martedì 27 dicembre 2011

l’Unità 27.12.11
La lotta al fascismo restò sempre la sua bussola
di Nicola Tranfaglia


In un periodo storico caratterizzato da una crisi economica e politica difficile e dall’esito incerto, la scomparsa di un grande giornalista quale è stato per più di 50 anni il cuneese Giorgio Bocca, riporta tutti, con il pensiero, alla resistenza contro i nazisti e i fascisti di Salò. Una vicenda dura che ha segnato Bocca più di altre. In quei venti mesi, dal settembre 1943 all’aprile 1945, una parte non piccola dei giovani italiani educati dalla dittatura mussoliniana decisero di prendere le armi, salire sulle montagne e lottare per un’Italia libera. Dopo la battaglia di quasi un secolo prima per conquistare l’unificazione nazionale seguita a molti secoli di divisioni e di servitù dagli stranieri quella fu una seconda grande occasione per gli italiani di mostrare al mondo come esponenti delle nuove generazioni fossero disposti a rischiare la vita per riconquistare una libertà che mancava all’Italia dall’ottobre 1922.
Giorgio Bocca (che pure, fino al 1942, era stato legato alle parole d’ordine del regime) di fronte alle sconfitte militari e alla caduta del dittatore nel luglio 1943, si rese conto con lucidità della nuova fase che si apriva per l’Italia e della necessità di mettersi in gioco. A quella dura ma esaltante esperienza, che lo vide prima comandante di una brigata nel Cuneese e successivamente commissario politico di una divisione di Giustizia e Libertà, Bocca avrebbe poi dedicato uno dei suoi libri più riusciti, «Partigiani della montagna». Un viaggio nel significato storico e culturale della guerra armata che attraversò per quasi due anni l’intera penisola dalla Sicilia alle Alpi.
Quella esperienza compiuta da giovane lo segnò in maniera decisiva. Per tutta la vita rimase fedele agli ideali e alle battaglie che aveva combattuto, sempre vigile contro i rigurgiti di fascismo che in varie occasioni sarebbero riemersi durante la storia tormentata del settantennio repubblicano. Pensando alla sua vita mi viene in mente un altro italiano illustre, l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che ha intitolato qualche anno fa un suo libro di memorie «Non è il Paese che sognavo».
Giorgio Bocca in uno dei suoi ultimi scritti, «Annus horribilis» del 2009, ha esaminato l’epoca del trionfo dei populismi che ha caratterizzato quest’ultima fase della storia repubblicana. Un periodo di crisi per il nostro Paese, nella quale Berlusconi ha svolto, come ci ha sempre ricordato Bocca, un ruolo fondamentale e pericoloso. Insomma, il filo dell’antifascismo e della battaglia democratica restano una costante nel lungo lavoro di un grande giornalista italiano.

il Fatto 27.12.11
Silenzio indecente
di Paolo Flores d’Arcais


Non lo permetteremo”. “Non si può”. “Questo mai più”. Sono solo tre parole. Potrebbero ridursi a due: “Basta profittatori”. Per scandirle con la solennità dovuta non si impiegano più di cinque secondi. Com’è possibile, senatore Monti, che lo spazio per questi cinque secondi Ella non li abbia ancora trovati? Ha forse deciso di lasciare in esclusiva l’onore di questo doveroso e improcrastinabile monito al capo dello Stato, che siamo certi aprirà con questi accenti il suo messaggio di Capodanno?
Perché davvero l’arroganza della Casta ha ormai travolto ogni argine non diciamo della decenza (quell’argine è stato picconato da anni) ma della soglia emetica: le recenti grassazioni legali della Regione Lazio, pronuba la signora Polverini, sono farmacopea da vomito continuo per ogni cittadino ancora degno del nome. E le porcherie analoghe – al centro e alla periferia e in ogni ganglio del potere – hanno nome “legione”. Davvero non si rende conto, signor Presidente del Consiglio, che se di fronte alla Casta che continua a dilapidare il danaro pubblico per prebende e pensioni ai propri amici e amici degli amici, Ella finge di non vedere e di non sentire, si fa complice? Perché si pecca per atti ma anche per omissioni, ce lo insegnano al catechismo fin da bambini, Ella che va a messa ogni domenica lo sa meglio di noi.
Perciò quelle due o tre parole, quei cinque secondi di senso dello Stato, ce li aspettiamo. Sono un atto dovuto. Non certo per equità, di cui non c’è traccia nelle sue misure legislative benché ce ne sia overdose nelle sue porta-a-porta, ma per un più irrinunciabile senso del pudore, che anche in un governo dalla parte dei privilegiati non dovrebbe mancare, sia pure in dosi omeopatiche. Gli uomini e le donne della Casta hanno il potere di imporre sacrifici, tagliare pensioni già di sopravvivenza, tassare tenori di vita non lontani dalla povertà. Lo stanno facendo senza risparmio e con qualche penosa lacrima di coccodrillo. Non possono, nello stesso fiat, con quelle tasse arricchirsi e arricchire sodali devoti, omertosi complici e altri “compagni di merende”. Perché non sarebbero più tasse, sarebbe bottino, sarebbe rapina, sarebbe infamia. Vorrebbe dire giustificare ogni montare della collera nel “terzo Stato”, fino all’odio. Sarebbe istigazione a delinquere, perversa volontà di sciogliere ogni “contratto sociale”, che giustificherebbe ogni eccesso di rivolta.
Quei cinque secondi di verità e di decenza sono il debito minimo che Ella deve onorare con gli italiani onesti.

il Fatto 27.12.11
“I partiti e il professore? Ora comandano i signorotti”
Michele Ainis spiega: “Ogni leader di fazione rivendica il suo diritto di veto”
di Wanda Marra


Il governo Monti per sopravvivere deve tenere conto non solo dei partiti, nella loro totalità, ma dei vari signorotti di partito”. L’analisi è del costituzionalista Mi-chele Ainis, che ricostruisce punti di forza e punti di debolezza dell’esecutivo, proprio a partire dallo “spappolamento” dei partiti.
Professore, La Russa ieri ha lanciato un’ammonizione: “Monti dovrà guadagnarsi ogni settimana, ogni mese il certificato di sopravvivenza”. E anche Berlusconi ha ribadito più volte il concetto. Come valuta queste pressioni?
La temperatura che accompagna la vita di questo governo è un po' sempre la stessa: i partiti si conservano la pallottola in canna. Bisogna vedere chi prima farà fuoco. Anche perché da parte loro si tratta di una situazione più subìta che scelta.
Ma non è normale che un governo dipenda dal voto parlamentare?
Certo, non sta mica lì per investitura divina. E ogni occasione è buona per la revoca della fiducia. Per questo, però, vale ancor di più: in genere quando cade un governo, si tratta sempre di suicidio. In questo caso sarebbe omicidio.
Ma guardando a questa prima fase dell’esecutivo, sembra che non siano solo i partiti a tenere Monti in scacco, ma anche il contrario, visto che questi evidentemente non hanno la forza né di prendersi delle responsabilità in proprio, né di andare al voto. O no?
Probabilmente è vero anche questo. Io penso che i partiti non esistano più in quanto tali: esistono dei notabili, dei signorotti di partito. Ma quelli che erano guidati da Berlinguer, da Moro, da Craxi non ci sono più. In questa situazione governare è più difficile. Pensiamo a questa legislatura, che nasce con un governo con due gambe, che piano piano perde l’appoggio. Prima si stacca la componente di Fini, poi diventano fondamentali i Responsabili, poi cominciano a minacciare anche Scajola e gli scajoliani.
E questo come si incrocia con il discorso sui partiti che faceva prima?
La vicenda politica di quest'ultima parte della Seconda Repubblica è che non ci sono partiti organizzati, ma partiti personali, a destra, come a sinistra (Berlusconi, Bossi, Di Pietro, Vendola). Ai partiti personali ora si sta sostituendo una coabitazione coatta: un aggregato di personalità che formalmente convivono dentro un partito, ma sono in realtà uno contro l'altro. Con dei veto players infiniti. Il governo per sopravvivere deve tenere conto di tutti questi signorotti. Che in questa fase non siedono nel governo, non decidono in prima persona, ma sono costretti a chiedere.
L'altra faccia della medaglia però non è proprio la ricattabilità dei partiti da parte di Monti?
Di certo non è interesse del Pdl andare a votare, perché prenderebbe un bagno. Come non lo è del Pd, né del Terzo polo che si sta riorganizzando.
Dunque, chi è il più forte?
A conti fatti è Monti. Perché siamo in una situazione di emergenza, in questo momento nessun partito è abbastanza forte da potersi sottoporre a una prova elettorale. E questo è un punto di forza per lui. Il fatto che però nei partiti ognuno si muova per il suo tornaconto è un elemento di debolezza.
Il governo Monti è davvero un esecutivo tecnico o in realtà è politico?
Nasce come governo tecnico e poi si imbastardisce. Le nomine dei ministri, Monti le ha fatte da solo, anche se certo le telefonate ci sono state. Ma poi è con la nomina dei sottosegretari e dei vice-ministri che ha dovuto soddisfare di più le richieste dei partiti.
Dopo il primo giro di boa, il professore è stato più deludente o più soddisfacente?
Si è fatta questa manovra, che andava fatta. Si sono corretti i conti. Non si è salvato il Paese. Le liberalizzazioni sono state poche e sicuramente il principio di equità non è stato rispettato. Per sintetizzare, vanno bene i numeri, ma non il modo in cui sono stati raggiunti. Ora bisogna vedere cosa farà Monti in futuro.
Secondo lei da chi è più
condizionato: dal Pdl che, almeno a quel che si vede, ha messo più veti degli altri partiti o dalle lobby?
Non ho un microfono a Palazzo Chigi. Ma certamente siamo di fronte a uno spappolamento, a uno sfarinamento.
Tornando alle parole di La Russa, dunque?
Ogni governo deve guadagnarsi la sopravvivenza giorno per giorno. Ma calata in questa realtà, l’affermazione di La Russa suona come una sorta di altolà. Lui parla come il capo di una fazione, uno che dice: non c’è solo Berlusconi, ci siamo anche noi.
Ma come fa Monti a sopportare tutto questo?
Giulio Cesare ha sopportato di peggio. Credo che chiunque nella sua situazione dovrebbe sopportare lo stesso. E fare il presidente del Consiglio dovrebbe dare una certa soddisfazione.
Quanto durerà?
Difficile dirlo. C’è il passaggio della Consulta sul referendum elettorale a fine gennaio. Oppure a originare un incidente può essere un sondaggio particolarmente favorevole a un partito.

il Riformista 27.12.11
La questione sociale: inedita e spietata
di Emanuele Macaluso


A Roma, giorno di Natale, il tempo era bello, il cielo azzurro e il sole invitavano a godersi la città senza il gran traffico. Insomma, c’erano le condizioni per trascorrere una giornata serena con i familiari. Invece, nell’aria e nell’animo mio c’era qualcosa che non si conciliava con la giornata: un malessere accumulato in un anno in cui l’incerto è diventato ancora più incerto e quel che ci circonda ci inquieta e ci rattrista. La questione sociale appare come insolubile. Ho conosciuto momenti più amari e pesanti di questi, ma c’era una speranza, si intravedeva una via di uscita, anche se lontana. Penso agli anni del fascismo, della guerra, della fame: parlo dei primi anni quaranta. C’era, allora, il convincimento che gli Alleati avrebbero vinto la guerra e si intravedeva un mondo nuovo, il tutto ci dava fiducia. Io, e tanti ragazzi, in quegli anni scegliemmo la lotta antifascista con la certezza di essere nel giusto e di contribuire a fare una società migliore.
La speranza: anche gli anni del dopoguerra, tra crisi e sviluppo, in un clima caratterizzato da lotte sociali, politiche e civili, la speranza che il mondo potesse cambiare in meglio era nella mente di tante persone. C’era certezza pure nel nemico da battere: il capitalismo l’imperialismo, da una parte, il comunismo dall’altra. Anche chi perdeva il lavoro, o era costretto ad emigrare dal Sud al Nord, in Germania, in Svizzera in Belgio, affrontava la vita con la speranza di cambiare il peggio in meglio.
Ora non è così. C’è un nemico, invisibile e globalizzato, di cui tutti parlano male: la grande finanza. Ma nessuno sa come individuarlo e combatterlo. E, in ogni caso, nessuno ha le armi e l’organizzazione globale per farlo. Il giorno di Natale, il Tg3 delle 19, lodevolmente ci ha fatto vedere squarci della società del malessere. Operai licenziati con le famiglie su una torre trascorrevano il loro Natale al freddo per dire a tutti: ci siamo anche noi. Ha parlato anche una giovane operaia di Reggio Emilia licenziata, con tutte le sue compagne e compagni, dato che i padroni della fabbrica Omsa ormai produrranno le calze in Serbia dove la mano d’opera costa meno e il fisco è tenero. Una realtà che non è certo figlia del governo Monti, il quale semmai deve fronteggiarla. Ma molti si chiedono: chi è il nemico che cospira contro i lavoratori italiani? E dov’è la forza che possa opporsi all’internazionale del capitale dato che non c’è l’internazionale del lavoro? La lotta di classe, che alcuni sapienti hanno cancellato, si presenta sotto forme inedite e spietate.
Intanto, per molti la cassa integrazione sta finendo e l’operaia reggiana Angela Cavalli, con due figliolette, rimedia piccoli doni per le bambine ma non sa cosa farà e come vivrà domani. «Levandomi il lavoro, mi hanno annullato», ha detto Angela. Quante sono oggi le persone che si sentono “annullate”. È una domanda che inquieta il Natale, anche perché sembra che le proteste, le lotte, l’opposizione a questo stato di cose non hanno sbocco. Eppure non bisogna arrendersi, occorre cercare lo sbocco, riorganizzando le forze degli “annullati” e degli annullabili. I pionieri del socialismo capirono che bisognava organizzarsi non solo nelle “leghe di miglioramento” e nel partito socialista italiano, ma nel mondo. Cose vecchie! Ma la questione sociale di oggi ripropone i temi che furono in un mondo diverso e con problemi diversi le ragioni dell’Internazionale socialista. È un’utopia? Ma se non si comincia a parlarne, l’operaia di Reggio Emilia o di Termini Imerese si sentirà sempre più sola e annullata. Che fare? Dovrebbe essere il tema di chi capisce che il nemico “invisibile” e visibilissimo qui, in Europa e nel mondo, ma la sinistra così com’è non riesce a renderlo visibile e a combatterlo qui, in Europa e nel mondo. È questo il tema dell’anno che si va ad aprire.

l’Unità 27.12.11
Fuga di massa dal Cie di Torino: scappano in 21


Un gruppo di immigrati rinchiusi nel Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Torino è riuscito a evadere, domenica sera, e a fare perdere le sue tracce. Si è trattato di un tentativo di fuga di massa: sono stati almeno 35 gli stranieri che, eludendo in qualche modo la sorveglianza e arrampicandosi o danneggiando le reti, hanno varcato il muro di cinta. Quattordici sono stati raggiunti e bloccati dalla polizia in via Lancia, a poche centinaia di metri, degli altri 21 non si hanno notizie. Nel Cie un primo tentativo di evasione si era già verificato la sera di sabato e in quell’occasione, per bloccare gli aspiranti fuggitivi, erano stati impiegati gli idranti.
A favorire il secondo tentativo di evasione è stato il fatto che le serrature delle casette-dormitorio, forzate la sera prima, non erano state ancora riparate. Anche in questa occasione i sorveglianti avrebbero messo in azione gli idranti. Secondo alcune fonti uno degli stranieri si è ferito cadendo dal muro che tentava di scavalcare; è stato raggiunto e medicato.

il Fatto 27.12.11
Torna al Viminale il prefetto che rifiutò di schedare i rom
Carlo Mosca consigliere del ministro Cancellieri
di Silvia D’Onghia


Quando entravi nel suo ufficio, in Prefettura, avvertivi subito il clima di serenità. Carlo Mosca accoglieva i giornalisti col sorriso sulle labbra, il volto disteso e rassicurante anche nelle giornate più intense, la voce ferma ma pacata di chi ha ben chiaro cosa fare e cosa, soprattutto, non fare. Mai una parola di troppo, mai una frase fuori luogo. Un uomo dall’infinita esperienza che sa esprimersi con la chiarezza delle persone semplici. Con quella stessa chiarezza con cui si è opposto, senza mediazioni, alle disposizioni razziste di un Viminale in mano ai leghisti. Non a caso il nome del Prefetto Mosca è circolato nei giorni antecedenti alla formazione del governo Monti, quale possibile ministro dell’Interno. Al suo posto è stato preferito un altro Prefetto, Annamaria Cancellieri. E però Mosca al Viminale tornerà, come uno dei sei consiglieri – senza compenso – dell’ex collega.
MILANESE, classe 1945, laureato in giurisprudenza e scienze politiche a Sassari e Napoli, ha un curriculum di tutto rispetto. Direttore dell’ufficio per il Coordinamento e la Pianificazione generale dei servizi di ordine e sicurezza, Segretario del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, vice Direttore del Sisde, Capo di Gabinetto del Viminale. Solo per citare alcuni suoi incarichi. Ma è a Roma che Mosca ha lasciato un’impronta indelebile. Nominato Prefetto della capitale il 20 luglio 2007, con Veltroni sindaco, ha sempre indirizzato il suo operato alla fermezza, ma anche alla solidarietà, alla sicurezza, ma anche alla diplomazia. Controllo, non stato di polizia, anche quando l’ordine pubblico è diventato terreno fertile per lo scontro elettorale. Letti col senno di poi, fanno sorridere gli auguri dell’allora presidente della federazione romana di An, Gianni Alemanno, il giorno dell’insediamento di Mosca. Alemanno non sapeva che, di lì a un anno, il Prefetto sarebbe diventato il suo nemico numero uno nella battaglia contro l’inesistente “emergenza nomadi”.
Mosca era consapevole che la percezione di insicurezza per le strade della capitale andava aumentando, e certo non la sottovalutava. Ma, anzichè reprimere, dialogava. Così fu in occasione del derby del 31 ottobre 2007, quando decise di far svolgere la gara alle 20.30 e senza alcuna restrizione per le tifoserie, nonostante un clima non proprio pacifico. Uomo dello Stato, fino in fondo. Fino a condannare senza appello, ma con pacatezza, l’idea delle ronde: “Chi pensa di farsi giustizia da solo, è fuori dalla legge” dichiarò il 2 novembre dello stesso anno.
MA È SU STRANIERI e rom che il Prefetto ha giocato la sua battaglia più importante, quella che alla fine gli è costata la poltrona ma gli ha salvato l’anima. In linea più con Veltroni che con Alemanno, ma fermamente convinto che non esista sicurezza senza integrazione. E quindi gli sgomberi firmati a malincuore, quando non c’era la possibilità di garantire alle famiglie rom una sistemazione alternativa dignitosa. Tanto che una volta Mosca chiese anche al cardinal Ruini di mettere a disposizione le strutture della chiesa non occupate. Chi si aspettava un intervento massiccio sulle espulsioni, rimase deluso dalla sua azione “proporzionata”.
Mosca sapeva bene che non ha senso parlare di “nomadi”, quando si tratta di persone stanziali da 40 anni. “La prima emergenza vera di Roma è la casa – spiegava –. Nel momento in cui si avviano percorsi per affrontare la questione abitativa, si evita la contrapposizione fra italiani e gli altri ritenuti diversi”. Casa, scuola, lavoro uguale integrazione. Anche perchè si parlava, all’epoca, di appena 15 mila persone. Quando, il 31 maggio 2008, fu nominato da Alemanno commissario straordinario per l’emergenza rom, mise subito i primi paletti: sì al censimento, no a compiti di polizia. Non voleva gli sgomberi, Mosca, eppure il sindaco continuava a fargliene uno dietro l’altro. Ma soprattutto non voleva che i bambini rom diventassero criminali. La battaglia finale si è giocata su questo. Maroni e Alemanno da una parte, decisi a schedare con le impronte digitali anche i minori di 14 anni; il Prefetto dall’altra, intenzionato a fare solo una “ricognizione”, al limite attraverso le fotografie. Una frattura che si è consumata tra giugno e luglio del 2008 e che ha portato il Consiglio dei Ministri, il 13 novembre, a sostituire Mosca col Prefetto Pecoraro, più vicino alla linea del primo cittadino. “Ho fiducia nei tempi lunghi, nei tempi che danno ragione a chi opera nel giusto”, disse Mosca. Oggi, con il suo posto al Viminale, i tempi sembrano avergli dato ragione.

il Fatto 27.12.11
Manifesto e Unità protestano
Milleproroghe, i 7 milioni che imbarazzano Radio  Radicale
di Stefano Caselli


No, non siamo affatto contenti. L’idea di passare per quelli che tolgono il pane ai colleghi della carta stampata non ci piace affatto”. Paolo Martini, direttore di Radio Radicale, non nasconde l’imbarazzo. Come da tradizione ormai quasi ventennale, lo Stato italiano ha deciso di rinnovare la convezione con la storica emittente romana per il servizio di copertura dei lavori parlamentari, stanziando 7 milioni di euro per il 2012, ma le modalità scontentano tutti. La bozza del decreto Milleproroghe, infatti, dirotta il contributo a favore di Radio Radicale dal ministero dello Sviluppo economico (ex ministero delle Comunicazioni) a una “riduzione dell’autorizzazione di spesa prevista dalla legge 416 sull’editoria”, ossia il già falcidiato fondo di Palazzo Chigi per la carta stampata che, causa Radio Radicale, subirà un ulteriore taglio.
UNA SCELTA che il manifesto e l’Unità, due tra le molte testate in difficoltà per il taglio dei contributi all’editoria, non mancano di stigmatizzare: “Un decreto molto radicale”, titola il manifesto sotto l’eloquente testatina “il pacco è per noi”: “La radio di Pannella – si legge sul quotidiano comunista – al fondo editoria già attinge in quanto organo di partito per le trasmissioni non in convenzione. Due vesti, un unico fondo. Una condizione assolutamente unica nel già disomogeneo mondo dell’informazione italiana”. L’Unità (che sabato 24 dicembre ha inaugurato una prima pagina totalmente di pubblicità) definisce il Milleproroghe “un bel regalo di Natale per Radio Radicale” .
“Un regalo non richiesto – ribatte Martino – anche perché destinare 7 milioni dal fondo per l’editoria significa vedere i soldi con molti mesi di ritardo. In questi giorni, per esempio, vengono erogati i finanziamenti del 2010. Il Milleproroghe sa tanto di tappabuchi. Visto che la nostra convenzione è scaduta a novembre, il governo ha pensato di risolvere la questione distraendo una cifra inferiore a quella richiesta dal fondo per l’editoria, il che significa ricevere il finanziamento con molto ritardo. In questi giorni, per esempio, Palazzo Chigi sta pagando i rimborsi del 2010. Francamente da un esecutivo tecnico ci saremmo aspettati meno ambiguità e più trasparenza, invece ci sembra che sia stata semplicemente tappata una falla, garantendo un finanziamento che non si sa se e quando potrà essere erogato. In pratica si è lasciata la decisione definitiva a chi verrà dopo. E ci hanno messo in imbarazzo con i colleghi della carta stampata”.
RADIO RADICALE – e su questo sono quasi tutti d’accordo – fornisce un servizio unico nel panorama italiano. Tuttavia l’interrogativo sul perché mai, in tempi di crisi, il rinnovo della convenzione sia puntuale come il Natale, rimane: “Non lo consideriamo affatto un diritto acquisito – risponde Martini – non vogliamo l’esclusiva per i servizi parlamentari. Se allo Stato interessa il servizio, noi siamo in grado di fornirlo. Abbiamo cominciato nel 1979 rubando il segnale della Camera, poi abbiamo chiesto che fosse bandita una gara. Bene, nel 1994, quando è stata indetta, siamo stati gli unici a presentarci”.
Ma per il servizio pubblico non esiste già la Rai? “Certo – dice ancora il direttore dell’emittente pannelliana – c’è Gr Parlamento, ma costa molto di più di Radio Radicale per 12 ore di trasmissione al giorno contro 24. In più noi abbiamo un archivio on line che, senza falsa modestia, non ha eguali. Ripeto, se allo Stato interessa il nostro servizio, noi siamo in grado di fornirlo. Altrimenti ne possiamo fare a meno”.

l’Unità 27.12.11
«Quegli attacchi sono il prodotto di un odio diffuso»
Lo storico: «Nel Paese due comunità antitetiche I qaedisti soffiano sul fuoco di un’ostilità
che si nutre anche di un forte malessere sociale»
di Umberto De Giovannangeli


Sarebbe riduttivo leggere il “Natale di sangue” in Nigeria come l’azione di un gruppo legato alla nebulosa qaedista. L’attacco alle Chiese ha dietro di sé qualcosa di più vasto e radicato che chiama in causa una radicale inconciliabilità tra la maggioranza musulmana e la vasta minoranza cristiana». A sostenerlo è uno dei più autorevoli e affermati storici dell’Africa italiani: Angelo Del Boca.
La comunità internazionale ha avuto parole di ferma condanna dei sanguinosi attentati di Natale in Nigeria contro Chiese cristiane, rivendicati dal gruppo terrorista di matrice islamica Boko Haram, che hanno fatto almeno 40 morti, e circa 110 complessivamente se si contano altri attentati compiuti nell’ultima settimana. Come leggere questo «Natale di sangue»?
«Non mi convince una lettura che riduce i sanguinosi attacchi contro le Chiese cristiane come la guerra scatenata da un gruppo qaedista i cristiani in Nigeria. Quelli di Boko Haram saranno stati gli esecutori materiali degli attentati ma ciò che dovrebbe preoccupare è l’humus culturale, il retroterra molto più vasto e pervasivo che sottende a questa campagna di odio che non nasce certo in questo Natale 2011...».
A cosa si riferisce in particolare?
«Per inquadrare questi tragici eventi occorre tenere ben presente la composizione etnico-religiosa del Paese. La Nigeria è a maggioranza islamica ma con una importante minoranza cristiana importante non solo per le sue dimensioni ma anche per essere parte delle classi più abbienti che abbraccia tutte le Chiese. Questa volta hanno attaccato i protestanti, altre volte i cattolici, e alla fine tocca sempre al Papa lanciare l’allarme e pregare per la pace. I gruppi legati alla nebulosa qaedista, i cosiddette “Talebani nigeriani” portano all’estremo una ostilità che va ben oltre i confini dell’Islam radicale armato. In Nigeria l’ostilità verso la comunità cristiana è vasta e radicata nella maggioranza islamica. Si tratta di due comunità antitetiche. Ciò che meraviglia è che la polizia arrivi sempre in ritardo, ma è una meraviglia spiegabile, visto che la polizia è composta in gran parte da musulmani».
Di fronte a questi sanguinosi attacchi, da più parti si invoca una protezione internazionale nei confronti della comunità cristiana. Cosa ne pensa? «Penso che in linea di principio sarebbe una iniziativa condivisibile, ma nei fatti irrealizzabile...». Perchè irrealizzabile?
«A parte l’opposizione prevedibile del governo nigeriano, si tratterebbe di organizzare una protezione su un territorio di quelle dimensioni. La Nigeria è il Paese più vasto, oltre che il più ricco, dell’Africa. Stiamo parlando della protezione di milioni di persone, non di piccoli gruppi che sarebbe facile selezionare e proteggere...».
La Nigeria, lei ha sottolineato, non è solo il Paese più vasto ma anche il più ricco dell’Africa. Questo secondo aspetto può influire su questa «guerra di religione»?
«La comunità cristiana si colloca nella fascia alta della società nigeriana. Questo può aver accresciuto l’ostilità della comunità musulmana meno abbiente e su questa ostilità sociale i gruppi più radicali hanno costruito al loro propaganda armata. Gli attacchi avvengono sempre verso Chiese che hanno le carretteristiche di cattedrali, con la loro ricchezza manifesta. Per questo diventano simboli di una opulenza negata alle masse musulmane».
C’è il rischio che il caso nigeriano, in termini di attacco alle comunità cristiane, possa attecchire anche in altri Paesi del continente africano? «Direi di no. E penso di poterlo affermare con cognizione di causa, visto che l’Africa oltre ad averla studiata l’ho anche frequentata in lungo e largo...La Nigeria ha ua sua specificità no riproducibile, comunque non con quei caratteri e radicalità, nel resto dell’Africa». Questi sono giorni di bilanci. Che anno è stato il 2011 per l’Africa?
«È stato l’anno del grande balzo in avanti in termini di crescita economica. Per molti decenni si è detto e scritto , spesso a sproposito, dell’Africa come di un continente alla deriva, marginale e marginalizzato. Un continente senza futuro, incapace a definire una propria via alla crescita economica e politica. Da qualche anno la storia è cambiata, e il 2011 lo ha sancito evidenziando una svolta imperiosa. Diversi Paesi africani, soprattutto dell’Africa sub-sahariana, hanno avuto un tasso di crescita del 6-7%, che si avvicina a quello dei Paesi asiatici più in vista. E questo balzo in avanti, è bene rimarcarlo, è avvenuto, sia nell’agricoltura che nelle politiche industriali, da scelte locali e non da demiurgici piani della Banca Mondiale o del Fmi. Di questa Africa in crescita si è dovuta accorgere l’America , con questa Africa gli Usa di Barack Obama hanno inteso stabilire relazioni nuove, poco solidaristiche e molto di partnership. L’Africa intende essere protagonista di una nuova governance mondiale. Ha alzato la testa e tutti devono tenerne conto».

l’Unità 27.12.11
Intervista a Michel Kilo
«Assad punta sul caos ma la lotta armata non salverà la Siria»
Parla lo scrittore simbolo della resistenza al regime baathista: «Non credo a un intervento militare esterno, mi batto per una soluzione politica»
di Umberto De Giovannangeli


È una delle figure storiche dell’opposizione al regime del «clan Assad». Il suo nome è Michel Kilo. Scrittore e attivista per i diritti umani, Kilo è stato uno dei promotori della «Dichiarazione di Damasco» del 2005 che chiedeva riforme politiche e democratiche. A causa di questa iniziativa, Kilo è stato condannato a tre anni di prigione dal 2006 al 2009 con l’accusa di aver «indebolito il morale della nazione».
Il nostro colloquio parte dalla sua valutazione del duplice attacco del 23 dicembre a Damasco: «Resto convinto afferma lo scrittore che l’obiettivo del regime sia quello di mostrarsi vittima del terrorismo e di sabotare la missione degli osservatori della Lega Araba. Il duplice attentato non è che una delle fasi della creazione del caos». Una cosa è certa: qualunque sia stata la matrice dell’attacco del 23 dicembre, esso ha determinato un salto di qualità nello scontro in atto da dieci mesi in Siria: «Noi viviamo un dilemma dice Michel Kilo perché da un lato c’è la violenza senza fine del regime che però non ha scoraggiato i movimenti di protesta, dall’altro c’è una sollevazione popolare senza precedenti che però fino ad ora non è riuscita ad avere la meglio sul regime».
Il 12 ottobre scorso, nel corso di una conferenza stampa organizzata da Le Monde Diplomatique presso la sede centrale del quotidiano Le Monde di Parigi, Kilo delineò uno scenario che i fatti di questi ultimi mesi e giorni stanno drammaticamente confermando: «Se il regime continua a spedire l’esercito contro i manifestanti, il movimento che si oppone a Bashar al-Assad si militarizzerà progressivamente. Questo significa che in Siria potrebbe scoppiare una vera e propria guerra civile».
Lo scrittore difende con forza i principi che sono stati alla base della rivolta contro il regime degli Assad, sottolineando che la sollevazione popolare dimostra la grande maturità delle organizzazioni civiche ed in generale della società civile siriana che con questa rivoluzione si fa portatrice di valori nobili quali quelli di libertà e dignità. «Dei valori rimarca Kilo che permetterebbero al nostro mondo, ed in generale a quello musulmano, di uscire dal passato e di proiettarsi verso il futuro».
Per il regime di Bashar al-Assad dietro il duplice attacco di venerdì, che ha provocato almeno 44 morti, c’è la mano di Al Qaeda. Qual è la sua opinione in proposito?
«Resto convinto che il regime cerchi di mostrarsi vittima del terrorismo e che il suo obiettivo sia quello di fomentare il caos. In questo scenario, tutto è possibile. Purtroppo si sta avverando quanto paventai alcuni mesi fa: se il regime continua a spedire l’esercito contro i manifestanti, il movimento che si oppone a Bashar al-Assad si militarizzerà progressivamente. Questo significa che in Siria potrebbe scoppiare una vera e propria guerra civile...È il caos a cui parlavo in precedenza. Un caos nel quale possono inserirsi anche bande armate e gruppi che nulla hanno a che fare con le ragioni della rivolta e cercano di stavolgerne contenuti e forme di lotta. Sono in molti a congiurare contro la “Primavera siriana”».
In passato si è pronunciato per un dialogo con il regime del presidente Assad...
«Non rinnego questa posizione, ma il dialogo partiva dal presupposto che il regime riconoscesse la legittimità delle istanze di cui la stragrande maggioranza dei manifestanti si è fatta portatrice, e ponesse fine alla repressione nelle piazze. Così non è stato: la repressione non si è fermata e piuttosto che aprire alle opposizioni democratiche, il regime continua a gridare al complotto esterno e ora all’attacco terroristico. Alla ricerca del dialogo si risponde con il caos: una scelta sciagurata».
Lei si è detto contrario un intervento militare della comunità internazionale in Siria ed anche contro una deriva militarista della resistenza. È ancora di questo avviso?
«Mi rendo conto che la repressione messa in atto dal regime e il rifiuto a un dialogo possano portare alla conclusione che per abbattere il regime non esistano altre strade che la lotta armata o l’intervento militare internazionale. Ambedue queste opzioni mi sembrano non solo impraticabili ma dannose. Non solo perché alimenterebbero ulteriormente la spirale di violenza, ma anche perché renderebbero improponibile l’obiettivo che è stato alla base della rivolta siriana, accomunandola alle rivolte in Tunisia e in Egitto: l’obiettivo di realizzare uno Stato democratico, pluralista. Questo Stato non può nascere sulle macerie di una guerra “modello Libia” né sul trionfo di forze che vedono nell’insurrezione armata in Siria una tappa del Jihad globalizzato. No, la Libia non può essere un nostro punto di riferimento, semmai porci seri interrogativi anche sul dopo-Gheddafi. Ho sempre concepito il dialogo come lo strumento per aprire contraddizioni all’interno del regime, indebolendolo. Altro che cedimento o resa».
Quale segnale emerso dall’interno del regime le appare più significativo?
«Direi senz’altro le defezioni militari. Un fenomeno crescente che investe tutti i livelli delle Forze Armate siriane. Quello che sembrava una entità compatta ha mostrato profonde incrinature. L’Esercito non intende cadere assieme a Bashar al-Assad, ma cerca di garantirsi un futuro nella Siria post-baathista. In questo, il punto di riferimento è l’Egitto».
È ancora convinto che esista una soluzione politica alla crisi siriana? «Voglio crederlo e per questo continuo a battermi. La guerra non è un’alternativa. È il disastro».
A Damasco sono arrivati gli osservatori della Lega Araba. Cosa si attende da loro?
«Un’operazione di verità. La verità su questi nove mesi di brutale repressione. Per poterlo fare, gli osservatori devono avere una completa libertà di azione, parlare con chi vogliono, andare dove vogliono. La loro non può essere una missione “vigilata”. La verità non va oscurata».

La Stampa 27.12.11
Putin: alla Russia serve una psicoterapia
Nuove proteste per liberare Udaltsov l’attivista arrestato per la terza volta
di Anna Zafesova


La Russia ha bisogno di una «psicoterapia nazionale», che lo Stato deve praticare via Internet e in televisione, per infondere ai russi «certezza nel domani». E’ la risposta, per quanto indiretta, che Vladimir Putin ha dato ieri alla manifestazione di 100 mila persone che sabato l’ha sfidato dalla piazza, al grido di «Nemmeno un voto per Putin» nel marzo 2012. Alla «rivoluzione» nata in Rete il premier propone di rispondere con la propaganda, dopo aver affidato il giorno prima al suo portavoce un altro commento, «abbiamo ascoltato le persone in piazza, con rispetto, ma sono una minoranza».
Il premier è stato contestato sabato da almeno 100 mila persone, il doppio di due settimane fa, e gli slogan, oltre a denunciare i brogli e chiedere nuove elezioni alla Duma, stavolta erano diretti contro l’uomo che il 4 marzo vorrebbe ritornare al Cremlino. E’ la manifestazione più numerosa nei 12 anni di Putin, e ieri il blogger Alexey Navalny, la star della protesta, ha risposto promettendo di far scendere in piazza a febbraio un milione di persone, «se il potere non ci darà ascolto». Considerato da molti l’esponente dell’opposizione con più chances, il giovane (35 anni) attivista ha però insistito di non voler appoggiare un candidato unico che sfidi Putin.
E almeno 200 attivisti dell’opposizione intanto sono tornati a manifestare ieri, per protestare davanti a un tribunale nel centro di Mosca nonostante il Comune gli avesse negato l’autorizzazione contro l’ennesima proroga dell’arresto di Serghei Udaltsov, l’oppositore del «Fronte di sinistra» fermato durante i primi spontanei cortei contro i brogli, e che da 20 giorni non riesce a uscire dal carcere. Nonostante avesse dichiarato uno sciopero della fame che l’ha fatto finire in ospedale, Udaltsov è stato ieri condannato per la terza volta, a 10 giorni.

Corriere della Sera 27.12.11
I figli arrabbiati di Putin che salveranno la Russia

Negli anni ‘90 si è dovuto improvvisare tutto, dalle leggi al mercato, sulle rovine di un colossale esperimento fallito Oggi in piazza vanno i giovani trentenni di successo della nuova classe media, che si sentono ingannati
di Bill Keller


NEI giorni del declino dell´Unione Sovietica, trascorsi molto tempo in un complesso di alti palazzoni lungo la Moscova a sviscerare una questione che mi pareva di importanza cruciale in relazione al futuro: la Russia avrebbe mai saputo dar vita a un´autentica classe media? Non intendevo una categoria di privilegiati, agevolati dallo Stato.
Bensì persone indipendenti e realizzate, in grado di diventare il motore trainante e la prova vivente della mobilità verso l´alto.
Quel complesso di condominii sul fiume era il prodotto di un classico progetto scervellato della Lega comunista giovanile, destinato ad alleviare la penuria di alloggi. Giovani e promettenti professionisti presso importanti aziende statali nel caso specifico erano in buona parte scienziati nucleari e ingegneri spaziali ricevevano permessi per assentarsi per mesi dal lavoro e partecipare a una squadra di operai edili ultra-istruiti. Ogni famiglia doveva investire centinaia di ore del proprio lavoro per preparare il cemento e tirar su muri a secco, per poi trasferirsi nei nuovi e preziosi alloggi. La teoria era che una volta affrancati dalla necessità di condividere i sovraffollati appartamenti dei genitori, ed entrati a far parte di una nuova comunità soddisfatta, gli inquilini del complesso si sarebbero dedicati con ancor più impegno e fedeltà al lavoro, che aveva la massima priorità.
Tutto ciò accadeva nel 1991, epoca di grandi possibilità. Molte mie conoscenze si trasferirono nel nuovo complesso residenziale giovanile "Atom" e di lì a poco si lanciarono nel settore privato. Il più simpatico era Igor: mentre la maggior parte dei nuovi capitalisti si dedicava a intrallazzi e traffici commerciali importando jeans, computer, album di musica rock Igor aveva fondato una propria azienda, con un´idea brillante: dato che la popolazione iniziava a guadagnare ma guardava con sospetto le nuove banche private, Igor si era messo a produrre casseforti di alta qualità in una vecchia fabbrica.
Quelli, in Russia, erano tempi di desideri confusi. La gente voleva essere "normalniye lyudi", gente normale. A migliaia compresi i residenti di Atom i russi si erano riversati per le strade per sventare un colpo di Stato e festeggiare il potere da poco scoperto. E poi? Cos´è successo? È stato necessario improvvisare tutto, dalle leggi al mercato al significato dell´esistenza, sulle rovine fumanti di un colossale esperimento fallito. I racket si sono moltiplicati. Mistici, guaritori, ipnotizzatori hanno attirato le masse. Nella ricerca di qualcosa in cui credere, i residenti di Atom invitarono persino un prete a impartire insegnamenti settimanali attraverso la loro tv a circuito chiuso. Altri, più profani, ospitarono a casa propria una comune del libero amore.
Saltiamo in avanti di un decennio, la metà del tempo necessario ad arrivare ai giorni nostri. La nuova Russia era un progetto ancora in corso di realizzazione. Vladimir Putin, l´oscuro colonnello del Kgb, era diventato un popolare presidente. Putin forniva sufficiente benessere, un senso dell´ordine, un´immagine rassicurante dell´orgoglio nazionale. Il prezzo da pagare era tollerabile: accettare che le cose stavano così. Una minuscola rinuncia della propria dignità. Sta´ zitto e arricchisciti.
In molti all´accattivante confusione dei primi anni Novanta è subentrata la delusione. Lo splendido documentario di Robin Hessman My Perestroika narra le vicende di cinque amici moscoviti poco più giovani che i miei amici di Atom. Il film coglie l´ambivalenza nello scorcio tra l´epoca sovietica e la nuova libertà. Il film raffigura russi che vivono ragionevolmente bene, liberi di esprimere le proprie idee, anche se qualcosa è assente: una sorta di finalità superiore. «Sai», dice Borya, insegnante di storia, «gli ideali che infuocavano il cuore dei russi all´inizio degli anni Novanta sono stati profanati. Non è rimasto niente per cui combattere».
Ad Atom il prete è sparito. Hanno aperto un nuovo centro benessere per migliorare la forma fisica in una terra in cui le statistiche della mortalità sono da sempre legate all´eccessivo consumo di vodka e tabacco. La scuola elementare di Atom ha eliminato i programmi sperimentali (e il preside libero-pensatore), a favore di un curriculum di studi molto impegnativo a successo garantito. Il mio microcosmo, quello che seguivo nel tempo, si è disintegrato e sparpagliato qua e là. Alcuni sono partiti per il Canada o Israele o gli Stati Uniti. Un ex apparatchik della Lega comunista giovanile ha trovato la sua vocazione naturale nel cinico mondo del traffico di armi.
Igor, il costruttore di casseforti, e la moglie Tanya stavano lottando per apprendere come gestire un´impresa, e la loro azienda si è espansa e ha prosperato. Igor si è trasferito con la famiglia in un appartamento più grande, ha acquistato un Suv della Mercedes. Eppure non è a suo agio con il consumismo che logora l´anima, e la corruzione che li circonda. La più grande consolazione è che le due figlie hanno preferito un traguardo culturale che l´ambizione commerciale: Maria dipinge icone religiose, Katya è una pianista.
Ma acceleriamo di un altro decennio, e arriviamo ai giorni nostri. Quando decine di migliaia di persone si sono date appuntamento a Mosca questo mese per protestare contro le elezioni parlamentari e la mano pesante di Putin, i telegiornali hanno dipinto una rivolta della classe media. Il mio primo pensiero a questa notizia è stato di cercare Igor, il mio modello.
Igor e Tanya oggi abitano a Londra. Dopo vent´anni di battaglie contro la burocrazia, la corruzione, la mentalità degli impiegati, Igor ha rinunciato alla Russia, ha venduto la sua azienda e oggi, a 55 anni, sta studiando per un master in design. Ha poca stima della politica o dei politici non ne ha mai avuta ma ha seguito le proteste di Mosca su Internet e se n´è rallegrato. In mezzo alla folla, insieme ad alcuni irriducibili favorevoli al dispotismo, e ad alcuni liberal le cui speranze di vent´anni fa si sono riaccese, Igor ha visto qualcosa che lo ha inorgoglito: giovani professionisti istruiti, all´apparenza normalniye laudi, e tra questi sua figlia Maria.
Un giornalista russo li ha soprannominati "i nuovi arrabbiati": giovani trentenni di successo, abitanti delle grandi città, grandi abbastanza da aver conosciuto qualche parte di mondo, troppo giovani però per provare nostalgia per la confortante uniformità dell´esperienza sovietica, e troppo, troppo giovani per aver paura. Si sentono ingannati e offesi dal "diritto divino" di Putin. Credono che la gente normale meriti leader normali.
Scopriamo così che in effetti la Russia è stata capace di dare vita a una classe media, ma che questo non basta a far nascere la democrazia. Occorre una generazione nata nell´innocenza. Borya, l´insegnante deluso di "My Perestroika" ha detto l´altro giorno al regista che no, lui non ha preso parte alle ultime manifestazioni, ma i suoi studenti sì.
Putin pare inetto nel suo sdegno. Liquida i manifestanti come strumenti dell´America. È ancora difficile intravedere una chiara alternativa a Putin. Tra gli aspiranti leader ci sono un oligarca miliardario proprietario di maggioranza dei New Jersey Nets, una squadra di pallacanestro; il deluso ex ministro delle Finanze di Putin, qualche faccia di una ventina d´anni fa, comunisti, ultranazionalisti, riformisti. Poiché non c´è un leader dell´opposizione, i pronostici danno Putin vincente alle prossime elezioni. Ma la figlia di Igor e gli studenti di Borya, i figli della generazione stessa di Putin, rappresentano la luce in fondo al lungo tunnel sovietico. La lezione per le altre nuove democrazie che nascono sul pianeta forse è questa: occorre tempo. Infatti, si può tirare fuori la gente dal sistema, ma non è così facile togliere il sistema dalla gente.
(© 2011 The New York Times/la Repubblica traduzione di Anna Bissanti)

l’Unità 27.12.11
Palestinese esclusa da premio


La nota marca Lacoste ha ritirato il proprio sostegno finanziario al premio Elysée-Lacoste per i giovani fotografi, dopo una polemica scoppiata sull’esclusione di una partecipante palestinese. Il premio, creato nel 2010 dal Musée de l’Elysée di Losanna quest’anno aveva come tema «La gioia di vivere». La giovane fotografa palestinese Larissa Sansour aveva optato per una rilettura ironica, rappresentando il popolo palestinese vivere in un grattacielo. All’inizio di dicembre, però, il suo nome è misteriosamente
sparito dalla lista dei candidati: come riportato su Le monde l’esclusione sarebbe stata voluta dai dirigenti Lacoste che avrebbero ritenevano l’opera troppo filopalestinese. Immediata la smentita della casa di moda: «l’opera era fuori tema», hanno ribattuto. Inutili i tentativi di mediazione della direzione del museo svizzero. Alla fine la Lacoste ha deciso di ritirare il suo marchio e quindi la sponsorizzazione.

Corriere della Sera 27.12.11
Le maniche corte di una bimba agitano Israele
di Elisabetta Rosaspina


GERUSALEMME — Nemmeno le critiche di Hillary Clinton, segretario di Stato americano, poco più di tre settimane fa a Washington, sulla condizione femminile in Israele, avevano suscitato un tale putiferio: a poco più di 7 anni, Na'ama Margolese ha messo in questi giorni israeliani contro israeliani. Zeloti ortodossi contro laici, ma anche religiosi contro religiosi, polizia e troupe televisive contro integerrimi tutori della Torah, la legge ebraica.
Non c'era riuscita dieci giorni fa nemmeno la 28enne Tanya Rosenblit, subito soprannominata la Rosa Parks israeliana e promossa a paladina dei diritti civili per aver rifiutato di sedersi in fondo a un autobus «mehadrin», quelli dove tuttora gli uomini viaggiano seduti nella metà anteriore e le donne in quella posteriore. Sebbene il 6 gennaio scorso l'Alta Corte israeliana abbia stabilito che la segregazione è illegale, dando un anno di tempo alle società di trasporti per mescolare i passeggeri.
Il posto delle donne, non solamente sui mezzi pubblici, ma nella società israeliana più tradizionale e osservante, è una questione ricorrente e non troppo stuzzicata dal governo conservatore di Benjamin Netanyahu, che, però, domenica scorsa non ha potuto ignorare l'ondata di polemiche sollevata dalla questione: può l'abbigliamento di una bambina di nemmeno 8 anni rappresentare un oltraggio al pudore?
Può, come ha documentato un servizio del secondo canale televisivo israeliano nella cittadina di Beit Shemesh, 80 mila anime, delle quali il 35% rigorosamente ortodosse, a nord ovest di Gerusalemme. Può, come ha urlato nel microfono dell'esterrefatto reporter, un automobilista sinceramente convinto che sia giusto e addirittura «sano» punire una femmina abbigliata in modo «immodesto», a 7 come a 70 anni. E Na'ama era stata punita con sputi, spintoni, insulti e qualche sassata, lungo il tragitto di 300 metri fra casa e scuola. Scuola religiosa, fra l'altro, come la famiglia di immigrati americani in cui è nata, come il guardaroba materno e come il suo, che in Europa sarebbe molto probabilmente giudicato da educanda.
Una maglietta dalle maniche troppo corte, una gonna colorata che non ha coperto a sufficienza le ginocchia, un errore nello scegliere il marciapiede (la strada principale di Beit Shemesh è riservata su un lato agli uomini e sull'altro alle donne), hanno trasformato una scolaretta in una provocante «scostumata», agli occhi di alcuni zeloti, che hanno deciso di rimetterla al suo posto. Tanto che Na'ama ora non vuole più tornare a scuola, nemmeno scortata dalla mamma.
Netanyahu ha alzato la voce, domenica: «Israele è uno Stato democratico, occidentale e liberale. La sfera pubblica è aperta e sicura per tutti, uomini e donne. Non c'è spazio per persecuzioni o discriminazioni». Il ministro dell'Interno, Eli Yishai, a una riunione del suo partito, Shas, il partito dei religiosi ultraortodossi, si è dichiarato «nauseato e disgustato»: «Aggredire una bambina è un atto contrario alla Torah» ha stabilito. Senza poter impedire che ieri, a Beit Shemesh, fossero accolti con lanci di pietre anche i poliziotti inviati a togliere la segnaletica stradale discriminatoria.
Per l'amministrazione israeliana, già provata dallo scandalo di un presidente, Moshe Katsav, costretto alle dimissioni e condannato a 7 anni per violenza sessuale, le barricate misogine degli integralisti sono la risposta meno appropriata ai dubbi di Hillary Clinton. Inquietata dalle direttive dei rabbini più estremisti, che aborriscono perfino il canto femminile nelle cerimonie militari, il segretario di Stato americano aveva commentato: «Sembra di stare a Teheran». Ma le sue parole non avevano fatto breccia quanto le lacrime di Na'ama.

il Riformista 27.12.11
Se anche la Cina è alle prese con i subprime
di Mauro Bottarelli


La Cina, per la quarta volta quest’anno, si è detta pronta ad aiutare l’eurozona: ma Pechino è ancora il grande e credibile player mondiale che ha trascinato la crescita degli ultimi anni? Il ministro per il Commercio cinese ha reso noto che gli investimenti diretti stranieri in Cina a novembre sono calati per la prima volta dal 2009: gli 8,8 miliardi di dollari totali rappresentano infatti una diminuzione del 9,8 per cento rispetto all’anno precedente. In particolare, quelli dagli Stati Uniti sono scesi del 23 per cento a 2,74 miliardi di dollari.
Di più, sempre dati governativi parlano di un trend tutt’altro che ottimistico per l’export cinese nel 2012, della diminuzione del margine di crescita commerciale in dicembre, del calo del 2 per cento dell’export cinese in ognuno degli ultimi tre mesi di quest’anno, a fronte di un aumento delle importazioni del 5 per cento rispetto all’export. Quindi, il deficit commerciale comincia a fare capolino anche in Cina, la locomotiva del mondo rallenta e rimanda sinistri scricchiolii.
Sempre in novembre, la massa monetaria M2 è calata del 12,7 per cento, il peggior arretramento da dieci anni a questa parte. I nuovi prestiti sono calati del 5 per cento sulla basa mese-su-mese e la Banca centrale ha allentato di molto la cinghia, tagliando nettamente le richieste di riserva per le banche per la prima volta dal 2008. Insomma, anche in Cina comincia a scarseggiare la liquidità. Lo confermava ieri il China Daily, che dava notizia del fatto che i due principali creditori provinciali del paese, la Hunan Provincial Expressway Construction Group e la Guangdong Provincial Communications Group stanno ritardando i pagamenti di 3,11 miliardi di yuan di interessi, mentre il totale accumulato da parte dei principali 11 debitori del paese è di 30,16 miliardi, nonostante all’inizio di novembre 55 province cinesi fossero tornate sui mercati di capitale per racimolare fondi. La Borsa di Shanghai ha perso il 30 per cento da maggio ad oggi e addirittura il 60 per cento dai picchi del 2008, in termini reali più o meno quanto perso da Wall Street tra il 1929 e il 1933.
Insomma, il grande capo dei Brics non scoppia affatto di salute ma il mercato non sembra prezzare in maniera seria questa situazione e sottovaluta la probabile reazione dei Brics all’avvitarsi della crisi: ovvero, scaricare merci e innescare uno shock deflazionario per il resto del mondo. Tanto più che, a dispetto delle richieste statunitensi, Pechino sta pensando a una svalutazione dello yuan il prossimo anno, a fronte del continuo apprezzamento in area 4 per cento di quest’ultimo trimestre. E, in effetti, a fronte di riserve per 3,2 triliardi di dollari, la Cina conosce da tre mesi un continuo calo, nonostante il surplus commerciale: insomma, i soldi cominciano a prendere il volo verso l’estero. E le riserve non possono essere reintegrate per stabilizzare il sistema bancario interno, poiché significherebbe rimpatriare denaro ora investito in debito Usa e dell’eurozona e così spingere ulteriormente al rialzo lo yuan. I consumi sono scesi dal 48 al 36 per cento del Pil dalla fine degli anni Novanta, mentre gli investimenti sono cresciuti del 50 per cento: un tasso insostenibile che ora reclama il conto. I ricchi cinesi, non potendo investire all’estero e con gli interessi bancari al -3 per cento in termini reali, compravano due, tre appartementi come investimento per immobilizzare il loro capitale.
Ora però, a fronte di una ratio tra stipendi e costo delle vita al livello mortale di 1:18, molti di quegli appartamenti, quasi sempre sfitti, stanno gonfiando una bolla interconnessa direttamente con il sistema bancario. Si svende quindi, soprattutto nelle città costiere. Per l’Fmi i prestiti sono raddoppiati raggiungendo il 200 per cento del Pil negli ultimi cinque anni, inclusi quelli fuori bilancio: stiamo parlando di un intensità di crescita del credito doppia rispetto a quella dei cinque anni che precedettero la bolla dell’indice Nikkei a fine anni Ottanta o quella legata ai subprime tra il 2002 e il 2007 negli Stati Uniti.
E, infatti, nella nuova classifica mondiale degli istituti bancari in base al loro market cap, si scopre che le prime tre sono cinesi: ICBC, CCB e Agricoltural Bank of China hanno surclassato tutti, con i due giganti Usa Wells Fargo e JP Morgan rispettivamente al quarto e sesto posto.
Accadde così anche al Giappone nel 1991, poi fu crisi nera.

Corriere della Sera 27.12.11
E l’ateniese Isocrate plaudì al re macedone
Deluso dalla democrazia, si assoggettò a Filippo
di Paolo Mieli


Isocrate nacque ad Atene (436 a.C.) nell'epoca d'oro della città, il V secolo della democrazia, di Pericle, della costruzione del Partenone. Aveva cinque anni Isocrate quando, con l'invasione spartana dell'Attica (431), iniziò la guerra del Peloponneso; ne aveva 32 nel momento in cui la città fu sconfitta (404) e fu instaurato il cosiddetto governo dei Trenta Tiranni. Visse, Isocrate, 98 anni, fino al 338, allorché la sconfitta di Atene nella battaglia di Cheronea segnò la definitiva affermazione della dinastia macedone: dapprima Filippo II e, dopo il suo assassinio (336), Alessandro Magno, quell'Alessandro che diede alla Grecia il più grande impero che si sia visto nel mondo antico. È quasi incredibile che un uomo abbia vissuto per un periodo così esteso, lungo l'intero arco di quella che i manuali di storia liquidano più o meno sbrigativamente come la «transizione» dall'età di Pericle a quella di Alessandro. Ed è sicuramente per questo motivo che a Isocrate è dedicato il capitolo introduttivo del libro di Michael Scott, Dalla democrazia ai re. La caduta di Atene e il trionfo di Alessandro Magno, che l'editore Laterza si accinge a dare alle stampe.
Quando aveva cinquant'anni, Isocrate, che pure non occupò mai una posizione ufficiale, aprì ad Atene una scuola con cui influenzò il pensiero di un'intera generazione di uomini politici di primo piano. Ai quali indirizzò dei piccoli trattati che furono presi in grande considerazione. I primi di questi «opuscoli» riproponevano i modelli dell'Atene del V secolo. L'ultimo, una lettera aperta scritta a Filippo il macedone scritta poco tempo prima di morire, auspicava che fosse quel re a realizzare le idee che Isocrate aveva «da giovane». Idee che, a suo avviso, in parte vedeva come già realizzate. Con il che, scrive Scott, venivano a congiungersi, lungo l'arco della vita di Isocrate, «i due estremi della politica, la democrazia e la monarchia assoluta, le società e i mondi diametralmente opposti definiti da quei due estremi». Ma furono davvero due estremi?
È su questo che si interroga Michael Scott. Gli studiosi del mondo antico «hanno rivolto con entusiasmo l'attenzione alla democrazia ateniese per poi saltare a piè pari ad Alessandro Magno, senza comprendere in qual modo si sia verificato il passaggio da una situazione all'altra». Anche quando «hanno preso in considerazione il periodo intermedio, lo hanno spesso bollato come una lunga stagione di decadenza e di declino, seguita ai giorni di gloria del secolo precedente». Ma, se la si studia a fondo, la storia del declino e della decadenza non sta in piedi. E questo ci induce a ritenere «che capire questo drammatico periodo di transizione potrebbe essere essenziale per una migliore comprensione del mondo antico nel suo complesso». Solo del mondo antico? No. Anche di quello attuale.
Secondo l'autore «ci troviamo oggi nel momento più adatto per portare all'attenzione universale questo periodo di turbolenta transizione» È una storia «di trasformazioni mondiali, di disordini politici ed economici (anche nell'antica Grecia vi fu un momento in cui furono sospesi i prestiti), di democrazie schiacciate e risorte, di antiche e nuove democrazie sull'orlo di ambizioni imperialiste, di imperi vacillanti e di Stati arretrati che balzano alla ribalta e diventano d'un tratto le più forti potenze del mondo antico». Si intravede, nell'arco di tempo vissuto da Isocrate, «la storia di una lotta disperata e sostanzialmente folle per conservare lo status quo; e del trionfo di nuove strategie rispetto a tattiche paralizzanti». «Credo», afferma Scott, «che ben pochi mancheranno di riconoscere in tutto questo qualcosa che li riguarda e investe il mondo in cui viviamo; se è vero che la storia può fornirci una mappa del nostro passato, uno specchio del presente e forse anche fungere da guida all'azione futura, la storia del passaggio "dalla democrazia ai re" è la più adatta a svolgere queste funzioni nel tempo attuale». In che senso? La ragione principale per la quale dovremmo interessarci di questo particolare periodo della storia greca è che, «ci piaccia o no, gran parte del mondo attuale è strettamente legato alle storie, ai valori e ai modelli della Grecia antica».
Certo, dobbiamo essere consapevoli dell'abissale differenza che divide il mondo antico da quello di oggi. Allo stesso tempo, tuttavia, «non possiamo ignorare quanto poco le cose siano mutate, come gli antichi si siano trovati davanti a battaglie e sfide che sono le stesse che noi ci troviamo ad affrontare, e quanto ancora possiamo imparare da loro». Se il mondo contemporaneo volesse avere un atteggiamento più consapevole nei confronti dell'antica Grecia e, «senza snaturare la storia antica con adattamenti distorti», ne volesse trarre «un insegnamento utile per il presente e per il futuro», mai come adesso dovrebbe interrogarsi su come fu possibile passare «dalla democrazia ai re» lungo un itinerario che a uno dei principali intellettuali dell'epoca, Isocrate appunto, apparve in tutto e per tutto coerente.
Ma torniamo al V secolo, al 480 a.C. quando con la vittoria di Salamina iniziò la stagione di grande fioritura di Atene. Nel capitolo conclusivo del bellissimo Il mondo di Atene (Laterza), Luciano Canfora osserva che «la democrazia e l'impero erano nati insieme». Proprio la vittoria di Temistocle a Salamina aveva generato l'una e l'altro, «e la sua intuizione di munire immediatamente la città di un imponente sistema di mura, superando con l'inganno le resistenze e l'opposizione spartana, suggella, col necessario strumento difensivo, il successo conseguito e pone le premesse per il futuro conflitto con Sparta». Quelle mura costituiscono il «palladio» tanto della democrazia quanto dell'impero «e formalizzano la rottura degli equilibri fino ad allora incentrati sulla indiscussa egemonia spartana sull'intero mondo greco».
La stessa pretesa spartana di impedire ad un'altra città di munirsi di mura denota di per sé che di fatto la prevalenza di Sparta «interferiva fin nella vita interna delle altre comunità». Sicché a Canfora appare «formalistico» delimitare il periodo di guerra tra Atene e Sparta agli ultimi trent'anni del V secolo: «In un crescendo», scrive, «quel conflitto ha inizio con la nascita stessa delle mura». E le mura saranno nel momento della capitolazione di Atene (404) «il principale bersaglio dei vincitori nonché l'oggetto di disperata e vana difesa da parte dei vinti». Dopodiché la riedificazione di quelle stesse mura nel 394 «segnerà l'inizio di una seconda, e meno durevole ma a suo modo produttiva, nuova avventura imperiale». «Impero, dunque, e democrazia procedono insieme», ribadisce Canfora, «è l'impero che consente la condivisione, da parte del demo, di sostanziali benefici materiali… la democrazia funziona perché "si spartisce il bottino" cioè le entrate imperiali».
Allo stesso modo saranno intrecciate, nel secolo successivo, la crisi dell'impero e quella della democrazia. Sarà la lunga stagione dell'impoverimento. E quando verrà il momento della contrapposizione a Filippo il macedone, protagonista di tale scontro in Atene sarà Demostene, figlio di un industriale, ma ridotto «a fare l'avvocato perché depredato, orfano anzitempo, dai suoi tutori».
Demostene sa bene come funziona il meccanismo della contrapposizione tra ricchi e non possidenti. Perciò, scrive Canfora, di fronte al classico e collaudato strumento di una patrimoniale sulla ricchezza, obietta: «Ateniesi! In città ci sono ricchezze, oserei dire, quante in tutte le altre città messe insieme. Ma se anche tutti gli oratori si sforzassero di impaurire i ricchi dicendo che sta per arrivare il re di Persia, anzi che è già arrivato e se con gli oratori ci si mettessero anche gli indovini a fare la stessa previsione, i ricchi non solo non verserebbero un bel niente, ma non farebbero nemmeno vedere le loro ricchezze, anzi non riconoscerebbero nemmeno di possederle». Ragion per cui, afferma ancora Demostene, «il denaro per il momento lasciamolo nelle mani di chi lo possiede: è il migliore forziere per la città».
La questione sociale, scrive Canfora, domina il IV secolo come domina l'oratoria di Demostene «anche quando l'oratore sembra parlare d'altro». Quando c'era l'impero il conflitto «aveva come posta in gioco la redistribuzione del bottino». Negli anni che intercorrono tra l'inizio dell'avventura politica di Demostene, «proteso a trovare per la sua città spazio per una terza egemonia (magari nell'orbita della Persia)», e la disfatta del 322, l'anno della definitiva vittoria macedone, vale a dire nel corso di un trentennio «si consuma ancora una volta uno scontro sociale che non conosce soste». E quando «i benestanti e i benpensanti avranno i macedoni come garanti della sconfitta dell'ultima reincarnazione della democrazia imperiale, per prima cosa ridurranno il corpo civico a novemila cittadini». È l'Atene di Focione «a sovranità limitata» ed è «l'inizio di un declino che non conoscerà soste».
Altro elemento che, dopo la sconfitta di Atene, caratterizzò quella lunga transizione «dalla democrazia ai re» fu «ciò che mancò a Sparta». Michael Scott è un evidente estimatore dell'esperienza politica spartana. Ma ciò non gli impedisce di vederne i difetti: «Se è vero, come si dice, che la prova suprema per un uomo è saper gestire il successo, dobbiamo dire che gli spartani, all'alba del IV secolo, non se la cavarono molto bene». I primi segni della loro «grossolanità» si percepirono quando rifiutarono di costruire a Delfi o a Olimpia un monumento che celebrasse la loro vittoria. Per di più il grande generale spartano Lisandro dopo la vittoria su Atene continuò a navigare nell'Egeo e dovunque trovava una colonia ateniese interveniva per imporre un proprio governo: come avrebbe detto Plutarco, «Lisandro divenne più potente di qualsiasi greco prima di lui». Ma — sempre secondo Plutarco — divenne anche «superbo e crudelmente intransigente, tanto che non esitava a conferire potere assoluto nelle città ai suoi amici e a condannare a morte i suoi nemici». Sparta, a disagio per questa aspirazione a un impero personale, presto richiamò Lisandro in patria. Ormai però il danno era fatto. Sparta si alienò persino le simpatie di Tebe che pure nel 404 aveva combattuto al suo fianco contro Atene. E rese oltremodo ostile la Persia. Plutarco commentò la situazione scrivendo che Sparta era come una donna da taverna, la quale, dopo aver fatto gustare alla Grecia il buon vino della libertà, l'aveva mischiato poi «con tanto aceto che sarebbe stato meglio non averlo mai bevuto».
Si potrebbe pensare, scrive Scott, «che dopo un conflitto recente — quello del V secolo — durato trent'anni, quale era stato quello del Peloponneso, nessuna città greca avrebbe desiderato una nuova guerra; ma il governo spartano raggiunse tali limiti di brutalità che molte città greche, così sensibili alla propria libertà e a tutto ciò che la poteva minacciare, tornarono sul campo di battaglia». Per una guerra «che Sparta non avrebbe mai potuto vincere, se non altro perché condotta simultaneamente su due fronti: la costa dell'Asia Minore e il cuore della Grecia centrale… Per passare da un fronte all'altro si doveva navigare, remare o marciare; e il tragitto non era breve, all'incirca cinquecento chilometri (in linea d'aria)». Sulla costa dell'Asia Minore, gli Spartani dovevano affrontare le forze radunate dal persiano Tissaferne che in caso di necessità sarebbero state appoggiate dall'esercito guidato dal re in persona. Nella Grecia centrale doveva combattere contro Beoti, Tebani, Corinzi, Ateniesi e Argivi sostenuti dall'oro persiano. Oro persiano che era affluito a Sparta per aiutarla nella Guerra del Peloponneso e che pochi anni dopo si disseminava tra i nemici di Sparta stessa. La Persia, poi, affidò la propria marina ad un ammiraglio ateniese, Conone, che sconfisse la flotta spartana. Finché nel 391 la Persia propose un trattato di pace. Tebe e Sparta erano favorevoli, Argo e Corinto contrarie, Atene, città arbitro, decise non solo di respingere l'offerta, ma di incriminare tutti quelli che avevano condotto i negoziati. «Ancora una volta», è il commento di Scott, «Atene si attribuiva un po' troppa importanza».
Il fatto è che «ad Atene tutto veniva dibattuto in pubblico, tutti potevano esprimere un'opinione, tutti votavano durante i lavori e ognuno poteva conoscere le decisioni degli altri». Mentre «alla corte persiana tutto si svolgeva dietro porte chiuse, le decisioni erano prese con un cenno del capo del re, un sussurro al suo orecchio, in un discreto andirivieni di cortigiani e ambasciatori; l'intrigo, il clientelismo e la piaggeria erano le armi nella lotta per decidere». E risultarono armi vincenti. Il ruolo che era stato dell'ateniese Conone, fu adesso dello spartano Antalcida che «versò odio per le azioni degli Ateniesi nelle orecchie del re di Persia». E che, al momento decisivo, costrinse alla resa la flotta ateniese. In questo contesto iniziò a crescere il ruolo di Tebe sotto la guida di Pelopida (già esponente del partito antispartano) ed Epaminonda. E si giunse alla battaglia di Tegira (375) quando un contingente di trecento tebani sconfisse una forza spartana assai più grande. Quattro anni dopo, una nuova vittoria tebana a Leuttra (371) segnò la fine della supremazia di Sparta. Anche in questa occasione Atene si distinse per il suo opportunismo: pur essendo alleata di Tebe, non le inviò alcun aiuto in vista dello scontro di Leuttra e anzi, di nascosto, parteggiò per Sparta. Nel frattempo nella Tessaglia dominata da Giasone, all'uccisione di quest'ultimo (370) si sviluppò una guerra civile tra la città di Fere e la più debole Larissa. Larissa chiese aiuto alla Macedonia che glielo concesse entrando così, per una porta laterale, in una scena di cui di lì a trent'anni sarebbe diventata la dominatrice. Tebe si schierò con Fere, sconfisse Larissa e i macedoni e ottenne che la Macedonia le assegnasse come ostaggi da rieducare alcuni giovani nobili. Tra loro c'era Filippo il futuro re, padre di Alessandro.
Nel frattempo ad Atene andava sviluppandosi il regime democratico. È curioso, osserva Scott, che gli ammiratori della democrazia ateniese ne individuino quasi sempre l'apice nel «glorioso» V secolo. Entro certi limiti, prosegue, «il successo (e naturalmente la nascita) della democrazia nel V secolo sono innegabili». Atene si sviluppò fino a dominare un grande impero e costruì meraviglie, come il Partenone. «Ma non è tutto qui», precisa, «non soltanto buona parte delle testimonianze in nostro possesso, riguardo ai meccanismi interni della democrazia, provengono dalla metà del IV secolo (cui ci ha fatto comodo spesso riferirci, benché impropriamente, per parlare della natura della democrazia di cento anni prima), ma è in questo periodo che cominciò a svilupparsi un vivace dibattito filosofico sulla natura stessa della democrazia». Così, mentre continuiamo a fare riferimento al V secolo come a un'età dell'oro, «è stato durante il momento di instabilità economica, militare e diplomatica alla metà del IV secolo che il sistema democratico fu sottoposto alla più elaborata e profonda riflessione». Ed è questa stagione che secondo l'autore si presta a numerose analogie con i tempi attuali. La stagione in cui un campione della democrazia quale è Isocrate «si consegna» sotto il profilo intellettuale a Filippo di Macedonia.
Platone, dopo una lunga esperienza — alla quale sono dedicate pagine assai interessanti del libro — a fianco dei Dionisio di Siracusa, primo e secondo (il padre e poi il figlio), in uno dei suoi ultimi scritti, Il politico, mette in burla la democrazia e propone ad Atene «un uomo di grande saggezza» che avrebbe dovuto governare in armonia con la legge. «Così alla fine degli anni Cinquanta del 300 a.C. anche Atene — che fino a quel momento, a differenza di altre città e Stati della Grecia, aveva tenuto a bada il potere individuale nei suoi confini, sebbene costretta ad avere rapporti con i potenti di altri Stati — cominciò a tentennare», scrive Scott. «Nei trenta anni seguenti, la politica ateniese nei confronti dei potenti governanti del mondo sarebbe stata stabilita e dominata da un gruppetto di cittadini che avrebbero deciso il futuro e, in definitiva, la sopravvivenza stessa di Atene». A campione di questa generazione di ateniesi si pose Demostene che dedicò la vita e l'oratoria a mettere in guardia la sua città da Filippo il macedone. A lui si contrappose Eschine, l'oratore che esortava i suoi concittadini a fidarsi di Filippo. Ma fu Demostene il protagonista (perdente) di questa stagione politica.
Nel già citato libro di Canfora ci sono alcune belle pagine dedicate a Demostene, in cui l'autore spiega come «l'eliminazione dell'avversario politico (dalla violenza fisica all'ostracismo, esilio, uccisione in una specie di gradatio: la scena politica ateniese offre esempi di tutti e tre i generi) appariva prassi non sconcertante, ma, piuttosto, drammatica prosecuzione della lotta politica». Canfora è colpito da «una tremenda uscita demostenica» che risale al 341, quando ormai la resa dei conti con la Macedonia si avvicinava e l'ossessione di Demostene era la «quinta colonna» del sovrano macedone all'interno della città: «La lotta è per la vita o per la morte, questo bisogna capire; e quelli che si sono venduti a Filippo bisogna odiarli e ammazzarli». L'eliminazione fisica dell'avversario come esito del conflitto, puntualizza Canfora, «è una eventualità messa in conto, non è una situazione estranea — almeno potenzialmente — alla prassi del quotidiano scontro politico».
«È scandaloso», dice Demostene, «che in Atene si possa parlare impunemente in favore di Filippo!». La sua ossessione sono «quelli che si sono venduti a Filippo», persone da «bastonare a morte». A suo avviso «non si possono vincere i nemici esterni prima di aver sterminato quelli interni». Ed è probabilmente a questo tipo di «politica terroristica», scrive Canfora, «che pensava Platone quando equiparava i retori ai tiranni, perché mandano a morte, esiliano, spogliano dei beni chi vogliono». Nel contempo Demostene non fa mistero della sua «avversione verso la propaganda ed i programmi della democrazia radicale». Né gli piace il governo popolare, «alle cui lungaggini e alla cui pubblicità non esita a contrapporre la libertà d'azione e la prontezza di cui gode un Filippo». Tra le righe delle sue orazioni si può ritrovare una sorta di ammirazione nei confronti del nemico «per la sua fulminea carriera, per l'elemento volontaristico della sua prassi politico-militare».
Fu in questa situazione, riprende Scott, che si fece avanti ancora una volta Isocrate «il commentatore politico e la voce della coscienza della Grecia negli ultimi cinquant'anni». Isocrate, «che aveva amato Atene per tutta la vita, cominciava a fare un discorso molto diverso da quello di Demostene». Testimone dei capovolgimenti avvenuti nella storia greca durante l'amara guerra civile della fine del secolo precedente, durante il conflitto interno che aveva afflitto la Grecia centrale nella prima metà del nuovo secolo e durante i grandi mutamenti culturali, geopolitici ed economici avvenuti in tutto il mondo greco, infine, durante il brutale rovesciamento degli equilibri di potere negli ultimi dieci anni», Isocrate cominciava oramai a «credere che Atene non fosse più in grado di offrire alla Grecia ciò di cui aveva estremo bisogno». Nella ricerca del suo ideale di un capo giusto e forte, capace di unire la Grecia e restituirla al suo splendore, Isocrate, scrisse una lettera aperta alla quale diede un titolo semplice: A Filippo. Altrettanto semplice era il suo suggerimento: «Spetta a un uomo dalle grandi e nobili ambizioni, amico dei Greci e che vede con la sua mente più lontano degli altri, utilizzare tali uomini (i Greci) contro i barbari… e creare per loro delle città facendo di queste il confine ultimo del mondo greco, in prima linea a difesa di noi tutti».
E venne il 338, l'anno della feroce battaglia di Cheronea, dalla quale Filippo uscì vincitore. Isocrate, riferisce Scott, «era passato totalmente dalla parte di Filippo, che oramai a suo vedere rappresentava per la Grecia l'occasione migliore per raggiungere l'unificazione e la gloria nella lotta contro la Persia». All'età di 98 anni, Isocrate «ne aveva abbastanza di Atene e della sua democrazia tentennante». Così scrisse per ringraziare Filippo di «avergli permesso, nei suoi ultimi giorni, di veder realizzati alcuni dei suoi sogni» e aggiunse che «sperava che presto avrebbe realizzato anche gli altri». Dopodiché decise di lasciarsi morire: rifiutò il cibo per quattro giorni consecutivi e spirò. E venne l'ora di Filippo. Poi quella di Alessandro che morì nel 323. Un anno dopo le città greche provarono a ribellarsi un'ultima volta ma furono sconfitte da Antipatro, il generale che Alessandro, partendo per la spedizione in Asia, aveva lasciato a difesa della Grecia. A questo punto — probabilmente per sfuggire ai sicari di Antipatro — anche Demostene decise di darsi la morte. Morte che suggellò la lunga transizione ateniese.

il Riformista 27.12.11
Nella città del Polar Express
Babbo Natale fa strage in Texas


Il giorno di Natale, tra cucina e soggiorno, a Grapevine, Texas, non lontano da Dallas, in un tranquillo quartiere residenziale, tra tinello e soggiorno, sono stati trovati sette cadaveri, quattro donne e tre uomini tra i 18 e i 60 anni: una strage. Avevano appena scartato i regali, poi la furia omicida scoperta grazie a una chiamata anonima alla polizia, partita dall’appartamento.
La polizia è a caccia di un uomo travestito da babbo Natale. Un compito difficile visto che Grapevine è la capitale natalizia del Texas, una sorta di Polo Nord del Sud, famosa per le parate di luci, le sculture di ghiaccio, i Babbo Natale sempre disponibili per le foto e il tour su un treno storico: il Polar Express.
Il Natale è il brand di Grapevine o la sua maledizione? Se fosse un giallo di Agatha Christie l’assassino sarebbe il maggiordomo, ma a Grapevine è più facile che sia Babbo Natale. Il difficile è trovarlo: ce ne sono troppi in circolazione.

l’Unità 27.12.11
Una bicicletta salva la città
di Flore Murard-Yovanovitch


Q uelli che scelgono la bicicletta a Roma sfidano il traffico-macchina in una acrobatica danza dei corpi; spesso rischiosa. Nella capitale d’Italia, ci sono quasi sette persone investite al giorno e un morto ogni settimana. Per il solo anno scorso, 61 pedoni sono stati uccisi, 2139 feriti e 2204 investiti. Una strage continua, nel silenzio generale. Eppure, questi dati dell’Ania non sono mera morbosa cronaca, riguardano profondamente chi siamo e il nostro stile di vita. Per molti automobilisti, anche se sei sulle strisce, la tua esistenza di pedone è un “ostacolo” da rimuovere. Non sono ciechi, è come se tu “non ci fossi”: annullamento... Chi non li vede i mille segni di impazzimento per la città? Motorini rovesciati tra le sirene delle ambulanze, ogni giorno; insulti e violenza diffusa. Parlano di un malato e saturato traffico, ormai insostenibile.
Come soluzione, i municipi preparano cartelli per le vie pericolose: «Attenzione strada ad alto rischio di incidenti», a uso dei pedoni che volessero azzardarsi rischiare la vita. Mai avvertimenti e multe salate agli automobilisti padroni incontestati della città. Limitarsi ad indicare i pericoli invece che educare i comportamenti e soprattutto cambiare radicalmente la mobilità, sfruttando il tempo della crisi e il caro prezzo della benzina. Nessuna idea, nessuna proposta; regna il “Si salvi chi può” da chi corre veloce dimenticandosi di anziani e bimbi. Come se in questa società suicida fosse latentemente “accettato” che le strade sono mortali. Inoltre, solo una paralisi mentale può spiegare il nostro invivibile urbanismo, quando intere megalopoli d’America latina hanno rivoluzionato la loro mobilità facendo transitare milioni di pendolari dalle loro periferie in tram, treni sospesi e piste ciclabili.
Perché da noi no? E, peggio, perché non se ne parla, in un’assurda rimozione, o si confina l’argomento alle pagine di cronaca? Con le piazze assenti, la strada è ormai la nostra vera agorà. Quale città vogliamo? Che tipo di cambiamento è necessario per inventare una mobilità nonviolenta, che ridia alla città il volto di una “deambulanza” possibile, dove passeggiare spensieratamente, con la testa tra le nuvole? Basterebbe un salto di pensiero. Vedere la città come bene comune, come rapporto e convivenza, dove, come suggerisce Marc Augé, pedalare lentamente verso la riscoperta dell’altro. Inventiamo una città-respiro, una città-incontro, una città-bambina. In bicicletta, mi raccomando.