sabato 28 gennaio 2012

l’Unità 28.1.12
Subito cittadini italiani i figli degli immigrati nati nel nostro Paese
Dopo la sortita di Grillo, mentre la destra annuncia barricate, è urgente che la legge sul diritto di cittadinanza venga posta in Parlamento come una priorità. E il tema dovrà pesare anche in campagna elettorale
di Francesco Cundari


La necessità di riconoscere il diritto di cittadinanza a persone che da anni vivono e lavorano regolarmente nel nostro Paese per non parlare dei loro figli, che in Italia sono nati e cresciuti, proprio come noi dovrebbe essere scontata. Non è scontato però che nel nostro Paese la questione torni a porsi proprio nel pieno della crisi economica, mentre più forte si fa sentire tra i cittadini il peso della convivenza comune e delle comuni responsabilità.
Non era scontato, ma è indicativo, che sia stato Beppe Grillo a risollevare in questo momento la questione, naturalmente per stroncare la proposta, avanzata da un comitato composto da una larga rete di organizzazioni sociali (dalla Cgil alla Caritas, dalle Acli all’Arci) e presieduto dal sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio.
Grillo è infatti il leader politico che più di ogni altro ha puntato le sue carte sul risentimento, speculando al ribasso su tutto ciò che potesse alimentare la rabbia di un ceto medio sempre più povero e sempre meno “riflessivo”. È l’ultimo e meno originale campione della società civile in guerra contro partiti, sindacati e Parlamento. Ed è un segno dei tempi non meno indicativo, da questo punto di vista, che a rilanciare positivamente la proposta sia ora Gianfranco Fini, che del resto sul tema si era già esposto in passato, mentre Grillo (che il presidente della Camera definisce
«disinformato o prevenuto») riceve in compenso la «totale solidarietà» dei leghisti toscani. E riceve anche l’approvazione di politologi liberali che negli anni Settanta si rifugiavano oltreoceano per il terrore di un’imminente ascesa al potere del Pci, e oggi, per negare il voto agli immigrati, paventano il rischio di vedere i Fratelli musulmani a Palazzo Chigi.
La posizione di Grillo e della Lega che annuncia «barricate» in Parlamento contro ogni ipotesi di discussione sulla cittadinanza mostra una volta di più come il primo discrimine della lotta politica in Italia al tempo della grande crisi sia quello tra risentimento e carità. Tra coloro che si sforzano di ricostruire le condizioni minime della coesione sociale e della solidarietà, e chi specula sulla divisione, sulla rabbia e sulla frustrazione. Agli esponenti del Pd e del Terzo Polo che rilanciano le loro proposte e chiedono una discussione parlamentare, il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, replica che il tema è «fuori dall’agenda». Mentre alla Camera Fabrizio Cicchitto e Massimo Corsaro esplicitano un vero e proprio ricatto. «Sconsiglio vivamente di inoltrarsi su questo terreno in assenza di una intesa preventiva dichiara il primo a meno che non si voglia aggiungere un’altra ragione di contrasto in una situazione che già di per sé si presenta come seria e delicata». Più secco il secondo: «Chi insiste col voto sulla cittadinanza intende, senza ombra di dubbio, accelerare la fine della legislatura».
Se si volevano dare nuovi argomenti alla furia antipolitica di questa brutta fase, non si poteva fare di meglio. Il ricatto del Pdl, ovviamente, è inaccettabile. Per ragioni di merito e di principio: perché a nostro giudizio tutti coloro che vivono, lavorano e pagano le tasse in Italia regolarmente devono godere degli stessi diritti (compreso, naturalmente, il diritto di voto). Ma è un ricatto inaccettabile anche per il momento e il contesto in cui si inserisce, perché il legame tra crisi economica, questione sociale e questione democratica è inscindibile. Dopo il drammatico risveglio dall’utopia del liberismo globale, che portava con sé un’idea di società fondata sul solo valore della competizione senza limiti, la scelta è tra ripiegamento nel particolarismo (corporativo, regionale, etnico) e rilancio di una diversa e più umana idea di sviluppo, apertura, integrazione. Un’idea di società che in questi anni di crisi, peraltro, si è dimostrata nel mondo anche economicamente più solida ed efficiente.
Questa è la ragione per cui la questione del diritto di cittadinanza non è affatto «fuori dall’agenda» del Parlamento, come dice Gasparri. Al contrario, ci sono i numeri e c’è il tempo per rimediare almeno agli aspetti più intollerabili dell’attuale legislazione, che lascia i figli di genitori immigrati, nati e cresciuti nel nostro Paese, nella condizione di senza patria. E ci sono tutte le ragioni, in ogni caso, per farne il punto numero uno del programma di qualsiasi formazione, cartello o coalizione si presenti domani agli elettori in nome della ricostruzione sociale e civile dell’Italia.

l’Unità 28.1.12
Rapporto Istat: è straniero l’8% della popolazione
Il rapporto Istat fotografa il Paese. Se la popolazione aumenta e sfiora i 61 milioni è solo grazie agli immigrati: i residenti sono cresciuti dell’8%. In calo gli italiani, in totale 56 milioni. Al Sud nascite in calo
di Marzio Cecioni


La popolazione italiana cresce, ormai è arrivata a quasi 61 milioni, (60 milioni 851mila, al primo gennaio). Ma gli italiani sono in calo, si fermano al 56 milioni, con una perdita netta di 65 mila unità rispetto al primo gennaio dell’anno scorso.
Ad aumentare sono gli stranieri arrivati a 4 milioni 859 mila (289 mila in più), e rappresentano ormai l’8% della popolazione complessiva.
LA FOTOGRAFIA
A mettere nero su bianco come sta cambiando demograficamente il Paese è l’ Istat, che segnala anche come dal Sud Italia si continui a «emigrare» verso le regioni del Centro-nord. A determinare il calo degli italiani è stata soprattutto la forbice che si allarga sempre di più tra nascite e morti: complessivamente nel nostro Paese nel 2011 sono nati 556 mila bambini, 6 mila in meno dell’anno precedente; mentre il numero delle persone morte è stato pari a 592 mila, 4 mila in più dell’ anno precedente.
Sono le donne straniere a fare più figli: ne hanno una media di due a testa a fronte di uno delle italiane, che decidono di diventare mamme sempre più tardi (a 32 anni). Proprio la loro presenza rende il Nord Italia la zona più prolifica del Paese (con 1,48 figli per donna), capovolgendo il luogo comune che vorrebbe il Sud il posto dove si fanno più bambini e che ora invece è diventato il fanalino di coda (1,35).
La regione che ha il tasso di natalità più alto (il 10 per mille, con 1,63 figli per donna) è il Trentino Alto Adige e la Campania è l’unica tra quelle del Sud con un livello riproduttivo superiore alla media nazionale, (1,43 rispetto all’1,42).
Mentre la Liguria abbina alla più bassa natalità (7,3) anche il più alto tasso di mortalità (13,3 per mille). Tra le sole cinque regioni in cui il numero dei nati supera quello dei morti, c’è di nuovo il Trentino Alto Adige, insieme a Campania, Lombardia, Puglia e Veneto.
SI VIVE DI PIÙ
Italiani meno prolifici, ma sempre più longevi. La speranza di vita è cresciuta ulteriormente e ha raggiunto i 79 anni per gli uomini e gli 84 per donne. E se dunque la popolazione femminile è ancora in vantaggio, quella maschile sta recuperando, visto che rispetto al 2008 guadagna in media mezzo anno di vita supplementare rispetto ai quattro mesi delle donne. Gli ottantenni costituiscono ormai il 6,1% della popolazione totale, e se la conta parte dai 65 anni, gli anziani rappresentano il 20% dei residenti.
Risiedono soprattutto nel Nord-Est e nel centro del Paese; ed è chi vive nella provincia di Bolzano ad avere la speranza di vita più alta (80,5 anni gli uomini, e 85,8 le donne). Avanza anche l’esercito degli ultracentenari, che ha superato la soglia di 17 mila.
Ben 600 italiani hanno compiuto 105 anni e il più vecchio di tutti ha 113 anni e vive in Veneto. È cresciuta anche l’età media: il dato complessivo è 43,7 anni, e se per gli italiani si è attestata a 44 anni, è ferma a 32 per gli stranieri.
Le regioni del Mezzogiorno hanno una popolazione relativamente più giovane: in Campania l’età media è di 40,5 anni e la quota della popolazione di 65 anni e oltre è pari al 16,5%; segue la Sicilia con un’età media di 42 anni e una quota di 65enni pari al 18,8%.

Repubblica 28.1.12
I diritti dei nuovi figli d’Italia
di Ezio Mauro


Gli opposti populismi, che sempre più parlano la stessa lingua in questa Italia in cui la politica si rattrappisce, hanno finalmente trovato un bersaglio comune, di alto rango: è la proposta di introdurre anche nel Paese dello "ius sanguinis" il principio dello "ius soli", concedendo la cittadinanza ai bambini che sono nati in Italia da genitori stranieri.
L´idea era stata sollevata dal segretario del Pd Bersani alle Camere, al momento della fiducia per il governo Monti; poi, rilanciata con forza dal presidente della Repubblica Napolitano, secondo il quale «negare la cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati sarebbe una vera assurdità». Oggi anche il presidente della Camera Fini e il ministro della Cooperazione Riccardi riprendono il tema, come il presidente della Cei Bagnasco, e lo ripropongono all´attenzione delle forze politiche e del Parlamento: dove sono state presentate proposte di legge in questo senso, mentre nel Paese diverse organizzazioni stanno raccogliendo le firme per abolire la normativa del 1991.
Stiamo parlando di un milione di bambini, i figli degli stranieri residenti in Italia. Poco più della metà, 650 mila, sono nati nelle strutture del servizio sanitario nazionale.
Venuti al mondo, dunque, nel nostro Paese, in ospedali italiani, figli di immigrati che hanno scelto di vivere e lavorare qui e che iscriveranno questi bambini agli asili comunali e alle scuole italiane, perché crescano con la lingua, l´istruzione e la cultura del Paese che li ospita.
Ora, come vogliamo pensare al rapporto tra il nostro Stato e quei ragazzi che sono nati nel suo territorio, spesso dopo una fuga dei genitori dalla fame, dalla miseria e dalla dittatura? Nella storia delle loro famiglie questo Paese rappresenta una sponda di civiltà e di sicurezza, dove appoggiare un futuro di libertà e di speranza: e dove - proprio per queste ragioni - poter investire per la crescita dei proprio figli, la prima generazione che nasce e vive nell´Europa dei diritti e della democrazia, l´Europa dei cittadini e delle istituzioni, in quell´Occidente che racconta se stesso - e noi vogliamo crederci - come la patria delle libertà, dello sviluppo, dell´uguaglianza delle opportunità, addirittura della fraternità.
Quei bambini venuti a nascere in Italia, sanno di essere nati in un Paese libero, come uomini finalmente liberi. Ma sanno che non saranno cittadini, non diventeranno italiani. Studieranno la nostra storia, l´epopea del Risorgimento, le radici di Roma e dei Cesari, la Costituzione repubblicana, parleranno la nostra lingua con gli accenti dei nostri dialetti, lavoreranno nelle fabbriche e negli uffici, sposeranno magari italiani e italiane. Ma resteranno stranieri, qualunque cosa facciano anno dopo anno, comunque la facciano, soltanto perché sono figli di stranieri.
È l´ultima, nuovissima forma del peccato originale: una sorta di "peccato d´origine", incancellabile, in un Paese che ha paura della diversità perché ha incertezza d´identità (tanto che persino il dato storico del centocinquantenario dell´unità viene ridotto a polemica politica contingente), e teme la perdita della vecchia uniformità vissuta più come un mito della tradizione che come una realtà. Come può spaventare la cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia? Come non capire che la stessa identità nazionale, oggi, è in movimento continuo esposta com´è al contagio di culture diverse, alla complessità del sociale, alla pluralità dei soggetti con cui dobbiamo non solo convivere, ma scambiare e interagire?
La paura della cittadinanza separa queste identità ed esalta le differenze, riduce gli individui ai gruppi di origine, ripropone di fatto il modello distintivo delle tribù dentro il contesto dilatato e avvolgente della globalizzazione. Col peccato d´origine, gli steccati sono per sempre e le culture vengono concepite come strutture statiche, che non possono evolvere o mettersi in movimento, ma devono rimanere immobili e soprattutto chiuse. È il disegno di una società spaventata in un Paese che vede l´immigrazione altrui solo come un problema, mentre esalta le proprie radici magari mentre nega la sua storia.
È evidente che l´immigrazione comporta anche un problema di sicurezza, di spaesamento, a cui bisogna rispondere. Ma proprio per questo, come si può pensare che la risposta sia un modello sociale per cui si vive sullo stesso suolo, sottoposti alla medesima sovranità, formati dalle stesse scuole ma con due livelli diversi di cittadinanza? Tutto ciò comporta differenze non soltanto sociali, ma nei diritti, cioè nella sostanza democratica che è a fondamento del nostro discorso pubblico. Col risultato - pericoloso - che la democrazia rischia di non avere sostanza concreta per una categoria di persone che vive in mezzo a noi, noi per i quali soltanto vale il concetto pieno e realizzato di società democratica.
Ma dal punto di vista delle generazioni future, persino dal punto di vista della sicurezza, domandiamoci che Paese prepariamo se c´è tra noi chi considera la democrazia come un concetto non assoluto ma relativo, addirittura un privilegio di alcuni, che contempla gradi minori e persino esclusioni. Dunque un concetto per nulla universale e nemmeno neutrale, ma strumentale, perché avvantaggia alcuni a danno di altri. E infatti, per gli altri non usiamo ormai nemmeno più il termine "straniero", che presuppone una dimensione culturale, una scoperta, un viaggio o un percorso, ma li riduciamo alla categoria geometrica, spaziale e binaria di "extra", dove conta solo l´esito finale: dentro o fuori.
Se guardiamo avanti, ai prossimi anni, l´idea di Paese che il rifiuto della cittadinanza propone è quella di uno Stato-armadio, dove è previsto che le diverse culture si vivano semplicemente accanto, separate ed appese ognuna alla sua presunta radice: culture condannate a riprodursi nella separazione, magari ostili, certamente diffidenti, per definizione impermeabili. Come se la libertà e la democrazia non avessero fiducia in sé e nella loro capacità di far crescere, di contagiare, di seminare valori in chi le frequenta, le pratica e ne beneficia.
Dicendo questo non penso alla cittadinanza come strumento di assimilazione e riduzione delle diversità. Penso che l´Italia può offrire a chi sceglie di vivere e lavorare qui dei valori come la democrazia e l´uguaglianza e un metodo per valorizzarli nella vita sociale, che è proprio la cittadinanza. Il nostro modo di vivere è una cultura, e come tale sarà per forza di cose influenzato dalla convivenza e dal confronto con gli altri, non è un modello, come ogni cultura è mobile e negoziabile, un sistema in movimento insieme con gli altri, nel gioco del dialogo, dello scambio, del confronto. Ma la democrazia non è una cultura, è un valore di fondamento, su cui si regge lo Stato e la sua convivenza. Uno Stato neutro rispetto alle culture diverse, non rispetto ai principi democratici.
Questo Stato non può dunque non preoccuparsi del rischio che livelli diversi di democrazia e di partecipazione ai diritti facciano crescere fenomeni pericolosi di marginalità, di alterità, di ghettizzazione (e autoghettizzazione). Solo l´emancipazione attraverso il lavoro e la cittadinanza è la possibile salvaguardia, è la vera inclusione. Solo così, può valere fino in fondo il richiamo alle nostre leggi, alla regola democratica in cui crediamo. Leggi che devono essere pienamente rispettate da uomini pienamente liberi, perché diventati finalmente - grazie al nostro Paese - compiutamente cittadini.

il Fatto 28.1.12
Imbarazzo tecnico
Profumo di doppia poltrona, le giravolte del ministro inamovibile
di Marco Palombi


Francesco Profumo si tiene la sua doppia poltrona, almeno fino al 16 febbraio. Lo ha spiegato ieri lo stesso tecnico uno e bino, l’uomo che è ministro dell’Istruzione e pure presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, ovvero controllato e controllore di sé medesimo e perciò incompatibile per legge.
LA NOVITÀ è che ora sappiamo il motivo per cui il nostro non schioda nonostante le richieste di tutte le sigle sindacali: lo fa per il bene del Cnr e perché ultimamente è stato sfortunato. Da qualche tempo, infatti, dovunque si insedi lo chiamano subito a ricoprire un incarico più importante: solo che a quel punto lui ha già avviato progetti che deve portare a termine. Come dice lui, è “costretto a restare”. Era successo già ad agosto, quando Maria Stella Gelmini l’aveva nominato alla presidenza del più grande ente di ricerca italiano mentre era rettore del Politecnico di Torino: su quest’ultima poltrona, per dire, ci è rimasto fino a novembre, quando è diventato ministro, perché “non s’era ancora concluso l’iter di approvazione del nuovo Statuto” con cui andare alla scelta del suo successore (si voterà a fine febbraio). Altro giro, altra frombola dell’avversa fortuna: il 16 novembre giura da ministro che è alla guida del Cnr da nemmeno tre mesi, ma anche lì ha già avviato progetti che vanno necessariamente portati a conclusione da lui.
“Intanto - ha spiegato ieri a palazzo Chigi – io non ho mai preso uno stipendio dal Consiglio perché ero ancora pagato dal Politecnico”. Quanto al perché resti su una poltrona che la legge gli sconsiglia di occupare, è semplice: “La mia grande responsabilità”. In sostanza, dice il ministro, “al Cnr avevo avviato una serie di attività nella direzione di una riorganizzazione: il bilancio preventivo è concluso, la due diligence e il piano strategico invece stanno per terminare. Quando termineranno, lascerò a un nuovo presidente. Il Consiglio ha bisogno di stabilità e processi così complessi non possono essere lasciati per strada”. Il problema è tutto lì: senza di lui, niente processi complessi. La legge, però, la 215/2004 per la precisione, è semplice e lui ne è già fuori: la norma prescrive infatti l’incompatibilità tra incarichi di governo e “funzioni comunque denominate in enti di diritto pubblico”. Chiaro, senza fronzoli, come l’ingegno dell’allora ministro della P. A. Franco Frattini, che la partorì per salvare Silvio Berlusconi (è la legge per cui il “mero proprietario ” di una concessionaria può fare il premier, l’amministratore delegato no). Anche sui tempi in cui il conflitto di interessi va risolto non ci sono molti dubbi: entro trenta giorni Profumo doveva comunicare all’Autorità Antritrust la sua posizione “doppia” e quella in massimo trenta giorni deve dire se il nostro è costretto alle dimissioni o no.
NEL CASO del ministro/presidente vuol dire che la faccenda andava chiusa entro il 15 gennaio. “L’Antitrust mi ha chiesto altri trenta giorni, quindi la procedura arriva al 16 febbraio”, ha spiegato ieri. Evidentemente i commissari non riescono ancora a capire se il Cnr è o meno un “ente di diritto pubblico”. Fortunatamente Il Fatto quotidiano ha la risposta. Lo è: se all’Antitrust non trovano la legge di riforma del 2003, possono sempre dare un’occhiata al sito del Consiglio, c’è scritto.

il Fatto 28.1.12
Agonie di carta
Chiudono 5 mila edicole, crolla il fatturato dei giornali: in sette anni perdono 1,7 miliardi
di Carlo Tecce


Le previsioni sono brutte per chiunque, anche per chi le racconta. Crolla il prodotto interno lordo, crolla il mercato dei quotidiani e dei periodici: si polverizza, lentamente. Otto anni fa, le vendite in edicola generavano introiti per 4,8 miliardi di euro, quest’anno riuscire a galleggiare sui 3 miliardi sarebbe un successo. La tendenza preoccupa quelli che seguono le curve sui grafici che tratteggiano uno scenario drammatico: ogni dodici mesi si perdono circa cento milioni di euro, un ritmo che si ripete dal 2004 e sarà costante (almeno) nei prossimi tre anni. Il Fatto Quotidiano è in possesso di un recente studio che fotografa la recessione di un intero settore: che comincia nelle redazioni, prosegue nelle tipografie e finisce nelle edicole. Un effetto domino che rispedisce i giornali al passato di lastre piombate e telegrafi di periferia: si vendono 4,7 milioni di copie al giorno come nel ’39. Vanno male persino i collaterali (libri, dischetti, francobolli, modellini), ostinata moda e fonte di salvezza negli anni 80: quest’anno avranno un giro d’affari di 350 milioni di euro, sette anni fa superavano il miliardo. La filiera perde pezzi e posti di lavoro: i distributori locali erano 168 nel 2004, scesi a 109 nel 2011; le edicole erano 35.500 nel 2004 e adesso ne mancano 5.000 all’appello.
NON C’È un segno positivo che possa risollevare il morale e, soprattutto, i bilanci aziendali. La pubblicità si trasferisce in massa verso le tv, e ignora la carta: le maggiori 200 aziende italiane e straniere, che investono quasi 4 miliardi l’anno, spendono l’8,5 per cento per i quotidiani, il 10 per cento per i periodici, lo 0,67 per la free press, ma il 60 per cento è riservato alle televisioni. Prima di lasciare la scrivania per una vacanza pagata a sua insaputa, l’avvocato Carlo Malinconico, sottosegretario per l’Editoria, pensava di creare un cervellone elettronico per le 30.500 edicole superstiti: un sistema digitale per scoprire, in tempo reale, dove scarseggiano copie e dove abbondano. La riforma poteva ridurre sprechi di carta e di trasporto e aiutare le aziende a migliorare il prodotto offerto e la presenza sul mercato. Il governo suggeriva ai quotidiani che ricevono il contributo pubblico di abbandonare la carta stampata per traslocare su internet. Il problema è il solito, però: anche in rete la pubblicità scarseggia, decine di siti d’informazione si dividono il 4,8 per cento di un mercato dominato dal televisore, cioè un paio di centinaia di milioni di euro l’anno.
LE SOCIETÀ che editano quotidiani e periodici possono guadagnare in due modi: pubblicità o vendite. La giostra pubblicitaria gira sempre nella stessa e identica direzione, e dunque favorisce le concessionarie di Mediaset (in particolare), Rai (in diminuzione), La7 (in crescita). Il circuito di vendite è come un esercito a ranghi ridotti: meno distributori, meno edicole. Un esercito debole farà fatica a vincere la battaglia per la sopravvivenza.

il Fatto 28.1.12
Rcs, rivolta dei giornalisti “Soldi pubblici per pagare sprechi”
Stati di crisi e cassa integrazione per i dipendenti Manager coperti d’oro nonostante il grande flop dell’operazione Spagna
di Giovanna Lantini


Milano. La Spagna non lascia dormire sogni tranquilli a manager e azionisti della Rcs. Con un nuovo, durissimo, comunicato nell’edizione di ieri, i giornalisti e i dipendenti del gruppo editoriale del Corriere della Sera insistono sul flop dell’acquisizione spagnola Recoletos e alzano il tiro su amministratori e azionisti. Arrivano anche le prime sfiducie ai direttori.
Proprio mentre vengono chiuse testate come il free press City ricorrendo alla cassa integrazione o ai prepensionamenti, con “un aggravio straordinario per gli enti di previdenza”, secondo i giornalisti di via Solferino “una casta (questa sì) di intoccabili non paga neppure il minimo pegno per le scelte scellerate in termini di politica aziendale, di investimenti (l’acquisizione della Recoletos spagnola è l’esempio più eclatante) che, ben oltre la crisi congiunturale, hanno portato al disastro”.
Il primo a fare le spese di una protesta sempre più agguerrita è stato ieri il direttore della Gazzetta dello Sport, Andrea Monti, che è stato sfiduciato ad ampia maggioranza dai suoi redattori.
DOPO IL DRASTICO comunicato di martedì, firmato dai rappresentanti sindacali di Gazzetta dello Sport, Corsera e poligrafici, ieri sono tornati alla carica i giornalisti del quotidiano diretto da Ferruccio de Bortoli. Questi ultimi hanno scelto la formula della lettera ai lettori per tenere alta l'attenzione sul braccio di ferro in corso con l'azienda che, per salvare il salvabile, ha deciso di puntare sulla cessione dell'immobile di via Solferino trasferendo la Gazzetta alla periferia di Milano insieme a tutti i poligrafici. Smembrando, quindi, la redazione del Corriere che si troverebbe a dover “comporre un giornale «bionico», le cui parti vengono costruite in luoghi diversi e poi assemblate con escamotage informatici”. Non solo. Nei disegni della dirigenza ci sarebbe anche la separazione del corpo redazionale dello stesso Corsera, con il trasferimento in via Rizzoli anche di alcuni giornalisti della testata. Una scelta che secondo il sindacato chiama in causa direttamente i lettori proprio perché avrebbe un effetto negativo sulla qualità del giornale. Il tutto per costruire l'ennesima pezza che il management vorrebbe piazzare per sistemare i conti con il passato.
Ossia, appunto, la disastrosa acquisizione del gruppo editoriale spagnolo Recoletos effettuata all'inizio del 2007 per la ragguardevole cifra di 1,1 miliardi dall'attuale amministratore delegato di Rcs, Antonello Perricone, affiancato tra gli altri dai consulenti di Mediobanca, primo socio del gruppo. Allora si stimava che l'acquisizione avrebbe portato al gruppo italiano valore economico per 127 milioni. A distanza di cinque anni, invece, Rcs che all'epoca era in sostanziale equilibrio finanziario, si ritrova con un indebitamento di 981,7 milioni e una partecipazione che, secondo i sindacati, ha un valore contabile “che supera di poco la metà dell'investimento iniziale”. E se la stima dovesse venire certificata in bilancio con una pesante svalutazione, gli stessi soci, già in agitazione per i passaggi di mano di alcune quote di rilievo e le variazioni in corso nei pesi della finanza italiana, potrebbero trovarsi davanti alla necessità di aprire il portafoglio per ricapitalizzare la società, pena perdere la presa sul salotto buono lasciando spazio a chi vorrebbe crescere. Naturale, quindi, che il management le stia studiando tutte per evitare scelte estreme. Anche perché in questi anni è stato lautamente retribuito: complessivamente tra il 2007 e il 2010 amministratori e sindaci sono costati alla Rcs 22,6 milioni. La fetta più importante è andata a Perricone che nel quadriennio ha incassato 5,21 milioni, uno dei quali riferibile a un bonus datato proprio 2007, anno in cui ai soci andò un dividendo di oltre 80 milioni.
HANNO QUINDI avuto gioco facile i giornalisti del Corriere nel “denunciare il depauperamento qualitativo oltre che economico, l’attenzione continua a interessi esterni all’impresa editoriale a danno del prodotto, del marchio, dei suoi lavoratori e dei lettori”. Una denuncia fatta puntando il dito contro un’azienda che con una mano “negli ultimi due anni ha chiesto (e chiede) soldi pubblici tramite stati di crisi e ristrutturazione subentranti, con l’altra assegna a azionisti e vertici manageriali ricchi dividendi e premi quasi milionari”.

il Fatto 28.1.12
A dicembre i contributi per alcuni quotidiani


Prima che l’ex sottosegretario all’Editoria Carlo Malinconico fosse costretto alle dimissioni dalla scoperta del Fatto Quotidiano che l’imprenditore De Vito Piscicelli, il costruttore indagato nell'inchiesta sulla "cricca" per gli appalti del G8, gli avrebbe pagato le vacanze, un numeroso gruppo di testate aveva ricevuto a dicembre il bonifico bancario con i finanziamenti pubblici: 5,9 milioni per Avvenire; 5,2 per L'Unità; 3,4 per La Padania; 3,2 per Il Manifesto; 2,9 per Liberazione; 2,1 per La Discussione, 2 per Terra. Per un cavillo, il Foglio (2,9 milioni) e il Secolo d'Italia (2,4 milioni) dovranno aspettare (ma ieri quest’ultimo si è visto sbloccare i fondi). In attesa che finisca la partita giudiziaria fra la famiglia Angelucci e l'Autorita di garanzia per le comunicazioni, l'ormai ex sottosegretario Malinconico aveva accantonato 5,8 milioni per Libero e 2,2 per Il Riformista (adesso con una nuova proprietà). Da segnalare anche i 2,2 milioni bloccati per L'Avanti che fu di Valterino Lavitola.

il Fatto 28.1.12
I fondi per l’editoria
Sbloccati i ciontributi a una ventina di testate


Arriva una boccata d’ossigeno per una ventina di quotidiani non profit, politici, di società cooperative, di minoranze linguistiche, delle comunità italiane all’estero e per una decina di periodici gestiti da cooperative. I contributi sospesi in attesa di definizione di accertamenti amministrativi sono stati in gran parte finalmente sbloccati dopo le ultime verifiche”. Il primo incontro tra il segretario della Fnsi, Franco Siddi, e il nuovo sottosegretario all’editoria, Paolo Peluffo, viene definito “incoraggiante” nella nota diffusa ieri sera dal sindacato dei giornalisti per raccontare come procede la vicenda dei fondi per l’editoria. Il taglio alle risorse stabilito dal governo Berlusconi per il 2011 era stato confermato da Monti, con l’aggiunta di uno stop totale ai finanziamenti futuri, salvo ridefinizione dei criteri distributivi. Nel frattempo, un centinaio di testate restava col fiato sospeso attendendo ancora la distribuzione 2010. Già a dicembre l’allora responsabile, Carlo Malinconico, aveva distribuito una parte dei 150 milioni stanziati per l’anno scorso. Ieri sul tavolo sono state messe molte situazioni di giornali pressoché sconosciuti al grande pubblico, che garantiscono comunque diverse centinaia di posti di lavoro. Molte quelle che sono riuscite a veder sbloccato il contributo, dal “Corriere di Forlì” al “Giornale” di Calabria, da “Bari Sera” al “Dolomiten”, dalla “Voce di Romagna” al “Puglia”. Restano bloccate le pratiche di “Libero” e “Riformista” così come il “Foglio”. Preso in considerazione “l’Avanti” di Valter Lavitola, che s’è visto opporre uno stop: indagini in corso, niente soldi. Happy end invece per “L’Opinione”, il giornale diretto da Arturo Diaconale con sede in via del Corso 117, proprio dove c’è “l’Avanti”: la Guardia di Finanza ha certificato la netta distinzione delle due strutture. Via libera anche per altre testate storiche come il “Roma” e il “Secolo d’Italia”. Niente da fare per il “Giornale di Toscana”, edito da Denis Verdini: su di lui pende l’accusa di aver ottenuto indebitamente 17 milioni di euro in contributi all’editoria.
ch.p.

il Fatto 28.1.12
Finisce l’avventura di Sardegna24, fondato da imprenditori vicini a Soru


Un esperimento durato pochi mesi, quello di Sardegna24. Il quotidiano fondato dal gruppo di imprenditori vicini a Renato Soru, ex presidente della Regione, in edicola dall'1 luglio, cesserà le pubblicazioni domenica prossima, 29 gennaio. “Sono stati violati i patti nascondendo le reali passività della società”, ha tenuto a sottolineare il direttore ed editore, Giovanni Maria Bellu, ex di Repubblica e Unità. Sopravvissuto per due mesi grazie a risorse personali e familiari di Bellu, da lunedì causa liquidazione rimarranno a casa 25 persone tra collaboratori e giornalisti stabili in redazione, circa una quindicina. Per loro, a seguito dell'apertura di una vertenza sindacale, la prospettiva è quella della cassa integrazione. Sul suo profilo facebook, però, il direttore lascia trapelare la possibilità dell'avvio di “una nuova iniziativa editoriale o il proseguio di questa”. Sardegna24 è nata grazie alla cordata di imprenditori sardi riconducibili a Soru, per poi trasformarsi in una srl con l’ingresso di Bellu-editore, il 16 novembre scorso.

il Fatto 28.1.12
Il tramonto della Free Press
Stop per City (Rcs), era già toccato a E-Polis e 24 Minuti, ridimensionato Leggo
di Chiara Paolin


La crisi della Free Press italiana ha il sapore aspro della quotidianità: i giornali distribuiti gratuitamente davanti a caffè, metro e bus sono sempre più letti e apprezzati (specie da chi non potrebbe permettersi di comprarli), ma i costi di stampa e distribuzione sono talmente alti da spingere gli editori a chiudere i battenti.
L’ULTIMA vittima è City, testata del gruppo Rcs con 11 anni d’attività, 8 redazioni (Milano, Torino, Bologna, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Bari), 19 giornalisti (ma erano 24 fino a pochi mesi fa) e un popolo di lettori assidui: quasi 1,8 milioni ogni giorno. Eppure, secondo Rcs, il gioco non vale la candela. La raccolta pubblicitaria non basta a coprire le spese. “Negli ultimi anni è stata una strage - conferma dalla Federazione Nazionale della Stampa Giampaolo Gozzi - Ormai sono rimaste solo tre testate quotidiane a larga diffusione: Leggo, Metro e DNews. La pluralitàdivocichec'erasoloqualcheannofa ce la scordiamo oggi”. Perché sia Metro (1,6 milioni di lettori, 12 redattori) che DNews (323 mila, 8 giornalisti) appartengono all’editore Mario Farina, fratello del più celebre stampatore Vittorio salito alla ribalta per gli affari con Luigi Bisignani e Alfonso Papa, assai interessato all’acquisto delle testate periodiche Rcs messe ultimamente sul mercato per sanare i conti. Ma, a Vittorio Farina, City non è stato nemmeno proposto: si preferisce chiudere in blocco, e i giornalisti rimasti a spasso chiedono di essere integrati nel gruppo. Spiegava una nota del Cdr: “In questi 11 anni di vita i giornalisti di City hanno fatto il loro lavoro con professionalità, competenza, passione e senso di responsabilità, in un percorso di crescita professionale tangibile come, ad esempio, il lavoro su più piattaforme. Ora, quanto meno, ci aspettiamo e chiediamo con forza che la Rcs, primo gruppo editoriale italiano, si assuma le proprie responsabilità e tuteli il lavoro dei 19 giornalisti della redazione, dei collaboratori e dei poligrafici di City, con la piena ricollocazione di tutti i colleghi all’interno delle testate del gruppo”.
LE TRATTATIVE sul punto sono appena iniziate, nel frattempo i colleghi di comparto si chiedono se la morte di City sia una buona opportunità per ampliare la diffusione o piuttosto il segnale di un trend che li travolgerà. Il caterpillar Leggo, Gruppo Caltagirone, non è in acque serene: ha appena rinunciato a tutte le sedi locali concentrando le forze su Roma e Milano. Dei 12 esuberi, 8 sono stati ricollocati, 4 sono usciti, lo staff attuale è di 18 giornalisti. I lettori, 2,4 milioni, restano la miglior risorsa. Ma non bastano a tranquillizzare, specie considerando che in Italia il successo dei free paper è stato inutile per le altre due testate già nate e defunte nel giro di un decennio (EPolis e 24Minuti). Eppure, dicono i dati Audipress 2011, il consumo di quotidiani a pagamento è calato del 7 per cento mentre è aumentato quello della free press (più 1,8%) portando i giornali gratuiti a raggiungere una quota di utenza vicina al 50 per cento. Come dire che quando oggi un italiano ha in mano un giornale, una volta su due è una free press. Che, d'ora in poi, sarà frutto del duopolio Farina-Caltagirone.

l’Unità 28.1.12
Oltre lo Stato c’è solo l’antipolitica
Nel tempo della sovranità dell’economico, il tema della statualità diventa centrale per la sinistra. La stessa Europa si dimostra debole davanti alla crisi perché la sovranazionalità non è riuscita ancora a farsi sovrastatualità
di Mario Tronti


Pubblichiamo ampi stralci del saggio di Mario Tronti che compare sull'ultimo numero di Democrazia e Diritto. Il titolo del volume è «Le culture giuridiche dell'Italia unita»

Il discorso sullo Stato segue al discorso sul partito. La fase, cioè l’oggi, li stringe in un abbraccio: che si vorrebbe mortale e che bisognerebbe rendere vitale. Del resto, questo è un tempo in cui tra ciò che si vuole e ciò che si deve, vale la regola dell’incomunicabilità. Tra Stato politico e partito politico, in mezzo troviamo la crisi strutturale della politica moderna.
Fenomeno storico, lo Stato, limitato nel tempo, che ha avuto una nascita e può avere una morte. Se è solo Stato moderno, la fine dell’epoca moderna segna la fine dell’epoca statuale della politica. C’è una sola via per combattere efficacemente, con l’intento di sconfiggerla, quell’apologia del presente che sono le ideologia del postmoderno. Ed è l’assunzione in proprio dell’orizzonte di crisi della modernità, come un processo lungo, lento, in atto e in transito, come deriva, come decadenza, come dissoluzione.
Del partito possiamo discorrere nella contingenza, per lo Stato dobbiamo chiamare in causa la storia. Il movimento operaio ha pagato un prezzo altissimo, che ha deciso infine sul destino della sua sopravvivenza, per il fatto di non aver risolto la confusione, formale e materiale, e dunque teorico-pratica, tra partito e Stato. Il socialismo, non è vero che ha peccato per troppo Stato, direi invece per troppo poco. La classe operaia al potere, conquistato giustamente il potere attraverso il partito, avrebbe dovuto gradualmente abbandonare la forma partito per farsi forma Stato. In questo, ripercorrendo tutta intera la vicenda dello Stato moderno, dalla monarchi assoluta allo Stato sociale di diritto. La costruzione del socialismo, tanto più in un Paese solo, soltanto lo Stato poteva salvarla: l’autonomia politica dello Stato, politica e giuridica.
A un certo punto al capitale è sembrato che non avesse più bisogno dello Stato. Direi di più: che questa forma tutta politica del dominio fosse di intralcio ai propri liberi movimenti. E che il dominio potesse ormai direttamente venire incorporato nei meccanismi economici, o economico-finanziari, della produzione e della circolazione. Progetto in parte riuscito, dopo la svolta di sistema, che ha archiviato i trent’anni gloriosi, e ha inaugurato il trentennio del cosiddetto neoliberismo. Questo ritorno restaurativo di Ottocento reagiva con quel piglio dell’innovazione, che ha incantato i modernizzatori della sinistra, alla pretesa novecentesca dello Stato di farsi sociale e alla politica di occuparsi della società, e ai partito popolari di portare le masse nello Stato.
Tutto si tiene. E il punto che decide è da dove partono i bisogni d’epoca. Partono da chi comanda. Poi si può reagire, anche con successo, si può controbattere e tenere provvisoriamente o a lungo in scacco l’iniziativa vincente. Lo hanno fatto gli operai con le lotte nei punti alti dello sviluppo, i contadini in altre parti di mondo in condizioni di arretratezza, lo hanno fatto gli Stati socialisti dividendo giustamente il campo mondiale in sfere di influenza. Mai illudersi che improvvise spontanee insorgenze dal basso possano minimamente, e stabilmente, impensierire i proprietari effettivi del potere. Anzi, in queste insorgenze va volta a volta riconosciuto quel bisogno specifico di sistema, entro cui stanno, nascono e crescono. Solo conosciuto questo, si possono politicamente utilizzare, in una qualche funzione alternativa.
Il passo indietro verso il liberismo si è coniugato con i due passi avanti della globalizzazione. Qui si è verificato un accumulo di quantità che ha prodotto un salto di qualità, per usare polemicamente e consapevolmente categorie obsolete. Il capitalismo mondo era iscritto fin dal principio nel rapporto di produzione, scambio e consumo, che ha occupato militarmente tutta intera la modernità. Il Novecento, con tre grandi guerre civili mondiali, ha imposto, o ha permesso questo salto. Il grado attuale di sovranazionalità del rapporto di capitale non ha precedenti nella storia. L’età del colonialismo, e la connessa fase imperialistica e di capitale finanziario dei tempi di Hilferding e di Lenin, impallidisce di fronte alle dimensioni contemporanee del fenomeno. L’esercito di riserva, ormai anch’esso mondiale, del lavoro sta lì, a volte in prima fila a volte nelle retrovie, a seconda di come fa comodo, a combattere una guerra non sua.
La forma Stato viene aggredita qui dall’esterno, da macroprocessi, che ne riducono il peso, la funzione, la consistenza, e ne destrutturano la forza. Vale ancora la classica definizione weberiana dello Stato come «monopolio dell’uso legittimo della forza fisica nell’ambito di un determinato territorio»? Dov’è più la sovranità, da Bodin in poi intesa come facoltà esclusiva di «fare leggi»? Quali e quante le leggi di movimento della società rimaste in mani esclusivamente statuali? E l’hobbesiano Stato-macchina, persona giuridica regolato dalle leggi, è questo oggi il Leviatano, o non piuttosto questa oggettività sistemica di leggi economiche extragiuridiche, che esercitano potere senza legittimità, sovranità senza popolo? Chi e quando squarcerà il velo della finzione democratica, di cittadini che eleggono forme di governo senza forma Stato?
La cessione di potere dall’autonomia del politico alla sovranità dell’economico si esprime in questo paradosso, che butto lì come la scintilla che una volta doveva incendiare la prateria: c’è solo più Stato dove c’è ancora partito e dove la classica obbligazione politica garantisce, essa, il libero movimento delle leggi economiche. È stato un capolavoro della soggettività politica moderna l’atto della congiunzione tra lo Stato e la Nazione. Di lì, grande storia. Ambigua, doppia, tragica e gloriosa. Movimenti di popoli, in lotta di liberazione da antichi servaggi, ma anche di eserciti l’un contro l’altro armati, in guerre micidiali. In nome della nazione, per il proprio Stato, si sono commessi crimini, contro i propri stessi popoli, ma anche provocando così risorgimenti e resistenze.
Il nesso tra Stato e nazione si va divaricando. La nazione sembra in migliore condizione di salute politica rispetto allo Stato. Anche se il concetto si restringe e, come tutto oggi, si involgarisce, da spazio si fa territorio, da storia si fa tradizione, da popolo si fa etnia, e perfino a volte religione. Chi favorisce questa divaricazione sono, di nuovo, produzione e mercato, che non temono e superano d’un balzo i confini geografici, temono e rimangono impigliati nelle sovranità politiche. Insomma, l’esperienza se vogliamo chiamare così, con una parola banale, le repliche della storia ci ha insegnato che lo Stato si cambia, non si abbatte. A volerlo abbattere sono oggi gli interessi diretti di capitale, che portano avanti questo proposito in due modi: o utilizzandolo o subordinandolo, come cassa di depositi e prestiti e in più concessore di ammortizzatori sociali, oppure come guardiano notturno e apparato di repressione. I lavoratori hanno ben conosciuto la faccia brutale dello Stato al servizio dei loro padroni. Ma quando sono stati liberi e forti hanno provato essi stessi a introdursi nello Stato, per garantire la propria libertà e ingigantire la propria forza. Anche questa è storia del maledetto Novecento.
È vero, c’è il mito dello Stato. Ma esso, prima di diventare un mito reazionario, è stato un mito rivoluzionario. Su quel terreno infatti si giocava la questione del potere. Questa questione sembra non essere più in gioco. Anche potere viene ormai declinato al plurale: poteri forti, poteri occulti e soprattutto poteri micro, una sorta di politeismo dei poteri, come un dio che sta dappertutto e quindi da nessuna parte. Una condizione felice per l’orizzonte di capitale, che non ha più da misurarsi con un potere politico, forte e autorevole, concentrato e autonomo. È quanto consegue all’emarginazione avvenuta della forma Stato. Decisivi sono stati sicuramente i processi di spoliticizzazione degli individui e di neutralizzazione dei conflitti.
Qui da noi, lo Stato nato e cresciuto nel contesto storico del «sistema europeo degli Stati», si è perduto nel sentiero interrotto di una sovranazionalità che non riesce a farsi sovrastatualità. Al posto di «la Germania non è più uno Stato», bisognerebbe dire oggi «l’Europa non è ancora uno Stato». Di più: nemmeno, questa idea di Europa, ma, direi piuttosto, questa pratica di Europa, che si estende nello stesso modo in cui si deprime, essa stessa spoliticizzata e neutralizzata, rischia di essere una forma di anti-Stato e comunque una causa di crisi del sistema europeo degli Stati. Se esistesse una sinistra europea farebbe di questo problema il suo stesso problema, trovando forse una ragione per esistere, nel solco storico della sua tradizione politica internazionalista. Nel frattempo, Paese per Paese, andrebbe consigliata una decisa presa di distanza dalle tentazioni, vogliamo dire dalle pulsioni, di una «politica oltre lo Stato». Una politica oltre lo Stato vuol dire oggi nient’altro che un’antipolitica. Come lo è di fatto la politica oltre il partito. Ce n’è fin troppo in giro, per suscitarla anche da questo lato. Se è vero che, nel Moderno, la politica ha fondato lo Stato, in questo crepuscolo del Moderno, è a partire dal nuovo Stato che diventa possibile rifondare la politica. Invece che chiedere beni comuni per un capitalismo democratico.

il Fatto 28.1.12
E se fossimo tutti berluschini?
di Angelo d’Orsi


Il primo era stato Alberto Asor Rosa, in articolo dell’estate 2008 a paragonare il berlusconismo al fascismo, spingendosi ad affermare che il primo era peggiore del secondo, suscitando non poche polemiche. Poi la battaglia quotidiana prevalse, contro il Cavaliere di Arcore, che andava collezionando epiteti di varia efficacia, a cominciare da quello di “Caimano”, con la variante, inventata da Marco Travaglio, ben nota ai lettori del Fatto Quotidiano, di “Cainano”. E cresceva intanto la produzione di libri sul fenomeno Berlusconi, sul suo “partito di plastica”, che qualcuno infine cominciò a prendere sul serio, esaminandone gli effetti pervasivi sulla vita pubblica, grazie a un sistema di cricche affaristiche, con contorno di escort, di cui gran collezionista risultava essere proprio il capo del governo, capitano di una nave tanto pronto a cianciare e farsi fotografare, quanto inetto al comando, assai più occupato a gestire affari e affarucci privati – d’ogni genere – che ad affrontare i problemi di un’Italia ormai piegata su se stessa, “Concordia” senza timoniere, ferita nella sua etica pubblica, più ancora che nella sua capacità produttiva. Oggi scaffali di biblioteche e librerie sono debordanti di biografie e di studi sull’inventore di Forza Italia: memorabile quello del compianto Giuseppe Fiori (Il venditore, Garzanti 1995) ; ma da tempo si sono aggiunte analisi del fenomeno, anche in previsione di una uscita di scena dell’uomo, non foss’altro che per ragioni biologiche.
E LE ANALISI si sono infittite, anche sul piano giornalistico, dopo le “dimissioni coatte” dello scorso novembre. Analisi che interpretano forse una paura: che “quella roba lì” sia destinata a rimanere anche dopo la definitiva scomparsa del personaggio che l’ha messa in piedi? Dopo un memorabile fascicolo doppio di MicroMega – intitolato senza infingimenti, “Berlusconismo e fascismo” – sono arrivati altri libri, articoli, dibattiti. Oltre alla paura degli uni e al pessimismo di altri, tra le motivazioni, probabilmente, c’è un’attitudine scaramantica: ma è emerso altresì il bisogno di studiare il fenomeno berlusconiano, prescindendo dal capo, mettendone in luce i complessi aspetti politici, sociali, mediatici e di costume. Si tratta di capire, insomma, se tanti di noi non siano stati contagiati dal virus, diventandone “portatori sani”, fino al suo manifestarsi in forma violenta. Una sorta di Invasione degli ultracorpi, l’angoscioso romanzo di Jack Finney, portato al cinema da Don Siegel. Ma allora – metà anni Cinquanta – si era in piena Guerra fredda e l’allusione possibile era ai comunisti che “sembrano come noi”, ma come noi non sono, e si impadroniscono un po’ alla volta delle nostre menti. Qui si tratta di capire se il berlusconismo, giunto apparentemente a fine corsa, abbia permeato di sé i nostri modi, abitudini, pratiche. Se lo chiedono, per esempio, due libretti recenti, uno di un sociologo, Rino Genovese (Che cos’è il berlusconismo, Manifestolibri), l’altro, ancor più smilzo e sbrigativo, di un militante anarchico, Piero Flecchia (Da Mussolini a Berlusconi, Mimesis). Gli autori vanno a caccia delle costanti, delle manifestazioni che in un passato più o meno lungo hanno non solo preparato, ma evidenziato il berlusconismo. Al di là insomma della traiettoria personale di Silvio Berlusconi, si tenta di mettere a fuoco il quesito: la sua affermazione prima, la durata poi, sono dovute, oltre che a capacità personali e incapacità dei suoi avversari (inevitabili le bordate, peraltro ormai inevitabilmente e giustamente divenute moneta corrente, contro una sinistra rinunciataria, debole, spesso connivente), e a specifiche cause storiche, anche a “precondizioni” antropologiche? E dietro affiora l’altro interrogativo: il berlusconismo – fusione di populismo, leaderismo, familismo, affarismo, immoralismo, antipoliticismo – sarebbe stato possibile senza Berlusconi? Genovese risponde di sì: si tratta di un processo di “deformazione della democrazia” (che però ha risvolti sovranazionali) che può essere caratterizzata così: un fenomeno politico che vede lobby economico-finanziarie che non si accontentano di esercitare pressioni politiche, ma mirano (e con Berlusconi da noi giungono) alla conquista diretta del potere, in tal modo svuotando nella pratica il sistema democratico che rimane più o meno intatto nella sua forma esteriore.
UNA SORTA di parassitismo della democrazia, scaturito dal più generale fenomeno di “ibridazione del moderno”, la coesistenza sempre più problematica di modi, tempi, culture tipici della modernità (o addirittura postmodernità), e forme sconcertanti di arcaismo. In tale quadro, se il berlusconismo diventa paradigmatico a livello almeno europeo, la figura di Berlusconi non è essenziale, anche se, aggiungo, ha fornito all’Italia un primato sulla scena forse mondiale, con un’overdose di volgarità sconcertante, ma con peculiarità che a mio avviso non possono essere svalutate. E soprattutto, non va accolto il pessimismo totale di chi ritiene (come Genovese) che l’Italia sia ormai inguaribile. Oggi che il pifferaio sembra ritornato nel cono d’ombra da cui era balzato fuori un ventennio fa, il quesito deve essere: come facciamo non solo a impedire che torni a istupidire gli italiani, ma a risanare il corpo e l’anima dell’Italia dal morbo berlusconiano? Ma su questi due punti non bastano le analisi: sono necessarie le azioni.

l’Unità 28.1.12
Intervista a Saeb Erekat
«Il processo di pace? Israele gioca con le parole ma non fa passi avanti»
Il capo negoziatore Anp: «A territori ceduti ne devono corrispondere altri
che entrano a far parte dello Stato di Palestina. Altrimenti la trattativa è una farsa»
di Umberto De Giovannangeli


Si è seduto e alzato più volte dai tanti «tavoli della pace» che hanno contrassegnato la crisi infinita israelo-palestinese. È stato così anche nei giorni scorsi ad Amman, nel round negoziale fortemente voluto da re Abdallah II di Giordania. «La nostra volontà di negoziare non è mai venuta meno, ma non possiamo accettare che ogni volta Israele si fermi all’enunciazione di principi senza mai fare un passo avanti nel merito dei tanti contenziosi aperti, a cominciare dai confini». A parlare è Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
La comunità internazionale ha letto il suo alzarsi dal tavolo negoziale di Amman come il fallimento delle trattative israelo-palestinesi.
«Se fossimo stati animati da una volontà di rottura non avremmo accettato di tornare al tavolo del negoziato. In discussione non è la volontà palestinese di ricercare il dialogo, il problema è un altro...».
Quale?
«Anche ad Amman il rappresentate israeliano si è limitato ad una enunciazione verbale di principi generici, senza presentare documenti scritti che entrassero nel merito dei contenziosi aperti. Un simile atteggiamento non può essere “spacciato” come volontà di pace. È solo fumo negli occhi della comunità internazionale».
Le autorità israeliane sostengono che il negoziatore dello stato ebraico, Yitzhak Molko, le avrebbe illustrato la posizione del governo Netanuyahu sulla questione dei confini...
«Si gioca con le parole. Noi avevamo chiesto un documento scritto che attestasse le posizioni israeliane. È un fatto di sostanza, non di forma. Questa richiesta è stata lasciata cadere. Voglio essere ancora più esplicito: non chiedevamo un documento dettagliato, ma quanto meno una presa di posizione che mostrasse la disponibilità di Israele ad accettare un riferimento ai confini precedenti la guerra dei Sei Giorni del 1967 come base di discussione...».
Confini che Netanyahu, e non solo lui, non accetta perché metterebbero a rischio al sicurezza d’Israele...
«Quel riferimento doveva essere la base di una discussione, non il suo sbocco finale. Quello su cui abbiamo sempre insistito è che alla base di una trattativa degna di questo nome debba esserci il principio della reciprocità...».
Vale a dire?
«I confini possono essere, sia pur in termini limitati, modificati rispetto a quelli antecedenti la Guerra dei Sei giorni, ma a territori ceduti devono corrispondere territori che entrano a far parte dello Stato di Palestina, e tutto ciò deve scaturire da un accordo tra le parti. Il principio di reciprocità e agli antipodi dell’unilateralismo che continua a caratterizzare, nei fatti, la politica d’Israele: guadagnare tempo, trascinando all’infinito il negoziato, e intanto determinare sul terreno una serie di fatti compiuti che finiscono per svuotare di ogni significato concreto la trattativa».
Un esempio concreto di questa volontà che lei imputa a Israele?
«È la crescita degli insediamenti, in Cisgiordania come a Gerusalemme Est. Non siamo da soli nel chiedere a Israele una moratoria nella costruzione-ampliamento degli insediamenti nei territori occupati. La risposta è sempre stata negativa. Anche quando a chiederlo è stato il presidente degli Stati Uniti d’America».
A proposito degli Usa: uno dei più accreditati candidati repubblicani alle presidenziali di novembre, Mitt Romney, ha sostenuto pubblicamente che i palestinesi non vogliono una soluzione fondata su due Stati, ma vogliono eliminare Israele.
«Al signor Romney vorrei chiedere su quali basi, su quali documenti, si è formato questa convinzione. Per chiarirsi le idee sulla nostra determinazione, posso solo consigliargli di parlare non con pericolosi antisionisti, ma con l’ex presidente George W.Bush e la signora Rice...Certe posizioni aiutano soltanto i nemici della pace».
Per tornare alle trattative. Israele vi accusa di voler imporre i tempi del negoziato.
«Il fattore tempo è decisivo. Perché senza indicare i tempi del negoziato, il dialogo non ha un solido ancoraggio. È stato lo stesso presidente Obama a parlare di questo, e come lui tutti i maggiori leader europei. Un negoziato non può durare in eterno, altrimenti non di negoziato si tratta ma di una farsa. E nessun dirigente palestinese, neanche il più disposto al compromesso, può esserne complice. Tutti devono essere consapevoli che in Medio Oriente il tempo non lavora per la pace».

La Stampa 28.1.12
Intervista
“Il regime mostra le crepe I soldati ora sono stanchi di questi massacri”
David Schenker: immagini choc, è un segno di debolezza
di Maurizio Molinari


Avevano imparato dall’Iran a limitare il numero dei morti Ma ora lo schema è saltato

L’esperto americano David Schenker del Washington Institute Dal 2002 al 2006 è stato direttore dell’ufficio per la Siria al Pentagono
L’ apparato di sicurezza responsabile della repressione di Bashar Assad mostra segni di stanchezza: così David Schenker, ex consigliere del Pentagono per la Siria e oggi analista del Washington Institute, interpreta le crude immagini che arrivano dalla città di Homs.
Che cosa pensa degli scatti sulle salme di bambini uccisi?
«Sono macabri. Rendono esplicita la violenza della repressione contro i civili e svelano la stanchezza di chi la conduce».
Perché parla di «stanchezza»?
«Il regime di Bashar Assad finora ha represso le proteste applicando i manuali del regime iraniano, che nel 2009 riuscì a limitare il numero delle vittime. Se facciamo attenzione a quanto è avvenuto negli ultimi mesi, ci accorgiamo che il numero quotidiano delle vittime civili in Siria non ha mai superato le 50 e c’è stata sempre grande attenzione nel limitare l’impatto delle violenze, al fine di contenere le proteste internazionali. Queste sono state le istruzioni dei servizi iraniani ai siriani. Ma per rispettarle serve una disciplina ferrea, che evidentemente il regime non riesce più a mantenere».
Quale può essere stata la genesi della strage di civili a Homs?
«Homs è la culla della rivolta. Il regime ha aspettato il ritiro degli osservatori arabi, poi le forze di sicurezza hanno voluto impartire una severa lezione ai civili. Facendolo, hanno violato le disposizioni iraniane e il risultato è un’indignazione internazionale che potrebbe scuotere il Consiglio di Sicurezza».
Come avvenne per il massacro di bosniaci a Srebrenica che nel 1995 spinse la comunità internazionale a intervenire contro la Serbia?
«È presto per dirlo, certo le immagini dei bambini uccisi a Homs rendono per la Russia più difficile opporsi alle richieste di intervento che la Lega Araba sta rivolgendo alle Nazioni Unite».
È più Mosca o Pechino a proteggere Damasco all’Onu?
«È Mosca e il motivo è che la Russia si è sentita ingannata sulla Libia. Diede il via libera all’Onu per l’operazione di Bengasi solo a fini umanitari, ma poi quell’intervento ha portato a deporre Gheddafi. Il Cremlino non vuole che tale precedente si ripeta in Siria col rovesciamento di Assad, che è un suo stretto alleato».
Che grado di controllo ha Assad sulla situazione interna?
«Oltre alla foto dei bambini morti ce n’è un’altra importante che arriva sempre da Homs. Vi si vede un disertore della IV divisione portato in trionfo dalla folla. La IV divisione è stata finora uno degli strumenti più efficaci ed efferati della repressione e il fatto che inizi ad avere defezioni conferma come nei ranghi del regime si registrino delle crepe».
Che giudizio dà dell’Esercito di liberazione siriana?
«L’opposizione armata cresce lentamente ma registra progressi. Riesce a creare posti di blocco, impedisce alle truppe di Assad di entrare in alcuni quartieri alla lontana periferia di Damasco ed è anche riuscita ad assumere, per breve tempo, il controllo di piccoli centri ai confini con il Libano. Gli elementi di maggiore efficacia finora sono i posti di blocco, perché sono efficaci nell’ostacolare i movimenti delle forze di sicurezza contro i civili».

Corriere della Sera 28.1.12
«Dieci, cento, mille Wukan». Campagne cinesi in rivolta
di Paolo Salom


PECHINO — La parola d'ordine corre di villaggio in villaggio. «Impariamo da Wukan», gridano contadini e residenti stufi delle «prepotenze» di costruttori e funzionari locali che — spesso in combutta — strappano loro, letteralmente, la terra sotto i piedi. Perché la Cina non si può fermare. Deve continuare a costruire, espandersi, produrre. Autostrade, ferrovie, palazzi: intorno alle megalopoli lo spazio vale oro, mentre spesso chi lo abita non vale nulla, almeno agli occhi di chi ha obiettivi «più alti». «Impariamo da Wukan», ovvero il villaggio che il 15 gennaio, dopo mesi di rivolta contro espropri e mancati indennizzi, aveva ottenuto un'incredibile «vittoria»: rimozione dei responsabili cittadini del partito comunista e, addirittura, promozione a segretario del leader della sommossa, Lin Zuluan, 65 anni. Nei giorni scorsi è stata la volta di un altro piccolo centro del Sud della Cina, Wanggang, alle porte di Canton. Mille rivoltosi hanno marciato fino alla capitale provinciale per reclamare i propri diritti. «Se la Cina non cambia e non comincia ad aiutare i residenti più deboli dei villaggi — ha dichiarato spavaldo, alla Reuters, un trentatreenne di nome Wang — ogni villaggio si trasformerà in una nuova Wukan».
La protesta era inscenata contro il capo del partito, Li Zhihang, accusato di aver sottratto la terra ai legittimi proprietari con l'inganno. Ma è bastato ricordare il nome di Wukan perché i rappresentanti dei «mille di Wanggang» fossero immediatamente ricevuti dal vicesindaco di Canton, Xie Xiaodan, che ha subito promesso una rapida inchiesta sugli abusi denunciati. «Ci ha garantito una risposta entro il 19 febbraio», ha spiegato ancora Wang. Tutto risolto? Macché. I disordini sono continuati, nel Fujian, poco più a nord, lungo la costa. A gridare questa volta i residenti del villaggio di pescatori di Xibian. Anche loro con un cartello che recitava: «Impariamo da Wukan».
Per quanto nascoste all'opinione pubblica (su Internet le pagine che parlano di Wukan, Wanggang o Xibian sono bloccate), le rivolte locali sono il fenomeno più evidente delle contraddizioni, delle ineguaglianze, dei tumulti provocati da un rapido quanto ineguale sviluppo. Soltanto nel 2011 sarebbero 90 mila gli «incidenti» che hanno coinvolto comunità locali più o meno grandi. Il governo di Pechino non nasconde la preoccupazione, se è vero che il premier Wen Jiabao ha sottolineato più volte la necessità di «migliorare le condizioni di vita nelle aree rurali».
Wukan non è tuttavia percepita come l'inizio di una possibile rivolta generalizzata, almeno fino a quando il mirino dei dimostranti eviterà di guardare verso Pechino. Che per ora si limita a stringere il pugno sui dissidenti, voci molto più pericolose.

l’Unità 28.1.12
Addio al padre delle pulsar
Franco Pacini, l’astrofisico pioniere delle stelle di neutroni è scomparso all’età di 72 anni. Grande scienziato si è impegnato moltissimo, anche attraverso la tv, a divulgare le scoperte sul cosmo fra il grande pubblico
di Pietro Greco


Giovedì mattina all’età di 72 anni Franco Pacini, astrofisico, se n’è andato. Dopo Paolo Rossi, scomparso due settimane fa, Firenze, l’Italia, noi tutti abbiamo perso un altro maestro. Di scienza e anche di vita. Non è retorica. Chi spulcia gli annali di storia dell’astronomia sa quanto grande sia stato il suo contributo alla fisica di quei bizzarri oggetti presenti nell’universo che sono le stelle di neutroni rotanti dei veri e propri radiofari o, se volete, dei grossi ma precisissimi orologi atomici che oggi chiamiamo pulsar.
Chi lo ha frequentato anni fa, sa quanto lo rattristasse l’opposizione di un gruppo di americani nativi (sì, insomma, di indiani d’America) alla costruzione del Large Binocular Telescope, da lui fortemente voluto, lì sul Monte Graham in Arizona. La riteneva un’opposizione pretestuosa, perché diceva prima che ci andassimo noi quel posto era frequentato solo da scoiattoli. Ma non dimenticava che quegli oppositori erano i discendenti di un popolo che aveva subito gravi discriminazioni. Chi lo ha frequentato negli ultimi anni ricorda ancora quel signore alto, dinoccolato, dal sorriso solare, vestito per così dire «casual», con lo zainetto in spalle che zompando da un treno all’altro si affanna a diffondere cultura scientifica ovunque: ai bambini della comunità cinese di Firenze come ai membri dell’Accademia dei Lincei di Roma, dal museo «hands on» del Balì di Sartara, nelle Marche (quello che amava di più) allo stesso Osservatorio di Arcetri.
Non disdegnava neppure la tv, dove, come usa dire, bucava il video. E infatti per anni è stato, con un’altra fiorentina, Margherita Hack, il «volto» dell’astronomia italiana. Riteneva un suo dovere e un suo piacere sia produrre nuove conoscenze in astrofisica Wikipedia riporta quella sua frase che la dice tutta: «Come fai a fare un altro lavoro, se puoi fare l’astronomo?» sia comunicare al grande pubblico, con ogni mezzo, purché in maniera colta e accattivante, i risultati delle ricerche proprie e altrui.
Franco Pacini è nato a Firenze il 10 maggio 1939. Si è laureato poi a Roma nel 1964 e, dopo un breve soggiorno di studio in Francia, aveva lavorato a lungo alla Cornell University di Ithaca, nello stato di New York. È qui che giovanissimo raggiunge quello che, probabilmente, è il suo massimo risultato scientifico: prevede l’esistenza delle stelle di neutroni che ruotano, vorticosamente, su se stesse. Le stelle di neutroni sono oggetti cosmici molto densi e pesanti: una di loro, con un diametro di appena 20 chilometri, può contenere una massa pari a una volta e mezzo quella del Sole. Nel 1967 Pacini scrive un articolo in cui prevede che le stelle di neutroni possano ruotare velocemente su se stesse. L’anno successivo, nel 1968, quelle stelle furono scoperte. E oggi sono conosciute come pulsar (sorgente radio pulsante), perché ruotando emettono impulsi di radiazione elettromagnetica alle frequenze radio che ne fanno dei veri e propri fari cosmici. Gli impulsi sono così regolari che le pulsar si propongono come orologi tra i più precisi che conosciamo.
PRESTIGIO INTERNAZIONALE
Tornato in Italia, nel ’78 Franco Pacini diventa professore ordinario all’Università di Firenze e direttore dell’Osservatorio astronomico di Arcetri. Carica, quest’ultima, che ha mantenuto fino al 2001. Quando, a riconoscimento dei suoi meriti, è stato eletto alla presidenza dell’Unione Astronomica Internazionale. Ha sempre interpretato con dinamismo questi e altri incarichi. Tant’è che è difficile ricordare quanto ha fatto in poche righe. Ma in questa frenetica attività non ha mai dimenticato che la scienza e gli scienziati hanno il dovere di partecipare del piacere della scoperta il resto della società.

Repubblica 28.1.12
L’altro carcere di Gramsci
"Il giallo del quaderno sparito che svelava le critiche al Pci"
di Nello Ajello


Un saggio di Franco Lo Piparo ricostruisce una biografia parallela dell´intellettuale censurato e messo a tacere dal suo partito
L’edizione revisionata della sua opera in 33 volumi avrebbe "cancellato" il trentaquattresimo
Nel libro vengono trascritte molte lettere che mostrano, tra le righe, i rapporti sempre più difficili

Un romanzo storico e un romanzo a tesi. Sono i "generi" che s´intrecciano nel volume di Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci, appena uscito per Donzelli. Mai come questa volta spiegare un titolo non sarà superfluo. La trama storica percorre il destino toccato all´esponente sardo che nel 1928 il Tribunale speciale fascista condannò a vent´anni di reclusione (ne avrebbe scontati sei, ovvero otto se si calcola la fase d´arresto preventivo). Ecco, invece, la tesi. Secondo l´autore, alla pena inferta a Gramsci si sarebbe aggiunta, dopo la concessione della libertà condizionata, una condanna al silenzio. La decretò, a suo danno, il partito di cui egli era stato a capo. Fu un altro carcere, metaforico, di cui Gramsci avrebbe sofferto fino alla morte, nell´aprile del ´37 (con una postilla finale in cui si avanza la tesi di un quaderno, l´ultimo, scomparso).
È in questa seconda direzione che si sviluppa la ricerca di Lo Piparo, un filosofo del linguaggio che con Gramsci si è più volte misurato. Egli illustra ogni passo degli scritti gramsciani che sorreggono l´assunto. Il quale, agli occhi di chi abbia familiarità con la figura del leader sardo, risulterà meno provocatorio di quanto prometta. È infatti lontano il tempo in cui veniva data per scontata la concordia fra i testi gramsciani e le posizioni di quel Pci che lo avrebbe assunto a proprio nume tutelare.
Ben presto il carattere strumentale dell´operazione era emerso fra gli studiosi. Non a caso un certo sentore, se non di liberalismo, certo di socialdemocrazia emergeva dagli scritti gramsciani, anche se questi erano stati revisionati da Togliatti con l´aiuto di intellettuali di comprovata ortodossia comunista. Non a caso sia Benedetto Croce a proposito delle Lettere dal carcere, sia un suo seguace indocile come Luigi Russo, avevano espresso su Gramsci un giudizio quanto meno comprensivo. Basterà, d´altronde, scorrere la bibliografia che Lo Piparo include nel suo saggio per notare la presenza di studiosi che di Gramsci hanno posto in risalto l´eterogeneità rispetto alla liturgia staliniana. Vi si trovano, per esempio, Aldo Natoli, Carlo Muscetta, Paolo Spriano e Giuseppe Fiori. Di quest´ultimo aggiungerei all´elenco di Lo Piparo la monografia Gramsci Togliatti Stalin (Laterza, 1991), in cui viene documentato quel contrasto fra l´obbedienza di partito e il dovere della verità, che nell´autore dei Quaderni fu centrale.
Nelle pagine di I due carceri (sostantivo maschilizzato nel plurale con l´autorevole consenso di Tullio De Mauro) ciò che più conta non è la tesi generale, quanto l´insieme dei personaggi. Soprattutto due: Tania, la cognata di Gramsci, e Piero Sraffa. Essi rappresentano la metà d´un quadrilatero che presiede al passaggio di impressioni, invocazioni ed ukase fra "dentro" e "fuori" il luogo di pena. I terminali del tragitto sono Gramsci e Togliatti. Tania, che può avvicinare il prigioniero e forse prova amore per lui, ne trasferisce i messaggi a Sraffa, che li trascrive per Togliatti a Mosca. La stessa trafila funziona in direzione inversa.
Le censure, sia fascista sia bolscevica, trasformano le lettere, rendendole, a tratti, esemplari nell´arte del dire e non dire. Sraffa, intellettuale raffinato, amico di Togliatti ma vigile nei rapporti con il vertice sovietico e apparentemente opaco quanto a ideologia (sarà «un comunista coperto»?), rappresenta la parte più ardua del rebus. Tania è un interrogativo in forma di donna. Della sua «vita privata», scrive Lo Piparo, «si sa pressoché niente», se non che è «la meno comunista delle sorelle Schucht» (meno di Giulia, la moglie di Antonio, donna dalla psiche delicata, legata come le sue sorelle ai servizi segreti sovietici. Meno ancora si sa di Eugenia, considerata una "bolscevica" integrale). Trascritte e commentate da Lo Piparo, molte delle lettere di Gramsci, pur sottoposte a quegli arrischiati tragitti, conservano un fascino inquieto.
Non sapremmo, costretti alla brevità, quali scegliere tra le missive. In quella datata 27 febbraio 1933, Lo Piparo mette in rilievo la dichiarazione, da parte del prigioniero, della «propria estraneità, filosofica anzitutto, al comunismo»: e infatti sarà espunta da Togliatti nell´edizione del ´47 delle Lettere dal carcere. Ce n´è una del 14 novembre 1932 in cui il prigioniero comunica la sua decisione di divorziare da Giulia, madre dei suoi figli. Segna il massimo dell´emotività epistolare, esprimendo il doppio ruolo interpretato da quella donna nell´animo del recluso: è sua moglie ma, nota Lo Piparo, «è la Russia sovietica».
L´eco di un´altra lettera aleggia nel libro. La scrisse nel 1928, durante il processo Gramsci, l´alto esponente comunista Ruggero Grieco. Indirizzata a Mosca, dove risiedeva Togliatti, e poi spedita a Gramsci nel carcere di San Vittore, s´intrattiene sui casi del comunismo nel mondo. All´intellettuale sardo non sfugge però di essere lui il protagonista di quei fogli. Vi si sottolinea il ruolo centrale che egli ha svolto nel Pci. Il giudice istruttore del processo non mancherà infatti di osservare: «Onorevole, lei ha degli amici i quali certamente desiderano che rimanga un pezzo in galera». Un «atto deplorevolissimo» Gramsci avrebbe sempre giudicato la lettera di Grieco.
Nel complesso, quella tracciata da Lo Piparo è la parabola di un comunista a sé stante, di cui il partito volle reprimere ansie e anticonformismi. Il trattamento a lui riservato dopo la morte, con l´edizione revisionata dei suoi trentatré Quaderni (in una lunga postilla finale del volume emerge la possibile esistenza di un quaderno poi scomparso, il trentaquattresimo: per mano di chi?) resta un promemoria della perfidia di Togliatti. Quegli scritti - così si sarebbe espresso il segretario del Pci il 25 aprile 1941 - «possono essere utilizzati solo dopo un´accurata elaborazione»: solo così il partito li darà alle stampe. Dopo non essersi troppo adoperato per liberare il suo ex-segretario dalle carceri fasciste, il Pci decise in ritardo di ricordarsi di lui onorandone la memoria. Ma l´interpretazione di Lo Piparo è, a questo riguardo, molto netta: un Gramsci libero, in era fascista, non avrebbe avuto lunga vita: «Un plotone di esecuzione o un attentato erano a portata di mano». Su questa linea è la conclusione dell´autore dei Due carceri di Gramsci: proprio perché opportunista, Togliatti salvò Gramsci. Al che non si sa bene che cosa replicare. A volte, in tempi politicamente atroci, c´è più verità in un paradosso che in cento professioni di fede.

Repubblica 28.1.12
Lo scrittore ha proposto di costruire a Londra una cattedrale laica. Contrario il biologo
Sfida De Botton-Dawkins sul tempio dell’ateismo
di Enrico Franceschini


Dice l´autore: "Esistono luoghi di culto per Gesù, Maometto e Buddha, possiamo averne uno per i non credenti, dedicato al pensiero positivo e al bene comune"

Londra. I cristiani hanno le chiese, i musulmani hanno le moschee, gli ebrei hanno le sinagoghe, ma dove possono andare gli atei? Alain de Botton, filosofo e scrittore (il cui ultimo libro, uscito in Italia per Guanda s´intitola proprio Del buon uso della religione), pensa di saperlo: potrebbero andare in un "Tempio dell´Ateismo", un luogo dedicato «all´amore, all´amicizia, al raziocinio, a tutto quanto c´è di positivo al di fuori della religione». E de Botton non solo lo pensa ma sta già cercando di costruirlo: ha raccolto metà dei fondi necessari per costruire un grattacielo di cinquanta metri nel cuore della City, il quartiere finanziario di Londra. All´interno della torre secolarista, ogni centimetro corrisponderebbe a un milione di anni di vita sulla Terra, dentro ci sarebbe una specie di museo dell´umanità e sulle pareti esterne verrebbe disegnato un codice con la sequenza del genoma umano. Senonché l´iniziativa ha scatenato subito un conflitto: non con seguaci di questa o quest´altra fede, bensì con altri atei.
«Il problema dell´ateismo è che alcuni suoi sostenitori, come lo scienziato Richard Dawkins o lo scomparso giornalista e scrittore Christopher Hitchens, lo hanno presentato come una forza distruttrice, negativa», afferma il filosofo anglo-svizzero. «C´è un sacco di gente che non crede in dio ma che non è aggressiva verso la religione. Esistono templi per Gesù, Maometto e Buddha, possiamo averne uno anche per noi atei, dedicato al pensiero positivo e al bene comune».
Hitchens, ateo convinto fino all´ultimo istante di vita (è morto di tumore il mese scorso), non può più rispondergli, ma Dawkins sì: «Sciocchezze», ha detto il biologo. «Ai laici non servono i templi. Ci sono cose migliori per cui spendere soldi. Per esempio per migliorare l´insegnamento secolarista nelle scuole, per fare scuole non-religiose dove si insegna ai ragazzi l´approccio razionale e scientifico». Concorda Andrew Copson, presidente della British Humanist Society: «Ciò che i religiosi ricevono dalla fede, i non religiosi lo ricevono dall´arte, dalla natura, dalle relazioni umane, dal significato che diamo all´esistenza, senza bisogno di ritrovarsi uniti in un tempio».
Paradossalmente, un benvenuto al progetto arriva dalla chiesa anglicana. «L´idea di un tempio laico riflette un bisogno di trascendenza, la consapevolezza che nella vita c´è qualcosa di più del materialismo», commenta il reverendo George Pitcher, un consigliere dell´arcivescovo di Canterbury, «costruire un edificio del genere vuol dire riconoscere che siamo più che un mucchietto di polvere, è un ateismo più costruttivo di quello di Dawkins».
Il quotidiano Guardian di Londra ricorda che il piano evoca altri spazi secolaristi esistiti nel passato, come le chiese convertite a "templi della ragione" durante la Rivoluzione francese o come Conway Hall, una chiesa sconsacrata della capitale gestita dagli umanisti della South Place Ethical Society. De Botton dice di voler costruire il suo nella City perché è dove è andata maggiormente perduta «la bussola sulle priorità della vita». E spiega che un ateo ha lo stesso diritto di un credente di sentirsi ispirato da maestose architetture come quelle delle cattedrali religiose: «La sensazione che uno dovrebbe provare entrando in un tempio simile è la stessa che uno prova quando entra in una chiesa. Dovrebbe sentirsi piccolo, ma non nel senso di venire intimidito».
Neanche su questo però sono tutti d´accordo. «Il timor di Dio non viene dalla maestosità di una chiesa», ribatte il reverendo Keith Rumens, rettore della chiesa di St. Giles, nella zona di Barbican, dove dovrebbe sorgere il Tempio dell´Ateismo, «bensì da una sensazione di appartenenza, dal voler dare qualcosa e ottenere qualcosa in cambio».
Ma a parte il problema di trovare la seconda metà dei fondi (de Botton ha lanciato una colletta pubblica e auspica donazioni di benefattori), c´è quello di ottenere un permesso edilizio dalle autorità che governano la City: «Qui abbiamo certi valori non potremmo costruire nulla – ammonisce un portavoce – che sia connesso con l´ateismo». Gesù scacciava i mercanti dal tempio, a dire il vero. Ma accadde tanto tempo fa.

Repubblica 28.1.12
Dagli indignati ai grillini le nuove mappe della politica
C’è un modo progressista di rifiutare le categorie classiche e uno reazionario? Ecco cosa pensano gli studiosi
Queste forme di "agnosticismo" hanno una lunga tradizione nel nostro Paese
di Michele Smargiassi


"Sopra", "oltre", "avanti", "altrove": deve convocare un´intera famiglia di avverbi di luogo chi vuole evadere la topografia politica del Novecento, disposta su una linea che corre da destra a sinistra. Affermare "non sono né di destra né di sinistra" rientra, è vero, nel diritto d´opinione del singolo cittadino, ma che succede quando il verbo viene coniugato al plurale collettivo, "non siamo né di destra né di sinistra", quando è un movimento politico che rifiuta di collocarsi sugli assi cartesiani della democrazia occidentale? Succede che qualcuno gli ritorce addosso la furbizia: «Ci sono due modi di non essere né di destra né di sinistra: un modo di destra e uno di sinistra...».
È il beffardo «paradosso spaziale da disegno di Escher» con cui WuMing1, uno dei componenti "senza nome" del collettivo di scrittura che si affermò con l´allegoria storico-politica del romanzo Q, ha aperto le ostilità su Nuova rivista letteraria e poi su Giap, il blog che esprime il coté militante del sodalizio bolognese. Troppi, ormai, i movimenti sedicenti atopici nel mondo, dai nordici "partiti dei Pirati" agli Occupy Wall Street, per arrivare alle primavere arabe. Ma questo è «un velo che dobbiamo lacerare», sostiene WuMing1, e affonda: se gli Indignados spagnoli incarnano palesemente un "né-né" di sinistra, "egualitario, anticapitalista", i grillini italiani per esempio sono senza dubbio un movimento di destra: "diversivo, poujadista, sovente forcaiolo". Un testo articolato che procede citando criticamente George Lakoff e la sua coppia antitetica progressista/conservatore e utilizzando Fredric Jameson che intimava, nel suo Inconscio politico, a "Storicizzare sempre".
Nel dibattito, ovviamente, i né-né rivendicano il loro rifiuto della polarizzazione obbligatoria con parole che risuonano nei sondaggi (l´ultimo quello di giovedì scorso dell´Ipsos dove il 57% ha risposto che «conta la capacità dei leader, che siano di destra o di sinistra è secondario») e in qualsiasi pizzeria: «destra e sinistra hanno fallito entrambe, fanno ugualmente schifo». Nascosto nel muto magma dell´astensionismo elettorale, è questo il voltafaccia dell´elettore identitario tradito, è il disgusto del consumatore insoddisfatto, «di chi non è contento dell´offerta sul mercato delle idee, comprensibile, perfino condivisibile», riconosce il politologo Piero Ignazi, studioso di postfascismo e quindi esperto di partiti "migratori", «ma non ce la raccontiamo: non c´è altro modo, per chiunque chieda consensi, che collocarsi da qualche parte nel campo politico».
E la polarità destra-sinistra è ancora quella che meglio visualizza la mappa di quel territorio. Norberto Bobbio, che difese la bipartizione in un libro più citato che letto, avrebbe ribadito a questo punto che «chi dice di non essere né da una parte né dall´altra, non vuole semplicemente far sapere da che parte sta», lo ripete per lui uno dei suoi più accreditati eredi, Michelangelo Bovero: «È una collocazione inevitabile, qualunque altra cosa si affermi, perché destra e sinistra non sono concetti identitari, ma relazionali. Ti chiedono di rispondere non alla domanda "chi sei?", ma a "dove sei rispetto agli altri?": se non lo dichiari tu, saranno le tue relazioni a collocarti». Ma è proprio per evitare questo che il movimento di Beppe Grillo si impone di "non stare con nessuno"... «Allora saranno i tuoi "no", la tua retorica, il tuo linguaggio a definire il tuo luogo politico».
Eppure la tentazione agnostica ha una lunga storia nella nostra democrazia caotica. A parte la parabola postbellica dell´Uomo qualunque, che oggi non si fa fatica a riconoscere come un movimento reazionario, la vicenda italiana ha conosciuto diverse anguille politiche. Quando nel ´76 la prima pattuglia di Radicali entrò in Parlamento, fu quasi zuffa per la scelta dei seggi: si piazzarono a un´estremità (quella sinistra, però...) per evidenziare la loro estraneità all´"arco costituzionale" e alla "partitocrazia" più che per autodefinizione logistica. La Lega Nord, com´è noto, ha rimpiazzato il destra-sinistra con altre polarità, geografiche o etniche, pseudonaturali, mitiche o folcloristiche. Ma anche Antonio Di Pietro, in più di una intervista, ha ceduto alla dolce tentazione del né-né. E tuttavia sono stati poi tutti quanti incastonati senza pietà a destra o a sinistra dalle rispettive alleanze politiche. Anche il pragmatismo localista delle liste civiche comunali, che visse un momento di fortuna alla fine degli anni Novanta, non riuscì a far credere a lungo al suo slogan: "i problemi non sono né di destra né di sinistra", proprio perché, alla fine, governò le città alleandosi con la destra o, più raramente, con la sinistra.
Un luogo politico inesistente, il né-né? Per Gustavo Zagrebelski «esiste solo nel prepolitico, dove si incontrano i vasti princìpi condivisibili da tutti: ma appena si affronta il piano delle decisioni, la scelta è inevitabile». «Forse solo l´ecologismo radicale, che ha come orizzonte la specie, sfugge all´inevitabilità di scegliere fra l´interesse superiore dell´individuo o quello della comunità, fra destra e sinistra» aggiunge Carlo Galli, autore di Perché ancora destra e sinistra, «al di là dei contenuti che queste definizioni esprimono, e che variano nel tempo e nei contesti: non sono la stessa cosa nell´Italia odierna e negli Usa, o nell´Italia degli anni Cinquanta. Si può anche essere più cose contemporaneamente, come i grillini che sono di sinistra per l´attenzione ai diritti, e di destra per gli atteggiamenti populisti. Ma pretendere di stare da un´altra parte è insipienza politica, o più verosimilmente tattica».
Non c´è "terzismo" che tenga, sostengono dunque concordi i politologi: anche Sofia Ventura, considerata vicina al Terzo Polo politico, non deflette: «Se non ci fossero disposizioni nello spazio politico, non ci sarebbe neppure la politica. Le posizioni possono non essere stabili, di fatto non lo sono mai nel lungo periodo, ma chi si muove è tenuto a dire dove va». Negli anni del terrorismo, in effetti, chi diceva "né con lo Stato né con le Br" rivendicava una collocazione politica chiara, di sinistra critica ma non omicida. Mentre col suo preteso rifiuto bilaterale anticapitalista e anticollettivista Terza Posizione era fin troppo chiaramente un movimento di estrema destra.
Ma il marketing politico non ascolta certo le lezioni teoriche dei professori. Da Celentano a don Verzè, da Gaber a Grillo, proclamare la fuga sprezzante o snob o furbesca dalla geografia dell´agorà è una strategia d´immagine che paga sempre. Un grave difetto di lateralizzazione in un bambino di prima elementare impone una visita dal medico; in un adulto, può fondare una carriera.

Repubblica 28.1.121
La rivista "Foreign Affairs" cita il filosofo, e Gentile, tra i pensatori più influenti
E l´America riscopre le idee di Croce
Il magazine ha stilato una lista dei saggi dell´ultimo secolo per spiegare "come siamo arrivati fin qui"
di Angelo Aquaro


New York. «Dicono che stiamo vivendo nella crisi delle ideologie» attacca l´ultimo numero di Foreign Affairs «ma dal punto di vista della prospettiva storica è invece il contrario: i problemi di oggi sono reali quanto basta ma hanno a che fare con le politiche piuttosto che con i principi». E come si fa a far riquadrare le politiche tenendo saldi i principi? La rivista più prestigiosa di politica internazionale un´idea ce l´ha. E comprende, pensa te, anche l´Italia. Proprio così. Tra Fukuyama e Brezinski chi ti compare in copertina? Benedetto Croce. E non è la sola sorpresa tricolore. L´unico altro italiano presente è nientedimeno che il suo sodale poi smarcatosi a destra, Giovanni Gentile – sì, il filosofo idealista che convertito al fascismo fu giustiziato (allora si diceva così) dai partigiani.
La scelta della rivista che negli ultimi anni si è già distinta per avere recuperato la lezione di Antonio Gramsci è presto detta: i due filosofi fanno parte della lista dei pensatori che per il novantesimo anniversario Foreign Affairs ha raccolto per spiegare ai suoi lettori "Come siamo arrivati fin qui". E "How we got here" si chiama la parte speciale di questo numero che ripropone venti interventi che hanno fatto la storia della rivista. La crisi che viviamo non è questione di ideologie perché – scrive il direttore Gideon Rose riassumendo un illuminante saggio di Harold Lanski datato addirittura 1922 – la sintesi tra capitalismo e democrazia è quanto di meglio l´uomo sia riuscito a concepire. È la politica che oggi latita. Certo, è vero che la prospettiva di alcuni autori qui raccolti «è particolarmente cupa – e basta dare solo un´occhiata ai giornali per capire perché. Ma ricordando i grandi ostacoli che sono stati superati nel passato, l´ottimismo sembra la migliore scommessa da fare a lungo termine».
Parole sacrosante. Ma guardando appunto alla realtà che i giornali sono costretti a riportare ce ne vuole tanto di ottimismo. E soprattutto bisogna voler scommettere davvero a lungo termine. Del resto un brivido scorre anche a rileggere le tesi di chi aveva puntato tutto sul breve, anzi brevissimo. Sentite Giovanni Gentile e la sua appassionata esposizione non solo del fascismo ma del suo amato Duce: Mussolini, scrive il filosofo nel 1928 sulla rivista americana, «si vanta di essere un "tempista" (in italiano nel testo), dice che il suo vero orgoglio è l´ottima scelta di tempo. Prende decisioni e agisce su quelle nel preciso momento in cui tutte le condizioni e le considerazioni che le rendono fattibili e opportune sono opportunamente maturate». Come la discesa in guerra accanto alla Germania nazista – ultima di altre "ottime scelte di tempo" e scellerate – poi dimostrò.
Ma lasciamo anche perdere le profezie sbagliate di Gentile. Basta leggere quello che scriveva quattro anni dopo – sempre su Foreign Affairs – Benedetto Croce per riconoscere che scommettere sull´ottimismo è possibile solo sul lungo periodo. In pieno fascismo don Benedetto si scagliava contro «quelli che dibattono sul futuro dell´ideale di libertà». Nel microsaggio sta parlando dei comunisti: ma si capisce che il riferimento è anche ai neri di casa. «E a loro» continua «rispondiamo che la libertà ha più di un futuro: ha l´eternità». E già. Ma solo un visionario come lui poteva sintonizzarsi sull´eternità per giurare che «in tutte le parti d´Europa stiamo assistendo alla nascita di nuove coscienze, a una nuova nazionalità. Francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri risorgeranno per diventare europei – penseranno come europei, i loro cuori batteranno per l´Europa come oggi battono per i loro piccoli paesi, senza dimenticarli ma amandoli ancora di più». Peccato, anche qui, che la profezia si realizzerà, sì, ma solo dopo un´altra, sanguinosissima guerra. Per poi rischiare di sbriciolarsi, più di mezzo secolo dopo, sotto il peso insostenibile dell´euro e dei suoi debiti. Che fare?
Dice Foreign Affairs che non viviamo la crisi delle ideologie ma delle politiche. E allora bentornata in copertina, Italia. Ottant´anni dopo, queste due lezioni americane – diametralmente opposte – sono ancora la strada migliore per ritrovare quelle giuste. Sempre che il lungo periodo non si riveli poi troppo lungo.

La Stampa TuttoLibri 28.1.12
“Sarkò, il Medioevo non è affatto buio”
Le Goff: “Scoprii la Storia nel frigorifero”
di Alberto Mattioli


L’intervista. Dalle imprese di Dracula alla leggenda aurea di Jacopo da Varazze, le nuove curiosità del grande studioso


Un’intervista con Jacques Le Goff dà un nuovo significato all’espressione «parlare come un libro stampato». Sulla scrivania sommersa da un quadruplo strato di libri e di carte, il computer non c’è. La macchina per scrivere, nemmeno. «Mai usati. Ho sempre scritto a mano. Adesso, però, non ci riesco più». E allora come fa? «Detto. Viene qualche studente, oppure l’editore mi manda qualcuno». Forse è il segreto del suo francese netto, scandito, cartesiano, con le frasi che si susseguono senza mai un’incertezza o una ripetizione.
Il medievista ottimo massimo ha 88 anni, è vedovo, solo, non esce più di casa e dentro si muove appoggiato a un girello. Le gambe lo tradiscono. Il cervello, no. Dal ‘56, da Mercanti e banchieri nel Medioevo, passando per saggi diventati classici come La nascita del Purgatorio o la monumentale biografia di San Luigi, Le Goff continua a raccontare il Medioevo in modo tale che sembra di viverci. E, in ogni caso, verrebbe voglia di farlo. L’ultimo libro è appena stato pubblicato da Perrin: A la recherche du temps sacré, «Alla ricerca del tempo sacro», sottotitolo Jacques de Voragine et la Légende dorée, «Jacopo da Varazze e la Leggenda aurea», cioè la più celebre raccolta di vite di santi dell’epoca e non solo di quella: «La Leggenda aurea è uno dei libri più importanti del Medioevo. Me ne sono interessato da molto tempo e non ho mai smesso di pensarci. Ma disponevo solo di traduzioni francesi del Diciannovesimo secolo o dell’inizio del Ventesimo. Nel 2004 è stato finalmente pubblicato il testo originario in latino. Jacopo da Varazze era un domenicano, prima a capo della provincia della Lombardia e poi vescovo e cronachista di Genova».
Il suo libro fu il bestseller del Medioevo: «Soltanto per la Bibbia esiste un numero maggiore di manoscritti. E, cosa interessante e rara per l’epoca, la Leggenda ebbe molte traduzioni nelle lingue volgari. Jacopo era al centro di tutto quel che c’era di più interessante nel suo tempo. Intanto stava a Genova, che nella seconda metà del XIII secolo era il centro economico più importante d’Europa. Poi era un domenicano, quindi un esponente del movimento religioso, ma anche intellettuale, più nuovo e dinamico. Inoltre, ha beneficiato di alcune novità importanti della cultura medievale: per esempio, la lettura silenziosa. Fino al XIII secolo, la lettura si faceva a voce alta, e non solo nei conventi. La lettura silenziosa si diffonde insieme alla cultura laica e chiaramente significa anche una lettura più facile e più frequente. Infine, Jacopo aveva certamente anche un talento letterario: le sue vite sono piene di racconti e di aneddoti». Ma se fosse finalmente inventata la macchina del tempo e gli potesse parlare, cosa gli chiederebbe? «Credo che per prima cosa gli esprimerei, molto umilmente, la mia ammirazione».
L’appartamento, nel Diciannovesimo arrondissement di Parigi, è moderno e abbastanza anonimo. La stanza dove Le Goff passa le sue giornate insieme alle sue pipe e ai libri, i suoi e quelli degli altri, è piccola, silenziosa, un po’ buia: un invito alla concentrazione. Su uno scaffale, uno stemma di Solidarnosc: Bronislaw Geremek era un suo grande amico.
Professor Le Goff, perché ha scelto la storia?
«Mi ha sedotto da sempre. Però l’importante è capire quale storia. A me piace la storia che ti vedi passare davanti agli occhi. Negli Anni Trenta vivevo a Tolone con i miei genitori. Mi accorsi che per le strade si vedevano sempre più automobili e nelle case sempre più telefoni e frigoriferi. Noi eravamo una famiglia della piccola borghesia, mio padre era professore d’inglese, e non avevamo né automobile né telefono né frigorifero. C’era la ghiacciaia, e sento ancora il venditore ambulante di ghiaccio urlare per strada: " La glace! La glace! ". E allora mi facevano scendere per comprarlo. Ma questo non è importante. L’importante, per me, è stato capire molto presto che l’avvento del "«Ho sempre scritto a mano, adesso non ci riesco più e detto i saggi ai miei allievi» «Nel Medioevo si facevano un sacco di risate: sarà il mio prossimo campo di ricerca»"
Un’educazione europea, i ricordi di giovinezza e una frecciata ai “barbari” della modernità
frigorifero e la scomparsa della ghiacciaia era un avvenimento storico, perché cambiava la vita quotidiana, la vita delle persone, molto più delle guerre e dei Re. Per me, la storia è sempre stata storia sociale».
D’accordo: ma perché il Medioevo?
«Oh, anche questo l’ho deciso molto presto, avrò avuto dodici anni, e per due ragioni molto precise. La prima, perché in quel periodo lessi Ivanhoe di Walter Scott, che mi entusiasmò. E poi perché a scuola c’era un professore bravissimo, il migliore che abbia mai avuto, e quell’anno il programma di Storia era incentrato appunto sul Medioevo».
Insomma, la vocazione di uno dei maggiori storici del Novecento la dobbiamo a un frigorifero e a Ivanhoe. L’ha più riletto?
«Certo! Walter Scott l’ho letto tutto e Ivanhoe, l’ultima volta, qualche anno fa. E’ un bellissimo libro, che parla di storia sociale, del rapporto fra cristiani ed ebrei e in più è scritto benissimo, perché Scott aveva un grandissimo talento. Anche se l’ho capito davvero solo quando l’ho letto in inglese».
Poi, certo, di libri ne sono seguiti molti.
«Testi che mi hanno formato? Certamente I re taumaturghi di Marc Bloch, per il quale ho anche scritto una prefazione cui tengo molto, nell’edizione ripubblicata da Gallimard. Ed ero molto vicino ai grandi medievisti italiani, per esempio Arsenio Frugoni, autore della bellissima biografia di Arnaldo da Brescia».
Di andare in pensione, ovviamente, non si parla.
«Per la verità, ho pensato, come autore, di ritirarmi. Però continuano a chiedermi libri, sarebbe un peccato non scriverli... ».
Scriverli, al plurale?
«In cantiere ne ho due. Il primo è in realtà una raccolta di articoli, soprattutto di prefazioni. E’ un genere che ho sempre coltivato perché trovo che sia importante per gli storici giovani. Una prefazione generica, modello " comprate questo libro, è buono" non serve a niente. Credo che una prefazione analitica e magari anche critica, invece, aiuti il libro e anche chi l’ha scritto».
E l’altro?
«L’altro è in realtà un’opera collettiva che sto dirigendo, un centinaio di brevi biografie di personaggi importanti del Medioevo. Compresa una quindicina di personaggi immaginari, perché per la storia l’immaginazione è importantissima. Dunque, o figure leggendarie, come Merlino o la fata Melusina, oppure figure realmente esistite ma poi mitizzate e diventate altro. Come Artù o Dracula».
Le Goff si interessa al conte Dracula?
«Sì, proprio quel Dracula. In realtà era un principe della Valacchia, nell’attuale Romania, si chiamava Vlad III e nel suo XIV secolo era famoso come l’Impalatore, perché aveva una predilezione per questo supplizio. Poi con il tempo il personaggio leggendario ha preso il sopravvento su quello storico, ha cambiato, diciamo così?, metodo criminale ed è diventato un vampiro. Fino a diventare una star del cinema, a partire da quello muto. Generando tutto un filone letterario e anche cinematografico che comprende personaggi come Frankenstein».
A questo punto è inutile chiederle se abbia rimpianti...
«No. Anzi sì: forse non sono contento proprio di tutto quello che ho scritto. Però se ci sono dei soggetti che non ho trattato è perché ho avuto delle buone ragioni. Per esempio, il riso nel Medioevo. Ho scritto degli articoli, ma il tema era decisamente troppo ampio. Ma sono rimasto colpito dalla quantità di risate che si incontra nella Leggenda aurea. E un mio allievo che è diventato il massimo esperto della Scolastica mi segnala che sul riso esistono dei testi quasi sconosciuti di Tommaso d’Aquino e di Alberto Magno. Quindi magari il terzo libro sarà quel saggio sul riso nel Medioevo che finora non ho mai potuto scrivere... ».
Lei è sempre stato un intellettuale europeo.
«In Europa ho anche studiato, grazie a delle borse di studio. Prima a Praga, una città meravigliosa ma triste. Poi a Oxford: la Biblioteca Bodleiana è straordinaria, però il modo di comportarsi degli inglesi non mi è mai piaciuto. Dell’Inghilterra amo solo Londra. E poi naturalmente ho lavorato anche in Italia. Ci passai un anno prima di sposarmi e fu forse uno dei più belli della mia vita. La Scuola francese mi metteva a disposizione una camera su piazza Navona: che splendore. E che rumore: la sera la gente conversava in strada fino a tardi, poi all’alba arrivavano i netturbini, quindi le notti erano brevissime. Ma che incanto, quella piazza... ».
Ultima domanda: di recente Nicolas Sarkozy ha usato ancora una volta l’aggettivo «medievale» nel senso di retrivo e oscurantista. Professor Le Goff, ha forse insegnato invano?
«Per me monsieur Sarkozy è di un’intollerabile volgarità sia come uomo che come politico. Basti pensare alla sua politica disgustosa verso i giovani che vengono a studiare in Francia. Non mi stupisco che usi gli aggettivi in maniera sbagliata: a parte tutto, non ha nemmeno una buona conoscenza della lingua francese».

il Fatto 28.1.12
12 mila per il saluto ad Angelopoulos


Una folla di oltre 12 mila persone è affluita ieri pomeriggio nel cimitero di Atene, dove si sono svolti i funerali di Theodoros Angelopoulos. Alla cerimonia funebre celebrata con rito ortodosso sono seguiti gli interventi di amici e collaboratori, tra cui quello di Toni Servillo che ha elencato i nomi degli attori che erano stati diretti dal maestro greco. Presente anche lo scrittore Petros Markaris, arrivato da Monaco di Baviera, mentre quasi assente la rappresentanza del cinema internazionale. Il grande regista greco è morto la sera di martedì scorso, in seguito alle gravi ferite riportate dopo essere stato investito da una moto mentre attraversava la strada nel quartiere del Pireo mentre girava L'altro Mare, un film sulla crisi dell'economia greca che ha per protagonista proprio Servillo.