l’Unità 27.1.12
Camusso: sul lavoro il governo ancora non ci ha detto nulla
Il segretario della Cgil, nella manifestazione che si è tenuta al Forum di Assago, ha ribadito il suo no alla riforma delle pensioni voluta dal governo Monti e la volontà di difendere i diritti dei lavoratori
di Giuseppe Caruso
«La manovra sulle pensioni è iniqua e va cambiata». Non ha usato giri di parole Susanna Camusso, ieri, per esprimere ancora una volta la sua posizione sulla più importante delle riforme volute dal governo Monti. L’occasione è stata offerta dalla manifestazione interregionale «Non pieghiamo i diritti, lavoriamo per crescere» organizzata dalle sette sigle regionali del Nord della Cgil al Forum di Assaso, alle porte di Milano. La Camusso ha parlato di diversi argomenti, spaziando dalle pensioni alla Fiat, da camionisti in sciopero al futuro del Paese.
«COSÌ NON VA»
Per quanto riguarda le pensioni, il segretario ha ribadito che «l’attuale riforma così non la si regge, perché non la regge il mercato del lavoro e non la reggono i lavoratori. Noi siamo disposti a ragionare su come si possa garantire una pensione ai giovani, ma non su come si possa fare cassa su quanto già versato dai lavoratori e sulle loro aspettative». «Se fossimo stati di fronte all'idea che si cambiava qualcosa per garantire ai giovani la pensione ha aggiunto tutti noi avremmo detto sì e saremmo stati disposti a fare un sacrificio. Ciò che invece rende iniqua e insopportabile la manovra è che si tolgono i diritti a chi li ha oggi senza dare prospettive ai giovani. Il vero obiettivo sottostante è l'idea che ognuno debba fare la propria polizza privata e non c'è più il senso e il senno di un sistema che è solidale al suo interno».
Per quanto riguarda la riforma del lavoro, il segretario in mattinata, via facebook e twitter, aveva ricordato come «la priorità del sindacato sia quella di ricomporre il mercato del lavoro, superare la precarietà e offrire una prospettiva a tuti quelli che sono fuori dal mercato del lavoro. Se vogliono ridurre i diritti dei lavoratori, sarà un nuovo conflitto». Dal palco della manifestazione invece la Camusso ha invitato il governo a varare «la fase due, che deve essere qui ed ora e non quando verrà. Devono domandarsi come si rimettono in moto gli investimenti perché altrimenti non si crea lavoro».
Il segretario poi ha parlato della situazione della Fiat: «Ci dicano una volta per tutte che cosa vogliono fare in questo Paese, perché degli spot non ce ne facciamo nulla: vogliamo sapere qual è il suo piano industriale e perché mai vuole produrre in questo Paese vetture che non si producono più nemmeno negli Stati Uniti».
CAMION E SCIOPERI
Quindi un accenno agli scioperi di questi giorni contro le liberalizzazioni, in modo particolare a quello dei camionisti. Secondo il segretario la protesta degli autotrasportatori «sta facendo aumentare l'inflazione, quindi chiediamo all'esecutivo ascoltare le ragioni, ma anche di non cedere a frammentazioni e corporazioni. Il governo deve fermare lo sciopero dei Tir». Il pensiero va a chi utilizza ogni giorno l'automobile per recarsi al lavoro: «Non ci può essere la logica per cui i sacrifici sono sempre per qualcuno, mentre per altri si riconosce la logica della corporazione e dei diritti acquisiti, siamo l'unico Paese in Europa dove andare alla pompa di benzina significa fare un mutuo».
IL SINDACATO LOMBARDO
Il segretario della Cgil Lombardia, Nino Baseotto, che ha avuto il compito di aprire l’incontro, ha voluto ricordare come quella di ieri non fosse «un manifestazione per così dire leghista e se qualcuno ha sperato che fosse una sorta di allontanamento delle organizzazioni regionali della Cgil del nord del Paese, rimarrà deluso. Guardiamo all’Europa e non sappiamo cosa sia la Padania». Quindi il segretario lombardo si è augurato l’adozione «di politiche di crescita, tutte incentrate sul lavoro e da questo punto di vista crediamo di poter contribuire in modo costruttivo grazie alle nostre idee».
Corriere della Sera 27.1.12
Potere d'Acquisto ai Minimi dal '95 Mai così distanti Prezzi e Salari
Guadagnano di più i militari, statali in coda. Nell'industria stanno meglio i chimici
di Stefania Tamburello
Lo scorso anno, nel 2011, le retribuzioni contrattuali sono cresciute poco, meno dell'inflazione e il potere d'acquisto dei lavoratori dipendenti si è ridotto. Il succo delle rilevazioni, diffuse ieri dall'Istat, è questo, ed è un ulteriore segnale che la crisi morde. Mercoledì era stata la Banca d'Italia con la sua indagine sui bilanci delle famiglie italiane a segnalarlo, ieri è intervenuto l'Istituto di statistica, presieduto da Enrico Giovannini a ripeterlo accendendo il faro su un aspetto più specifico che riguarda comunque la larga schiera dei lavoratori dipendenti ai quali si applicano i contratti collettivi.
Ebbene, dice l'Istat, nel 2011 l'aumento delle retribuzioni è stato pari nella media all'1,8%, l'incremento più basso dal 1999. E soprattutto non in grado di coprire il rialzo dei prezzi registrato nel corso dell'anno, pari nella media al 2,8%. Ed è un elemento importante perché vuole dire che si è corroso il potere d'acquisto dei lavoratori. Lo si vede meglio se invece di prendere in considerazione il dato medio si guarda al dato tendenziale. Cioè al raffronto tra la situazione a dicembre 2012 rispetto a quella dello stesso mese di un anno prima, senza considerare le variazioni intermedie. In questo caso si ha un aumento di salari e stipendi dell'1,4%, il più basso dal 1995, che si raffronta a un balzo dell'inflazione del 3,3%: i prezzi sono saliti a un ritmo decisamente più veloce di quanto non siano cresciute le retribuzioni.
Visto che l'Istat fornisce i dati definitivi dell'anno è meglio comunque tornare alle cifre medie più efficaci per analizzare il fenomeno. Tanto le cose non cambiano. Anche perché potremmo prendere per valutare quanto si sia ridotto il potere d'acquisto degli italiani che lavorano alle dipendenze non l'indice dei prezzi generale ma quello dei beni a più alta frequenza di acquisto, quelli del cosiddetto carrello della spesa, che nel 2011 sono aumentati in termini tendenziali del 4,3% e nella media del 3,5%. La differenza in questo caso è più evidente.
Cosa è successo? I sindacati sono stati troppo timidi nel negoziare i contratti? Gli accordi devono essere rinnovati? O l'inflazione è salita oltre le previsioni?
I contratti
Prendiamo in considerazione i diversi comparti, agricoltura, industria, servizi privati e pubblica amministrazione: le retribuzioni orarie contrattuali sono rispettivamente cresciute nella media del 2,2%; del 2,5% (con una punta del 3% per le categorie della gomma e plastica e del 2,9% per l'edilizia); dell'1, 5% e dello 0,7% (con le punte del 3,3% per i militari del 3,1% delle forze dell'ordine e del 2,7% dei vigili del fuoco). Tutti incrementi, comunque, che nel complesso dei diversi settori non hanno coperto l'inflazione, con qualche differenza sotto l'aspetto contrattuale: nell'agricoltura e nell'industria la gran parte degli accordi (per quel che riguarda il numero dei lavoratori) è stata siglata, nei servizi privati è mancato il rinnovo dei bancari, il cui contratto è stato siglato solo qualche giorno fa. Mentre nella pubblica amministrazione, come si sa, è tutto bloccato per tre anni dal 2010 al 2012. In totale i contratti in attesa di rinnovo sono 29, di cui 16 appartenenti alla pubblica amministrazione relativi a circa 4,1 milioni di dipendenti (circa tre milioni nel pubblico impiego). In dicembre, quando l'Istat ha fatto l'indagine, risultavano in vigore 48 accordi a cui si aggiunge quello dei bancari siglato la scorsa settimana, che regolavano il trattamento economico di 9 milioni di dipendenti, cioè il 63,1% del monte retributivo complessivo. A questo proposito l'Istituto di statistica informa che i mesi di attesa per il rinnovo dopo la scadenza per il settore privato sono 27,6.
Non è quindi la mancanza di un contratto in vigore a spiegare la perdita di potere d'acquisto delle retribuzioni. Ma evidentemente lo sono gli accordi siglati. E lo è il tasso di inflazione aumentato in misura maggiore del previsto.
L'inflazione
I prezzi hanno preso la rincorsa in particolare negli ultimi mesi del 2011 riflettendo soprattutto gli aumenti delle imposte indirette, Iva e accise sui carburanti. Mentre si sono andate attenuando le pressioni provenienti dai prezzi alla produzione. Il risultato è come si è detto un incremento medio del 2,8 %, in sensibile accelerazione rispetto all'1,5% del 2010. A incidere soprattutto i rincari dei carburanti e dei prodotti energetici: al netto di questi beni, il tasso tendenziale di inflazione pari in dicembre come si è detto 3,3%, scenderebbe al 2,3%.
Una differenza non lieve che potrebbe aver fatto la sua parte nella dinamica delle retribuzioni. I contratti collettivi di lavoro, sulla base dell'accordo tra le parti sociali siglato nel gennaio del 2009, prendono in considerazione nel definire gli aumenti salariali l'Ipca, che è l'indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo (pari nella media del 2011 al 2,9% mentre a livello tendenziale in dicembre è risultato del 3,7%) depurato però degli effetti della spesa energetica importata.
Le previsioni
Un distacco così ampio tra retribuzioni e inflazione non si vedeva da metà degli anni Novanta, dice l'Istat. Anche se in misura più ridotta l'erosione del potere d'acquisto di salari e stipendi non è una novità per gli anni Duemila. E potrebbe non esserlo anche nell'immediato futuro visto che l'Italia è in recessione. E visto che in attesa delle statistiche, gli economisti della Banca d'Italia, nel loro Bollettino economico, qualche giorno fa hanno comunicato che secondo proprie stime «la dinamica delle retribuzioni rimarrebbe negativa in termini reali nel biennio 2012-2013».
Corriere della Sera 27.1.12
La sinistra riparte da Vasto Bersani apre, malumori nel Pd
Idv e Sel rilanciano l'asse. Patto tra il capo democratico e Vendola
di Maria Teresa Meli
ROMA — Bersani e Vendola, superato l'iniziale gelo seguito alla nascita del governo Monti, tornano a parlarsi. Il segretario del Pd e il leader di Sel si sono incontrati la settimana scorsa. E hanno aperto un tavolo di trattativa nel quale finirà per essere coinvolto anche Di Pietro.
Il colloquio è stato chiesto dal governatore della Puglia, che vuole riallacciare i fili dell'alleanza con il Partito democratico. Bersani non si è opposto all'idea. Anzi. I due hanno sottoscritto una sorta di patto di mutuo soccorso per salvare le leadership di entrambi, che potrebbero risultare molto compromesse dopo l'esperienza del governo Monti. E c'è chi dice che Vendola abbia addirittura rinunciato alle primarie, pur di venire incontro al segretario del Pd. Del resto, anche nel centrosinistra si fanno discorsi simili a quelli che Berlusconi ha fatto qualche giorno fa: «Bisogna valutare se andare alle elezioni anticipate, non per vincerle, ma per evitare che dopo un altro anno e mezzo di Monti tutti i leader attuali, me incluso, vengano spazzati via». Il Pd, naturalmente, non intende interrompere anzitempo la legislatura, ma il pericolo di un rivolgimento che porti nuovi personaggi alla ribalta è ben presente anche a Largo del Nazareno.
Certo, è ancora presto per dire come andrà a finire nel mondo variegato e inquieto della sinistra, però i tentativi di riavviare un dialogo ci sono. Ieri Bersani, in un'intervista all'Unità, ha dichiarato che si possono «riaprire dei tavoli programmatici con Sel», mentre a Di Pietro ha chiesto, come condizione per far ripartire un confronto, di smetterla di parlare di «inciucio» Pd-Pdl. E il giorno dopo, in una conferenza stampa congiunta, il governatore della Puglia e il leader dell'Idv hanno mostrato di apprezzare le aperture del segretario del Partito democratico. «Non pronuncerò più la parola inciucio», ha assicurato Di Pietro, mentre Vendola ha dichiarato: «Primarie? Ho fatto il voto di non parlarne ogni giorno». Quindi l'appello comune: «Riapriamo il cantiere del centrosinistra, senza veti per nessuno, nemmeno per l'Udc, ci stia anche il Pd, altrimenti...». Altrimenti Vendola e Di Pietro faranno da soli. Se il Partito democratico rifiutasse la proposta di alleanza, o, peggio, se facesse approvare una legge elettorale per emarginare Sel e Idv, allora si formerebbe un polo di sinistra, aperto anche ai sindaci di area, come Michele Emiliano e Luigi de Magistris. Valore potenziale? Intorno al 13 per cento, stando ai sondaggi. Ma Bersani, ieri, è stato più che conciliante: «La mia prospettiva resta quella di un centrosinistra di governo che sottopone le sue proposte ai moderati e alle forze civiche». Come a dire che il nucleo originario dell'alleanza resta quello raffigurato nella foto di Vasto. Ed è questo che ha fatto scattare un campanello d'allarme in una parte del Pd. Beppe Fioroni, intervenendo al seminario «Moro, 50 anni fa il primo governo di centrosinistra», a cui ha partecipato anche il ministro Riccardi, è stato nettissimo: «Non possiamo pensare di sostenere oggi questo governo e, nel frattempo, di preparare per il domani un'alleanza elettorale con coloro che si sono schierati senza se e senza ma contro Monti». Dello stesso avviso Marco Follini: «L'immagine di Vasto è ingiallita, Bersani giri la macchina fotografica dall'altra parte».
il Riformista 27.1.12
Mario Monti tra Asor Rosa e Rossana Rossanda
di Emanuele Macaluso
Ieri in prima pagina di Libero, un grande titolo: «Monti si fuma il Pdl». Molti gli osservatori a mettere in evidenza il fatto che Berlusconi è «indeciso a tutto». Del resto i sondaggi confermano la difficoltà di un partito che dopo la rottura con la Lega non ha più una strategia per ridefinire alleanze e progetto politico. Insomma, il governo Monti e la sua iniziativa per una difesa del Paese, anche sul piano internazionale, ha messo alle corde la destra berlusconiana. Eppure c’è un pezzo della sinistra che considera una sciagura il governo Monti e discute come se l’alternativa possibile a Berlusconi fosse stata una pronta coalizione di sinistra. Su questo tema, sul manifesto, si è svolto un gustoso dialogo fra Alberto Asor Rosa e Rossana Rossanda a cui hanno partecipato Mario Tronti e tanti lettori. Ne parlo anche perché queste posizioni le ritrovo nel dibattito della Sel e anche nel Pd. Riassumere il lunghissimo articolo di Asor è difficile, ma ci aiuta Rossana, quel testo l’ha fatta «sussultare» e ci dice perché: «Asor Rosa vede nel formarsi extra e post parlamentare del governo Monti voluto dal presidente della Repubblica e accettato più o meno obtorto collo dalle intere Camere, esclusa la Lega, un passaggio salvifico che ci ha estratti dalla palude del berlusconismo». Invece non è così!
Rossana critica Asor perché ha scritto che le misure adottate da Monti per fronteggiare la crisi erano necessarie e inevitabili: «Non si poteva fare di più e soprattutto di meglio nello spazio consentito dall’incalzare degli eventi». Rossana spiega che il governo Monti è in linea con la destra europea (tesi anche di Vendola) e che non andava né apprezzato né sostenuto perché, questa è la sostanza del suo ragionamento, non fa quel che farebbe la sinistra. Grande scoperta.
ossana Rossanda, infatti, lamenta che il presidente della Repubblica non abbia chiesto (a chi?) «una destituzione del precedente premier, per recidivo assalto alle istituzioni repubblicane, anziché lasciarlo con la sua maggioranza da dove potrebbe riemergere». Qui siamo al delirio. Sempre sul manifesto c’è un successivo intervento della Rossanda per dire che Asor Rosa si era «doluto» del fatto che il suo articolo era stato letto come «appoggio al governo Monti». Terribile equivoco subito chiarito. In sostanza Asor ora dice: meno male che c’è Monti, ha operato bene per fronteggiare la crisi, ma non mi confondo con chi l’appoggia! E Rossana spiega perché bisogna opporsi: «Non si può ignorare che il rigore prediletto da Monti, a sua volta prediletto del nostro Presidente, ha paralizzato la crescita siamo dovunque in recessione (perfino la Germania rallenta) cresce la disoccupazione e calano le entrate pubbliche». Quindi il rigore di Monti ha «paralizzato la crescita». Prima la crescita c’era. I guai, conclude la Rossanda, ci sono «non perché non seguiamo Bruxelles, ma perché la seguiamo». E dà un consiglio al presidente della Repubblica: «Se invece che a Monti ci si fosse rivolti a qualcuno dei molti che del liberismo non ne possono più, non saremmo a goderci una reazione tanto onesta quanto spietata». Chi è il «qualcuno» che aveva in tasca anche la maggioranza per reggere un governo? Di Pietro?
Sino a quando una certa sinistra non finirà di scambiare i propri desideri con la realtà e la necessità con la possibilità, darà spazio solo alle forze moderate, o alla destra come si verificò con la crisi della coalizione di Romano Prodi.
Il riferimento non è solo a Rossana e ai suoi amici del manifesto.
l’Unità 27.1.12
«Svuota carceri» atto di civiltà
di Alberto Maritati
L’approvazione, in Senato, del decreto-legge sul sovraffollamento delle carceri è un passo importante per la nostra civiltà giuridica. Finalmente si affronta un tema, quale quello del carcere, da sempre dimenticato, ridotto a un problema di mera edilizia penitenziaria o, peggio, strumentalizzato in chiave securitaria, secondo una logica che identifica nel reo un nemico pubblico da escludere, privo di diritti e garanzie, anziché un trasgressore della legge da rieducare ai valori della legalità. Particolarmente significativa in tal senso è l’estensione a diciotto mesi del residuo di pena che consente al detenuto di essere ammesso alla detenzione domiciliare. Questa disposizione non si applica ai detenuti per reati particolarmente gravi o soggetti al regime di sorveglianza particolare ed è comunque disposta caso per caso dal giudice di sorveglianza, che acquisisce una relazione dal carcere sulla condotta penitenziaria del condannato. Il bilanciamento – realizzato da tale norma tra difesa sociale ed esigenze di rieducazione (del condannato) è quindi, in un certo senso, la “cifra” del decreto-legge.
Che è uscito dal Senato ulteriormente migliorato, soprattutto nelle parti volte a evitare il fenomeno delle ‘porte girevoli’, ossia dell’ingresso in carcere di soggetti in attesa della convalida dell’arresto e che spesso vengono subito rilasciati a piede libero e, talora, addirittura senza che l’arresto sia convalidato. L’esigenza di fermare il fenomeno delle ‘porte girevoli’ è del resto necessario non solo in funzione deflattiva della popolazione degli istituti penitenziari, ma anche e soprattutto perché, come dimostrano le statistiche, il maggior numero di suicidi in carcere si verifica proprio nei primi giorni di ingresso, quando i detenuti sono in attesa di giudizio e per giunta presunti innocenti! Va dunque evitato il più possibile che, laddove non vi siano esigenze di difesa sociale, soggetti non pericolosi siano tradotti in carcere nella fase pre-cautelare. In questa
direzione, il testo votato dal Senato prevede un sistema di custodia graduale, ispirato al principio della residualità della detenzione in carcere. In sintesi, quale misura ordinaria da disporsi in caso di arresto per reati di competenza del tribunale monocratico (esclusi furto con strappo, in abitazione e rapina) si prevedono gli arresti domiciliari. Solo in caso di indisponibilità di un domicilio o di luoghi di cura ovvero di pericolosità dell’arrestato, egli sarà condotto in strutture idonee nella disponibilità della polizia giudiziaria o, in caso di necessità, in carcere. Benché limitata nella sua sfera di applicazione rispetto al testo votato in Commissione, questa previsione è un’importante conquista sul terreno delle garanzie. Prevedere in prima istanza, e salvi i soggetti pericolosi, l’arresto domiciliare, serve infatti non solo a deflazionare le carceri, ma anche e soprattutto a non immettere nel circuito penitenziario persone che ne uscirebbero dopo due giorni, ma gravemente segnate da quell’esperienza, che non può non dirsi traumatica. Inoltre, si è esteso alle camere di sicurezza il diritto di visita riconosciuto (per le carceri) a parlamentari (anche europei), garanti dei diritti dei detenuti, etc.,.
Infine, si è previsto il superamento di quell’”estremo errore inconcepibile in qualsiasi paese appena civile” (così il Pres.Napolitano) degli ospedali psichiatrici giudiziari, in favore di strutture a vocazione essenzialmente terapeutica, garantite tuttavia dalla presenza all’esterno della polizia penitenziaria, così da coniugare esigenze di difesa sociale e diritti alla salute e alla dignità per gli internati. Anche questo è un passo importante di civiltà giuridica, atteso da anni e non più rinviabile, segno di una rinnovata attenzione alle garanzie e ai diritti fondamentali, che speriamo possa essere il tratto caratterizzante di questa stagione politica. In primo luogo, ma non solo, sul terreno della giustizia.
il Riformista 27.1.12
«Detenute discriminate»
di S. O.
«Le donne in carcere hanno difficoltà di accesso alle opportunità di studio e lavoro, difficoltà riconducibili alla mancanza di risorse e alle pratiche discriminatorie poste in essere dal personale delle strutture carcerarie»: non sono dettagli privi di rilievo, quelli emersi dalla missione conoscitiva in Italia di Rashida Manjoo, relatrice speciale dell’Onu per la violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze, soprattutto a proposito di politiche detentive, proprio nel momento in cui l’esecutivo sta faticosamente tentando di decongestionare gli istituti di pena. Monjoo ha visitato le prigioni femminili di Napoli e Roma (oltre che istituti di detenzione minorile, ospediali psichiatrici giudiziari e centri d’identificazione ed espulsione degli immigrati), verificando la condizione di cronico sovraffollamento che «in taluni casi supera il 50% in più della capienza reale delle strutture». Ma il problema principale resta l’accesso all’istruzione e al lavoro: «Con il taglio dei fondi, si è estremamente limitato il campo d’azione delle associazioni in grado di assistere le detenute in questo senso, e dello stesso Stato. Le opportunità di formazione è impiego, per le donne detenute, sono ridotte all’osso». E, in un contesto del genere, ad avere la peggio, o a credere di essere discriminate, sono le minoranze: «Molte detenute appartenenti a questi gruppi, pensano che il fatto di non avere lavoro sia direttamente funzionale alla loro etnia».
Come pure le detenute lamentano «disparità di trattamento da parte di alcuni giudici di sorveglianza nel riesame delle sentenze per la scarcerazione anticipata delle detenute che soddisfano i requisiti per misure alternative al carcere». Secondo le informazioni della relatrice Onu, «c’è preoccupazione per la disparità del trattamento riservato alle detenute nelle decisioni dei giudici in materia di pene alternative alla detenzione, e per l’applicazione incoerente della legge sull’affidamento in comunità o sulla destinazione agli arresti domiciliari». Nella percezione delle detenute, continua l’avvocato sudafricano, non c’è certezza della legge: «Alcune delle intervistate hanno già scontato per intero la propria pena, non sono state scarcerate e non sanno spiegarne il motivo. Ma la maggior parte di loro, non si sente tutelata dagli avvocati d’ufficio che gli sono assegnati».
Infine, Monjoo sottolinea «i problemi che affrontano le donne detenute con figli minorenni all’interno e fuori dal carcere», e boccia l’ipotesi che le donne possano tenere con sé (in galera) fino al compimento dei 6 anni (ora ci restano dalla nascita ai 3 anni).
il Fatto 27.1.12
Benedetta Corruzione
Furti, truffe, veleni. Scandalo in Vaticano
Il Vaticano ignorò le truffe e i reati che l’arcivesco Viganò denunciò al cardinale Bertone
In una lettera inedita, monsignor Viganò accusa alti prelati e giornalisti. E minaccia di rivolgersi alla giustizia
di Marco Lillo
Furti nelle ville pontificie coperti dal direttore dei Musei Vaticani, monsignor Paolo Nicolini. E poi fatture contraffatte all’Università Lateranense a conoscenza addirittura dell’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per l’evangelizzazione. E ancora: interessi del monsignore in una società che fa affari con il Vaticano ed è inadempiente per 2,2 milioni di euro. Ammanchi per centinaia di migliaia di euro all’Apsa - rivelati dal suo stesso presidente - e frodi all’Osservatore, rivelate da don Elio Torregiani, ex direttore generale del giornale. C’è tutto questo nella lettera che Il Fatto pubblica oggi. I toni e i contenuti sono sconvolgenti per i credenti che hanno apprezzato gli appelli del Papa. “Maria ci dia il coraggio di dire no alla corruzione, ai guadagni disonesti e all’egoismo” aveva detto nel giorno dell’Immacolata del 2006 Ratzinger.
EPPURE il Papa non ha esitato a sacrificare l’uomo che aveva preso alla lettera quelle parole: Carlo Maria Viganò, l’arcivescovo ingenuo ma onesto, approdato alla guida dell’ente che controlla le gare e gli appalti del Vaticano. La lettera di Viganò è diretta a “Sua Eminenza Reverendissima il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato della Città del Vaticano”, praticamente al primo ministro del Vaticano. Quando scrive a Bertone l’8 maggio del 2011, Viganò è ancora il segretario generale del Governatorato. Ed è proprio dopo questa lettera inedita, e non dopo quella del 27 marzo già mostrata in tv da Gli intoccabili, che Viganò viene fatto fuori. La7 si è occupata mercoledì scorso della lotta di potere che ha portato alla promozione-rimozione di Viganò a Nunzio apostolico negli Usa. L’arcivescovo-rinnovatore aveva trovato nel 2009 una perdita di 8 milioni di euro e aveva lasciato al Governatorato nel 2010 un guadagno di 22 milioni (34 milioni secondo altri calcoli). Nonostante ciò è stato fatto fuori da Bertone grazie all’appoggio del Papa e del Giornale di Berlusconi. A questa faida vaticana è stata dedicata buona parte della trasmissione condotta da Gianluigi Nuzzi che, nonostante lo scoop, si è fermata al 3,4% di ascolto. In due ore sono sfilati anche il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, un uomo del Vaticano in Rai, Marco Simeon e il vice di Viganò al Governatorato, monsignor Corbellini. Sono state poste molte domande sulle lettere scritte prima e dopo ma non su quella dell’8 maggio che è sfuggita agli Intoccabili. Peccato perché proprio in questa lettera si trovano storie inedite che coinvolgono nella parte di testimoni o vittime di accuse anche diffamanti, gli ospiti di Nuzzi.
E PECCATO anche perché nella lettera ci sono molte risposte (di Viganò ovviamente) ai quesiti posti da Nuzzi. Tipo: chi è la fonte del Giornale che ha scatenato la polemica tra Viganò e i suoi detrattori? Oppure: perché Viganò è stato cacciato? Probabilmente dopo la lettera che pubblichiamo sotto era impossibile per il Papa mantenere Viganò al suo posto. Il segretario del Governatorato non scriveva solo di false fatture e ammanchi milionari. Non lanciava solo accuse diffamatorie sulle tendenze sessuali dei suoi nemici ma soprattutto metteva nero su bianco i risultati di una vera e propria inchiesta di controspionaggio dentro le mura leonine. E non solo spiattellava i risultati, (tipo: la fonte del Giornale è monsignore Nicolini che vuole prendere il mio posto. O peggio: Monsignor Nicolini ha contraffatto fatture e defraudato il Vaticano) ma sosteneva che le sue fonti erano personaggi di primissimo livello come don Torregiani, monsignor Fisichella e monsignor Calcagno. Infine minacciava: “I comportamenti di Nicolini oltre a rappresentare una grave violazione della giustizia e della carità sono perseguibili come reati, sia nell’ordinamento canonico che civile, qualora nei suoi confronti non si dovesse procedere per via amministrativa, riterrò mio dovere procedere per via giudiziale”. Una minaccia ancora valida nonostante l’oceano separi l’arcivescovo dalla Procura. Anche perché il telefonino di Viganò continua a squillare a vuoto. La Procura di Roma riaprirà le indagini sull’aggressione fascista avvenuta in un comprensorio sulla Camilluccia e coperta per due anni e mezzo da una coltre di omertà e paura. Altro che vicenda irrilevante. Altro che “inaccettabile strumentalizzazione di un familiare minorenne per attaccare Gianni Alemanno”, come ha dichiarato ieri Mara Carfagna. Altro che “barbarie” (riferita all’articolo del Fatto non al pestaggio dei fascisti, ovviamente) come ha dichiarato Fabrizio Cicchitto. L’inchiesta della Polizia presentava delle lacune e il pm titolare, Barbara Zuin, dopo aver letto sul Fatto alcuni particolari che non erano stati evidenziati nelle informative, ha deciso di riaprire l’indagine, per la quale aveva chiesto l’archiviazione, non ancora disposta però dal Gip. Magari si chiuderà comunque con un nulla di fatto ma - per rispetto alle vittime e alla dignità dello Stato - l’istruttoria sarà riaperta e le persone presenti sulla scena (forse anche il figlio del sindaco) saranno ascoltate direttamente dal pm. Anche perché nella strana storia di questo fascicolo ogni giorno Il Fatto scopre circostanze nuove e interessanti. TRA I TESTIMONI convocati dalla Polizia come persone informate sui fatti c’è anche un signore che si chiama Luigi Bisignani. Proprio lui, l’ex giornalista già iscritto alla P2, finito agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4 e per la quale ha patteggiato due mesi fa una condanna a un anno e sette mesi. Cosa c’entra l’uomo che sussurrava ai potenti, da Giulio Andreotti a Gianni Letta, passando per le ministre del governo Berlusconi in questa storia di pestaggi e giovani fascisti? Ovviamente personalmente Bisignani non c’entra nulla mentre è molto importante in questa storia seguire le mosse di un telefonino a lui intestato. Come è stato raccontato dal Fatto ieri, il 2 giugno del 2009 una comitiva di 13enni e 14enni si era “imbucata” in un comprensorio chiuso della Camilluccia per fare il bagno in piscina. I ragazzi, tra i quali c’era anche il figlio di Gianni Alemanno e Isabella Rauti, avevano cominciato a fare saluti fascisti urtando la sensibilità di un altro gruppo, invitato dal figlio di un primario, Carlo Vitelli, e di una giornalista, Ma-rida Lombardo Pijola, che risiedono nel comprensorio. Un amico del figlio della coppia aveva chiesto in malo modo ai ragazzini di destra “imbucati” di smetterla. Per tutta risposta un amico del figlio del sindaco, di nome Tommaso (la cui posizione è stata poi trasmessa alla Procura dei minori da parte del pm Barbara Zuin) aveva ribattuto a muso duro di appartenere al Blocco Studentesco, l’organizzazione che fa proseliti nei licei inneggiando al fascismo. Subito dopo, secondo alcuni testimoni - Tommaso (che sentito dalla Polizia su delega del pm Zuin si è avvalso della facoltà di non rispondere) aveva chiamato alcuni numeri con il suo telefonino. La Polizia aveva esaminato i tabulati e aveva scoperto che le chiamate più interessanti erano poche: quella brevissima (probabilmente un contatto a vuoto) con il leader del Blocco Studentesco a Roma, Guelfo Bartalucci, allora ventenne. Bartalucci, convocato in commissariato aveva ammesso solo di conoscere Tommaso ma aveva negato la sua partecipazione all’aggressione e aveva detto di non ricordare dove si trovasse quel giorno. Subito dopo la chiamata a Bartalucci però dal telefono del piccolo Tommaso partivano altre chiamate, più lunghe, a un’utenza intestata a Luigi Bisignani. Il potente lobbista non era ancora su tutti i giornali per i suoi rapporti con l’allora sottosegretario alla presidenza Gianni Letta o con il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro e i poliziotti non hanno contezza dello spessore del personaggio. Bisignani spiega che forse il telefonino era in uso al figlio Giovanni Bisignani, che oggi ha 21 anni ed è una figura importante nell’area che fa riferimento a Casa-Pound e al Blocco Studentesco e all’epoca del pestaggio era un simpatizzante di destra al quale mancavano solo due settimane al compimento dei 18 anni. Le indagini non incedono con un ritmo forsennato. Solo un anno dopo, nel settembre del 2010 e poi ancora a distanza di quasi un anno nel maggio 2011 per la seconda volta, il denunciante, il primario Carlo Vitelli, viene finalmente convocato in commissariato per il riconoscimento. Tra le decine di foto che gli mostrano c’è anche quella di Bisignani jr. Vitelli scruta le foto tessera un pò sfocate e - un po’ scocciato per un simile riconoscimento solo a distanza di due anni - risponde che non è in grado di riconoscere nessuno. L’indagine della Polizia non va oltre. Nessuno convoca per esempio l’autista dell’auto che porta via Alemanno jr. Gli amici della vittima del pestaggio, che certamente erano più attenti alla scena della vittima, non sono chiamati a testimoniare. Il pm Barbara Zuin si convince che non c’è altro da fare e chiede l’archiviazione. IERI Gianni Alemanno e Isabella Rauti hanno emesso un comunicato in cui non spiegano se è vero - come è stato riferito al Fatto da un investigatore - che alla guida della Mercedes che porta via il figlio dal comprensorio sulla Camilluccia c’era un poliziotto che nel tempo libero fa da autista alla famiglia. La famiglia Alemanno però si lamenta: “l’uso di nostro figlio per attaccare noi genitori è tanto più grave quanto è evidente l’assoluta inconsistenza delle illazioni. Nostro figlio”, prosegue la nota, “all’epoca appena quattordicenne, è stato un involontario testimone di un fatto gravissimo - spiega Alemanno -. Respingiamo in maniera netta e decisa l’insinuazione di aver tentato in qualche modo di insabbiare l’indagine: non avremmo potuto, non avremmo voluto, né ne avremmo avuto interesse”. E quindi la famiglia sarà contenta, come Il Fatto, della riapertura dell’inchiesta.
il Fatto Saturno 27.1.12
Mali culturali
Siena: assassinio della Cattedrale
Il patrimonio del Duomo rischia d’esser gestito da un cinico marketing, mentre nel restauro del pavimento le bandiere diventano giraffe
di Tomaso Montanari
«QUANTI, COL PIÈ fangoso, nulla curanti calpestano il bellissimo pavimento della chiesa cattedrale di Siena? … Egli è tutto a gran lastre di fino marmo bianco istoriate con tratti di scarpello in semplici linee piane che sol descrivono i corpi. Ma l’opera è d’eccellente lavoro». Quando, nel 1660, scriveva Daniello Bartoli, quel famoso pavimento era già antico: se ancora oggi possiamo goderne è merito dell’Opera della Metropolitana di Siena, fossile vivente che da quasi ottocentocinquant’anni tramanda il gran corpo del Duomo, sede dell’arcivescovo metropolita. Oggi, tuttavia, nubi tempestose si affollano sul destino di quella gloriosa istituzione: dove non hanno potuto la Peste Nera, la caduta di Siena e la dominazione medicea potrebbe riuscire il cinico marketing del patrimonio artistico.
Una recentissima interrogazione parlamentare della deputata PD Susanna Cenni rivela che l’Opera (una onlus con un volume d’affari annuo di sei milioni di euro) ha ceduto un ramo d’azienda (quello che si occupa di accoglienza, marketing e – tenetevi forte – iniziative culturali), con ben dodici dipendenti (i quali hanno fatto ricorso, impugnando la cessione), ad una società privata con fini di lucro: Opera Laboratori Fiorentini, una controllata di Civita. La cessione è avvenuta per un prezzo incredibilmente esiguo (42.000 euro) e, contemporaneamente, l’Opera Metropolitana ha appaltato ad Opera Laboratori quelle stesse funzioni. L’interrogante chiede al ministro degli Interni (il quale, attraverso il prefetto di Siena, nomina i vertici dell’Opera) se questa singolare operazione non finisca per modificare occultamente la natura dell’ente, da onlus a normale azienda, rischiando inoltre «di mettere in discussione la centralità degli enti cittadini nella gestione del proprio patrimonio culturale, diminuendo attività e prestigio di una delle più antiche istituzioni italiane ed europee ». E i dubbi sono più che fondati, visto che Opera Laboratori Fiorentini è uno dei pilastri del discutibile sistema del Polo Museale di Firenze così come è stato costruito da Antonio Paolucci ed ereditato da Cristina Acidini. Basti dire che pochi giorni fa un giornalista del «Giornale della Toscana» ha annunciato di esser stato assunto come addetto stampa dell’Acidini, specificando che il suo stipendio sarà pagato proprio da Opera: così quest’ultima parteciperà a gare (per mostre, gestioni museali e servizi aggiuntivi) in cui dovrà esser selezionata dalla soprintendente a cui paga il portavoce, in un monumentale conflitto di interessi. E colpisce che lo spirito felicemente municipalista di Siena si sia sgretolato fino ad appaltare a maneggi fiorentini nientemeno che il Duomo, monumento civico e identitario non meno che religioso.
Sarà il ministro dell’Interno, e poi forse la magistratura, a dirci se è in corso una mutazione genetica dell’Opera del Duomo. Ma anche se – come speriamo – non ci saranno implicazioni fiscali o penali, esiste un colossale problema culturale. L’Opera è un bene comune per eccellenza, chiamato da secoli a fare solo e soltanto gli interessi della collettività, cioè del popolo di Siena: come si concilia con questa storia l’idea di appaltare, e addirittura cedere, le sue iniziative culturali ad una società privata con fini di lucro?
Alcune conseguenze di questa mutazione investono già il patrimonio artistico. Da anni, gli interventi di restauro e di manutenzione nella Cattedrale sfuggono sistematicamente al controllo e al vaglio della Soprintendenza (specie da quando questa è retta da Mario Scalini, uscito proprio dal vivaio del Polo museale fiorentino), con la conseguenza che opere di artisti come Nicola Pisano, Michelangelo o Bernini sono oggetto di restauri ispirati più al marketing che non a ragioni di conservazione o conoscenza. Ma il punto più basso si è forse toccato con il restauro del famoso pavimento, dove gli scalpellini vanno manipolando le forme, trasformando arbitrariamente vessilli in teste di giraffa, e serpenti in lombrichi.
Così, la metafora barocca del padre Bartoli è ormai realtà: «Quanti, col piè fangoso, calpestano il bellissimo pavimento della chiesa cattedrale di Siena? ». Possibile che nella colta e orgogliosa Siena nessuno voglia fermare quei piedi fangosi?
l’Unità 27.1.12
Dio non si è dimenticato dei democratici
I quattro candidati alle primarie per la carica di segretario Pd del Lazio hanno radici nei gruppi cattolici. E il popolo delle parrocchie avrà un ruolo importante nella consultazione del 12 febbraio
di don Filippo Di Giacomo
Lunedì scorso anche a Roma, si sono concluse le votazioni degli iscritti che dovranno scegliere i candidati alle segreterie regionali per le primarie. Quando il 12 febbraio avranno luogo quelle pubbliche, aperte cioè a tutti gli elettori, i nomi entrati in lizza indicheranno al partito su quali energie dovrà indirizzarsi, per proporre ai cittadini un’immagine e un programma emendati da molti errori, quali l’incapacità di reagire alla pessima qualità del governo della città e all’allegra spartizione del welfare privato della Regione; e magari bisognerà essere capaci di fare ammenda di qualche peccato contro natura, come aver candidato nel 2010, alla presidenza di una Regione di cassaintegrati la prima fautrice dell’abolizione dell’articolo 18. A Roma hanno concorso in quattro: Enrico Gasbarra, Marta Leonori, Giovanni Bachelet, Marco Paciotti. Dietro la prevedibile affermazione di Enrico, Marta si è attestata come la vera sorpresa di questa prima fase delle primarie 2012, la candidatura più competitiva: ha avuto lo stesso risultato sia nelle sezioni cittadine sia in quelle sparse nelle province laziali. Giovanni Bachelet e Marco Paciotti rispettivamente hanno ottenuto il terzo e il quarto risultato. I primi tre, scenderanno di nuovo in lizza a febbraio.
A tutti e quattro comunque, appartiene una qualche “pertinenza” con l’ambito formativo cattolico: Enrico Gasbarra e Giovanni Bachelet, ciascuno a loro modo, il segno lo hanno da sempre; Marta Leonori (classe 1977) è stata scout nella sua intera proposta formativa, fino alla “comunità capi”, Marco Paciotti ha svolto le sue prime attività di volontariato con i gruppi di Sant’ Egidio. Ognuno per la propria strada, in un partito che, nelle sue cellule di base, (citando Ilvo Diamanti) sta sperimentando positivamente la dimensione personale, locale, delle interazioni quotidiane. Che poi Marta Leonori sia molto gradita al popolo della parrocchie, dovrebbe far riflettere anche i pochi che, a vario titolo e per motivi diversi, invitano a fischiare sempre i cattolici in via preventiva. Perché, almeno nel Lazio, dopo le batoste elettorali del 2008 e 2010 i democratici dovrebbero fare attenzione ai dati che (sempre citando Diamanti, quando ricorda le analisi sulle «subculture politiche territoriali, bianche e rosse e spiega le relazioni fra elettori, che hanno mostrato la persistenza, su base locale, delle organizzazioni e degli orientamenti sociali e politici, nel lungo periodo») smentiscono la presunta perdita di rilievo del voto di appartenenza e il presunto “allargamento” della fluidità e della mobilità sociale.
In uno scenario politico come quello romano, dove i borghesi “de sinistra” a sessant’anni non hanno ancora deciso da che parte schierarsi, quest’anno la base cattolica, è andata a pregare ad Ancona e non a Todi a fare fiera e carriera. E, per intenderci, facendo la via crucis per le strade anconetane, pregava invocando la forza (ottava stazione) per riuscire a medicare «le meschinità e lo schifo del nostro tempo». Forse, va considerato che questo popolo profumato di sudore e carico delle fatiche che sta affrontando per dare forma e forza alle sfide dell’evangelizzazione, è buona risorsa anche per la valorizzazione dei circoli, delle iniziative delle donne (lo abbiamo visto l’anno scorso) e dei giovani; anche mediante la proposta di vera formazione politica, della messa in rete delle tante e dei tanti che stanno fornendo le gambe (scegliendo come principale vincolo partitico l’autofinanziamento) a chi vuole rimobilitare questo Paese verso una politica diversa e davvero migliore.
A Roma si voterà l’anno prossimo, e il Partito democratico non potrà certamente presentarsi alle elezioni con una classe dirigente ottusamente conglomerata in un conformismo che, da decenni, riesce nell’incredibile esercizio di clericalizzarsi e, al contempo, mantenere in vita il feticcio di una secolarizzazione, trasformata ed esibita, al servizio di un’ideologia collaterale ai poteri forti, addirittura occulti.
In un’epoca in cui lo Stato non ha più il monopolio della vita politica e la Chiesa ha perso il monopolio della religione, largo dunque al nuovo che avanza. Anche una regola evangelica dice che i talenti, tutti i talenti, sia quelli cattolici sia quelli laici, fruttano solo se messi dinamicamente in gioco e sfruttati nelle loro potenzialità. Imbalsamati e adorati nelle sacrestie e nelle segreterie dei partiti, non servono a niente.
Quando poi vengono messi in gioco a proprie spese, specialmente dai giovani, è il segno che Dio non si è ancora dimenticato dei democratici.
l’Unità 27.1.12
Capitalismo in crisi
Intervista a Giorgio Ruffolo
«Marx aveva capito tutto. Vince l’avidità economica»
«Per ricostruire i suoi margini di profitto il capitalismo si è liberato di tutti i lacci Da qui il debito sovrano incontrollato. Il problema è che manca l’Europa politica»
di Bruno Gravagnuolo
Ci vogliono riforme profonde, rivoluzionarie, per tirarsi fuori da questa crisi. Che ha un nome ben preciso: crisi del capitalismo manageriale monetario». Allarme radicale, persino impensato, quello di Giorgio Ruffolo, economista ed esponente di punta del riformismo italiano. Che fa corpo con un’analisi anticipata nel finale del suo ultimo libro: Testa e croce. Una breve storia della moneta (Einaudi, pp. 176, Euro 17). La tesi: la liquidità finanziaria, in moneta e titoli, si autoalimenta, e «scommette» su di sé. Divaricandosi dai beni e dai servizi reali. Fino al crollo e al contagio dopo la vertigine. Che inghiottono in un vortice globale risparmiatori, economia e stati. Inclusa la crisi del debito italiano.
Bene, come raddrizzare la barra? Quali contromisure anticicliche? E poi: va bene Monti? O ci vuole dell’altro? E sinistra e centrosinistra, come devono muoversi in questo scenario? Sentiamo Ruffolo. Ruffolo, tutti parlano di crisi del capitalismo, dall’Economist a Tremonti, passando per una selva di economisti. Però le politiche sono sempre quelle: rigore e correttivi finanziari. Dunque solo geremie moralistiche? «Attenzione, c’è una crisi di legittimazione e di consenso sociale. Sicché anche l’aspetto etico conta, come un tempo nelle dispute tra gli avversari cristiani del capitalismo avido e i suoi apologeti settecenteschi. Il punto è che l’avidità economica fine a se stessa ha preso oggi il sopravvento. Ma senza mostrare i benefici della prosperità, come nel capitalismo industriale di un tempo, e nel capitalismo manageriale successivo....».
Un’inversione mezzi -fini. È questo che è accaduto?
«Esatto. Prima la finanza convogliava i risparmi verso gli investimenti. Con l’avvento del terzo capitalismo, quello monetario, la finanza si rivolge a sé stessa, cresce e scommette su di sé. E il circuito risparmi-investimenti si capovolge in impieghi speculativi. Un circolo vizioso, che penalizza la produzione, crea impoverimento e genera fenomeni simili alla grande depressione del 1929. Con una fondamentale differenza...».
Quale?
«Allora la crisi fu causata dalla sfasatura tra sovrapproduzione e sottoconsumo. Con crollo dei titoli azionari, aumento dei prezzi e inflazione. Oggi, ad accendere la miccia è stata l’inflazione finanziaria. Cioè l’aumento della liquidità totale, comprensiva di moneta e titoli. Nel 2007 tale ammontare di liquidità eccedeva di ben 12 volte il Pnl mondiale! Non sono aumentati i prezzi dei beni, bensì i prezzi dei titoli, sopravavalutati all’eccesso. Fino allo scoppio finale della bolla negli Usa».
Si è inventata e venduta ricchezza per accorgersi che non c’era?
«Già. In passato l’aumento dei prezzi frenava la domanda, ristabilendo un possibile equilibrio tra massa di prodotti e prezzi. L’inflazione era una spia. Con la finanza globale tutto è molto più pericoloso. Perché quando il prezzo dei titoli cresce, pompato dalle agenzie di rating e dalle banche, la gente acquista in massa titoli sul nulla. Titoli sorretti da credito al consumo e mutui, dunque da debiti.
Che vengono rinnovati e crescono. Fino all’impossibilità di onorarli e al crollo, annunciato da vendite al ribasso che travolgono tutti: risparmiatori, imprese e proprietari di case ipotecate. Altro che distruzione creatrice!».
Colpa del capitalismo liberista giunto all’acme finanziario, o anche di welfare states troppo indebitati?
«La colpa è stata delle disuguaglianze, alimentate da un capitalismo che per ricostruire i suoi margini di profitto s’è liberato di lacci e lacciuoli. Ristrutturandosi, e comprimendo salari e occupazione. E così, dopo gli anni 70, invece di redistribuire senza sprechi e rilanciare gli investimenti, si è scelta la strada dell’indebitamento pubblico e privato. Per ricostruire la domanda e sostenerla. La conseguenza è stata il debito sovrano incontrollato. E il ruolo egemone della finanza mondiale nel valutarlo e gestirlo».
Un certo Marx lo aveva detto: a un certo punto il capitalismo si indebita, invoca la finanza e vi si mescola. E scarica tutto sulle spalle dello stato...
«Marx aveva capito quasi tutto. Incluso il passaggio dal capitalismo industriale e manageriale, a quello finanziario, con le sue logiche autodistruttive. Aggiungerei un certo Braudel, che parla di autunno del capitalismo nella fase finanziaria».
Veniamo al che fare. Nel suo ultimo libro Lei parla addirittura di “decumulo monetario”, in chiave anti-finanza. Che cos’è?
«Significa fermare la bolla. E ripristinare l’equilibrio tra beni e moneta. Penalizzando l’accumulo di titoli e denaro, e riconducendo quest’ultimo a mezzo di pagamento e investimento. Vuol dire Tobin Tax, far costare di più le transazioni, e ricondure le banche alla loro funzione di sostegno alla crescita e alla creazione di posti di lavoro. Insieme però ci vuole una politica in grado di indicare obiettivi generali. La piena occupazione innanzitutto. E il rilancio della domanda di beni e servizi non effimeri. Con particolare attenzione all’ambiente, che non è un vincolo ma un moltiplicatore di crescita. Sia in termini di qualità della vita, che come innovazione tecnologica ad alto valore aggiunto».
Lei auspica una sorta di comando politico sull’accumulazione economica. Quasi a plasmare il capitalismo oltre se stesso. Ma come si fa con «questa» Europa?
«Il problema è lì. Manca l’Europa. Manca la Banca centrale in funzione anticiclica. Mancano gli Eurobond. Manca un vero parlamento sovrano. In una parola, manca l’Europa politica».
E Monti, rispetto a tutto questo, sta facendo bene o male?
«Ha fatto nell’immediato, le uniche cose possibili. Frenare l’indebitamento e ricostruire l’onorabilità dell’Italia in Europa. Ma non si vedono ancora le scelte nuove ed essenziali: rilancio della domanda e redistribuzione. È su questo che Monti deve concentrarsi».
Chiede cose di sinistra a un governo che non lo è...
«È un paradosso. Ma lo uso per esortare la sinistra a sostenere questo governo in autonomia. E a battersi al suo interno oggi, per le cose da fare domani».
l’Unità 27.1.12
Negazionismo demolito dai quattro scatti di Alex
La prova Era un membro dei Sonderkommando, le squadre speciali che gasavano i detenuti nei campi di sterminio, e fotografò l’orrore.
Perché ancora occorre vigilanza contro chi nega l’esistenza di Auschwitz
di Massimo Adinolfi
Urgente. Inviate il più rapidamente possibile due rullini di pellicola in metallo per macchina fotografica 6x9. Possiamo fare foto»: possiamo fotografare l’orrore, possiamo inviare scatti da Birkenau. Possiamo, perché lo abbiamo fatto: Alex, un ebreo greco membro dei Sonderkommando le squadre speciali che gasavano i detenuti del campo di sterminio nascosto proprio dentro le camere a gas appena svuotate, è riuscito a fotografare le fosse di incinerazione e i suoi compagni di lavoro mentre si muovono macabri fra i cadaveri. Il biglietto della resistenza polacca e i quattro scatti di Alex sono giunti fino a noi, infilati in un tubetto di pasta dentifricia. Noi, perciò, lo sappiamo: le camere a gas sono esistite, lo sterminio di massa è stato compiuto. E in verità esiste ormai una documentazione imponente: non solo i quattro pezzi di pellicola strappati all’inferno, come li ha definiti Didi-Huberman, ma documenti, testimonianze, ritrovamenti. Non solo non c’è spazio alcuno per il dubbio, ma non c’è modo di considerare una semplice opinione quella di chi, no-
nostante tutto, nega la Shoah.
Contro il negazionismo Donatella Di Cesare ha scritto il suo ultimo libro, teso e fermo, «Se Auschwitz è nulla», per richiamare l’attenzione su un fenomeno che non ha nulla di intellettualmente presentabile, nulla di storicamente valido, nulla di politicamente accettabile, e che tuttavia non cessa di presentarsi in forme che non offendono solo la memoria delle vittime, ma minacciano l’identità stessa dell’Europa democratica: ricostituitasi, come dice Di Cesare, «sulla ce-
nere, su un luogo, fragile e friabile, come le pagine dei libri dati ai roghi».
Ma come fanno a negare coloro che negano? Jean Francois Lyotard lo ha spiegato esponendo l’ignobile sofisma del negazionista Faurisson, il quale aveva scritto: «Ho cercato, invano, un solo ex deportato capace di provare che aveva realmente visto, con i suoi occhi, una camera a gas». Ecco come fa, il buon Faurisson: per avere visto e provare che le camere davano la morte, occorre essere morti. Se si è morti, si può testimoniare che quelle che si sono viste sono effettivamente camere a gas, che è Ziklon B il gas che vi viene iniettato, che sono forni crematori quelli in cui le vittime vengono bruciate. La testimonianza del sopravvissuto, in quanto è un sopravvissuto, non è probante e non basta; la sua memoria non vale.
E invece vale. Vale ed è la cosa più preziosa. Vale anzitutto per smascherare quelli come Faurisson, o come David Irving, gente che sotto una lacca di rispettabilità scientifica non si limita a instillare dubbi, ma finisce con l’assecondare di fatto il progetto genocidiario di uno spazio judenrein, depurato dagli ebrei. Cosa infatti negano coloro che negano, se non che vi siano tracce dei crimini commessi? Essi negano cioè proprio quello che i nazisti volevano cancellare. Nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Nel negare l’accaduto, i negazionisti accusa Di Cesare proseguono l’opera: «sorvolano i lager per accertarsi che la terra si sia chiusa definitivamente e il fumo si sia disperso». Ogni domanda sulla memoria della Shoah deve dunque partire dal fatto che, serbandola, si impedisce che svanisca anche la cenere di coloro che passarono per i camini. Per questo, abbiamo la risposta alla domanda di Adorno se sia possibile poesia dopo Auschwitz. E sappiamo anche se davvero Auschwitz sia stato un orrore così grande da essere indicibile. «La lotta contro i negazionisti sarebbe già persa, se si concedesse l’indicibilità di Auschwitz», scrive infatti Di Cesare. E dire Auschwitz, spiegare, comprendere, non vuol dire né giustificare né banalizzare o relativizzare, ma ricordare e vigilare.
La vigilanza deve però essere affidata alla memoria collettiva, e non semplicemente al ricordo individuale. Perché la memoria non è solo la registrazione obiettiva dei fatti, ma anche il debito di giustizia nei confronti di coloro che sono morti, e che purtroppo, come diceva Benjamin, neppure da morti possono sentirsi al riparo dall’affronto dell’oblio. Perché negano, infatti, coloro che negano? Non certo per stabilire come davvero andarono le cose, ma per farle andare ancora oggi in una certa maniera. Il negazionismo non è un incomprensibile rigurgito del passato; è anche un pericolo nel presente. Cosa ha spinto difatti Ahmadinejad a organizzare una conferenza sull’Olocausto, se non l’intenzione di togliere a Israele la religione della memoria, e minarne così la legittimità? Ma noi sappiamo: Auschwitz è esistita, Birkenau è esistita. E lo sterminio di ebrei (di zingari, di omosessuali, handicappati, nemici politici) chiama non Israele ma l’Europa intera, tutti noi, l’umanità stessa, a ricordare e tramandare per poter ancora vivere con dignità. Noi lo sappiamo: ci sono le foto, e ci siamo noi.
il Fatto Saturno 27.1.12
Giorno della memoria
Shoah, la rivolta degli ultimi testimoni
Molti sopravvissuti ai campi criticano lo sfruttamento mediatico dell’Olocausto , come il Nobel Imre Kertész
di Daniela Padoan
NEL CINQUANTENNALE della liberazione dei campi, Elie Wiesel e Jorge Semprún vennero invitati per un faccia a faccia dalla trasmissione televisiva francese Entretien - ARTE. Wiesel era stato deportato ad Auschwitz come ebreo, Semprún a Buchenwald come politico. L’incontro si concluse con parole abissali alle quali ancora oggi è difficile sottrarsi. «Io me lo immagino: un giorno o l’altro, tra qualche anno, poniamo, si troverà l’ultimo rimasto. L’ultimo sopravvissuto. […] Non vorrei essere al suo posto», disse Wiesel. Semprún annuì: «Penso a quell’uomo, a quella donna, se mai arrivasse a saperlo… Sì, perché in pratica non lo saprà mai. Immagina una troupe televisiva che arriva e comincia: “Signore, signora, lei è l’ultimo superstite”. Quello che fa? Si uccide». Wiesel scrollò la testa: «No, io preferisco pensare che verrà subissato di domande. Domande d’ogni genere. Tutte, proprio tutte. E lui le ascolterà, senza eccezioni. Dopodiché, tutto finirà con un’alzata di spalle. “E va bene”, diranno, “e con questo? ” E allora lui dirà…». Semprún lo interruppe: «Se non sarà il suicidio, sarà il silenzio. Il risultato non cambia». «È il silenzio fecondo», disse Wiesel, «l’ultimo. Non vorrei essere l’ultimo a sopravvivere». «E io nemmeno».
Sembra un dialogo di Beckett, eppure, a diciassette anni di distanza, i sopravvissuti non possono che guardare con crescente inquietudine a questa prospettiva; non solo perché, inevitabilmente, anno dopo anno la viva voce di qualcuno di loro si spegne, ma perché – nella sbrigatività con cui alcuni sembrano accompagnarli alla porta mentre altri li santificano, ostendendone nelle commemorazioni rituali la sempre più rarefatta presenza – si perpetua una solitudine e addirittura un’offesa. Non è facile parlare di questo argomento, nei convegni e negli incontri in cui si riflette sulla memoria e sull’insegnamento della Shoah: la compulsione a contrapporre conoscenza e sentimenti, storiografia ed empatia, scatta immediata. Il punto, però, è che non si tratta di scegliere tra la verità storica e il sentimentalismo, ma di porsi un’interrogazione pienamente politica: che società è, quella che non sa rispettare i testimoni del suo stesso precipizio, dello scacco della sua stessa cultura?
Ci interroghiamo sul testimone, ragioniamo sulla sua affidabilità, sul suo ripetere con le stesse parole la medesima storia, teorizziamo sullo statuto della testimonianza; ma chi siamo, noi, visti con gli occhi del testimone? Quest’anno, sia Goti Bauer che Liliana Segre, due fra le più importanti e attive testimoni italiane di Auschwitz, hanno deciso di diradare le loro uscite pubbliche e progressivamente smettere di testimoniare. «Non voglio correre il rischio di essere l’ultimo dei mohicani», ha detto Liliana Segre, mentre Goti Bauer ha parlato apertamente di una «delusione della testimonianza».
Sempre più, il testimone somiglia al vecchio marinaio di Coleridge evocato da Primo Levi; non già scacciato dal banchetto del matrimonio, ma seduto al posto d’onore, e tuttavia ingombrante, colmato di paternalistiche e sbrigative attenzioni. Non gli si impedisce di parlare, lo si sollecita, anzi, nei giorni deputati, ma il suo dire continua a non avere la gravità che Levi immaginava nelle notti del Lager.
La Shoah è stata istituzionalizzata, stilizzata, e su di essa è stato fondato un rito morale-politico che ne rende il pensiero estraneo agli uomini. Secondo Imre Kertész – sopravvissuto di Auschwitz, premio Nobel per la letteratura, e tuttavia anch’egli acutamente consapevole dell’«onda anomala della delusione» che si è abbattuta sui testimoni – si è creato «un conformismo dell’Olocausto, un sentimentalismo dell’Olocausto, un canone dell’Olocausto, un sistema di tabù dell’Olocausto, accompagnato da un mondo linguistico e religioso; sono stati creati i prodotti dell’Olocausto per il consumismo dell’Olocausto». Una subcultura, e persino un «kitsch dell’Olocausto». Perché «ritengo che sia kitsch quel tipo di rappresentazione che non è in grado, o non vuole, comprendere la relazione fondamentale tra la nostra deforme vita civile e privata e la possibilità dell’Olocausto; che estrania una volta per tutte l’Olocausto dalla natura umana e si impegna a escluderlo dalla cerchia delle esperienze umane».
In questi giorni di commemorazione si è molto parlato dei sopravvissuti come vittime, si è raccontato di case di accoglienza per dar loro sostegno, ma non si è mai nominata la loro signoria, il loro sapere qualcosa che noi ignoriamo, la loro doppia cittadinanza tra i vivi e tra i morti. Il testimone che ci guarda è il nostro specchio, l’inviato nell’avamposto più estremo: accogliere il suo verdetto può essere un salutare rovesciamento, l’ultimo invito a dubitare di alcuni dei mattoni con cui la nostra cultura ha edificato Auschwitz.
il Fatto Saturno 27.1.12
«Auschwitz? Un viaggio inutile»
LAURA SIMONETTA FONTANA è la responsabile per l’Italia del Memorial de la Shoah di Parigi e tra le prime organizzatrici dei viaggi della memoria in Italia, per il comune di Rimini. Le abbiamo chiesto se, nelle scuole italiane, il viaggio ad Auschwitz sta progressivamente sostituendo l’insegnamento della Shoah? «Gli insegnanti tendono a vederlo come un viaggio iniziatico, un vaccino contro l’indifferenza, una scossa salutare capace di orientare al bene, alla democrazia, al rispetto dei diritti umani. Ma vale davvero la pena di fare così tanti chilometri e investire centinaia di migliaia di euro per andare a discutere di valori democratici e di diritti dell’uomo proprio sulle rovine dei crematori? Auschwitz non ha mai redento nessuno, e l’evidenza che i genocidi e i crimini di massa continuano a compiersi nell’indifferenza del mondo è sotto i nostri occhi. Ben più importante sarebbe contrastare il declino dell’insegnamento della storia del fascismo nelle scuole italiane, direttamente proporzionale al fiorire di questi viaggi, quasi fosse possibile studiare la Shoah senza un’analisi delle condizioni politiche e sociali che l’hanno prodotta». Ma il fenomeno dei treni della memoria è altrettanto radicato, nel resto d’Europa? «I treni esistono in molti paesi europei, ma non godono di una popolarità paragonabile a quella che hanno da noi, né di un unanime sostegno bipartisan. Anche se si tratta di esperienze collettive intense e partecipate, spesso ben preparate didatticamente, questi viaggi non sono di per sé garanzia di un buon insegnamento della storia della Shoah: da un lato rischiano di far dimenticare i campi di sterminio – come Chelmo, Sobibor, Belzec e Treblinka, che hanno costituito l’essenza della politica criminale nazista – e dall’altro devono necessariamente fare i conti con una sovraesposizione mediatica e una confusione di obiettivi. Un esempio per tutti, l’episodio inquietante di studenti condotti davanti ai crematori di Birkenau per commemorare pubblicamente le vittime di mafia. Eppure quest’anno, a fronte dei tagli nei bilanci scolastici, le regioni da sempre più attive sulla memoria della Shoah hanno deciso di destinare i fondi a loro disposizione al viaggio ad Auschwitz, eliminando i corsi di formazione per gli insegnanti. Il risultato lo si può ben immaginare: la conoscenza puntuale dei fatti, il ragionamento politico sul crimine e la riflessione etico-morale sul male declineranno sempre più verso una sorta di catechismo laico, una generica apologia del bene e dei diritti umani, senza un nesso tra il vedere e il conoscere, tra il comprendere e il reagire. Ma l’accadimento di Auschwitz ci chiede altro: rivalutare pienamente la nostra capacità di pensare e di agire di conseguenza. Perché nella società contemporanea i germi che hanno preparato i massacri di massa sono ancora presenti, potenzialmente fertili». (Daniela Padoan)
il Fatto Saturno 27.1.12
E il lager diventa business
di Jáchym Topol
TEREZÍN È UNA città militare, squadrata e regolare, è per questo che lì ti orienti, campagnolo che non sei altro, Praga invece è una città medievale, perciò è tutta ritorta, tortuosa e contorta, dice Sára e mi spiega perché senza di lei nella capitale finirei per perdermi. In questa stanzetta dormiamo, mettiamo ordine tra gli acquisti, ci abbracciamo, chiacchieriamo, durante le nostre spedizioni d’affari stiamo sempre qui.
La vostra Terezín, caro il mio vecchio capraio, mi ricorda, e non poco, addirittura Venezia, dice Sára, che in questo momento è appoggiata con nonchalance sulla mia spalla, ovunque sul pavimento intorno a noi stanno ad asciugare le magliette con sopra Kafka, montagne di magliette, siamo appena rientrati da un giro d’acquisti e ci siamo inzuppati sotto un acquazzone, dai suoi capelli respiro la nera umidità della pioggia praghese...
Sai, San Marco e le gondole, è un po’ come il vostro Monumento mantenuto in buono stato dal governo perché il mondo lo possa vedere... ma lì a due passi, tra mura scalcinate, ci vive gente normalissima, Sára scuote la testa, od-dio, normalissima, scoppia a ridere... e mi spiega che in tutta l’Europa occidentale i luoghi di sepoltura di massa risalenti alla guerra sono conservati e curati scrupolosamente, mentre da noi a Terezín... è affascinante vedere che nel posto dove hanno ammazzato della gente il vecchio Hamácek ci vende i suoi cavoli rapa... che nel punto da cui i treni partivano per andare a Est, verso i campi di sterminio, la vecchia Bouchalová e la vecchia Fridrichová se ne stanno a imprecare per la pressa da stiro che si inceppa di continuo... e poi che da bambini abbiate giocato dentro camere mortuarie e vi siate dati delle toccatine dentro ai bunker! È proprio allucinante, dovete essere tutti quanti pervertiti e manco lo sapete...
Ovunque in Occidente spedizioni simili sarebbero state severamente vietate ai bambini, mi spiega...
Ma anche qui lo sono!, mi affretto a ribatterle...
Voi però ve ne fregate, obietta lei... Sì, ce ne freghiamo, io, per esempio, dei divieti me ne infischio alla grande, tutto sta nel fare in modo che nessuno mi becchi, spiego io, lei scuote la testa, continuiamo a parlare, poi a un certo punto andiamo a dormire.
Il brano è tratto dal volume L’officina del diavolo, Zandonai, pagg. 167, • 14,50, in libreria da oggi.
Jáchym Topol è un apprezzato narratore ceco. Nato nel 1962, si è fatto conoscere da noi con Artisti e animali del circo socialista (Einaudi 2011). In questo nuovo romanzo affronta, con il suo stile grottesco degno del migliore Hrabal, un tema spinoso: l’uso commerciale della memoria collettiva. Una riflessione su come alcuni dei luoghi simbolo dei crimini perpetrati dai regimi totalitari siano stati trasformati in appetibili mete del turismo di massa.
La Stampa 27.1.12
Auschwitz, l’antidoto è il silenzio
di Elena Loewenthal
Una palestra di Dubai che, per rendere convincente la promessa di addio alle calorie, usa per la sua campagna pubblicitaria una gigantografia dell’ingresso di Auschwitz. Degli ultraortodossi indignati con il governo israeliano e dei loro concittadini indignati vuoi con la polizia vuoi con gli avversari politici, che si battono a suon di stelle gialle appuntate sul petto ed esclamazioni «nazista! » elargite un po’ qua e un po’ là. Stelle gialle, ancora, usate da islamici di Svizzera per protestare contro la discriminazione. Per non parlare di chi con queste armi va nella direzione opposta: rimpiangere quei tempi e auspicarne il ritorno. E non sono pochi.
Il giorno della memoria cade in un anniversario tanto feroce quanto ambiguo: il 27 gennaio, infatti, Auschwitz fu liberata. Quelle porte si aprirono. Sarebbe, teoricamente, un momento festoso: la fine di un incubo, di un inferno bruciato per anni dentro l’Europa. In realtà, è un giorno di sgomento, di occhi sbarrati di fronte a quell’assurdità: come è potuto succedere? Le porte aperte di Auschwitz furono sì, liberazione. Ma furono anche e soprattutto svelamento di una ferocia quale non s’era mai vista. E, come diceva Primo Levi (ma perché, invece di cercare sempre qualcosa di «nuovo» da dire, non si legge una sua pagina? Una soltanto, e basterebbe), il fatto che sia già successo non ci vaccina, anzi, moltiplica le probabilità che accada di nuovo.
Quasi a farlo apposta, intorno al giorno della memoria i suoi simboli spuntano a destra e a manca come funghi velenosi. Si moltiplicano in sequenza incontrollata, come per dare un calcio alla memoria. L’uso trasversale di questi riferimenti, che accomuna partiti diversi, etnie disparate, posizioni ideologiche e vissuti enormemente distanti fra loro, è la prova inequivocabile che essi si sono svuotati. Che hanno perso il loro senso. L’unico che avevano: risvegliare la memoria. Fare andare, con la mente e con il cuore, a quel laggiù da cui ci separa una distanza di anni esigua - per quanto sempre più grande - ma soprattutto l’abisso di un intero universo. Quei simboli, infatti, servivano a farci intuire che quel passato non saremo mai in grado di capirlo. Che bisogna sentirlo e basta. Possibilmente in silenzio. Come si fa a entrare nei panni di un bambino che entra in una camera a gas? È impossibile. La stella gialla che portava sul cappotto questo ci diceva: ricordami. Ma sappi che non comprenderai cos’è stata la vita per me. Tieniti a distanza dalla mia storia, perché è inafferrabile.
Invece, la moltiplicazione del ricordo, l’inevitabile ritualismo che si porta con sé la puntuale commemorazione, hanno portato a quella memoria una pubblicità a doppio senso. Da una parte, certo, il rispetto. Dall’altra la banalizzazione e, senza soluzione di continuità, l’abuso. I simboli si sono svuotati, il ricordo è diventato cerimonia, la parola non può mancare e così, ogni anno, gli editori si sentono irresponsabili se non pescano l’ultimo sopravvissuto, le lettere rimaste nel cassetto, la storia ancora da raccontare. Un po’ come le strenne per Natale. Il cinema, idem. Scuole ed enti pubblici s’ingegnano per non ripetersi con i loro «eventi». L’evento, comunque, è indispensabile.
È inevitabile, tutto questo? Qualunque celebrazione ha per conseguenza la trasfigurazione della memoria, la sua metamorfosi in rito più o meno svuotato, non tanto di contenuti quanto di pathos? Difficile dare una risposta. Forse, l’unico antidoto è il silenzio. Quello che offre una pagina scritta, ad esempio. In Israele il giorno della Shoah cade in primavera: la rievocazione è un interminabile minuto di sirena che suona in tutto il paese. Un silenzio assordante. Tutti si fermano, tutto si ferma. È un momento tremendo e basta.
Come tremendo dev’essere, per chi è stato laggiù ed è ancora su questa terra, ritrovare i segni di quei ricordi e l’abuso che a volte se ne fa. Ma ancora una volta, come facciamo noi a immaginare cosa prova qualcuno che l’ha portata davvero, la stella gialla sul petto, vedendola brandire così? Dev’essere tremendamente doloroso, e anche tanto frustrante. La memoria, e quella che si celebra oggi più di ogni altra, non è mai innocua.
La Stampa 27.1.12
Il Giorno della Memoria
Ma l’Olocausto non è misura di tutte le cose
Dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente a conferirci uno status morale
di Abraham B. Yehoshua
«I detenuti a cui era assegnata una responsabilità, dal caposquadra al decano del campo, erano parte di quell’immenso sistema di repressione. Quanto a me, stavo sempre al livello più basso di quella piramide del terrore. Prima fila (da sinistra a destra): caposquadra, sotto-kapo, kapo, super-kapo, capo del blocco, infermiere-kapo, decano del campo. Seconda fila (da sinistra a destra): barbiere, interprete, segretario, servizio del lavoro, portiere, fattorino, sorvegliante»
Abraham Yehoshua riceve oggi alla Scuola Normale Superiore di Pisa il diploma di Perfezionamento honoris causa in Letteratura contemporanea. Nell’occasione pronuncerà una lectio (rielaborazione del suo Elogio della normalità , ed. Giuntina), di cui qui anticipiamo uno stralcio. Dello scrittore israeliano è da poco uscito per Einaudi il romanzo La scena perduta .
Pur caricandoci di un grande peso, l’Olocausto ci pone di fronte a delle sfide chiare. Come figli delle vittime, ci incombe l’obbligo di enunciare al mondo alcuni insegnamenti fondamentali.
Il primo è la profonda repulsione per il razzismo e per il nazionalismo. Abbiamo visto sulle nostre carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e ogni popolo. Dobbiamo portare la bandiera dell’opposizione al razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni. Il nazismo non è una manifestazione solamente tedesca ma più generalmente umana, di fronte a cui nessun popolo, e insisto, nessun popolo è immune. [... ]
Ma gli anni che sono passati da allora ci provano purtroppo che manifestazioni naziste sono possibili anche tra altri popoli. Gli orrori presenti non hanno toccato i vertici della seconda guerra mondiale, ma gli avvenimenti del Biafra, del Bangladesh o della Cambogia non sono poi così lontani dalla violenza del massacro nazista.
Noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda, da cui ogni popolo può essere affetto. E in quanto portatori di anticorpi dobbiamo anzitutto curare il rapporto con noi stessi.
Dobbiamo inoltre fare attenzione a non perdere il senso della misura, e a non misurare tutto in rapporto all’Olocausto. Poiché dietro di noi c’è una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni sofferenza meno violenta della nostra. Chi ha molto sofferto può non rendersi conto del dolore degli altri, e questo è un comportamento del tutto naturale. Come alfieri dell’antinazismo dobbiamo acuire la nostra sensibilità, e non diminuirla. Perché dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente per conferirci uno status morale. La vittima non diventa morale in quanto vittima. L’Olocausto, al di là delle azioni turpi nei nostri confronti, non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma non ha reso morali le vittime. Per essere morale bisogna compiere degli atti morali; e per questo affrontiamo degli esami quotidiani.
Ho già detto che l’Olocausto può condurre l’uomo a un atteggiamento di disperazione nei confronti del mondo. È del tutto naturale non avere fiducia nell’uomo e nei suoi atti dopo un’esperienza del genere. Noi, figli delle vittime, possiamo esprimere la nostra delusione con un vigore raddoppiato. Ma dobbiamo ricordare che la sfiducia nel mondo è proprio un atteggiamento tipico del nazismo. Il nazismo è nato anch’esso dalla sensazione che il mondo è nella sua essenza privo di valori, che non si può sperare nulla di buono dall’uomo, e che gli unici valori che hanno un peso sono la forza e l’astuzia. Chi, in seguito all’esperienza dell’Olocausto, arriva a una conclusione nichilista, dà paradossalmente ragione alle tesi naziste. Non è cosa facile nutrire speranza e fiducia nell’uomo dopo l’Olocausto, ma se vogliamo essere coerenti nel nostro antinazismo dobbiamo fare nostra questa sfida.
Quando esaminiamo quello che è avvenuto e ci domandiamo meravigliati come sia potuto avvenire, siamo costretti a riconoscere quanto scarsa e povera fosse la nostra conoscenza delle atrocità durante la guerra. Ci chiediamo spesso come sia stato possibile che una parte consistente del popolo (compresa la colonia ebraica in terra di Israele) fosse all’oscuro di quanto avveniva nell’Europa occupata. E se avessimo saputo quello che avveniva laggiù, forse avremmo potuto essere più utili. Il problema della chiusura dei canali di comunicazione non è solo un problema oggettivo di una situazione imposta da un ferreo regime totalitario, preoccupato di nascondere le proprie atrocità agli occhi del mondo: la chiusura di questi canali ha anche origine da un rifiuto interno di sapere quello che avviene, il rifiuto di scavare dietro ogni briciola di notizia che potrebbe fornire un quadro più chiaro degli avvenimenti. L’importanza della comunicazione umana, l’apertura dei canali di comunicazione, lo sviluppo della stampa e di altri mezzi di comunicazione, sono uno degli insegnamenti chiari di quel periodo. E mi pare che il mondo dopo l’Olocausto, il mondo occidentale, lo abbia capito bene, e cerchi per quanto è possibile di assicurare una situazione in cui l’occultamento e la soppressione delle notizie non siano più possibili. [... ]
E per finire, l’esperienza dell’Olocausto in quanto esperienza prettamente ebraica ha un significato perenne per tutta l’umanità. Anche tra molti anni si continuerà a studiare quel periodo, perché gli eventi di quella guerra tremenda hanno esteso il concetto di uomo, il ventaglio delle sue possibilità. Quella guerra ci ha insegnato cose che non conoscevamo sulla natura dell’uomo. Il concetto di uomo non è più lo stesso di prima, nel bene e nel male. Riusciamo a capire meglio l’uomo, dopo l’Olocausto. E’ vero, abbiamo sempre saputo che l’uomo è capace di compiere il male più efferato e il bene più straordinario; ma nonostante questo l’Olocausto ci ha svelato un nuovo abisso di male a cui l’uomo può giungere, ma anche la forza della sua resistenza. Degli scheletri ambulanti nei campi di concentramento, che da un punto di vista biologico dovevano quasi considerarsi come morti, davano ancora delle prove di moralità, dividendo con gli altri l’ultimo pezzo di pane che restava.
Dalla disperazione più tremenda può perciò nascere anche la speranza. Noi che siamo stati lì, e che ne siamo usciti, possiamo e secondo me dobbiamo alzare il vessillo della fede nell’uomo. "La Shoah ha insegnato cose che ignoravamo sulla natura dell’uomo Nel male e nel bene Quella esperienza può indurci a disperare. Ma la sfiducia nel mondo è tipica del nazismo"
La Stampa 27.1.12
Il medico Haffner, reduce di Auschwitz
La condizione di internati era già una malattia
di Umberto Gentiloni
Désiré Haffner medico ebreo, nato a Galati (Galatz) Romania il 14 luglio 1918, viene arrestato dai nazisti a Tours in Francia e condotto nel seminario vescovile di Angers. Il 20 luglio 1942 con quasi mille prigionieri inizia il suo cammino di deportato, destinazione Auschwitz. Sopravvissuto torna agli studi e inizia la sua nuova esistenza. Si unisce in matrimonio con Stella Roditi, una ragazza che dalla Romania si era nascosta in Italia per sfuggire alle persecuzioni. Il Dottor Haffner muore a Parigi il 13 novembre 1998, da pochi mesi è venuta a mancare anche sua moglie Stella. Tracce della sua vita sono racchiuse in un prezioso libretto, pubblicato in forma semiclandestina nel lontano 1946 in Francia, dal titolo Aspetti patologici del Campo di Auschwitz-Birkenau .
La sorella di Stella, Lucia Roditi, vive a Verona, e ha conservato il dattiloscritto del cognato, con rispetto e attenzione. Quest’anno ha chiesto ai suoi nipoti, Alain ed Eliane, figli del medico autore dello scritto se fosse giunto il tempo di tirar fuori quelle pagine. E così è stato. Con la traduzione di Irene Picchianti, il sostegno dell’Ame (Associazione Medici Ebrei) e grazie all’impegno di Fabio Gaj esce per la prima volta in italiano il testo del 1946 del Dott. Désiré Haffner (Union Printing Edizioni, 2012).
Pagine dense, fitte di richiami alla realtà del campo e attraversate da ipotesi e diagnosi che definiscono il contesto drammatico, l’orizzonte di riferimento che sta di fronte ai prigionieri, fino al confine più invalicabile degli esperimenti medici. Si vive poco, da dieci giorni a due mesi, in un quadro igienico sanitario che non ammette eccezioni. L’analisi scorre spietata alternando richiami scientifici e giudizi dell’autore: «Abbiamo registrato l’insorgere di una serie di malattie che nella vita civile si riscontrano solo in casi eccezionali».
Ma è il contesto che definisce gli esiti delle patologie: «Precedentemente ritenevamo che fosse il tempo a determinare simili stati di consunzione. Tuttavia la nostra triste esperienza nel campo di Auschwitz-Birkenau ci ha dimostrato che se a gravi privazioni alimentari, sia qualitative che quantitative, si aggiungono sforzi fisici costanti, violenti e prolungati, è possibile che nell’arco di due o tre settimane insorga una vera e propria sindrome da carenza acuta che porta alla morte dell’individuo in pochi giorni».
l’Unità 27.1.12
La figlia di Carmelo Bene:
«CasaPound non può usare il nome di mio padre»
Salome e la madre Raffaella Barracchi danno mandato ai loro legali
E diffidano l’associazione di estrema destra: giù le mani dal genio pugliese
di Mariagrazia Gerina
Non bastava la figlia di Pound, che li ha portati in tribunale per riprendersi il nome del padre. Quelli di Casapound cercavano una trovata per uscire dall’angolo. E hanno finito per mettersi contro anche la figlia di Carmelo Bene.
A Salome Bene, dall’alto del suo nome e dei suoi diciannove anni, la trovata di intitolare l’occupazione di via Napoleone III all’attore di cui porta il nome, appunto, sia pure per un giorno, non è piaciuta per niente. Perciò, ieri mattina, insieme alla madre aveva diffidato CasaPound «dall’utilizzare il nome, l’immagine e le opere del Maestro Bene, invitandola a desistere da ogni iniziativa intrapresa o da intraprendere ed a rimuovere ogni elemento che associ il Maestro all'attività della Associazione». Ma siccome queli di Casapound hanno rispedito la «diffida» al mittente, spiegando che Raffaella Baracchi, «avendolo denunciato in vita» non può «improvvisarsi depositaria della sua memoria», ha deciso che toccava a lei replicare. «Sono poco gentili a dire che mia madre non ha titolo per parlare, quelle sono vecchie storie, difficile inquadrare mio padre e i suoi rapporti d’amore in qualche schema, e loro sono gli ultimi che ne possono parlare. Io comunque sono la figlia, mi chiamo Bene e non ho piacere che quelli di Casapound utilizzino il nome di mio padre e il mio...», risponde, pacata e piccata, affidando all’Unità la sua replica. Condita con qualche nota autobiofrafica.
«No, non faccio l’attrice, studio Giurisprudenza però nella vita mai dire mai», si schermisce Salome. «Mio padre lo ricordo come una bambina di dieci anni. E ricordo come dopo la sua morte insulti che invece una bambina di dieci anni non meriterebbe: era mio padre, il fatto che non vivessimo insieme non vuol dire che io non gli voglia un bene dell’anima». L’opera ha imparato a conoscerla da grande: «A parte la Salomè, a cui, per forza, sono legata fin dalla nascita». Da lui, però, oltre ai diritti d’autore e di immagine, ha ereditato un «amore fortissimo» per Dante.
PROVOCAZIONI E RICORDI
Mica facile essere figlia di Carmelo Bene. «Significa avere tante responsabilità sulle spalle, devi tutelare l’immagine di tuo padre che, a parte il legame affettivo, è anche il personaggio che è stato lui: tutti vogliono dire la loro, intromettersi in rapporti anche molto delicati e tu devi gestire continue prove e difficoltà». Ecco quella di vedere CasaPound intitolata a suo padre proprio non se l’aspettava. Una provocazione molto poco gradita. «Una delle qualità di mio padre era proprio che ognuno poteva credere e interpretare ciò che era in qualsiasi modo, ma pensare di potersi appropriare del suo nome come vuole fare Casapound è un’altra storia».
PAROLA DI VENTENNE
Quasi ventenne, Salome sa bene di cosa parla. «Da quelli del Blocco studentesco ho sempre girato alla larga, prima che per l’ideologia, per il modo di porsi e per le azioni», spiega.
Ha le idee chiare la ragazza. E le fa anche specie doverle ribadire. Comunque: «A Casapound non sono per niente favorevole, in generale, anzi mi stupisco anche che sia permessa l’esistenza di un gruppo del genere». In contrasto «con i principi condivisi». E «con quelli che ho imparato da mia madre quanto da mio padre». In breve: «Io sono per migliorare la società in cui viviamo spiega e il fatto che ci siano movimenti del genere non aiuta». Perciò confessa «capisco la figlia di Pound: l’ideologia propugnata da queste persone crea grossi problemi a tutti, però c’è una differenza estrema tra Pound e mio padre: lui qualche connessione con il fascismo ce l’aveva, mio padre direi proprio di no». Comunque: «L’arte è arte, non si può contaminare con queste cose». Detto questo, non c’è molto da aggiungere.
Solo: «Peccato che Carmelo non ci sia, lui che era contro tutti gli -ismi si sarebbe fatto una grossa risata», viene da ricordare a sua madre Raffaella Baracchi. Qualche risata se la fa lei, però, a leggere ciò che scrivono da Casapound. «Siamo davanti a un caso psichiatrico», osserva: «D’altra parte ad accostare Carmelo Bene e Casapound davvero non c’è nessuna logica, è una idiozia totale, un caso psichiatrico, ripeto. Ma figuriamoci! Uno che ha recitato Majakovskij in Russia».
il Fatto 27.1.12
“Picchiatori neri, Alemanno deve chiarire”
Il pestaggio fascista a Roma e i silenzi del sindaco diventano un caso politico
Gianni Alemanno deve dare chiarimenti sul pestaggio fascista di cui è stato testimone suo figlio. Deve spiegare perché è stato dimenticato, taciuto”. Lo chiedono, tra gli altri, Antonio Di Pietro e Nichi Vendola. Per Ignazio Marino (Pd) il sindaco dovrebbe “rinnegare definitivamente il suo passato ideologico e gli sbagli della gioventù”. L’episodio rivelato dal Fatto Quotidiano non è più soltanto un caso di cronaca, ma è sempre più politico.
DI PIETRO, sottolinea i punti ancora oscuri della vicenda: “Alemanno deve spiegare, lui più di altri. Per la sua storia personale, con il passato nella destra, e per il ruolo che svolge di primo cittadino in una città che deve affrontare il rinascere del fascismo”. Il leader Idv si sofferma su un altro punto della storia: “Il sindaco deve anche chiarire il ruolo delle persone che stanno venendo alla ribalta e che sono da lui ben conosciute. Per esempio Luigi Bisignani”. Il giorno dell’aggressione da uno dei telefoni dei ragazzi che avrebbero chiamato i picchiatori fascisti sarebbe partita una chiamata diretta a un cellulare intestato a Bisignani. Il protagonista dell’inchiesta P4, sentito dalla polizia, avrebbe detto che il telefonino era in uso dal figlio Giovanni, figura importante dell’area che fa riferimento a Casa Pound e a Blocco Studentesco. Bisignani senior, rivelarono le carte dell’inchiesta P4, conosce bene Alemanno senior. Aggiunge il leader Idv: “Dal sindaco ci aspettiamo assoluta chiarezza. Alemanno è persona in grado di assumersi le sue responsabilità, se tace deve esserci un motivo”. Conclude Di Pietro: “C’è un clima di grande indulgenza verso il rialzare la testa dell’estremismo di destra. Pensiamo alla vicenda del console Vattani che è stato richiamato in Italia solo dopo una martellante campagna stampa. Non possiamo accettare che persone con queste idee rappresentino l’Italia all’estero”.
Nichi Vendola, leader Sel, punta il dito verso l’atteggiamento di una certa destra romana: “Da anni hanno deposto uova di serpente nella città e ora ne vediamo i risultati. Assistiamo alla caccia ai gay, ai rom, ai ragazzi dei centri sociali. Tutte quelle forme di “diversità” che i fascisti vorrebbero destinare al fuoco ideologico”. E la destra che guida la Capitale? “Dalle autorità abbiamo avuto parole anche importanti che prendevano le distanze dalla violenza. Ma sembravano spesso delle foglie di fico per coprire la concreta legittimazione che veniva data all’universo dell’estremismo politico. Insomma, sembrava una presa di distanza formale”. Vendola sottolinea: “Questa vicenda non chiama in causa tanto la sfera personale del sindaco, ma soprattutto quello istituzionale. Per questo non possono restare ombre. Se questa vicenda non fosse chiarita, sarebbe grave non solo dal punto di vista giudiziario, ma anche pedagogico. È una storia che chiama in causa la politica, ma anche il rapporto tra generazioni”.
IGNAZIO MARINO (altri esponenti del Pd, come Ettore Rosato, hanno chiesto chiarimenti al sindaco di Roma) ricorda: “Alemanno fu eletto sull’onda emotiva di un gravissimo episodio di cronaca e promise ai romani che avrebbe garantito la sicurezza. L’impegno è stato disatteso. Roma oggi non è più una città sicura. Ma la protezione dei cittadini non dipende solo dal numero di poliziotti per le strade. Dipende anche dal clima culturale che si respira in una città. Ecco il grande problema di Roma. Credo che Alemanno dovrebbe con chiarezza prendere definitivamente le distanze da qualsiasi forma di violenza e rinnegare il suo passato ideologico”. (M. Li. e F. Sa.)
il Fatto 27.1.12
La legge della giungla
di Antonio Padellaro
Il 2 giugno 2009, festa della Repubblica e giorno del pestaggio di un quindicenne ad opera di una squadretta di picchiatori fascisti, punito per non essersi adeguato al rito dei saluti romani, il Fatto non esisteva ancora. Se fossimo esistiti avremmo naturalmente pubblicato la notizia con la stessa evidenza con cui l’abbiamo pubblicata due anni e mezzo dopo, ma resta da capire per quali misteriosi motivi la stampa italiana al completo decise di ignorare un episodio di tale, enorme gravità che fu come cancellato risultando, dunque, come mai avvenuto. Ed ecco Luca, “pestato con ferocia inaudita” dai “teppisti neri” che dopo l’irruzione in un condominio privato “hanno infierito su di lui per mezzo di pugni, calci, colpi di casco mirando prevalentemente alla testa, fino a ridurlo una maschera di sangue” leggiamo nella coraggiosa lettera che Marida Lombardo Pijola, madre di uno degli amici del ragazzo, scrisse tre giorni dopo l’accaduto al sindaco di Roma Gianni Alemanno, invitandolo a un gesto contro la brutalità e che non ricevette mai risposta alcuna. Alemanno, appunto, padre di un altro ragazzo presente alla spedizione selvaggia organizzata per “difendere l’onore” del Blocco Studentesco, movimento di estrema destra nella cui lista Alemanno jr. è stato eletto, nel novembre scorso, rappresentante nel suo liceo. Furono carica e peso politico di cotanto genitore a suggerire l’immediata archiviazione della notizia da parte di tutti i giornali (sull’altra subitanea archiviazione,quella giudiziaria, sembra che il pm possa ripensarci dopo l’inchiesta pubblicata sul nostro giornale da Marco Lillo e Ferruccio Sansa)? O è stata la minore età dell’Alemanno rampollo e di altri partecipanti al pestaggio a suggerire alla stampa una cautela che sa di candeggina? A questo proposito è francamente indecente che la famiglia del cosiddetto primo cittadino (con il coro dei Cicchitto e delle Carfagna) si faccia scudo della Carta di Treviso, che giustamente tutela l’identità dei minori nei fatti di cronaca, per attaccare l’inchiesta del Fatto. Essendo evidente a tutti che se non si fosse scritto che quel giorno tra i camerati del blocco nero c’era anche il ragazzo Alemanno non si sarebbe potuto dare conto del silenzio e dell’inattività del padre e della madre. Infine, a parte il Corriere della Sera (e il Messaggero a pag. 37 in cronaca), intorno a questo vergognoso caso che intreccia violenza, omertà, arroganza e disinformazione ancora una volta tutto tace. Così Luca e i suoi amici, bastonati e minacciati impareranno una buona volta che in Italia impera una sola vera legge: la legge della giungla.
l’Unità 27.1.12
L’intervista
Joshua Foer, l’uomo che ricorda tutto
Parla il fratello del celebre scrittore. Campione di mnemotecnica, denuncia lo «scandaloso sottoutilizzo» della memoria: «Ho capito che la nostra mente è capace di cose incredibili e quasi inavvicinabili»
di Maria Serena Palieri
La nostra è una società fondata sulla memoria o sull’oblìo? Il segno più vero le è impresso dalla capacità che ha il Web di non cancellare nulla, né fatti né nomi né numeri, oppure dall’ignoranza crescente del passato anche prossimo nelle nuove generazioni?
A condurci a questi interrogativi è Joshua Foer col suo libro L’arte di ricordare tutto (Longanesi, pp. 333, euro 19,90), resoconto della sua avventura nel mondo della mnemotecnica, che lo ha visto prima affacciarsi da giornalista tra i cosiddetti «savants» capaci di traguardi del ricordo, e poi trasformarsi lui stesso in «mostro», vincendo nel 2006 il Campionato statunitense del settore, grazie alla capacità di memorizzare in un minuto e quaranta secondi un mazzo di 52 carte, appresa con la guida del Gran Maestro Ed Cooke.
È un mondo, quello da lui esplorato, anche molto circense, molto americano. Ma la decina di pagine di bibliografia in coda al libro rende subito chiaro che tipo di mente l’abbia ideato. Foer, laureato a Yale, è nato a Washington da Esther e Albert, coppia di lavoratori del’intelletto (lui dirige un think thank, lei una società di pubbliche relazioni) già genitori di Franklin, direttore di New Republic, e Jonathan, lo scrittore di culto di Ogni cosa è illuminata e Molto forte incredibilmente vicino. E con quest’ultimo celebre fratello condivide forma del viso, taglio degli occhi, aria da tipo meticoloso e impegnato. Di lui dice: «Non è solo mio fratello, è il mio migliore amico. In quest’avventura mi ha fatto da supporto e si è molto divertito».
Foer è un ventinovenne poliedrico: ha fondato la Athanasius Kircher Society, devota allo studioso tedesco del Seicento che si è meritato la definizione di «ultimo uomo del Rinascimento», Atlas Obscura, compendio online di esoterismi e altre meraviglie ma anche Sukkah City, concorso di design ebraico da tenersi in coincidenza con l’autunnale festa di Sukkot. A Venezia a lui l’onore dell’allocuzione, in questa edizione 2012, alla Scuola per Librai Umberto ed Elisabetta Mauri. Dove, ieri pomeriggio, ha illustrato quello che lui ritiene lo «scandaloso sottoutilizzo» della nostra memoria e «l’epidemia di amnesia» che ci affligge. Lei ha cominciato a studiare l’argomento come giornalista e ha finito per diventare lei stesso campione di mnemotecnica. Qual è il frutto più importante che le ha regalato questa esperienza?
«Ho capito che la nostra mente è capace di cose incredibili. Può raggiungere obiettivi che non credevamo mai fossero possibili e che invece, con la giusta impostazione, diventano avvicinabili».
La supememoria che ha conquistato le è utile ora oppure nella vita quotidiana sta lì in un angolo, riposta, come uno strumento da olimpiadi? «Sono vere le due cose. È vero che non sono molte le occasioni in cui farvi ricorso, ma qualche volta capita: è utile poter memorizzare un elenco di nomi oppure un intero discorso da tenere in pubblico».
Paolo Rossi Monti, lo studioso italiano scomparso nei giorni scorsi, è stato autore del primo studio moderno sull’argomento («Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz» del 1960). Nel ricordarlo Umberto Eco ha messo in guardia da eccessi speculari: l’oblio ma anche la memoia onnivora, non selettiva, che, osservava Nietzsche, uccide la capacità di sorprendersi e di entrare in azione. Lei cosa ne pensa?
«Paolo Rossi per me è stato uno degli autori di riferimento. Ed è stato entusiasmante scoprire quanto lavoro, nel suo complesso, sia stato fatto a livello accademico su questo tema, senza che a livello diffuso ce ne sia coscienza. Pensiamo al Funes di Borges, l’uomo che ricordava troppo e non riusciva appunto a vivere... Saper dimenticare ci insegna a scegliere: a ricordare ciò che è importante e cancellare quello che non lo è».
Nell’epoca di Google le tecniche di memorizzazione umana non sono obsolete? Studiarle, come ha fatto lei, non è paradossale?
«È come chiedersi: perché studiare calligrafia nell’epoca delle tastiere? Le tecnologie sono un “outsorcing” per la nostra memoria. Lo sono da tempi remoti, dai primi disegni umani nelle grotte di Lascaux. Grazie al ricorso a esse i nostri processi cognitivi si sono modificati. E oggi siamo arrivati al punto di aver dimenticato come si ricorda!».
Foer, lei è ebreo. Che effetto le fa parlare di memoria in questo senso nella Giornata della Memoria dedicata al ricordo della Shoah?
«Non sapevo che oggi qui ci fosse questa ricorrenza. Ecco quanti significati assume la stessa parola. Cos’è la memoria? Secondo a chi lo chiediate, un tecnocrate o un neuroscienziato, uno storico o uno psicoanalista, la risposta sarà diversa».
Repubblica 27.1.12
Germaine, la donna che ha riscritto la tragedia del Lager
di Tzvetan Todorov
Germaine Tillion (1907-2008) è una figura esemplare nella storia del XX secolo in Francia. Da una parte, è un personaggio impegnato attivamente nella vita politica del suo paese: resistente della prima ora, prigioniera e deportata nel corso della Seconda guerra mondiale; militante per la pace e la dignità umana, contro la violenza durante la guerra d'Algeria (1954-1962) ; combattente per i diritti umani nei decenni seguenti. Dall'altra, è una delle etnologhe più originali che la Francia abbia conosciuto e una storica di prim'ordine, autrice di studi esemplari sulla guerra d'Algeria, Les Ennemis complémentaires (1960), e sulla deportazione, con Ravensbrück.
Germaine Tillion è dunque prima di tutto un'abitante del campo, e solo dopo la sua storica. Viene deportata per la sua attività di resistente nel campo di Ravensbrück, situato a nord di Berlino e destinato principalmente alle donne, alla fine dell'ottobre 1943.
Poiché Ravensbrück descrive nel dettaglio la vita del campo, qui sarà sufficiente indicare alcune date che scandiscono la prigionia di Tillion. Nel febbraio 1944, ha la brutta sorpresa di vedere la propria madre arrivarvi a sua volta: Émilie Tillion è stata imprigionata e deportata in quanto complice della figlia. All'inizio del mese di marzo 1945 accade un evento traumatico per Tillion: la madre viene inviata nella camera a gas di Ravensbrück, condannata a morte per i suoi capelli bianchi. Il 23 aprile 1945, infine, fa parte di un gruppo di deportate liberate dalla Croce Rossa svedese.
Molto presto viene sollecitata a dare la propria testimonianza su quanto ha vissuto. Il suo primo testo su Ravensbrück, scritto nel 1945, viene pubblicato l'anno seguente in un volume dedicato al campo, contenente i contributi di numerose ex deportate. Il suo capitolo, di gran lunga il più corposo, si intitola "à la recherche de la vérité"; è scritto in prima persona, ma Tillion non vi riporta delle esperienze personali, si propone al contrario di accertare, nella misura del possibile, fatti oggettivi, corroborati dalle testimonianze di altre deportate. Ma, proprio in questo periodo, interviene un cambiamento importante nella maniera in cui Tillion concepisce il lavoro di conoscenza nell'ambito delle scienze umane e sociali. Le parole "fame"o "sofferenza" hanno cambiato senso; ora sa, infinitamente meglio di prima, a cosa corrispondano. Non si tratta affatto di sostituire il sapere con l'autobiografia, ma di ammettere che, di per sé, gli avvenimenti sono privi di senso: questo non può nascere che grazie all'interrogazione formulata da un essere umano particolare. La necessità di armonizzare queste due fonti, la materia esteriore e l'esperienza interiore, condurrà Tillion a rimettere mano al suo Ravensbrück.
È dopo la fine della guerra d'Algeria e dopo aver pubblicato la sua opera capitale sulla condizione delle donne che Tillion ritorna a Ravensbrück. La ragione immediata di questa decisioneè la pubblicazione di un libro che la tocca personalmente: si tratta di un saggio in cui si sostiene l'inesistenza delle camere a gas nel campo femminile. Tillion, che vi ha perduto la madre, ne è profondamente colpita e mette mano a una nuova versione della sua descrizione di Ravensbrück. Ma la trasformazione che impone alla sua pubblicazione originale è molto più radicale.
Quella che nel 1972 intraprende questa riscritturaè una persona differente da quella che, nel 1945, componeva il suo sobrio resoconto. Ora Tillion è decisa a introdurre la propria esperienza personale nella descrizione oggettiva del campo. Fin dall'introduzione al libro, offre il racconto del proprio arresto e della deportazione, come quello, più doloroso per lei, della prigionia, della deportazione e dell'uccisione di sua madre. Questa prospettiva rinnova tutto lo scritto che segue e conduce a un'ultima parte dove si trovano formulate alcune fondamentali questioni di metodo, soprattutto quella del difficile rapporto tra impegno e imparzialità, esperienza vissuta e riflessione astratta.
Un esempio dell'impatto del vissuto sul sapere è fornito dall'analisi che Tillion conduce sulla stratificazione per classi e per nazioni osservabile all'interno del campo. Mentre, nella versione del 1946, faceva prova di un certo "etnocentrismo" di classe, descrivendo le lavoratrici volontarie come provenienti dalla «feccia della nostra società» e le prostitute come «scorie irrimediabilmente perdute per la società», nel libro pubblicato nel 1973 sostituisce la prima frase con «non provenivano certo dall'élite della nostra società» ed elimina completamente la seconda. L'esperienza del dopoguerra l'ha condotta a cambiare un'altra descrizione: partendo dalla sua nuova concezione di patriottismo, rinuncia ad attribuire in modo definitivo delle qualità e dei difetti alle etnie e alle nazioni. Nella prima versione poteva ancora parlare dell'«indegno popolo tedesco» che aveva «osato reclamare delle colonie», poteva evocare «quella propensione a tutte le dissolutezze che si trova nei tedeschi di entrambi i sessi». Dopo aver vissuto la guerra d'Algeria, non si permette più alcuna generalizzazione di questo tipo.
Negli anni che seguono la pubblicazione di questa seconda versione, Tillion non smette di tenersi al corrente su tutto ciò che si pubblica su Ravensbrück e i campi, non smette neppure di interrogare e di reinterpretare le proprie riflessioni, e questo la conduce, nel 1988 (ha appena compiuto ottant'anni!), a una terza e ultima versione di Ravensbrück, quella che esce oggi in italiano. I cambiamenti sono di nuovo numerosi, il piano del libro è completamente rivoltato, ma il punto di vista resta lo stesso: dopo aver assimilato tutto il materiale disponibile, ricrea il mondo del campo a partire da se stessa, e questo porta a una sintesi feconda degli elementi soggettivi e oggettivi. Ravensbrück ci appare oggi come un libro unico, che riesce a superare non solo la separazione tra testimonianza e storia, ma anche quella tra conoscenza e saggezza. Il risultato delle meditazioni dell'autrice non è tuttavia sempre incoraggiante. Il ritratto di Himmler è abbozzato in un paragrafo intitolato "I mostri sono uomini".
Conclusione piuttosto inquietante, perché se i mostri sono rari, gli uomini siamo tutti noi.
Non è tuttavia la paura ciò che Tillion ha trattenuto della sua terribile esperienza, ma l'irreprimibile voglia di dare il proprio contributo perché al mondo ci sia un po' più di giustizia e un po' più di verità. Se Ravensbrück, malgrado i fatti deprimenti che evoca, non produce un sentimento di disperazione, è perché attraverso questo libro si entra in contatto con un essere luminoso, animato d'umorismo e anche, per quanto ciò possa sembrare paradossale, di gioia di vivere. Può darsi che Germaine abbia ereditato questa forza da sua madre, Émilie Tillion, se si guarda alla lettera in cui quest'ultima si rivolge a una delle sue amiche del campo, solamente pochi giorni prima di essere uccisa. Scrive: «L'idea delle larghe compensazioni che la nostra vita presente ci offre mi ha d'altronde sempre sostenuta. Al di fuori delle grandi, imperiose ragioni che abbiamo di essere qui, sono convinta che vi troviamo uno straordinario allargamento del nostro orizzonte, in tutti gli ordini di idee, e possibilità insospettate». Ravensbrück è uno dei prodotti più compiuti di questo "straordinario allargamento".
©Fazi editore 2012 (traduzione di Gabriella Bacelli)Germaine Tillion (1907-2008) è una figura esemplare nella storia del XX secolo in Francia. Da una parte, è un personaggio impegnato attivamente nella vita politica del suo paese: resistente della prima ora, prigioniera e deportata nel corso della Seconda guerra mondiale; militante per la pace e la dignità umana, contro la violenza durante la guerra d'Algeria (1954-1962) ; combattente per i diritti umani nei decenni seguenti. Dall'altra, è una delle etnologhe più originali che la Francia abbia conosciuto e una storica di prim'ordine, autrice di studi esemplari sulla guerra d'Algeria, Les Ennemis complémentaires (1960), e sulla deportazione, con Ravensbrück.
Germaine Tillion è dunque prima di tutto un'abitante del campo, e solo dopo la sua storica. Viene deportata per la sua attività di resistente nel campo di Ravensbrück, situato a nord di Berlino e destinato principalmente alle donne, alla fine dell'ottobre 1943.
Poiché Ravensbrück descrive nel dettaglio la vita del campo, qui sarà sufficiente indicare alcune date che scandiscono la prigionia di Tillion. Nel febbraio 1944, ha la brutta sorpresa di vedere la propria madre arrivarvi a sua volta: Émilie Tillion è stata imprigionata e deportata in quanto complice della figlia. All'inizio del mese di marzo 1945 accade un evento traumatico per Tillion: la madre viene inviata nella camera a gas di Ravensbrück, condannata a morte per i suoi capelli bianchi. Il 23 aprile 1945, infine, fa parte di un gruppo di deportate liberate dalla Croce Rossa svedese.
Molto presto viene sollecitata a dare la propria testimonianza su quanto ha vissuto. Il suo primo testo su Ravensbrück, scritto nel 1945, viene pubblicato l'anno seguente in un volume dedicato al campo, contenente i contributi di numerose ex deportate. Il suo capitolo, di gran lunga il più corposo, si intitola "à la recherche de la vérité"; è scritto in prima persona, ma Tillion non vi riporta delle esperienze personali, si propone al contrario di accertare, nella misura del possibile, fatti oggettivi, corroborati dalle testimonianze di altre deportate. Ma, proprio in questo periodo, interviene un cambiamento importante nella maniera in cui Tillion concepisce il lavoro di conoscenza nell'ambito delle scienze umane e sociali. Le parole "fame"o "sofferenza" hanno cambiato senso; ora sa, infinitamente meglio di prima, a cosa corrispondano. Non si tratta affatto di sostituire il sapere con l'autobiografia, ma di ammettere che, di per sé, gli avvenimenti sono privi di senso: questo non può nascere che grazie all'interrogazione formulata da un essere umano particolare. La necessità di armonizzare queste due fonti, la materia esteriore e l'esperienza interiore, condurrà Tillion a rimettere mano al suo Ravensbrück.
È dopo la fine della guerra d'Algeria e dopo aver pubblicato la sua opera capitale sulla condizione delle donne che Tillion ritorna a Ravensbrück. La ragione immediata di questa decisioneè la pubblicazione di un libro che la tocca personalmente: si tratta di un saggio in cui si sostiene l'inesistenza delle camere a gas nel campo femminile. Tillion, che vi ha perduto la madre, ne è profondamente colpita e mette mano a una nuova versione della sua descrizione di Ravensbrück. Ma la trasformazione che impone alla sua pubblicazione originale è molto più radicale.
Quella che nel 1972 intraprende questa riscritturaè una persona differente da quella che, nel 1945, componeva il suo sobrio resoconto. Ora Tillion è decisa a introdurre la propria esperienza personale nella descrizione oggettiva del campo. Fin dall'introduzione al libro, offre il racconto del proprio arresto e della deportazione, come quello, più doloroso per lei, della prigionia, della deportazione e dell'uccisione di sua madre. Questa prospettiva rinnova tutto lo scritto che segue e conduce a un'ultima parte dove si trovano formulate alcune fondamentali questioni di metodo, soprattutto quella del difficile rapporto tra impegno e imparzialità, esperienza vissuta e riflessione astratta.
Un esempio dell'impatto del vissuto sul sapere è fornito dall'analisi che Tillion conduce sulla stratificazione per classi e per nazioni osservabile all'interno del campo. Mentre, nella versione del 1946, faceva prova di un certo "etnocentrismo" di classe, descrivendo le lavoratrici volontarie come provenienti dalla «feccia della nostra società» e le prostitute come «scorie irrimediabilmente perdute per la società», nel libro pubblicato nel 1973 sostituisce la prima frase con «non provenivano certo dall'élite della nostra società» ed elimina completamente la seconda. L'esperienza del dopoguerra l'ha condotta a cambiare un'altra descrizione: partendo dalla sua nuova concezione di patriottismo, rinuncia ad attribuire in modo definitivo delle qualità e dei difetti alle etnie e alle nazioni. Nella prima versione poteva ancora parlare dell'«indegno popolo tedesco» che aveva «osato reclamare delle colonie», poteva evocare «quella propensione a tutte le dissolutezze che si trova nei tedeschi di entrambi i sessi». Dopo aver vissuto la guerra d'Algeria, non si permette più alcuna generalizzazione di questo tipo.
Negli anni che seguono la pubblicazione di questa seconda versione, Tillion non smette di tenersi al corrente su tutto ciò che si pubblica su Ravensbrück e i campi, non smette neppure di interrogare e di reinterpretare le proprie riflessioni, e questo la conduce, nel 1988 (ha appena compiuto ottant'anni!), a una terza e ultima versione di Ravensbrück, quella che esce oggi in italiano. I cambiamenti sono di nuovo numerosi, il piano del libro è completamente rivoltato, ma il punto di vista resta lo stesso: dopo aver assimilato tutto il materiale disponibile, ricrea il mondo del campo a partire da se stessa, e questo porta a una sintesi feconda degli elementi soggettivi e oggettivi. Ravensbrück ci appare oggi come un libro unico, che riesce a superare non solo la separazione tra testimonianza e storia, ma anche quella tra conoscenza e saggezza. Il risultato delle meditazioni dell'autrice non è tuttavia sempre incoraggiante. Il ritratto di Himmler è abbozzato in un paragrafo intitolato "I mostri sono uomini".
Conclusione piuttosto inquietante, perché se i mostri sono rari, gli uomini siamo tutti noi.
Non è tuttavia la paura ciò che Tillion ha trattenuto della sua terribile esperienza, ma l'irreprimibile voglia di dare il proprio contributo perché al mondo ci sia un po' più di giustizia e un po' più di verità. Se Ravensbrück, malgrado i fatti deprimenti che evoca, non produce un sentimento di disperazione, è perché attraverso questo libro si entra in contatto con un essere luminoso, animato d'umorismo e anche, per quanto ciò possa sembrare paradossale, di gioia di vivere. Può darsi che Germaine abbia ereditato questa forza da sua madre, Émilie Tillion, se si guarda alla lettera in cui quest'ultima si rivolge a una delle sue amiche del campo, solamente pochi giorni prima di essere uccisa. Scrive: «L'idea delle larghe compensazioni che la nostra vita presente ci offre mi ha d'altronde sempre sostenuta. Al di fuori delle grandi, imperiose ragioni che abbiamo di essere qui, sono convinta che vi troviamo uno straordinario allargamento del nostro orizzonte, in tutti gli ordini di idee, e possibilità insospettate». Ravensbrück è uno dei prodotti più compiuti di questo "straordinario allargamento".
©Fazi editore 2012 (traduzione di Gabriella Bacelli)
La Stampa 27.1.12
Australia, gli aborigeni mettono in fuga la premier
Julia Gillard salvata dalla scorta, ma correndo perde una scarpa
470.000 indigeni, minoranza tra i 22 milioni di australiani
224 anni fa. I primi inglesi arrivarono a Sydney il 26 gennaio 1788
di Stefano Gulmanelli
SYDNEY Un agente della sicurezza protegge la premier laburista australiana Julia Gillard contestata a aggredita da un gruppo di aborigeni Diritti Solo nel 1967 è stato riconosciuto ai nativi australiani il diritto di voto Nel 2008 sono state presentate le scuse ufficiali del governo per le sofferenze inflitte nei secoli
Scortata fuori fra le braccia di un poliziotto, a testa china, il viso stravolto e con una sola scarpa, perché l’altra era rimasta sulla scalinata del ristorante da cui è dovuta scappare. È finita così la partecipazione del Primo Ministro Australiano Julia Gillard a una celebrazione indetta durante l’«Australia Day», la giornata in cui si ricorda l’arrivo nella Baia di Sydney, il 26 gennaio 1788, della First Fleet, la flotta britannica con cui iniziò la colonizzazione.
L’uscita del tutto non convenzionale della Gillard dal ristorante «The Lobby» di Canberra si è resa necessaria dopo che circa duecento manifestanti aborigeni, provenienti dalla «Ambasciata della Tenda Aborigena», avevano cominciato a picchiare sulle vetrate del locale urlando «razzisti» e «vergogna» a coloro che si trovavano al suo interno.
L’Ambasciata Aborigena della Tenda è un accampamento permanente di attivisti allestito nel parco davanti al vecchio Parlamento a Canberra, di cui cade in questi giorni il 40˚ anniversario. Attraverso questo presidio gli aborigeni promuovono richieste e rivendicazioni su diritti e sovranità territoriale. Per quanto il governo federale non l’abbia mai riconosciuta - come vorrebbero i gruppi promotori - quale vera e propria delegazione diplomatica, la Tenda è considerata anche dalle autorità australiane un sito legittimo di lotta politica degli aborigeni.
La protesta violenta degli attivisti radunati nelle sue vicinanze è stata innescata dai commenti fatti durante la mattinata dal Leader dell’Opposizione Tony Abbott, il quale, pur riconoscendo che la Tenda - con le iniziative promosse dal gruppo che la anima - ha ottenuto risultati ragguardevoli per la causa aborigena, ha concluso che «forse è il momento di chiuderne l’esperienza». Va ricordato che per la stragrande maggioranza degli Aborigeni l’«Australia Day» è nient’altro che la celebrazione di un’invasione - infatti loro lo chiamano «Invasion Day» - e i commenti di Abbott proprio in un giorno simile sono stati considerati da molti attivisti una provocazione. Da qui l’assalto al ristorante dove sia la Gillard sia Abbott si trovavano per presenziare alla premiazione di membri appartenenti ai servizi di emergenza.
Alcuni degli assalitori, interpellati dai media locali, hanno sostenuto di aver creduto che nel ristorante ci fosse solo Abbott, ma questo non ha mutato il giudizio fortemente critico anche nei confronti del Primo Ministro. «Non è nemmeno venuta fuori a parlare con noi - ha detto Sean Gordon, uno dei manifestanti -. Invece è corsa via, come una codarda».
A dire il vero, le circostanze non erano davvero di quelle che lasciavano molto spazio a tentativi di incontri conciliatori: durante l’assalto, le vetrate del locale rimbombavano sotto le manate dei manifestanti e lo stesso Abbott ha detto di aver avuto paura che potessero prima o poi essere frantumate. L’immediato intervento delle forze di sicurezza - alle quali si sono aggiunti anche membri della squadra antisommossa - ha consentito ai due leader di lasciare in fretta il locale da un’uscita laterale.
È stato durante questa fuga precipitosa che al Primo Ministro Gillard si è sfilata la scarpa blu marina. Il fatidico momento è finito immortalato sulla pagina Facebook della «Ambasciata della tenda», accompagnato da una didascalia dal tono beffardo e amaro: «Che cosa volete che sia perdere una scarpa in confronto alla perdita di un intero Continente? »
La Stampa 27.1.12
“Ma Castellucci mette in scena la predica di un prete”
di Gabriele Vacis
Autore, regista teatrale, cinematografico e televisivo Gabriele Vacis, torinese, è tra i fondatori della Cooperativa Laboratorio Teatro Settimo. Ha curato la regia di spettacoli quali «Libera nos» ispirato alle opere di Meneghello; «Novecento», «Olivetti», con Laura Curino. Premio UBU 1995 per il teatro civile, ha promosso festival teatrali e diretto le regie di opere liriche. Ha assistito allo spettacolo di Castellucci accusato di blasfemia.
Una scena dello spettacolo di Castellucci Sul concetto di volto nel figlio di Dio
Io l’ho visto. Lo spettacolo di Castellucci «Sul concetto di volto nel figlio di Dio», io l’ho visto. Comincio dicendolo perché credo che molti di coloro che ne parlano non l’abbiano visto. Soprattutto credo che non l’abbiano visto molti di quelli che lo contestano, che vorrebbero censurarlo o che recitano litanie per espiarne l’esistenza. Io ne parlo perché l’ho visto. E perché mi hanno insegnato che San Tommaso è una figura positiva. Mi hanno insegnato che quel ragazzo che non ci credeva fin che non aveva visto, a Gesù, stava a cuore più di altri.
Quando ho visto lo spettacolo di Castellucci ho pensato a un prete. Un prete che organizzava il Grest quand’ero piccolo. Uno che ci faceva giocare a pallone, e alla fine della giornata, tutti sudati, ci radunava in chiesa e ci leggeva «I ragazzi della via Paal». Quando ho visto lo spettacolo di Castellucci ho pensato ad una predica di quel prete. Una domenica, alla messa delle nove, la messa del fanciullo che lui aveva ribattezzato «messa dei ragazzi». Quella domenica era andato al microfono, aveva guardato tutti, uno per uno, poi aveva staccato una domanda, così, senza preamboli: - perché Dio permette che esista il male? Don Ferrero non era uno che andava per il sottile. Era uno che «prendeva per il collo i problemi», l’ho sentito dire una volta. Quando ho visto lo spettacolo di Castellucci ho pensato che la domanda era la stessa. Forse declinata un po’ più brutalmente: com’è possibile che esista Dio se permette tutto questo male? Ma la sostanza è quella. E anche il tono: il tono di uno che prende per il collo i problemi. Come Bernanos, come Testori, come Don Ciotti o Padre Bianchi. Il tono di quei credenti che non fondano la loro fede sulla superstizione, sull’adesione supina a riti consolatori, ma che, la fede, se la conquistano andando a mettere il naso nelle questioni più spinose. Come San Tommaso. Se è il caso anche scandalizzando. Non è scandaloso che un prete, una domenica mattina, sbatta in faccia a dei ragazzini quel problema enorme e, probabilmente insolubile? Lo è. Com’è scandaloso un padre che continua a farsela addosso mentre il figlio deve andare a lavorare.
Perché questo racconta lo spettacolo di Castellucci: una delle nostre tante miserie quotidiane. Solo che sul fondo della scena realistica, talmente realistica da farci sentire la puzza, sul fondo c’è un enorme ritratto di Cristo dipinto da Antonello da Messina. La miseria più cruda e la bellezza assoluta. Insieme. C’è bellezza nello spettacolo di Castellucci. E c’era molta bellezza in quei ragazzini assonnati alla messa dei ragazzi messi di fronte alla realtà più cruda. Era bella la voce di don Ferrero, era bello il nostro stupore, era bello sentirsi sbattere sulla faccia la verità. Perché la bellezza e la verità forse sono la stessa cosa.
Così nello spettacolo di Castellucci c’è la verità di una tragedia molto comune. Raccontata con grande cura. Mentre l’altra sera, al telegiornale, il servizio sulla contestazione allo spettacolo, ha mostrato persone che alla domanda: ma lei lo spettacolo l’ha visto? Si arrampicavano sui vetri per non ammettere che, no, non l’avevano visto... Però erano lì a urlare e a celebrare messe di riparazione. Due chiese, quella di don Ferrero e quella dei contestatori dello spettacolo di Castellucci. Due realtà molto diverse. Una chiesa che guarda in faccia la realtà quindi intima domande scomode, e in questo modo produce bellezza, utile anche a chi non crede. Una chiesa che si rifiuta di andare a vedere, si consola di liturgie senza memoria e, non riuscendo ad intimare alcuna domanda, alcuna verità, cerca di intimidire quelli che ci provano. "COME SAN TOMMASO «Il tono è di quei credenti che conquistano la fede mettendo il naso in questioni spinose»"
Corriere della sera 27.1.12
Magra e nevrotica: se la donna è un processo mentale (degli uomini)
di Francesca Bonazzoli
Sarà l'aria poco allegra che tira nei consumi, sarà che nel commercio non si può propinare la stessa confezione per troppi anni, fatto sta che la pubblicità dei prodotti femminili sta cominciando ad abbandonare il cliché della modella emaciata, scontrosa e imbronciata, il tipo dell'esistenzialista annoiata e nevrotica alla Kate Moss, per intenderci. Finalmente fanno timidamente capolino sorrisi, sguardi diretti, espressioni più vivaci se non intelligenti, insomma più gioia di vivere rispetto all'altezzoso e annoiato distacco delle anoressiche che ci è stato propinato più o meno negli ultimi vent'anni.
La colpa, però, non è dei pubblicitari: loro non inventano mai niente, ma rielaborano immagini già conosciute e riconoscibili, anche se in modo subliminale, che fanno insomma già parte del nostro Dna visivo e dunque provengono dall'arte. Più che mai per quanto riguarda l'immagine della donna, soggetto per eccellenza di millenni di scultura, pittura e poi fotografia.
Il repertorio che l'arte mette a disposizione della pubblicità copre tutta la gamma della bellezza fisica e psicologica femminile, ma si può dividere in due grandi gruppi: le grasse e felici da una parte e le magre e nevrotiche dall'altra.
Le donne di Wildt, con le guance scavate, le occhiaie profonde, il naso affilato e le mani lunghe e affusolate, a un passo dal sembrare artigli, appartengono a pieno titolo al secondo gruppo. Ma a loro volta hanno illustri antenate o contemporanee, prime fra tutte le femmes fatales della Vienna fin de siècle di Klimt: le Giuditte, le Salomé e le signore dell'alta borghesia industriale praticamente coeve alle vergini, alle Marie e sante immacolate di Wildt: queste ultime più spirituali nei pensieri, ma non meno nevrotiche nelle apparenze.
Un altro celebre cultore della bellezza emaciata fu Edvard Munch che, nella vita, le donne le temeva davvero e infatti le dipinse anche come vampiri. Ma l'elenco sarebbe troppo lungo: andare a cercare questo modello muliebre nel Novecento appare fin troppo facile e basti pensare a Kirchner, Schiele o Helmut Newton. Quello che può sorprendere di più è invece ritrovare la bellezza estenuata già nel Cinquecento, nella prima epoca nevrotica, quella manierista.
Dopo le bellezze perfette, serene e sensuali di Raffaello, Giorgione, Leonardo e Tiziano, gli artisti si interrogarono su come superare tali maestri e non trovarono di meglio che accentuare la perfezione ideale della Bellezza trasformandola in artificiosità. Ecco quindi che Parmigianino inventa ben prima di Modigliani colli allungati, teste piccole ed espressioni malinconicamente assenti. Lo stesso si può dire per le figure dai volti allampanati del Rosso Fiorentino, delle nobildonne algide e assenti di Bronzino o di quelle serpentinate e dagli occhi interrogativi del Pontormo, accusato di essere tedesco, ovvero di aver abbandonato l'armonia della venustà classica per quella gotica, alla Cranach, il padre di tutte le donne ossute della pittura nordeuropea.
Insomma, quando a essere rappresentata non è tanto la donna, quanto la sua idea, allora assistiamo alla stilizzazione mentale della sua forma come già era successo nel Quattrocento per esempio con Pisanello e Cosmè Tura che dipingevano donne uscite dall'immaginario fiabesco dei poemi di corte e cavallereschi, più illustrazioni da codice miniato che rappresentazioni reali. Una tentazione in cui cadde anche Botticelli, con le sue donne algide e distanti, più mentali che carnali, il tipo femminile in voga nella Firenze neoplatonica, opposto a quello esaltato a Venezia, capitale della prostituzione dove certi predicatori come il Savonarola non potevano mettere piede e dove veniva apprezzata la Venere formosa e sensuale.
Alla base di ogni ideale di bellezza, quale che sia, ci sono dunque gli stereotipi sulla virtù morale della donna, gli stessi imperituri, da secoli. Da una parte la donna diavolo tentatrice (Eva) e dall'altra la donna vergine e santa (Maria), una rielaborazione cristiana del kalòs kai agathòs greco dove al bello corrisponde il buono morale (mentre in Grecia il buono era civico). A stabilire il canone di bellezza, poi, è sempre l'uomo, dal mito di Paride in su: è lui ad assegnare la mela che sancisce il modello. Soltanto, a volte, l'uomo è confuso e non sa se preferire Eva o Maria finendo così per mescolare i canoni di bellezza, se non addirittura i generi sessuali come fecero Michelangelo che mascolinizzò le donne o Leonardo che femminilizzò gli uomini.
Nel frattempo, per la donna, la cristianità ha trovato una terza via, quella della Maddalena penitente, la peccatrice che non può ambire alle virtù di Maria, ma che può redimersi attraverso la preghiera, il digiuno, la sottomissione.
Siamo entrati nel secondo millennio ma anche a causa della pubblicità che li perpetua, gli stereotipi sulla bellezza femminile non sono cambiati.
Repubblica 27.1.12
La fabbrica-lager in Cina dove nascono gli iPad
di Charles Duhigg e David Barboza
Un venerdì sera del maggio scorso un'esplosione ha dilaniato l'Edificio A5.
Quando le tute blu che erano a mensa sono corse fuori a guardare cosa fosse accaduto, hanno visto alzarsi fumo nero dall'area nella quale gli operai lucidavano migliaia di tavolette iPad al giorno. Due sono rimasti uccisi sul colpo e molte decine di altri hanno subito lesioni. Tra i feriti, uno pareva particolarmente grave: aveva i lineamenti del volto cancellati dalla forte esplosione.
Bocca e naso erano ridotti a una poltiglia rossa e nera. «Lei è il padre di Lai Xiaodong? », ha chiesto una voce quando il telefono è squillato nella casa in cui è cresciuto Lai, e dalla quale il giovane ventiduenne si era trasferito a Chengdu, nel Sud Ovest della Cina, per diventare una delle milioni di ruote umane del grande ingranaggio che alimenta la più veloce e sofisticata catena di montaggio sulla Terra. «Suo figlio sta male. Si rechi subito in ospedale».
Negli ultimi dieci anni, Apple è diventata una delle più potenti, ricche aziende di successo al mondo. Malgrado ciò, gli operai che assemblano iPad, iPhone e altri apparecchi spesso lavorano in condizioni estreme, secondo quanto affermano i dipendenti delle fabbriche, i difensori dei lavoratori e alcuni documenti pubblicati dalle stesse aziende. I problemi vanno da ambienti di lavoro gravosia questioni di sicurezza.
Gli operai lavorano in turni lunghi, fanno molti straordinari, talvolta anche sette giorni su sette, e vivono in affollati dormitori. Alcuni stanno in piedi per così tante ore che le gambe si gonfiano al punto da non permettere loro di camminare. Operai in età minorile aiutano ad assemblare alcuni prodotti Apple, e le fabbriche che la riforniscono hanno smaltito in modo improprio rifiuti pericolosi e falsificato i registri: a sostenerlo sono alcuni rapporti aziendali e gruppi di difesa che, in Cina, sono spesso considerati affidabili.
La cosa più preoccupante, però - prosegue la denuncia del gruppo - è che le fabbriche non tengono in alcun conto la salute degli operai. Due anni fa presso uno stabilimento Apple della Cina orientale 137 operai si ammalarono gravemente dopo essere stati costretti a utilizzare una sostanza chimica tossica per lucidare gli schermi degli iPhone. Nel giro di soli sette mesi l'anno scorso due esplosioni avvenute in altrettante fabbriche di iPad - una a Chengdu - hanno fatto 4 morti e 77 feriti. L'Apple era stata avvisata delle condizioni pericolose di lavoro all'interno dell'impianto di Chengdu: così afferma il gruppo cinese che aveva reso noto l'avvertimento. «Se l'Apple era stata avvertita e nonè intervenuta, è da biasimare» dice Nicholas Ashford, ex presidente del National Advisory Committee on Occupational Safety and Health, un ente che offre consulenze al Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti. L'Apple non è l'unica società di elettronica a fare affidamento su simili fabbriche e stabilimenti. Pessime condizioni di lavoro sono state documentate anche negli impianti di produzione di Dell, Hewlett-Packard, IBM, Lenovo, Motorola, Nokia, Sony, Toshiba e altri ancora.
Dirigenti ed ex dirigenti dell'Apple affermano che negli ultimi anni l'azienda ha messo a segno significativi progressi nel migliorare gli stabilimenti di produzione. L'Apple ha un codice comportamentale che gli stabilimenti dei fornitori sono tenutia rispettare, e che precisa gli standard inerenti al lavoro, alla sicurezza, a numerose altre questioni. Apple ha anche avviato un'importante campagna di verifiche e revisioni. I problemi più significativi, però, sussistono.
Si è scoperto che oltre la metà degli stabilimenti che riforniscono la Apple ha violato ogni anno e dal 2007 una almeno delle norme previste. «Alla Apple non è mai interessato altro che aumentare la qualità del prodotto e abbassare i costi di produzione», dice Li Mingqi, ex manager alla Foxconn Technology, uno dei più importanti partner della catena di produzione di Apple. Li, che ha portato in tribunale Foxconn per essere stato licenziato, ha aiutato a dirigere lo stabilimento di Chengdu dove si è verificata l'esplosione.
Lai Xiaodong sapeva che la fabbrica di Foxconn a Chengdu era particolare: gli operai costruiscono l'iPad, il prodotto della Apple più innovativo. Ottenuto un posto per riparare le apparecchiature dello stabilimento, avevano subito notato le luci, accecanti. I turni di lavoro erano anche di 24 ore al giorno e la fabbrica era illuminata notte e giorno. Alcuni avevano gambe talmente gonfie da trascinarsi a fatica. Dalle pareti i manifesti ammonivano i 120mila operai a "sgobbare sodo oggi o a sgobbare sodo domani per trovarsi un nuovo lavoro". Il codice comportamentale della Apple per le fabbriche fornitrici prevede che, salvo eccezioni, gli operai non debbano lavorare più di 60 ore a settimana. A Foxconn, invece, alcuni lavoravano molto di più, come documentano le buste paga e alcuni sondaggi condotti da gruppi esterni. Gli operai che arrivavano in ritardo al lavoro spesso dovevano scrivere una confessione di colpevolezza e copiare citazioni.
Da alcune rivelazioni risulta che c'erano "turni continui". In alcuni dormitori della Foxconn dormono fino a 70mila persone, stipate anche in 20 in un trilocale. La Foxconn ha definito menzognere le dichiarazioni degli operai sui turni continui, gli straordinari e gli alloggi sovrappopolati.
La mattina in cui si è verificata l'esplosione, Lai si era recato al lavoro in bicicletta. L'iPad era stato appena lanciato sul mercato e gli operai avevano l'ordine di lucidarne a migliaia ogni giorno. Il lavoro nella fabbrica era frenetico.
C'era polvere d'alluminio ovunque. Due ore dopo l'inizio del secondo turno di Lai si è verificata una serie di esplosioni. Alla fine il bilancio delle vittime sarebbe stato di quattro morti, e 18 feriti. Il corpo di Lai è stato straziato sul 90 per cento della superficie. La fabbrica ha fatto avere alla famiglia circa 150mila dollari. A dicembre è esplosa un'altra fabbrica di iPad, a Shanghai. Il bilancio delle vittime è stato di 59 feriti. Nel rapporto sulle proprie responsabilità, Apple ha scritto che anche se in entrambi i casi le esplosioni hanno coinvolto polvere di alluminio combustibile, le cause erano diverse, ma si è rifiutata di fornire dettagli. Per la famiglia di Lai, molte domande restano senza risposte. (Copyright New York Timesla Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti)
Repubblica 27.1.12
L'astrofisico, padre delle Pulsar, è scomparso ieri all'età di 72 anni
Addio a Pacini, scienziato e signore delle stelle
di Claudia Di Giorgio
Di Franco Pacini, il grande astronomo scomparso ieri all'età di 72 anni, si può ricordare la lunga carriera scientifica, a partire dai suoi studi degli anni Sessanta, quando le sue previsioni sull'esistenza di stelle rotanti di neutroni furono poi confermate dalla scoperta delle pulsar, e che sono proseguiti portando a oltre cento pubblicazioni scientifiche di livello internazionale. Carriera che la comunità mondiale degli scienziati ha deciso di onorare dedicandogli un asteroide.
Si può ricordare l'impegno costante e instancabile di promozione e organizzazione della ricerca scientifica: in primo luogo all'Osservatorio astronomico di Arcetri, di cui è stato direttore dal 1978 al 2001 e che era un po' la sua creatura, e senz'altro il suo orgoglio-e in altre istituzioni internazionali come l'European Southern Observatory, e l'Unione astronomica internazione (Uai), di cui è stato presidente dal 2001 al 2003.
Si possono ricordare le battaglie civili e culturali, spesso combattute insieme alla sua amica Margherita Hack.
Per la diffusione della cultura scientifica, che l'ha sempre visto in prima linea, per cui ha lavorato e lottato ritenendola una questione di democrazia ancor prima che di cultura. Ma anche battaglie più strettamente politiche, come quella contro la riforma Moratti, per cui scese in piazza a difesa dell'autonomia della ricerca insieme ai giovani ricercatori che restituivano simbolicamente provette e microscopi.
Eppure la cosa di Franco Pacini che più resta impressa a chi lo ha conosciuto è la passione. La sensazione che in tutto ciò che faceva mettesse tutto se stesso, senza risparmio e a volte persino senza cautele. Era un uomo di entusiasmi profondi e profonda energia e determinazione, toscanissimo nelle ironie - e nelle invettive: anche in queste non sempre badava al risparmio.
Uno scienziato che a fare scienza non solo ci credeva ma ci si divertiva anche parecchio, e forse il segreto della sua grande abilità di comunicatore era proprio questo. La capacità di trasmettere quella passione e quel divertimento non tanto con le parole ma col suo essere semplicemente se stesso: Franco Pacini, astronomo e instancabile difensore della scienza.
Grande, alto, armato di pipa appena era possibile, aveva la struttura fisica del burbero e invece era capace di tratti gentilissimi. Con i bambini, a cui negli ultimi anni aveva dedicato grande attenzione impegnandosi in ogni modo per avvicinarli alla scienza fin da piccoli, era, semplicemente, fantastico. Lo ricordiamo, durante un festival della scienza, mentre stava dentro un tendone torreggiando su un gruppetto di bimbi piccolissimi che lo seguivano rapiti mentre parlava della natura, del cielo e delle stelle con una semplicità che non diventava mai né stucchevole né condiscendente.
Sapeva raccontare, Franco Pacini, era un narratore eccellente. Ma non raccontava favole o fantasie. Sapeva raccontare la gioia della scoperta scientifica, il piacere dello studio della natura, la felicità di usare l'intelligenza per cercare risposte a domande grandi quanto l'universo.
E non importa se quelle risposte le troverà qualcun altro. Lo spiegò proprio lui, in una intervista di diversi anni fa, alla giornalista poco esperta e anche un po' spaventata dalla complessità delle cose di cui parlava, che gli chiedeva dove trovasse il coraggio un astronomo come lui per lavorare a progetti i cui risultati si sarebbero concretizzati nell'arco di decenni, di cui insomma era impossibile raccogliere personalmente i frutti.
Rispose che non serviva alcun coraggio. Che il fatto che il lavoro e gli sforzi di chi indaga oggi sulla natura del cosmo siano la base delle scoperte di domani è il corso normale della ricerca scientifica. Che far parte di quel lungo filo di intelligenze umane che si dipana nei secoli, costruendo un po' alla volta la comprensione del mondo, è un privilegio. «E io, Franco Pacini, sono un uomo privilegiato».
Repubblica 27.1.12
Udine
"Qui il film non si fa" la clinica di Eluana dice no a Bellocchio
UDINE - Lunedì a Cividale del Friuli cominciano le riprese della "Bella addormentata", il film di Marco Bellocchio liberamente ispirato alla storia di Eluana Englaro. Ma dopo la Regione, che a dicembre ha firmato un ordine del giorno per non concedere finanziamenti alla produzione, anche la casa di cura la Quiete di Udine, dove venne ricoverata e morì il 9 febbraio del 2009 per la ragazza in stato vegetativo da 17 anni, chiude la porte in faccia al regista dei "Pugni in tasca" e di "Vincere".
Con voto unanime il consiglio di amministrazione ha infatti detto no alla richiesta di concedere riprese all'interno della clinica e appoggi logistici al film interpretato da Toni Servillo e Alba Rohrwacher.
«La richiesta riguarda attività del tutto estranee ai fini istituzionali dell'azienda che ci impongono di assistere persone fragili ed anziani. E poi dobbiamo tutelare la tranquillità, la sicurezza e la privacy dei nostri ospiti», si giustifica il presidente dell'Asp, Aldo Gabriele Renzulli. Ben diverso l'atteggiamento della città di Udine. La giunta Honsell ha infatti subito comunicato alla Film commission la disponibilità ad ospitare in città la troupee il set. Non solo, ha dato in affitto un appartamento in via Dante per le riprese e assicurato la disponibilità del Comune ad agevolare la realizzazione del film attraverso il rilascio dei permessi, le ordinanze stradali, la presenza di vigili. Intanto tre giorni fa la casa di produzione, Cattleya, ha presentato alla Film Commission la richiesta di un contributo sino 150mila euro.
Repubblica 27.1.12
Primo ciak per Bellocchio, fondi o non fondi
Dopo la polemica sui fondi regionali, Marco Bellocchio lunedì a Udine farà il primo ciak di La Bella Addormentata, film ispirato alla storia di Eluana Englaro con Rohrwacher e Servillo.