzione di carboidrati, proteine e zuccheri per un atleta». Dal punto di vista psicologico, aggiungono, i ragazzi sono seguiti quotidianamente dalle assistenti ai minori. «I professori di danza si occupano anche di monitorare che la crescita formativa dell’allievo sia in armonia con lo sviluppo corporeo e psicologico». A ciò si unisce il controllo dell’associazione dei genitori, che «viene incontrata dal maestro due, tre volte all’anno».
Del licenziamento della Garritano si discuterà invece nel prossimo consiglio di amministrazione della Scala. «L’anoressia è un tema troppo delicato per parlarne con serenità - dice il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, che è presidente del Teatro - nel prossimo cda porrò il problema e mi informerò. So per certo - ha aggiunto il sindaco - che la Scala su questo tema è molto attenta». «Mi sembra strano - ribatte però la mamma di una ballerina alle Iene - che una possa essere licenziata per aver raccontato cose che chiunque abbia sfiorato il mondo della danza conosce». Botta e risposta. Destinati a continuare.

Corriere della Sera 9.2.12
Stragi tedesche in Italia, la sentenza dell’Aja
risponde Sergio Romano


Immagino che la mia lettera non sia la prima, nè sarà l'ultima riguardo alla sentenza della Corte europea di «giustizia» dell'Aia sul risarcimento ai superstiti delle vittime italiane delle stragi naziste. Innanzitutto, come è possibile che il
diritto internazionale preveda l'immunità per questi terribili reati? Inoltre credo che tutti i Paesi dell'Unione Europea, forse per la prima volta uniti e d'accordo, debbano protestare ufficialmente contro la Germania, minacciandola di sanzioni se non ritirerà i ricorsi e ammetterà una volta per sempre le proprie vergognose colpe.
Ardengo Alebardi

Come valuta la sentenza della corte dell'Aia sul risarcimento dei crimini nazisti commessi in Italia? Vuole spiegare ai lettori i pro e i contro di un simile verdetto?
Remo Giannetti

Cari lettori,
La Corte dell'Aia non ha detto che le stragi naziste in Italia debbano restare impunite. Con una decisione a mio avviso discutibile, ma ormai universalmente affermata, i crimini di guerra e i reati contro l'umanità non sono soggetti a prescrizione e possono essere perseguiti senza limiti di tempo. Ne abbiamo la dimostrazione ogniqualvolta assistiamo a uno dei tanti processi celebrati in questi anni contro ottantenni e novantenni chiamati a rispondere di ciò che avevano fatto nel corso della Seconda guerra mondiale. La Corte dell'Aia ha più semplicemente affermato che uno Stato (in questo caso la Germania) non può essere soggetto alla giurisdizione civile di un altro Stato. L'Italia può certamente chiedere alla Germania un indennizzo per i parenti di coloro che furono uccisi dalle truppe del Terzo Reich durante la fase della guerra, e negoziare un accordo (per la verità lo aveva già fatto nel 1947 prima di rinunciare a qualsiasi ulteriore rivendicazione). Ma un tribunale italiano non può condannare al pagamento lo Stato tedesco. La sentenza dell'Aia, quindi, non è sorprendente. È la semplice riaffermazione di uno dei più antichi e consolidati principi del diritto internazionale.
Qualcuno potrebbe chiedere a questo punto perché la Corte di cassazione abbia deliberatamente ignorato questo principio e perché il governo italiano, al tribunale dell'Aia, abbia deciso di sostenerla. Sia i giudici italiani, sia il governo sapevano che stavano assumendo una posizione nuova, in contrasto con la tradizione. Lo hanno fatto probabilmente nella convinzione che l'importanza dei reati e una forte sensibilità sociale giustificassero una nuova dottrina internazionale.
Due giuristi italiani (Vladimiro Zagrebelsky su La Stampa e Fausto Pocar su Il Sole 24 Ore) hanno manifestato il loro rammarico. Sanno che la sentenza dell'Aia è «ortodossa», ma avevano sperato in un mutamento d'indirizzo. Pocar, in particolare, osserva che esistono ormai tribunali penali internazionali di fronte ai quali sono apparsi in questi anni numerosi leader politici e militari. Perché non estendere la responsabilità civile agli Stati quando i reati sono commessi da persone che al momento degli eventi appartenevano al loro apparato? Ciascuno dei due studiosi-magistrati, in altre parole, chiede che nelle relazioni internazionali vi sia un po' meno di diplomazia e un po' più di diritto. Sarei d'accordo a una condizione: che anche per questi reati e per le cause civili che ne sono la conseguenza venga introdotto il principio della prescrizione. Nella tesi secondo cui i tedeschi d'oggi dovrebbero essere chiamati a pagare per le colpe commesse dalla Germania di ieri, si nasconde, a mio avviso, una punta di razzismo.

La Stampa 9.2.12
Cina, la fuga misteriosa del super poliziotto “Asilo politico negli Usa”
Tam tam sul Web: Wang Lijun è al Consolato
di Ilaria Maria Sala


Dov’è finito Wang Lijun, vicesindaco e capo della polizia della megalopoli di Chongqing, la città di 29 milioni di abitanti famosa per essere il feudo di Bo Xilai, ispiratore della «campagna comunista» e noto per aver lanciato una guerra senza quartiere ai gangster locali?
Per tutta la giornata di ieri il Web cinese ha continuato ad interrogarsi sulle sue sorti, in un susseguirsi concitato di ipotesi, rese ancora più snervanti da una bizzarra censura a singhiozzo sui siti Web di microblogging. I fatti, allora: Wang, di 52 anni, nemico del crimine ed esperto di arti marziali, che si dice abbia «più di venti cicatrici per ferite di arma da fuoco e da coltello» collezionate nelle sue battaglie contro la delinquenza, improvvisamente è scomparso. Alcuni, fin da subito, collegano l’inspiegabile assenza a un misterioso assembrarsi di auto e camionette della polizia intorno al Consolato generale americano di Chengdu, a poche ore da Chongqing, un sospetto che è andato aggravandosi man mano che il Consolato rifiutava di sopirlo, rispondendo a tutte le richieste di informazioni con un laconico «no comment», rassicurando chi si fosse preoccupato dell’inusuale presenza di polizia garantendo solo che il Consolato «non è sotto minaccia».
Nel pomeriggio, poi, mentre i tentativi di connettersi al cellulare di Wang fallivano uno dopo l’altro, ecco che l’agenzia di stampa cinese «Xinhua» ha annunciato che il capo della polizia sarebbe «in vacanza terapeutica» per essere «molto stanco di nervi» – appena una settimana dopo essere stato sospeso dalle funzioni e riassegnato al Dipartimento dell’educazione della città. Un campione di arti marziali con l’esaurimento nervoso?
Di nuovo, dunque, ecco che esplode sui social media la caccia alle notizie e al tentativo di capire che cosa stia succedendo non solo a uno degli uomini più potenti di Chongqing, ma in particolare a uno dei maggiori alleati di Bo Xilai, che aspira a entrare nell’esclusivo Comitato Permanente del Politburo, che sarà nominato in ottobre di quest’anno. La scomparsa di Wang lo danneggerà? In che modo? Cosa significa questo per il tipo di Comitato Permanente – e quindi di Cina – che si prospetta per i prossimi dieci anni? Il Web è frenetico, la censura ondeggia, e il termine «vacanza terapeutica» diventa immediatamente tormentone. Quello che emerge dai social media, ma senza per ora aver conferme ufficiali, è che per qualche motivo ancora inconoscibile Wang avrebbe cercato di ottenere asilo politico nel Consolato Usa, ma di non averlo ottenuto – vuoi per un rifiuto da parte americana, proprio a una settimana dall’importante visita del prossimo Presidente cinese, Xi Jinping, negli Usa, vuoi perché Wang sarebbe stato intercettato ed arrestato prima di poter mettere piede sul suolo consolare. Tutte queste precisazioni, infatti, in alcuni casi provenienti da fonti solitamente attendibili, venivano cancellate dai siti di social media una dopo l’altra in pochi secondi, e sopravvivono solo grazie a chi ripubblicava degli screen shot su Twitter – che non può essere censurato dalle autorità cinesi.
Ma col passare delle ore, e con l’infittirsi del mistero, una sola cosa si è chiarita al di là di ogni possibile dubbio: a Wang Lijun è capitato qualcosa di davvero fuori dall’ordinario, e questo mette una distanza supplementare, forse insanabile, fra il folgorante Bo Xilai e il suo desiderio di assurgere al Comitato Permanente del governo. La partita di caccia per ottenere il massimo trofeo del potere cinese, si direbbe, a sette mesi dal Congresso del Partito, è ancora aperta.

Corriere della Sera 9.2.12
Sei foche monache: la prima opera d'arte dell'umanità
Le pitture rupestri della grotta francese di Chauvet perderebbero il primato dell'arte più antica, surclassate di almeno 12 mila anni
di Andrea Nicastro


MADRID — Sono sei piccole foche monache dipinte in ocra su una stalattite, una in fila all'altra, come per una conta o una processione. Secondo il professor José Luis Sanchidrian dell'Università di Cordoba, potrebbero essere queste figure scoperte nella grotta di Nerja, vicino a Malaga, nel sud della Spagna, le prime opere d'arte dell'umanità. Ci sono resti di un falò e frammenti di ossa di foche a suggerirlo.
Fosse vero sarebbe una rivoluzione per la paleoantropologia. Non solo le pitture rupestri della grotta francese di Chauvet perderebbero il primato dell'arte più antica, surclassate di almeno 12 mila anni da Nerja, ma potremmo essere costretti a retrodatare l'arrivo in Europa dell'Homo sapiens oppure dovremmo rivedere il nostro giudizio dell'uomo di Neanderthal, il nostro «cugino» estinto. Fino a oggi i neanderthaliani erano considerati capaci di lavorare pietre e ossa, ma mai di un'astrazione complessa come quella necessaria per realizzare le sei piccole foche.
La grotta di Nerja è un'enorme cattedrale sotterranea (ri)scoperta nel 1970, punteggiata da stalattiti, stalagmiti e circa 600 pitture rupestri. Oggi il Mediterraneo è a una ventina di chilometri, ma nella preistoria doveva essere molto più vicino. I cacciatori dell'epoca trascinavano nella caverna le loro prede, capre, bufali, cavalli, foche, e qualcuno tra loro ne disegnava le forme sulle pareti. Uomini primitivi sì, ma con quelle facoltà d'astrazione (e senso artistico) che gli antropaleontologi hanno sempre considerato esclusiva di noi moderni Homo sapiens, comparsi in Europa 40 mila anni fa. Le pitture rupestri già conosciute e analizzate nella caverna confermavano questa ricostruzione. Le sei foche, invece, sono state trovate in una cavità strettissima, dove c'è spazio solo per l'antico pittore e il fuoco che gli servì per illuminare la sua «tela». I carboncini trovati nel terreno risalgono a 43-45 mila anni fa, ben prima dunque della comparsa dell'Homo sapiens. Un falò precedente? Possibile. Ma forse no.
Il 22 gennaio, «la Lettura» del «Corriere» aveva anticipato uno studio di due paleoantropologi dell'Università La Sapienza di Roma nel quale si ipotizzava una fusione genetica tra sapiens e neanderthaliani. Diventerebbero così più labili le differenze «culturali» sempre indicate tra i due gruppi di ominidi. Le foche spagnole potrebbero confermare proprio questo filone di ricerca. «Dobbiamo trovare altre prove — ammette il professor Sanchidrian —, ma i Neanderthal, forse, non erano poi così diversi da noi».

Corriere della Sera 9.2.12
Il libro di Paola Binetti
Il sentiero comune di laici e cattolici
In politica non ci si aggrega per fede, ma scegliendo una via con fini condivisi
di Ernesto Galli Della Loggia


Il libro di Paola Binetti testimonia la difficoltà che necessariamente incontra il pensiero cattolico quando è chiamato a dare una risposta alla questione politicamente cruciale della libertà in un sistema democratico. La quale questione può essere scomposta in due aspetti: uno di carattere più propriamente sociale — possono esistere in una democrazia valori collettivi vincolanti, ai quali cioè tutti sono tenuti a obbedire? — e l'altro riferibile invece all'individuo — fino a che punto è giusto porre un limite all'autodeterminazione di ogni soggetto? A quali campi non si può né si deve applicare la libertà di ognuno di decidere che cosa è meglio per lui?
Il tema del diritto naturale acquista un rilievo cruciale precisamente in riferimento a queste due questioni. Un tema davvero spinosissimo, dal momento che affermare che esiste realmente qualcosa come una legge naturale valida per tutto il genere umano significa due cose di certo non facili da accettare per chi non si riconosce nella dottrina cattolica: e cioè da una lato porre un limite invalicabile all'autodeterminazione individuale, e dall'altro che esiste un'omogeneità culturale e antropologica di fondo tra tutte le civiltà del pianeta. Ma d'altra parte, dire che non esiste nulla di simile al diritto naturale equivale di fatto a svincolare la civitas umana da qualunque norma etica che non sia di origine pattizia e dunque alla fin fine puramente convenzionale. Ciò che a mio parere risulta difficilmente accettabile da chiunque, credente o non credente.
La soluzione del problema mi sembra ovvio che non possa essere trovata che all'insegna di un compromesso tra istanze valoriali universali e diritti individuali. Un difficile equilibrio per sua natura sempre precario, che proprio perciò richiede in tutte le parti una ragionevolezza di fondo, una difesa mite, e soprattutto quanto più possibile argomentata, delle proprie posizioni. Richiede insomma che si stabilisca, tra cosiddetti laici e cattolici, se non lo si vuol chiamare dialogo o incontro, perlomeno una disposizione d'animo collaborativa e non antagonistica.
Non posso nascondere che a me, di formazione culturale laica, suscita più di una perplessità il riferimento che fa Paola Binetti a quella che si chiama la dottrina sociale della Chiesa come alla guida dell'azione politica dei cattolici. Sia chiaro: non già perché disconosca in alcun modo il diritto della Chiesa di orientare i propri fedeli anche in materia politica o sociale. Ma perché, per quanti sforzi faccia, non riesco proprio ad afferrare quali siano effettivamente i contenuti di una tale dottrina. Che i cattolici debbano avere riguardo agli obblighi della giustizia e della carità nonché ai diritti delle persone, debbano accettare lo Stato ma non aspettarsi tutto da esso, operare per la ricerca del bene ma certo non mettere al primo posto il benessere materiale, debbano avere attenzione per le ragioni altrui o astenersi in linea di massima dalla radicalità delle opinioni e dei gesti, tutto ciò non credo che richieda alcuna particolare elaborazione dottrinale. I problemi, sia per i cattolici che per i laici, incominciano però quando si entra appena appena nei particolari, o ci si interroga sui mezzi che bisogna adoperare per raggiungere quegli obiettivi. Dopo quanti anni lavorativi è «giusto» andare in pensione? Può essere considerato sempre un «diritto» la gratuità dell'istruzione universitaria a tutti? E per fare tutt'altro genere di esempio: con quali mezzi assicurare un regime decente in Afghanistan? Con la continuazione delle operazioni militari da parte della Nato o con l'apertura di trattative con i talebani?
Nei regimi democratici la politica è fatta essenzialmente delle risposte a queste e ad altre mille domande del medesimo genere. È fatta cioè della scelta dei mezzi. Ma, come proprio Binetti opportunamente ci ricorda citando Giovanni Paolo II, «la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire». Cioè sui mezzi lascia che siano i fedeli a decidere di volta in volta. Ma allora mi chiedo: se i fini sono quelli che ogni cristiano (ma non solo) non può non portare nel proprio cuore, se dei mezzi non ci si occupa (ovviamente del resto: ché altrimenti la Chiesa diverrebbe la succursale di un partito politico), che cosa ne resta in realtà della dottrina sociale della Chiesa?
Del resto, di che cosa sia fatta davvero la passione politica, e a che cosa soprattutto essa presti attenzione, lo indica la stessa Binetti quando a conclusione del libro attacca frontalmente il bipolarismo «per cui l'Italia sta pagando un prezzo altissimo», e auspica con forza un sistema diverso, con una fisiologica larga presenza del centro, cioè della parte in cui essa stessa svolge oggi il suo mandato di deputata. Personalmente non condivido un'opzione sistemica di questo tipo. Soprattutto sono convinto che non sia assolutamente lecito invocare a suo sostegno — come invece fa l'autrice — i risultati di grande valore indubbiamente conseguiti dalla Democrazia cristiana nella lunga stagione del dopoguerra. È vero infatti che allora la Democrazia cristiana si collocava al centro. Ma in un contesto politico e storico, nazionale e internazionale, del tutto differente da quello attuale: così diverso, a mio giudizio, da essere assolutamente improponibile come significativo termine di paragone.
Oggi l'impegno politico dei cattolici non potrà più mettere capo come allora a un «partito cattolico» — almeno potenzialmente di tutti i cattolici, e anche perciò necessariamente al centro. Oggi quell'impegno non potrà che essere l'impegno per un partito di cattolici e insieme di laici, un partito rappresentativo di istanze di fondo dei primi ma in modi e misura compatibili con quelle dei secondi, e che decida, come tutti gli altri partiti, da che parte collocarsi dello schieramento politico.

Repubblica 9.2.12
Sesso, gli antichi lo facevano meglio
Quegli antichi maestri che ci insegnano il sesso
Da Zeus a Sodoma, la nostra è un’epoca di pivellini
L’autore tedesco spiega perché eros, fantasie sfrenate e ambiguità non sono prerogative di oggi. Anzi
Il figlio di Ermes e di Afrodite si unisce con Salmakis e nasce un essere con genitali maschili e femminili
Il Vecchio Testamento e il "Calendario perpetuo dei santi" contengono dettagli sadomasochistici
di Hans Magnus Erzensberger


All´inizio nessun editore voleva pubblicare quel manoscritto, se non altro a causa delle illustrazioni comiche nelle quali si poteva vedere ben poco, oltre a ometti, donne e cani disegnati in fretta. James Thurber ed E. B. White avevano intitolato Is Sex Necessary? il loro libro, apparso, infine, nel 1929. In verità il loro editore si era preoccupato inutilmente: il pubblico si divertiva non solo per il testo, ma anche per i disegni di Thurber e il libro venne venduto alla grande. Fu ostinatamente ignorato solo dagli specialisti, che si sentivano scherniti da qualche passaggio. Tuttavia, l´attualità di quest´opera è fuori discussione. John Updike, che ha contribuito con una bella premessa a una nuova edizione del 2004, ha affermato: «Raramente un libro che mette nel titolo la parola "sesso" ha avuto così poco di significativo da dire al riguardo». Egli lo addebitava al fatto che ogni volta che Thurber andava a letto con sua moglie aveva l´impressione di dormire con la Statua della Libertà.
Fin da allora gli autori consideravano enormemente sopravvalutati due fattori della nostra civiltà, cioè l´aeronautica e il sesso: «Nel caso dell´aeronautica, la gente interessata a questo sport ha dovuto riconoscere che era necessario semplificarlo e risolvere i suoi problemi di sicurezza. Effettivamente, ben presto emerse che solo pochi erano capaci di volare. Le cose stanno in modo ben diverso, anzi opposto, nel caso della sessualità. In linea di principio tutti si intendevano di questo argomento, anche se l´interesse pubblico per esso lasciava a desiderare. Qui il problema stava nel fatto che la faccenda non appariva alla gente abbastanza difficile e pericolosa. Per rimediare, si misero all´opera sociologi, analisti, ginecologi, psicologi e diversi saggisti. Unendo le forze riuscirono a complicare il tutto ben al di là delle fantasie più scatenate dei nostri avi. L´intero Paese venne inondato da specifiche novità librarie».
Oggi c´è poco da aggiungere a questa analisi, che resta valida anche per il contesto tedesco. Semmai si può notare che, da quando la sessualità si è ridotta a un moncherino di parola, "Sex", da noi ha perduto fascino ancora più che altrove. In base a uno sciocco anglicismo, anche qui da noi si "ha" sesso o divertimento (in inglese: "to have sex", "to have fun", n.d.t.), così come si "ha" un mal di pancia o si "hanno" dei debiti.
Per questo oggi il progetto di aumentare il grado di difficoltà ha conseguito successi che Thurber e White e i loro garanti non avrebbero potuto immaginare. Essi appartenevano infatti a un´angusta tradizione che si fa fatica a definire in modo diverso che fallocratica e sessista. Si accontentavano di un semplice codice binario, come se ci fossero solo due sessi. A quel tempo, di un terzo sesso si mormorava appena. È forse per questo che gli autori lo hanno trascurato nella loro peraltro pionieristica ricerca. Da allora, per fortuna, abbiamo fatto passi avanti fondamentali. Chi vive oggi dispone di una pluralità di identità sessuali. Accanto all´"etero" e all´"omo" non si è affermato soltanto un "bi" con tutte le sue sottocategorie, benché non sia ancora chiaro se si possa parlare anche di tri- o di quadrisessuali. Invece, non ci è difficile distinguere i travestiti dai transessuali.
Il sessuologo tedesco Volkmar Sigusch offre informazioni su altre varianti nel suo libro Neosexualitäten. Qui egli analizza fenomeni vecchi e nuovi dell´attività sessuale. A questo autore spetta anche il merito di aver coniato il concetto di "cis-sessualità". Con esso, ha inteso esprimere il fatto che la coincidenza, considerata normale, tra sesso del corpo e identità sessuale non è un´ovvietà e che, se ci sono i transessuali, devono necessariamente esserci anche i cis-sessuali. Ma anche qui la concorrenza non dorme; infatti, come concetto contrapposto a quello di "transgender", si è diffuso anche il termine specialistico "cisgender", che può servire a rimpiazzare designazioni precedenti per indicare i non-transgender, come "nate donne" (e, rispettivamente, "nati uomini") o "donne genetiche" ("uomini genetici") o, ancora, "bio-donna" ("bio-uomo"). A quel che si sente, le cispersone non dovrebbero essere rare, ma abbastanza frequenti.
È un´ottima cosa che la scelta tra cis, trans, ecc. sia diventata oggetto di negoziazione. Tutt´al più sorgono problemi nelle anagrafi, negli uffici passaporti o quando si tratta di stabilire in che misura il sistema sanitario pubblico debba farsi carico di eventuali interventi e terapie.
Relativamente nuovo è anche il fatto che, se non si esige, perlomeno ci si attende da tutti gli interessati  e chi non lo è?  un coming-out. Tuttavia, ciò presuppone, anche in gente che gira poco il mondo, per esempio nella popolazione rurale, conoscenze elementari di inglese, dal momento che purtroppo manca un´espressione tedesca corrispondente.
Del resto, l´illuminismo sessuale, grazie agli innumerevoli articoli illustrati, talk-show, consulenti, iniziative di sostegno, gruppi di autoaiuto, si è uniformemente diffuso. Alla nostra domanda iniziale, se il sesso sia necessario, nel complesso è facile rispondere con un sonoro sì.
Tutt´al più, ci si deve preoccupare del numero dei renitenti. C´è gente che trova qualsiasi motivo per ottemperare rigorosamente agli obblighi della castità e si aggrappa a tutti i possibili tabù. Alcuni, addirittura, si comportano in modo apertamente ostile di fronte a possibilità di scelta nuove e finora sconosciute. Li si trova soprattutto tra gli eteronormali. E allora gli si attribuisce l´inclinazione a discriminare gli altri. Da qui il tono di rimprovero che accompagna queste osservazioni. A volte sono addirittura sospettati di simpatizzare con i talebani, i mullah o gli ultraortodossi e perfino di approvare sotto sotto le fustigazioni e le lapidazioni.
Questo è decisamente troppo. D´altronde, in una società libera la tolleranza e la comprensione devono valere anche nei confronti di chi non sa apprezzare le sempre più varie opportunità e disapprova lo zelo degli emancipatori o, semplicemente, vuole essere lasciato in pace perché, come a suo tempo i signori Thurber e White, ne ha le tasche piene del teatro del sesso.
Tutto ciò non è un motivo di agitazione. Per quanto riguarda i nostri progressi, non sono giustificati né il pessimismo culturale, né la presunzione.
Un breve sguardo retrospettivo alle abbondanti tradizioni di epoche precedenti insegna la modestia. Infatti, a confronto con ciò che apprendiamo da antiche fonti, le neosessualità del presente appaiono alquanto incolori, roba da borghesucci. Se i nostri sessuologi si convincessero a studiarle, impallidirebbero di invidia. Perfino nelle Sacre Scritture potrebbero trovare le fantasie più sfrenate, ad esempio nella storia di Sodoma e Gomorra, nei dettagli sadomasochistici del Vecchio Testamento o nel "Calendario perpetuo dei santi". Anche le narrazioni sulla nascita da vergine, da non confondere con l´immacolata concezione, potrebbero apparire in una luce nuova.
Ma anche queste sconvolgenti rivelazioni risultano quasi innocenti, se confrontate con le pulsioni sfrenate dell´antichità greca. Qui la bella Elena nasce da un uovo perché Zeus ha messo incinta sua madre Leda che aveva assunto le sembianze di un cigno. Atena, la dea della sapienza, esce con tutta l´armatura dalla testa di Zeus, dopo che Efesto gli ha spaccato la testa con un´ascia. Il padre degli dei si butta su Danae sotto forma di una pioggia d´oro. Il figlio di Ermes e di Afrodite si unisce con la ninfa Salmakis e dalla fusione dei loro corpi nasce un essere con genitali maschili e femminili. In altri casi nemmeno i personaggi stessi sanno se sono maschi o femmine. Pasifae, la moglie del re di Creta, si fa montare da un toro e genera una chimera, il Minotauro. E l´elenco è ben lungi dall´essere completo. Motivi di spazio  e non solo  suggeriscono di risparmiare i divertimenti, le preferenze, le castrazioni e le violenze degli egizi, degli indiani, degli islandesi e di altre popolazioni. Speriamo, però, che i nostri sessuologi riconoscano di essere, di fronte al Mahabharata e alle Metamorfosi, dei pivellini.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Repubblica 9.2.12
Dante, Levi e i ragazzi del Duemila
I nostri scrittori sono emigranti
di Alberto Asor Rosa


È una modalità dell´essere, una possibile linea di lettura della storia culturale
Oggi sono tanti quelli che arrivano dall´estero e scelgono di usare l´italiano

Nelle ricostruzioni storico-letterarie dell´identità nazionale italiana, in corso da alcuni decenni, ha assunto un ruolo sempre più determinante l´individuazione di quelli che potremmo definire i tratti genetici di tale specifica, peculiare formazione culturale. Per tratti genetici intendo quelle caratteristiche del nostro universo letterario, che, ben lungi dal proporsi come mere elucubrazioni intellettuali, affondano le loro radici nel modo d´essere italiano - o, più esattamente, nei modi d´essere italiano, spesso diversi, anzi diversissimi, anche in questo caso, dagli altri contesti nazionali europei, e persino tra loro.
Per esempio: lingua e dialetto; oppure chierici e laici (di dionisottiana memoria); oppure alto e basso, aristocratico e popolare; oppure cosmopolita e provinciale, comunale e universale (caso esemplare, ovviamente: Dante).
Per quanto mi riguarda (ma ovviamente di vie possono essercene state tante), una svolta illuminante fu rappresentata nel 1972 dalla comparsa del primo volume della einaudiana Storia d´Italia, intitolato I caratteri originali: rappresentava, ad opera dei curatori dell´opera, Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, una robusta iniezione di cultura storico-antropologica francese (le Annales, ovviamente, ma anche molto Fernand Braudel) sul tronco ormai esangue dello storicismo italiano. Non a caso proprio in quel volume appariva per la prima volta il saggio (poi più volte, e anche recentemente, a sé ristampato) di Giulio Bollati su L´italiano, straordinario archetipo del tipo di ricerca innovativa, di cui qui stiamo parlando.
Qualche anno più tardi (1986) io stesso tentavo di trasferire in campo storico-letterario tali dinamiche di ricerca nel volume Le questioni, quinto della Letteratura italiana, anch´essa, com´è noto, Einaudi (ci sono tradizioni culturali che si formano all´interno delle case editrici invece che nelle aule universitarie: basta saperci fare). Come esempi di questa diversa attitudine alla ricerca (ma più significativa ancora sarebbe la citazione completa dell´indice) ricorderei di quel volume i saggi Città e campagna di Michel Plaisance, Piazza, Corte, Salotto, Caffè di Alessandro Fontana e Jean-Louis Fournel, e I viaggi e le scoperte del molto compianto Giorgio Raimondo Cardona (il quale, per l´appunto, non era un letterato ma fondamentalmente un linguista-antropologo).
Nel mio saggio introduttivo al volume delle Questioni, intitolato La fondazione del laico, mi sforzavo di definire le condizioni per cui, fra XIII e XIV secolo, ad opera precipuamente dei tre grandi iniziatori, Alighieri, Petrarca e Boccaccio, una letteratura italiana moderna, - cioè, inevitabilmente e necessariamente laica, - si forma.
Osservavo a questo proposito, per quanto potesse apparire allora paradossale, che una di tali condizioni sarebbe stata rappresentata fin dall´inizio dall´esilio. Poiché tale condizione si è poi ripetuta infinite volte nel corso della nostra storia letteraria e culturale, non è azzardato considerarla, per l´appunto, uno di quei tratti genetici, per cui letteratura e cultura italiane si distinguono (e si definiscono) in maniera così peculiare rispetto a tutte le altre letterature e culture nazionali europee. Basta fare qualche nome per rendersene conto: Dante, Petrarca, Campanella, Bruno, Galilei, Foscolo, Mazzini, De Sanctis, Gobetti, Lussu, Silone, il confino di Pavese e Levi...
Sul tema dell´esilio hanno poi lavorato in molti, anche seguendo, com´è ovvio, strade diverse rispetto a questa da me descritta. In questi giorni esce un numero del Bollettino di Italianistica, rivista dell´Università La Sapienza di Roma, di singolare peso anche dal punto di vista della foliazione, tutto dedicato a tale tema.
La materia, distribuita qui per fasi storiche (ma implicitamente anche tematiche), consente finalmente uno sguardo d´insieme su profondità ed estensione di tale fenomeno (naturalmente, per completare il quadro bisognerà lavorare ancora: ma le basi sono state poste). Ora quel che ne risulta è che l´esilio ha rappresentato fin quasi ai nostri giorni una modalità dell´essere, o comunque una possibilità sempre molto attendibile, della condizione letteraria e intellettuale italiana (accanto al carcere, s´intende, che richiederebbe un´altra serie): manifestatasi in molti modi e ruoli (per taluni, ad esempio, nella forma di un vero e proprio, volontario, "autoesilio"), ma con una costante comune. E cioè: l´esilio, come i saggi del Bollettino l´hanno descritto e investigato, non si presenta mai come una semplice specificazione biografica: diventa invece uno stato dell´anima, una sorta di presupposto (e condizionamento) psichico alle scelte delle diverse strade letterarie possibili. Così poste le cose, ne nasce un possibile nuovo taglio di lettura: di cui però solo la lettura dei saggi (appunto) contenuti nel numero può dar pieno conto.
Ma la storia non finisce qui. Siccome l´Italia è un paese davvero strano, dopo esser stato per secoli un gran fornitore di propri esuli al resto del mondo (destinati a continuare a scrivere altrove nella propria lingua ma anche, soprattutto dove e quando alla figura dell´esule è subentrata quella dell´emigrante, anche a scrivere in lingue altrui), più recentemente è divenuto un paese che ospita stranieri esuli da altri paesi del mondo, che qui scrivono però prevalentemente nella nostra lingua. Il fenomeno è oggetto nel Bollettino di un lungo saggio (C. Romeo). E, non a caso, il numero si chiude come di solito con una rubrica intitolata Il mestiere dello scrittore, alla quale, non avendo a disposizione sotto mano scrittori nostri esuli dei decenni o dei secoli scorsi, è stato chiamato a collaborare uno scrittore iraniano, Bijan Zarmandili, esule politico in Italia da molti anni, autore di alcuni notevoli romanzi della materia originaria, ma scritti ab origine in italiano.
Un cerchio forse si è chiuso? Chi lo sa. A giudicare dagli ammonimenti che piovono in questi giorni dall´alto sui nostri giovani, si direbbe che invece stia per riaprirsi (o si è già riaperto?). Vuol dire che l´identità nazionale italiana non si è ancora assestata, neanche dal punto di vista intellettuale e letterario. Figuriamoci dagli altri.

La Stampa 9.2.12
L’eterno fascino dell’inchiostro
Nell’era del computer torna di moda l’arte della scrittura a mano E i corsi di calligrafia, anche per bambini, fanno il tutto esaurito
di Maurizio Ternavasio


Durante il suo famoso discorso del 2005 alla Stanford University, quello in cui disse «Stay hungry, stay foolish» («Siate affamati, siate folli»), Steve Jobs, il fondatore di Apple, ricordò di quando, da giovane, pur avendo abbandonato gli studi al Reed College, avesse deciso di frequentare un corso di calligrafia. Un’esperienza che anni dopo gli consentì di immaginare che i suoi Mac dovessero avere una qualità tipografica e di design di altissimo livello.
Jobs si era reso conto che solo dalla conoscenza del passato, cioè della calligrafia, si potesse trarre insegnamenti per costruire meglio il futuro, rappresentato dal testo digitale. «Fu lì - raccontò - che imparai la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, ciò che rende eccezionale un’eccezionale stampa tipografica. Era bello, storico, artistico e raffinato in un modo che la scienza non è in grado di offrire, e io ne ero completamente affascinato». Partendo dal segno grafico, Jobs scoprì Leon Battista Alberti e il Rinascimento italiano, e da quel momento in poi cercò l’eccellenza in ogni aspetto della sua vita e della sua professione.
«Quasi tutti i font, cioè i caratteri tipografici, sono stati disegnati direttamente sul computer. Alcuni, invece, sono stati studiati sui manoscritti, riprodotti con il pennino e poi scannerizzati», spiega Monica Dengo, presidente del Centro internazionale di Arti calligrafiche di Roma e Arezzo. Uno dei principali centri della penisola in cui si insegna la bella grafia.
«Sono due i tipi di corsi: quello di lettering, calligrafia e legatoria che si tiene nelle nostre sedi, rivolto in particolare a chi è uscito dalle scuole di grafica o frequenta corsi di arte, e quello per corrispondenza sulla scrittura a mano, nel quale viene approfondito il carattere italico che non richiede necessariamente l’uso del pennino. Gli utenti di quest’ultimo sono semplici appassionati di qualunque ceto ed età. Meno interesse suscitano invece le scritture storiche, il gotico e il corsivo inglese, che richiedono l’apprendimento delle regole per il corretto utilizzo dell’inchiostro».
Intanto in alcune scuole è entrato in via sperimentale il tablet. «Da un lato è senz’altro un fenomeno positivo, dall’altro c’è il timore di perdere una forma di espressione fondamentale. Ecco perché sempre più persone si rivolgono a noi».
Un fenomeno in continua crescita, nonostante il boom dei vari strumenti elettronici. «Non dimentichiamoci che a scuola si continua a scrivere a mano, anche se neppure gli insegnanti conoscono le regole della grafia». E qui si inserisce l’altra attività di Monica Dengo. «Nell’istituto comprensivo statale di Terranuova Bracciolini, in provincia di Arezzo, stiamo portando avanti un esperimento pilota unico in Italia: grazie ai fondi messi a disposizione dal comune, insegniamo la calligrafia ai bambini. A dimostrazione che, probabilmente, la scrittura non morirà mai. Non è morta nel Rinascimento con l’avvento delle macchine da stampa, e non morirà neppure adesso: sarebbe un impoverimento culturale che nessuno si augura».
È ciò che pensa anche Cesare Verona, presidente e amministratore delegato dell’Aurora, storico marchio di penne. «Con una nostra stilografica tricolore nel 2007 è stata siglata la nascita del Comitato Italia 150». La scrittura, per Verona, è più viva che mai. «Presto festeggeremo il centenario dell’azienda, fondata a Torino nel 1919, e l’entrata in campo della quinta generazione della famiglia».
L’Aurora, 70 dipendenti, produce tutte le sue penne all’interno, in una bellissima filanda dell’Ottocento abbinata ad una palazzina liberty. «La nostra è stata una precisa scelta di campo: anziché buttarci su roller e biro, dove saremmo stati massacrati da cinesi e vietnamiti, abbiamo deciso di puntare sull’alta gamma, facendo leva sul gusto e sulla creatività del nostro Paese». Tra l’altro questa è l’unica realtà nazionale in cui si fabbricano ancora i pennini.
Aurora esporta i suoi prodotti in tutto il mondo, in particolare in Europa, nelle Americhe e in Asia. «In un mondo globalizzato in cui la tecnologia appiattisce tutto, per fortuna si avverte ancora il bisogno di spazi per momenti intimi come è in fondo il maneggiare un bell’oggetto e scrivere a mano, con cura».
Il know-how tricolore come le stilo è un’arma in più per fronteggiare la desuetudine ad usare la penna per comunicare. «Ricevo più di 200 mail al giorno, ma quando mi arriva una bella lettera scritta a mano la leggo con maggior attenzione: le comunicazioni importanti necessitano sempre di una forma adeguata, oltre che della sostanza».

l’Unità 9.2.12
Scandalizzò il binomio Gramsci - Sanremo
L’autore dell’articolo che aprì nell’86 sul l’Unità la polemica sul Festival risponde all’intervento di Adinolfi. «Era giusto smetterla con gli snobismi Anche il pensatore comunista s’interessava alla cultura popolare»
di Gianni Borgna


Massimo Adinolfi ha rievocato su queste colonne la risposta di Beniamino Placido a un mio articolo sul Festival di Sanremo scritto per l’Unità nel 1986. Si trattava, in realtà, di una coda della polemica iniziata sei anni prima in occasione dell’uscita per Savelli del mio libro sul Festival dal titolo La grande evasione. In un lungo articolo su Repubblica, La Gramsci-Sanremo, Placido lo aveva recensito non criticandolo nel merito ma asserendo che non valeva la pena parlare di un fenomeno tanto superficiale: «Ma perché sprecare tanto ingegno, tanto coraggio? Perché non mettere questo talento, o quanto meno questo ardimento critico, al servizio delle cose culturalmente interessanti, non di ieri, ma di oggi?».
La POLEMICA DI PLACIDO
Era il tipico atteggiamento snobistico di una certa sinistra intellettuale nei confronti della canzone e, in genere, della cultura popolare. Ma il fatto strano era che, nella circostanza, fosse proprio lui a farsene interprete. Perché, se finalmente in quegli anni c’erano intellettuali attenti ai fenomeni della comunicazione di massa e capaci di utilizzare al meglio il mezzo televisivo, uno di questi era proprio Placido. Ho sempre avuto l’impressione che quella reazione fosse dovuta non tanto al contenuto del libro quanto al fatto che lo avessi scritto ispirandomi a Gramsci. Placido era un intellettuale di cultura laica; se mi fossi ispirato a Mc Luhan o a Eco, probabilmente il suo giudizio sarebbe stato diverso. Tuttavia in Italia la scoperta del valore della cultura popolare (insisto su questa espressione più giusta e corretta di quella di «cultura di massa») si deve proprio, ben prima e più degli studiosi dei mass-media e delle culture «basse», al grande pensatore comunista. Il quale attribuiva gran peso «all’infima letteratura popolare» perché «solo attraverso generi che, pur in forma distorta e mistificatoria, sono naturalmente popolari, si può sperare di stabilire il contatto con la grande massa dei lettori».
Gramsci, dunque, puntando al riscatto anche culturale delle classi subalterne, non poteva permettersi atteggiamenti snobistici verso tendenze e fenomeni che, per quanto ingenui, suscitano interesse nell’animo popolare. Il che non significa accettarli acriticamente o considerarli l’unica autentica manifestazione del gusto popolare, quanto cercare di cogliere, anche per questa via, aspirazioni, tendenze, orientamenti di quei ceti che, soli, possono costituire «la base culturale della nuova letteratura». L’egemonia culturale insomma – e questa è una delle geniali intuizioni dell’autore dei Quaderni del carcere – va perseguita sempre su due fronti, non solo su quello degli intellettuali ma anche su quello delle masse.
Quando il mio libro uscì, nel 1980, era il populismo (e dunque anche il gramscismo) ad essere da almeno un ventennio al centro delle più forti polemiche. Era venuto il momento, così almeno pensavo, di mettere in discussione anche le forme più sterili e estreme di snobismo e di elitarismo.
Non dobbiamo dimenticare, per tornare a Sanremo, che fino ad allora (e dunque per 30 anni) la sinistra non se n’era mai occupata e, se anche in qualche raro caso l’aveva fatto, era stato solo per irridere quella manifestazione. Eppure il Festival era stato davvero, almeno negli anni d’oro, un grande romanzo popolare e dunque uno di quei fenomeni che Gramsci non si sarebbe certo lasciato sfuggire. Eppure a Sanremo aveva spiccato il volo Nel blu dipinto di blu, che con i suoi 22 milioni di copie vendute in tutto il mondo ha conquistato persino la vetta delle classifiche statunitensi. A Sanremo sono passati quasi tutti i protagonisti della canzone italiana e di quella internazionale. Sanremo ha tenuto a battesimo anche negli ultimi trent’anni molte delle più promettenti voci nuove (Vasco Rossi, Zucchero Fornaciari, Eros Ramazzotti, Fiorella Mannoia, Giorgia, Elisa, Carmen Consoli) e tante nostre canzoni «evergreen».
PERSO IL CARATTERE ORIGINARIO
Occuparsi del festival, dunque, non era affatto una bizzarria o una perdita di tempo. Tanto più che il mio era uno sguardo critico e, a tratti, spietato. Si era nel 1980 ed io già decretavo che il Festival aveva perso le sue caratteristiche originarie, la sua spinta propulsiva, che aveva avuto «fino a quando non è stato un’ideologia ma l’Ideologia (sia pure ridotta in pillole), finché non è stato un divertimento ma il Divertimento (nella sua forma archetipica), finché, insomma, ha saputo essere la Grande Evasione per milioni di italiani di ogni età e di ogni ceto sociale». Mentre invece, «con l’avvento, da una parte, del pop e dei concerti di massa o della discomusic, dall’altra, di possibilità ben più sofisticate di evasione di massa, il Festival è apparso sempre più un contenitore completamente svuotato, un reperto archeologico di un’Italia che ci siamo lasciati definitivamente alle spalle». Oggi le cose sono ancora cambiate, ma il giudizio non può che essere perfino più critico. Non per le canzoni, ché ancora in questi anni ce ne sono state di belle e bellissime. Ma perché purtroppo la Rai ha snaturato del tutto la manifestazione fino a farne un’interminabile, e insopportabile, maratona televisiva, nella quale le canzoni sono spesso poco più che riempitivi o pretesti. E così il Festival, o meglio, il suo simulacro televisivo, vive sempre più in un suo mondo virtuale, in un’idea di tv sufficiente a se stessa. Trasformandosi, come qualcuno ha detto, da celebrazione per quanto «debole» della vita nazionale nella celebrazione «forte» solo di se stesso.