il Riformista 9.12.11
Pompei di sabbia nel Nord Africa da Mille e una notte
Viaggio. Città di fango in Mali, "in sale" in Egitto, la moschea di Haji Piyada in Afghanistan. Forme "perdute" dell'abitare, rintracciate dall'arch. Tonietti, domenica a "Più libri più liberi".
di Andrea Consoli
L'arte di abitare la terra (L'Asino d'oro edizioni, 250 pagine, 27,00 euro) di Ugo Tonietti, architetto e professore di Scienza delle costruzioni presso l'Università di Firenze, è un prezioso Baedeker per avvicinarsi allo studio delle architetture antiche (spesso preistoriche), non poche volte indecifrabili agli stessi occhi degli studiosi. La storia dell'abitare - dell'abitare, cioè, il mondo - è affrontato da Tonietti osservando e indagando le costruzioni fantastiche e prodigiose che sono sopravvissute alle corrosioni del tempo, e che spesso sono nate nel cuore di civiltà povere, nomadi, pastorali, abituate a ogni tipo di ostilità della natura, ma nelle quali era ancora forte il legame - che valeva per tutti - tra il pensare e l'agire architettonico.
Il viaggio inizia alla medina di Chefchouen, nel Rif, zona montuosa del nord del Marocco, dove antichi e sapienti "maalem" (maestri muratori) hanno costruito un affascinante groviglio abitativo di "dar" (cellule abitative) e di "derb" (isolati), e che oggi è gravato da innesti "moderni" che ne minacciano la sopravvivenza. Il viaggio prosegue a Djenné, nel Mali, presso le misteriose architetture primitive saadiane in terra cruda, e giunge a Shali, presso il lago salato dell'Oasi di Siwa, nell'Egitto occidentale (al confine con la Libia), dove Tonietti spiega e racconta le difficili architetture di sale, realizzate mediante la complessa lavorazione dei "karshif", ovvero zolle di sale. Sempre in terra africana, Tonietti non poteva non visitare Lalibela, in Etiopia, famosa in ogni dove (e patrimonio mondiale dell'Unesco) per le misteriose basiliche ciclopiche ipogee costruite scavando nella roccia e che, come tutte le architetture antiche - spesso in terra cruda o in terra pressata e mischiata con la paglia - sono in grave pericolo conservativo.
L'arte di abitare la terra, poi, lascia l'Africa per due tappe "orientali": la prima è ad Aleppo, nella Siria del Nord, dove strane costruzioni in terra continuano ad intrigare per le strane cupole della abitazioni (il viaggio poi prosegue a Palmira, la Regina del deserto, la cui decadenza si lega alla ribellione della regina Zenobia nei confronti dei Romani); la seconda è nel lontano Afghanistan, precisamente nella città di Balkh (luogo natio del filosofo Avicenna, e centro del culto mistico zoroastriano), dove Tonietti ci fa conoscere la moschea di Haji Piyada, anch'essa in terra, e che gli storici e gli archeologi hanno difficoltà a datare. L'arte di abitare la terra, non è soltanto un libro di architettura - o, più precisamente, di tecnica antica delle architetture - ma un vero e proprio taccuino antropologico, un libro di viaggi, finanche un libro poetico, perché forte è la suggestione nello sguardo dello studioso di miti e leggende antiche (per intenderci, tra la Bibbia e le Mille e una notte).
Attraversando deserti e tornanti di montagna - avvincenti quelli di un Afghanistan ancora infestato di mine e ricoperto di carcasse di carri armati russi -, facendosi accompagnare da autisti irresponsabili (come in Mali) e osservando le donne con il burqa (sempre in Afghanistan), Tonietti - che pubblicò in parte questi viaggi sulla rivista Left - s'immerge pienamente nel mondo preistorico di alcune delle più antiche civiltà (notevoli le analisi "matissiane" delle incisioni rupestri), e indaga il rapporto dell'uomo antico con la terra, con l'abitare, con la tecnica costruttiva, la cui analisi mai si disgiunge da una lettura socio-antropologica che prevede finanche il mistero, il fascino evocativo, e al cui centro, molto spesso, c'è la presenza femminile, ora generatrice e gioiosa, ora ridotta a schiavitù da oscure leggi castranti (come a Shali, o a Balkh).
L'arte di abitare la terra verrà presentato domenica a Roma alla fiera della piccola editoria "Più libri più liberi" (Palazzo dei Congressi all'Eur, Sala Diamante, ore 16)e, insieme con l'autore, ne parleranno Simona Maggiorelli e Lavinia Ripepi.
il Fatto 10.12.11
Santissimo immobile
La Chiesa esclusa anche dalle rivalutazioni catastali Bagnasco si limita a puntualizzare sull’Ici
di Caterina Perniconi
Un problema tra Ici e Chiesa c’è. La conferma arriva dalle parole del presidente dei Vescovi, Angelo Bagnasco, che si è detto pronto a discutere della questione.
Ma attenzione a non considerare la dichiarazione come un’apertura. É piuttosto la disponibilità a chiarire una posizione costituita: “Il primo atto da fare nei momenti in cui c’è un po’ di confusione e agitazione degli animi mi pare che sia quello di fare chiarezza e documentare le cose”, ha detto Bagnasco, lasciando poco spazio all’illusione di una volontà di cambiamento. “Come è noto – ha poi puntualizzato – la legge prevede un particolare riconoscimento e considerazione del valore sociale dell’attività degli enti no profit, tra cui la Chiesa cattolica e quindi anche di quegli ambienti che vengono utilizzati per specifiche attività di carattere sociale, culturale ed educativo. Bisogna aggiungere che laddove si verificasse qualche inadempienza si auspica un accertamento e la conseguente sanzione, come è giusto per tutti”.
DI INADEMPIENZE,
come hanno dimostrato i Radicali con i loro “video-denuncia”, ce ne sono molte, serve solo la volontà di far rispettare la legge. “Al cardinal Bagnasco – ha dichiarato Mario Staderini, segretario del partito di Pannella – vorrei ricordare che c’è poco da discutere o puntualizzare: una legge italiana non deve essere certo contrattata con la Cei. Il Parlamento deve semplicemente eliminare l’esenzione per chiunque svolga attività commerciali”. Ma il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha ribadito ieri di non essersi ancora occupato della questione. “Sono anche a conoscenza di una procedura europea sugli aiuti di Stato” ha aggiunto il premier. Facendo riferimento all’indagine formale per incompatibilità con le norme sulla concorrenza scattata già due volte nei confronti dell’esenzione dell’Ici.
Eppure la manovra del nuovo esecutivo rischia di replicare nella concessione dei privilegi i precedenti governi. Fu alla fine del 2005, poco prima delle elezioni, che Silvio Berlusconi approvò una norma che stabiliva l’esenzione dal pagamento dell’Ici per tutti gli immobili della Chiesa. L’anno successivo, dopo una lunga polemica, il governo di Prodi, per mano dell’attuale segretario democratico Pier Luigi Bersani, cambiò la normativa, prevedendo che l’esenzione si potesse applicare solo agli immobili “con finalità non esclusivamente commerciali”. E proprio l’avverbio “esclusivamente” ha permesso alla Chiesa di usufruire dell’esenzione anche per strutture turistiche, alberghi o ospedali, purché all’interno avessero uno spazio dedicato al culto. Nel 2008, poi, col decreto che ha cancellato l’Ici per la prima casa, i privilegi sono stati confermati.
MA A QUANTO pare non è tutto. Come rivelato ieri da Il Sole24ore, la manovra non conterrebbe a sorpresa alcuna rivalutazione delle rendite catastali per gli immobili del clero. Ovvero gli unici stabili su cui viene pagata l’Ici dal Vaticano, non cambieranno stima. Questo significa che mentre per le abitazioni il moltiplicatore è passato di colpo da 100 a 160, per i negozi e le botteghe da 34 a 55 e per gli uffici da 50 a 80, sugli immobili di classe B (dai collegi alle scuole, dai seminari ai convitti) l’asticella è rimasta a 140. Quanti soldi andranno persi con quest’operazione non è stato ancora possibile calcolarlo. Mentre l’Anci, associazione dei Comuni italiani, ha stimato che l’esenzione vale 400 milioni.
Davanti alla necessità di fare cassa, anche i supercattolici sono diventati improvvisamente laici. Sono infatti del Pdl i due emendamenti che chiedono alla Chiesa di pagare l’Ici anche sulle parrocchie, gli oratori, gli edifici di culto o, in subordine, di riscuoterla almeno da coloro che affittano campi di calcio o sale per le feste di compleanno. I proponenti sono Maurizio Bianconi, Viviana Beccalossi, Monica Faenzi e Francesco Biava. L’emendamento, spiegano, “renderebbe la manovra più equa”. Dubbio che non hanno mai avuto quando erano al governo.
il Fatto 10.12.11
Non pagano in troppi, dalle fondazioni alle ambasciate
I luoghi di culto beneficiano di un accordo con lo Stato, tranne i musulmani per le moschee
di Sara Nicoli
I sindacati. Ma anche i partiti politici. E le ambasciate, i consolati. E poi i cinema, i teatri, le camere di commercio. Le altre “chiese”, quella Valdese, quella Evangelica, la Luterana, l’Ebraica e persino l’Assemblea di Dio. La moschea invece no. Quella paga. Perché i musulmani non hanno firmato alcuna convenzione con lo Stato e, dunque, mettono mano al portafoglio.
Scorrendo l’ultimo decreto legislativo che nel 2008 rivide l’elenco delle esenzioni dall’Ici, si scopre, con un certo raccapriccio, che la Chiesa rappresenta solo una parte (non piccola) del mare magnum di “renitenti all’Ici”. Ora, non si sa ancora come l’Imu uscirà modificato dalla commissione Bilancio della Camera e se davvero ci sarà – come s’immagina – una revisione della casta degli esenti. Ma di sicuro, vista l’aria che tira, non sarà più così semplice giustificare davanti all’opinione pubblica, la permanenza di privilegi che in tempo di crisi nera non possono più sussistere con tale, magnanime, serenità .
A tutt’oggi, l’Imposta comunale sugli immobili – una delle tasse più odiate dai cittadini, che Berlusconi ha abbonato solo alle prime case mettendo in grande difficoltà le casse dei Comuni – non viene applicata per molte categorie di immobili pubblici e privati. Sono infatti esonerati i terreni agricoli che ricadono in aree montane e collinari se utilizzati per interventi volti al riordino agrario e fondiario. E subito dopo gli enti “non commerciali o che svolgano attività non esclusivamente di carattere commerciale”. E si scopre così che esenti Ici sono, ad esempio, tutti quegli edifici di proprietà di Stati esteri e di organizzazioni internazionali (le ambasciate, i consolati, la Fao) ; le Fondazioni culturali e liriche, le Camere di commercio, e anche ospedali, università, scuole. La norma è piuttosto chiara, anche se si presta a interpretazioni diverse a seconda degli ambiti di applicazione. I musei, per esempio, non sono tenuti al pagamento dell’Ici a patto però che non vi si svolgano attività di natura commerciale come book shop, vendita di oggettistica, caffetterie o ristorazione. Oppure i cinema, ma non le classiche multi-sale. Piuttosto le sale cinematografiche della comunità ecclesiale o religiosa, i cinema d’essai e simili. E per i teatri l’esenzione viene riservata a chi si avvale di compagnie non professionali. Ma, soprattutto, i sindacati. Cgil, Cisl e Uil, solo per citare la “triplice” maggioritaria, sono proprietari di centinaia di immobili (ciascuno) in giro per l’Italia che non sempre sono in uso alle sezioni, ma come per la Chiesa cattolica, sono affittati a esercizi commerciali, banche, imprese private. E siccome i sindacati sono “enti non riconosciuti senza fini di lucro” (quindi non hanno l’obbligo di presentare neppure un bilancio) è praticamente impossibile per il catasto censire le reali proprietà da sottoporre a tassazione. Insomma, per niente facile anche cambiare registro.
C’è poi un altro aspetto della norma, quello che rende esenti dall’Ici tutti quegli edifici pubblici destinati a compiti istituzionali posseduti dallo Stato, da enti territoriali come Regioni, Comuni, consorzi tra enti pubblici, comunità montane, unità sanitarie locali. E ancora le Università e gli enti di ricerca, le aziende pubbliche di servizi alla persona (ex Ipab). E siamo in una sfera pubblica. Ma c’è anche quella privata. E qui scattano le fondazioni, comitati dediti ad attività socialmente utili; organizzazioni di volontariato, organizzazioni non governative, associazioni di promozione sociale, sportive dilettantistiche e le fondazioni risultanti dalla trasformazione di enti autonomi lirici e delle istituzioni concertistiche assimilate. Ultima perla della normativa: a non pagare l’Ici sono anche i separati e i divorziati che abitano nella ex casa coniugale e che, ovviamente, non risultano assegnatari dell’abitazione. Insomma, gira che ti rigira, si fa prima a dire chi lo paga che chi ha il privilegio dell’esenzione. Ma stavolta, con la crisi che morde, il governo dovrà prendersi la responsabilità di cambiare registro. Almeno su questo.
Repubblica 10.12.11
Parrocchie e sale biliardini tutti quelli che non pagano
di Ettore Livini
CHIESA ma non solo. L'ombrello della norma Taglia-Ici non ripara solo gli immobili (quelli ad uso «non esclusivamente commerciale») del Vaticano. Certo il mattone di Dio - 115mila case, 9mila scuole, 4mila tra ospedali e centri sanitari - fa la parte del leone. Ma la platea dei beneficiari dell'esenzione dall'imposta è molto più ampia. Non pagano tutte le altre confessioni religiose. Zero tasse per le associazioni non profit, le ong, le ambasciate, le Fondazioni liriche, i palazzi intestati a Stati esteri. Niente Ici nemmeno per edicole, cappelle nei cimiteri, musei e per le proprietà di Comuni, Province e Regioni utilizzate a fini istituzionali. LA LEGGE prevede l'esenzione per gli immobili di enti senza fine di lucro «destinati allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive». Come succede per il patrimonio della Santa Sede, però, anche qui esiste una ampia area grigia dove l'uso «non commerciale» dei beni è difficile da certificare. Ci sono ospedali controllati da pseudo-Onlus (e accreditati con il servizio sanitario nazionale) che fatturano centinaia di milioni. Fondazioni che affittano case e palazzi di lusso incassando fior di quattrini ogni anno senza dover pagare un centesimo di imposta. Circoli sportivi e dopo-lavoro trasformati in piccoli - e ricchissimi - villaggi Valtur del tutto esentasse. Ecco l'elenco degli "utilizzatori finali" più importanti della norma Taglia-Ici. E quello delle realtà sociali più vicine al mondo dell'assistenza sociale che in realtà - malgrado di solito si pensi il contrario - sono costretti a pagarla. Onlus Molte cause in tribunale per gli immobili affittati TUTTE le Onlus e le Ong sono esentate dal pagamento dell'Ici, almeno per gli edifici che usano come sedi proprie e non a fine di lucro. Non paga Emergency, non paga Medici senza frontiere, non paga l'Associazione per la ricerca sul cancro e la Lega per il filo d'oro. Chi invece dispone di un patrimonio di immobili messi a reddito (cioè affittati) è costretto - almeno in teoria - a onorare con il fisco il pagamento dell'imposta, anche se la materia è ancor oggi oggetto di confronto giuridico. Scuole Niente tassa agli istituti legati agli enti no profit UN ALTRO tema delicato è quello delle strutture sanitarie e scolastiche. Le cliniche private (convenzionate o meno con sistema sanitario nazionale) devono pagare l'Ici. Gli enti non commerciali convenzionati con la sanità pubblica - tra cui diverse istituzioni religiose o Onlus - invece no, almeno sui reparti ospedalieri mentre sul patrimonio immobiliare a reddito si paga tutto. Zero Ici anche per le scuole private che fanno capo a enti non a fine di lucro indipendentemente dal livello delle loro rette. Partiti Pagano tutta l'imposta sulle abitazioni ereditate I PARTITI politici non beneficiano di alcuna esenzione Ici. «Noi per la sede di Torre Argentina sborsiamo 2-3mila euro l'anno» mette i puntini sulle "i" Mario Staderini, segretario dei Radicali. Paga il Pd, pagano le fondazioni degli ex-Ds cui è stato dirottato il patrimonio di case (5.800 immobili) girato dai militanti. Fanno la loro parte- perché obbligati dalla legge - pure gli eredi della vecchia Democrazia Cristiana. Anche se durante i burrascosi anni di Tangentopoli e della diaspora della Balena bianca è svanita nel nulla una dote di qualche centinaio di edifici di pregio. Sindacati Patrimonio milionario non ricevono sconti I SINDACATI (come Confindustria) pagano l'Ici. Sia per le loro sedi istituzionali che per gli altri immobili destinati a reddito. Si tratta di un patrimonio importante. Solo la Cgil ha oltre 3mila tra uffici e delegazioni lungo tutta la Penisola. La Cisl ne ha addirittura 5mila. Il mattone nel portafoglio della Uil ha un valore stimato di circa 35 milioni. Un "tesoretto" accumulato grazie a lasciti, donazioni e investimenti nel corso degli annie cresciuto sullo zoccolo duro dei beni ereditati (esentasse) per legge dalle vecchie rappresentanze sindacali dell'era fascista.
l’Unità 10.12.11
I sindacati: basta falsità noi paghiamo l’Ici
«Gli Enti non commerciali , tra i quali rientrano anche le associazioni sindacali, sono chiamati a corrispondere l'imposta Ici». Lo precisa il segretario confederale della Cisl, Piero Ragazzini. «Una bugia detta una volta, non può trasformarsi in mille bugie. Il sindacato ha sempre pagato regolarmente l'Ici. Nelle esenzioni non rientrano le associazioni sindacali trovando conferma in molteplici sentenze della Cassazione».
l’Unità 10.12.11
Bersani, simpatia per lo sciopero
«Migliorare le misure»
Il Pd: la nostra battaglia in Parlamento per cambiare il testo Si riapre il dibattito sulle alleanze. Maran, dell’area Modem chiede il congresso anticipato: «Con Monti è tutto cambiato»
di Maria Zegarelli
Un atteggiamento di simpatia verso l’iniziativa dei sindacati di lunedì prossimo». Questa la posizione del segretario Pd Pier Luigi Bersani anche alla luce delle polemiche che stanno attraversando il partito rispetto all’atteggiamento da avere nei confronti dello sciopero generale unitario di Cgil, Cisl e Uil. Se Enrico Letta, Beppe Fioroni, Francesco Boccia ma anche Franco Marini e Massimo D’Alema ritengono che in questo momento il Pd si debba concentrare per migliorare la manovra in Parlamento. Per molti sarebbe come tenere il piede in due scarpe: votare la manovra e protestare con i sindacati in piazza. Bersani cerca la sintesi: «Di fronte all’unità dei sindacati è il suo ragionamento e alla piattaforma dello sciopero che va più o meno nella direzione auspicata anche dal Pd su pensioni, ici e indicizzazione, il nostro non può che essere un atteggiamento di simpatia, anche perché qui nessuno chiede di stravolgere la manovra ma di migliorarla».
Posizione che, è di facile previsione, troverà più di qualcuno in disaccordo, soprattutto tra chi in questi ultimi giorni è tornato a prendere le distanze da quei dirigenti come Stefano Fassina e Cesare Damiano che hanno annunciato di andare al presidio del sindacati. «Non possiamo essere il partito di lotta e di governo», le argomentazioni di quanti, come Letta, vorrebbero lasciarsi «alle spalle, e definitivamente, il ricordo dei ministri e dei sottosegretari militanti che partecipavano alle manifestazioni organizzate contro quel governo Prodi di cui essi stessi facevano parte».
Ma non è solo lo sciopero ad agitare il partito. Sono ben altri i movimenti che in questi giorni si registrano tra i democrat.
Alessandro Maran, vicecapogruppo alla Camera, area Modem ma già iscritto al partito dei «montiani», parla apertamente di eventuale scissione se non si arriva ad una definizione della linea politica e chiede un congresso anticipato. Il governo ha cambiato la geografia politica, argomenta, «e non prenderne atto, per i vertici del Pd, sarebbe un errore molto grave». Come? «Con un congresso anticipato», altrimenti, «potrebbe accadere qualcosa. Persino una scissione».
Enrico Morando parla «di due modi diversi di relazionarsi» dentro il Pd rispetto al governo Monti: chi non vuole allontanarsi dalla linea uscita dal congresso e chi vorrebbe cogliere l’occasione «per diventare quel genere di partito riformista che noi tutti abbiamo sempre sognato». Beppe Fioroni lancia, invece, una doppia provocazione. La prima alla sua stessa corrente, «I modem diceormai sono diventati una categoria filosofica», poi al partito stesso: ma non è che si sta andando verso una grande coalizione alle prossime elezioni con il tripartito che oggi appoggia Monti? «Quando anche Franceschini apre al proporzionale per la nuova legge elettorale è evidente che si pensa ad altro.
«In quel caso sarebbe bene dirlo», aggiunge, spiegando che secondo lui il Pd dovrebbe archiviare Vasto e lavorare ad una coalizione con il terzo Polo. Ma a parlare apertamente di grande coalizione e del progetto a cui si lavora per costruire un grande partito di centro con pezzi di Pd e Pdl è Rocco Buttiglione: «Solo se ci fosse ancora Monti in campo si potrebbe pensare di andarealvotoconilPdl,ilPdeilTerzo Polo insieme. Casini, invece, potrebbe essere il leader di una coalizione che nasca dopo il voto». E aggiunge: «Non c’è nessun progetto di grande partito cattolico: esiste l’idea di costituire un partito laico di ispirazione cristiana formato da parte del Pd, noi e una parte o di tutto del Pdl».
Corriere della Sera 10.12.11
«Cento giornali a rischio» Lettera di otto direttori
MILANO — «Signor presidente, come Lei certamente sa la manovra che il Suo governo ha predisposto rischia di assestare un colpo mortale a un centinaio di giornali che attualmente usufruiscono dei contributi diretti all'editoria». Inizia così la lettera collettiva a Mario Monti dei direttori di Liberazione, l'Unità, Europa, Avvenire, il manifesto, Secolo d'Italia, Il Riformista e del presidente della Fisc, i settimanali diocesani, che campeggia sulle prime pagine di quei giornali impegnati in una corsa contro il tempo perché venga scongiurata la crisi occupazionale che una eventuale conferma dei tagli innescherebbe, con un aggravio dei conti pubblici superiore ai presunti risparmi ottenuti con quella voce della manovra. Gli otto direttori e il presidente della stampa settimanale cattolica (oltre un milione di lettori e un radicamento importante sui territori) chiedono da tempo la riforma strutturale del settore che anche il nuovo governo ha annunciato ma, avvertono, «se i tempi di questo auspicabile intervento di riordino dovessero risultare lunghi, e si procedesse nel frattempo con i tagli di risorse previsti, la riforma arriverebbe a situazione ormai compromessa, quando i giornali in questione avranno gioco forza cessato di esistere».
l’Unità 10.12.11
Pressing sul governo: editoria, cambiare l’art.29
Si mobilitano Fnsi e direttori dei giornali di idee, di partito e di cooperative: «Senza immediati correttivi oltre 100 testate chiuderanno sicuramente»
Il sottosegretario Malinconico: saremo attenti a salvaguardare il pluralismo
di Roberto Monteforte
È una certezza la chiusura immediata di oltre cento testate della stampa di partito, cooperativa e di idee con «riflessi gravissimi sul pluralismo dell’informazione e sulla stessa democrazia». Questo sarà l’effetto, senza immediati correttivi, della «manovra» del governo Monti che taglia ulteriormente i già scarsi e incerti «finanziamenti diretti» destinati all’editoria no profit. Lo denunciano con drammatica chiarezza i direttori delle testate coinvolte: Claudio Sardo de l’Unità, Stefano Menichini di Europa, Marco Tarquinio di Avvenire, quello della Padania, Leonardo Boriani, di Liberazione Dino Greco, quindi Norma Rangeri de il Manifesto, Marcello De Angelis del Secolo d’Italia, Emanuele Macaluso direttore de Il Riformista e il presidente della Fisc ( la federazione dei settimanali diocesani), Francesco Zanotti. Si muove lo schieramento trasversale che nei mesi scorsi nella battaglia per la difesa del pluralismo delle voci politiche e culturali nel rigore, nella «bonifica» del settore dalle false testate a favore dei giornali «veri», ha ottenuto l’autorevole appoggio del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Questa volta scrivono al presidente del Consiglio, Mario Monti, ai presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani e ai segretari dei partiti presenti in Parlamento Alfano (Pdl), Pier Luigi Bersani (Pd) Lorenzo Cesa (Udc) Italo Bocchino (vicepresidente Fli), Antonio Di Pietro (Idv) e Umberto Bossi,(Lega Nord). I tempi sono strettissimi. Alla Camera si lavora agli ementamenti alla «manovra Salva Italia». I direttori dei giornali chiedono verà equità e sviluppo. Per questo auspicano una vera «bonifica» del settore, ma al tempo stesso che siano stanziate risorse adeguate a quel Fondo per l’Editoria che il comma 3 dell’articolo 29 della «manovra» vorrebbe, invece, cancellare a partire dal 2013. E che siano stanziate subito, perché questo settore, già in crisi,non può attendere oltre.
Al presidente Monti fanno presente una ragione in più, economica, oltre a quella della tutela del pluralismo, per correggere la manovra. I costi sociali che peserebbero sullo Stato per le «molte centinaia di posti di lavoro» tra giornalisti e poligrafici che andrebbero persi. Sarebbe «un volume di spesa persino superiore a quello che sarebbe necessario per reintegrare il Fondo per l’editoria». Chiedono un incontro urgente. Lo chiedono anche ai presidenti delle due Camere, ricordando loro l’appello rivolto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano al precedente governo affinché venisse «scongiurato il rischio imminente della cessazione di attività per centinaia di testate, messe a repentaglio dal drastico abbattimento del Fondo per lì’editoria». Un appello ancora drammaticamente attualissimo.
Si confida in un rapido cambio di passo. Alla commissione Bilancio della Camera sono stati presentati emendamenti «trasversali». I deputati del Pd e della Lega Nord chiedono che sia mantenuto il Fondo. Che sia adeguatamente finanziato. Si avanzano proposte precise: l’utilizzo dei ricavi da una vera asta sulle frequenze del digitale terrestre. Che sul Fondo per l’editoria non pesino più quei 50 milioni di euro che lo Stato deve all’Ente Poste. Di aumentare dello 0,50 sul fatturato il costo delle concessioni per le emittenti nazionali. Le risorse possono essere trovate.
Che per il governo il Fondo debba essere mantenuto lo ha chiarito ad una delagazione della Fnsi il neo sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega per l’Editoria, Carlo Malinconico. Al segretario di Federstampa Franco Siddi, al presidente Roberto Natale e al direttore generale Giancarlo Tartaglia, il sottosegretario ha assicurato che l’azione dell’esecutivo «sarà attenta alle preoccupazioni sulla salvaguardia del pluralismo» espresse dal capo dello Stato. Che presterà la massima attenzione alla tutela dell’occupazione in questo comparto dell’editoria. Malinconico è tornato a chiarire che con il comma 3 dell’articolo 29 della manovra non si intende abolire dal 2014 il Fondo per l’editoria, ma modificarne le logiche.
Quell’articolo, però, al momento resta, come pure le preoccupazioni per gli effetti devastanti per il settore. Contro questa parte della «manovra» e per l’equità lunedì 12 dicembre sciopereranno e in modo unitario i poligrafici aderenti a Cgil, Cisl e Uil. La Fnsi ieri ha espresso «grande vicinanza» ai lavoratori poligrafici. Ha invitato i giornalisti ad essere loro concretamente solidali al loro sciopero, quindi «ad attenersi scrupolosamente alle regole contrattuali» evitando «commistione di funzioni e rifiutando qualsiasi prestazione che non abbia esclusivo carattere giornalistico».
l’Unità 10.12.11
Russia. Il governo schiera cingolati e un reggimento speciale ceceno
I cortei. Oggi in 40mila nella capitale. Manifestazioni in altre 80 città
Carri armati a Mosca Ma la piazza si prepara alla sfida decisiva
Cresce la tensione nella capitale russa: ci saranno più di 40 mila persone oggi in piazza contro Putin. Le autorità rispondono facendo la faccia dura: per le strade cingolati e reparti speciali.
di Emidio Russo
Sarà un sabato di fuoco, qui a Mosca. Da una parte i carri armati ed un battaglione di soldati direttamente dalla Cecenia. Dall’altra la più grande manifestazione di piazza mai vista nella capitale russa in almeno dieci anni a questa parte. Secondo le previsioni degli organizzatori e in base al numero indicato sull’autorizzazione municipale saranno in 30 mila, forse 40 mila, su piazza Bolotnaya (della Palude) per protestare contro lo «zar» Putin e l’esito delle elezioni, che anche secondo l’Osce sono state caratterizzate da brogli e violazioni. Non solo Mosca e San Pietroburgo: in 80 città scenderanno in piazza politici di professione e nuovi «dissidenti»: attivisti civili, blogger, intellettuali, artisti, studenti e classe media.
MEZZI BLINDATI
Quindi nella capitale si preannuncia un tranquillo week-end di paura. «I mezzi blindati che si sono visti fanno parte di una forza militare interna» dice Ilya Ponomarev, deputato di Russia Giusta, che ieri ha tenuto una conferenza stampa assieme ad altri esponenti dell’opposizione. «Sono da lunedì a Mosca e sì, vi rimarranno fino alla decisione definitiva sul risultato delle elezioni legislative di domenica scorsa». Si parla anche dell’arrivo del noto “reggimento ceceno” e il leader dell’opposizione conferma: «Sì, è già qui. Non è esercito, ma è una polizia speciale usata in particolare in Cecenia. Agenti più duri e spicci». Un corpo che nella repubblica caucasica «risponde direttamente al presidente ceceno Ramzan Kadirov».
Ma anche nell’opposizione, che si autoconvocata per oggi a Mosca con il tam-tam in rete e sui social network, c’è il rischio di una spaccatura: il «dove scendere in piazza» è stato il tema del contendere tra la fronda più oltranzista capeggiata da Eduard Limonov che non vuole rinunciare al primo luogo scelto, Piazza della Rivoluzione, sotto le mura del Cremlino e la fazione che unisce Ponomarev e Sergey Udaltzov, esponente di Altra Russia, più possibilista e disponibile a un compromesso. E ancora Boris Nemtsov, ex vice premier con Boris Eltsin, tra i fondatori del movimento Solidarnost’, che ha mercanteggiato con le autorità un maggior numero di manifestanti in cambio di un posto decisamente meno felice. Ossia proprio Bolotnaya ploshad, che ai tempi degli zar era il luogo dove venivano eseguite le impiccagioni. Anche a San Pietroburgo il permesso è stato accordato con un cambio di sito. Non più Piazza Vosstanja, ma la meno centrale Piazza dei Pionieri.
Nel frattempo, il potere non se ne sta con le mani in mano, tra provocazioni e aspetti anche surreali. La Novaya Gazeta lancia l’allarme su gruppi organizzati di provocatori pronti a disturbare la protesta: 200 rubli l’ora a chi griderà il nome di Putin in faccia agli oppositori, provocando risse e ingorghi. «La polizia bloccherà ogni tentativo di organizzare eventi non autorizzati», ammonisce il ministro dell’interno Rashid Nurgaliev, mentre il capo dei servizi sanitari russi invita a «non andare alla manifestazione, si rischia un’epidemia di influenza» sulla base delle previsioni meteo. Nei licei della capitale, un improvviso «esame di russo obbligatorio» è stato annunciato per oggi pomeriggio, giusto all’ora della protesta, il cui simbolo è un nastro bianco.
Quello con cui il Cremlino deve fare i conti è la rinascita di una società civile che non ha più nessuna intenzione di tacere. Dopo che la Commissione centrale elettorale ha ufficializzato la vittoria del partito di governo Russia Unita, la rabbia di molti è palpabile. È spuntata persino una vignetta con Putin travestito da Gheddafi che si guarda allo specchio: «Speriamo che con questa parrucca non mi riconosca nessuno», dice l’ex uomo del Kgb, determinato a tornare al Cremlino con le presidenziali 2012. Il solito Ponomarev oppone al premier addirittura un ultimatum: «Noi gli offriamo due settimane per darci ascolto e adempiere alle nostre richieste», ha detto il deputato di Russia Giusta. Ponomarev, classe 1975, è uno dei più giovani rappresentanti dell’opposizione, ma con un passato politico significativo, visto il suo recente abbandono del Partito comunista, che lui accusa di essere totalmente controllato dal Cremlino. «Se entro il 24 dicembre non avremo risposte, andremo avanti» dice il deputato, accusato da Putin di essere “al soldo” degli Usa.
Nonostante i proclami, le invettive di marca sovietica contro Washington e le prove muscolari, sono ore difficile per il potere russo. Ieri lo schiaffo al Cremlino è arrivato nientemeno che da due consigliere del presidente Dmitri Medvedev sui diritti umani: in polemica contro le frodi nel voto e la repressione delle manifestazioni di protesta, Svetlana Sorokina e Irina Iasina hanno lasciato il Consiglio della Presidenza russa sulle istituzioni della società civile e i diritti umani.
il fatto 10.12.11
La primavera (blindata) di Mosca
Truppe speciali e carri armati per la manifestazione dell’opposizione
di Francesca Mereu
Mosca Centinaia di agenti delle forze speciali Omon in assetto antisommossa e di poliziotti pattugliano le strade della capitale aiutati dai giovani di Nasha Armya, il braccio armato del gruppo giovanile del Cremlino Nashi. Nella periferia della città sono stazionati decine di mezzi militari pieni di soldati, mentre si confermano le voci che almeno sei carri armati sono arrivati alle porte di Mosca (uno di loro è stato persino coinvolto in un incidente stradale). Sul tetto del tetro edificio della Lubyanka, la sede dell’Fsb (l’erede del Kgb sovietico) sono stati avvistati invece diversi elicotteri.
COSÌ IL REGIME del premier Vladimir Putin si prepara ad accogliere la manifestazione di protesta di oggi, la quarta in meno di una settimana e quella che si prospetta essere la più grande degli ultimi dieci anni. In piazza sono attese più di 60mila persone che chiedono al Cremlino di annullare il voto fraudolento del 4 dicembre che ha visto il partito di Putin Russia Unita vincere con quasi il 50% del voto nonostante il forte calo di consensi.
“Vogliamo nuove elezioni, vogliamo che quelli che hanno organizzato i brogli siano puniti e il rilascio immediato delle persone arrestate nelle manifestazioni precendenti”, spiega a Radio Kommersant Yevgeniya Chirikova, uno degli organizzatori della protesta, la leader di un movimento ecologista che lotta per salvare il bosco di un sobborgo di Mosca.
Circa mille persone sono ancora in carcere dopo le manifestazioni degli scorsi giorni, tra questi i leader delle prime proteste il noto blogger Aleksei Navalny, che ha coniato la famosissima frase “partito dei ladri e dei farabutti”, diventata sinonimo di Russia Unita, e Ilya Yashin uno dei leader del movimento Solidarnost.
La manifestazione di oggi avrebbe dovuto svolgersi in Piazza Rivoluzione a due passi dal Cremlino, dove le autorità avevano dato però l’autorizzazione per un massimo di 300 persone. Alcuni degli organizzatori sono riusciti a raggiungere un compromesso e la manifestazione - che inizierà alle 14 ora di Mosca - è stata spostata in Piazza Bolotnaya, luogo più adatto, secondo le autorità cittadine, a contenere la folla di oggi.
A CONCORDARE il trasferimento è stato l’ex vice premier Boris Nemtsov, uno dei fondatori del movimento Solidarnost e l’ex deputato indipendente Vladimir Ryzhkov. Iniziativa ha però infastidito molti degli organizzatori che non volevano scendere a patti con il potere e dicevano che bisognava manifestare a tutti i costi in Piazza Rivoluzione. Verso sera ieri sono riusciti a raggiungere un accordo e oggi manifesteranno tutti in Piazza Bolotnaya. Per quelli ignari del cambiamento geografico in Piazza Rivoluzione ad attenderli ci saranno degli organizzatori che li guideranno poi nella piazza giusta.
Si prevedono numerose provocazioni da parte delle autorità. Secondo Radio Kommersant FM molti giovani sarebbero stati ingaggiati per spingere i manifestanti verso gli Omon e per provocare liti.
Il Cremlino cerca intanto di oscurare qualsiasi notizia sulle proteste. Su Twitter sono nati migliaia di account falsi che hanno postato informazioni fasulle. Mentre l’Fsb ha chiesto a VKontakte, la versione russa di Facebook, di bloccare tutte le discussioni tra gli attivisti.
LA REDAZIONE del giornale d’opposizione Novaya Gazeta e la sede del partito socialdemocratico Yabloko hanno subito invece attacchi telefonici. Una voce femminile registrata li ha chiamati per ore giovedì per dirgli: “Putin è buono. Putin ti ama. Putin rende felice la tua vita. ecc. ecc. ” Restii a partecipare alle manifestazioni rimangono i partiti della cosiddetta sistemnaya oppositsia, o l’opposizione di sistema, quella vicina al regime che non alza mai troppo la voce. Alcuni membri del partito Altra Russia hanno annunciato che vi parteciperanno come privati cittadini, ma ancora non è chiara la posizione del Partito Comunista e del nazionalista Partito liberaldemocratico.
Dimostrazioni contro il potere si terranno in più di 75 città russe e in decine di capitali occidentali.
Se le autorità moscovite hanno cercato di ostacolare la manifestazione di oggi, i nazionalisti hanno ottenuto facilmente il permesso di sfilare domani a due passi dal Cremlino per ricordare l’anniversario della morte di uno di loro.
il Fatto 10.12.11
Cina. Le proteste degli operai
Un miliardo di indignati
di Simone Pieranni
Pechino Chi ancora pensa ai cinesi come una popolazione di oltre un miliardo di sudditi probabilmente si sbaglia. Sotto la coltre ufficiale imposta dalla severità del Partito si agitano molti fenomeni sociali. E mentre tutti aspettano una reazione dalla classe media, stretta tra inflazione e prezzi delle case alle stelle, ecco spuntare gli operai. Ogni giorno un nuovo sciopero, una mobilitazione: vecchie e nuove generazioni di lavoratori cinesi che si incontrano sul terreno di spontanee rivendicazioni, salariali e di sicurezza sociale.
Il centro delle proteste è il Guangdong, polmone economico della Cina, che da solo costituisce un quarto delle esportazioni del paese e che da sempre costituisce il modello economico liberale, in contrasto con quello più statale di Chongqing. Non a caso i leader del Partito nelle due zone sono dati come prossimi membri del Politburo e come duellanti sul futuro modello di sviluppo cinese.
LA CINA, PERÒ, rallenta anche a causa della crisi economica europea e statunitense e a farne le spese sono gli operai. Nonostante gli aumenti previsti ad inizio d'anno per quanto riguarda i salari minimi, le condizioni sono ancora proibitive. Con l'inflazione che avanza, 200 euro di stipendio medio al mese non bastano più. Perché sono stati alzati i salari minimi, ma ai primi sintomi di crisi le aziende hanno chiuso i rubinetti degli straordinari, vera e proprie fonte di quel surplus vitale per la classe operaia cinese. In mezzo infatti, ci sono le aziende, in crisi di credito per la stretta ai prestiti bancari attuata dal governo per placare l'inflazione e la paventata possibilità di nuove tasse governative. Alcuni falliscono, altri provano a spostarsi per cercare manodopera a prezzi ancora più bassi. In alcuni casi, come la recente protesta presso uno stabilimento che produce per Hitachi, a Shenzhen, gli operai hanno denunciato una riduzione dei salari mensili da 4mila a 3mila rmb (poco più di 300 euro). Trasporti, elettronica, sanità sono tanti i settori all'interno dei quali si sono sviluppate lotte e scioperi. Per lo più sui media cinesi si accenna agli scioperi nelle aziende straniere: Pepsi, Hitachi, Hi-P, la singaporeana che produce per Apple e Motorola, ma secondo un attivista del lavoro in Cina, raggiunto telefonicamente e appartenente ad una ong di Hong Kong, “la maggior parte delle manifestazioni sono avvenute all'interno di aziende straniere, ma sappiamo per certo di proteste anche in fabbriche cinesi private e dello stato che riguardano principalmente i settori dei trasporti e della sanità”.
INTERESSANTE anche la composizione sociale di chi protesta: “I più giovani sono in prima linea nella protesta, ma ci sono anche anziani coinvolti, concentrati su temi di sicurezza sociale e compensazioni”. Due generazioni a confronto, con i più giovani che ormai utilizzano gli strumenti dei social network on line, per creare forme spontanee di lotta, focalizzata su rivendicazioni per lo più di carattere salariale: “Per lo più – spiega l'attivista - vengono chiesti aumenti salariali, ma ci sono anche dispute sugli straordinari, i pagamenti dei contributi, bonus e richieste di migliori condizioni di lavoro. Oltre a richieste di trattamenti migliori da parte dei manager delle aziende. Il fatto principale riguarda in ogni caso i salari che in molti casi sono stati ridotti a causa della riduzione del pagamento degli straordinari”.
Alla Hitachi ad esempio, i lavoratori, per lo più donne, avevano interrotto le trattative con la dirigenza al grido di “dovete darci il denaro” e cercando forme autonome di organizzazione: i sindacati ufficiali, infatti, sono completamente assenti nelle dinamiche di lotta: “Le azioni di sciopero non sono state organizzate dai sindacati ufficiali, ma sono nati per lo più in modo spontaneo, con un largo utilizzo anche di strumenti on line. I sindacati ufficiali non supporteranno mai gli scioperi, presi come sono per cercare una mediazione costante con le proprietà”.
Repubblica 10.12.11
Un filo spinato tra Egitto e Israele ecco il Muro che ferisce il Sinai
Dopo la caduta di Mubarak lo Stato ebraico blinda il deserto
di Fabio Scuto
EILAT - Percorre il deserto come una cicatrice mal rimarginata seguendone l'andatura di dossie dune, le parti in acciaio riverberano la luce del sole del Sinai che in alcuni momenti si fa accecante. Questa lunga striscia di cemento e metallo è il nuovo Muro che si sta costruendo lungo tutta la frontiera con l'Egitto. Perché questi duecentoquaranta chilometri di deserto - da Gaza sul Mediterraneo fino a Eilat sul Mar Rosso - sono l'incubo strategico per Israele. Una frontiera di sabbia vasta e ampia, quasi impossibile da controllare, percorsa da bande di beduini dediti a ogni tipo di contrabbando, da trafficanti d'armi e di uomini, da terroristi arabi. Il premier Benjamin Netanyahu approvò due anni fa il progetto del Muro nel tentativo di contenere l'immigrazione clandestina di sudanesi ed eritrei che attraverso l'Egitto entrano in Israele, ma la caduta del regime di Hosni Mubarak e la conseguente perdita di controllo del Sinai hanno fatto scattare l'allarme. L'attacco di diversi gruppi di terroristi lo scorso 18 agosto - con otto israeliani uccisi lungo la Highway 12 che corre lungo il confine - è stato poi l'atto decisivo per dare al Muro del Sinai una urgenza «di carattere nazionale e strategico». Per questo la costruzione viaggia a ritmi sostenuti, decine di ruspe e caterpillar sono al lavoro in 50 cantieri che corrono lungo il confine.
La parte in cemento del Muro è alta più di sei-sette metri e alla sua sommità altre barriere d'acciaio e reticolati. Solo quest'anno è stato consumato in questi lavori il 15% di tutto l'acciaio usato in Israele. I primi 100 chilometri saranno pronti in gennaioe l'intera struttura verrà completata entro il 2012.
L'ondata di immigrati clandestini provenienti dall'Africa, soltanto nel 2010 sono passati attraverso queste dune oltre 13.500 immigrati clandestini, è una vera emergenza per Israele perché nonostante la rigida politica di espulsioni il flusso è inarrestabile. Ma le priorità strategiche cambiano.
Questo confine un tempo era considerato il più sicuro, garantito dal trattato di pace di Camp David che regge da più di trent'anni, ma adesso i pericoli maggiori momento vengono da qui. Dopo il crollo del raìs lo scorso febbraio, le bande beduine - già molto attive prima - hanno guadagnato spazio mentre l'esercito egiziano ha via via perso il controllo della Penisola. Solo il gasdotto egiziano che rifornisce Israele ha subito nove attentati in dieci mesi, diversii tentativi di infiltrazione di gruppi terroristi. Il maresciallo Mohammed Tantawi che guida ora la giunta militare egiziana ha altri seri problemi interni da affrontare. L'attacco in grande stile di questa estate, poi, ha dimostrato che se questo confine non viene "sigillato", Israele dovrà prepararsi ad affrontare nuovi attacchi contro Eilat - la località balneare più frequentata in Israele - perché il Sinai è la base per infiltrare terroristi palestinesi. Il cuore del problema nel difendere il confine israeliano con l'Egitto è la vastità della regione desertica, che non può essere coperfoto="REP/NZ/images/NZ21foto0. jpg" xy="" croprect="" ta con un fitto dispiegamento dell'esercito. Il Muro, con i suoi radar, i suoi sensori farà questa parte. Ma il Sinai è un lungo fronte caldo. Un deserto estremo, ostile, dove solo i beduini riescono a sopravvivere muovendosi fra piccole oasi su piste millenarie fra la sabbia. Sono loro il nuovo nemico. Quattordici fra clan e tribù beduine si muovono tra queste dune sulle rotte carovaniere che ora percorrono sulle jeep e sui camion. Portano droga, clandestini, terroristi e armi, sono i signori del contrabbando di ogni merce. Il Sinai egiziano è terra di nessuno. Difficile anche per l'intelligence israeliana cercare di contrastare il fenomeno per capire da dove arriverà il prossimo colpo. I beduini non si muovono più in piccoli gruppi ma in bande ben organizzate, alcune hanno ricevuto aiuto e sostegno da Gaza - con cui hanno intensi rapporti per il contrabbando con i tunnel sotto il confine della Striscia - altre hanno legami diretti con gruppi della Jihad globale. L'alto livello dell'attacco dello scorso agosto ha rivelato capacità operative di questi gruppi. Il Muro nel tratto dove c'è stata la battaglia in agosto, è già stato completato ma mancano ancora 160 chilometri da portare a termine, "l'opera" però avanza rapidamente, quasi 800 metri al giorno.
Intanto palloni aerostatici armati di telecamere e sensori sono stati sparsi lungo tutto il confine, a loro per il momento il compito di segnalare arrivi pericolosi dall'altra parte e lanciare l'allarme ai comandi operativi israeliani lungo questa frontiera. La Barriera non include Eilat, la città israeliana sul Mar Rosso incuneata fra il confine egiziano e quello giordano, meta di turisti e vacanzieri ma anche teatro di attentati e attacchi terroristici negli anni passati. Un'altra speciale "cortina d'acciaio e di cemento" lunga tredici chilometri isolerà come una fortezza la città, con i suoi grandi alberghi, il piccolo aeroporto, i suoi centri commerciali, le spiagge. Sarà come andare in vacanza a Fort Apache.
Corriere della Sera 10.12.11
Vesta, la dea nemica del familismo
Vergine madre di Roma, custode del focolare domestico e della cosa pubblica
di Andrea Carandini
Il legame segreto tra noi e gli antichi
Pubblichiamo l'intervento che l'archeologo Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, terrà lunedì alle 21 al Palazzo Ducale di Genova, nell'ambito del ciclo di incontri pubblici «Noi e gli antichi», a cura della Fondazione Edoardo Garrone, del Comune di Genova e della casa editrice Laterza. Questi i prossimi relatori degli incontri: Eva Cantarella il 19 dicembre; Andrea Giardina il 9 gennaio; Giovanni Filoramo il 16 gennaio; Massimo Montanari il 23 gennaio; Maurizio Bettini il 30 gennaio; Giuseppe Cambiano il 6 febbraio; Luciano Canfora il 13 febbraio.
L'arcano dell'impero di Roma è nell'invenzione della «cosa pubblica», tanto forte da aver durato per 1.150 anni e aver improntato di sé la civiltà in Occidente. L'essenza di questa res publica fu una casta diva: Vesta, forgiata intorno al 750 a.C., su misura della città-Stato appena nata. Vesta era il fuoco pubblico di Roma, né ebbe immagine antropomorfa prima del I secolo a.C. Pensiamo che civitates e poleis si siano formate nel corso di secoli, mentre invece sono state «fondate» in un certo giorno. Sono state, in primo luogo, invenzioni teologiche e cerimoniali. Vi è somiglianza tra i fondatori di città e i fondatori di religioni: sovente eroi, figli di vergini fecondate da un dio, come Romolo e Cristo.
Per capire Vesta bisogna conoscerne il passato latino, anteriore alla città. Ma risalire così in alto è difficile, perché i Romani hanno cancellato i miti della dea, perché apparisse vergine senza trascorsi. Ma Vesta un passato lo aveva avuto, e sorprendente. Lo rivela il mito di Rhea Silvia, principessa di Alba Longa devota di Vesta — sua immagine riflessa — fecondata da Marte e genitrice di Remo e Romolo. La dea era dunque una «vergine madre», come Silvia e Maria. Anche le sacerdotesse di Vesta, le vestali, conservavano tracce della natura ambigua della dea. Somigliavano a vergini figlie, eppure anche a spose, di cui indossavano la veste, salvo il bianco velo e il diadema che segnalavano lo stato sacerdotale. I Romani hanno voluto adattare la Vesta pre-civica al loro progetto di città e mentre la plasmavano hanno concepito un'idea del pubblico che a noi pare più essenziale e radicale delle invenzioni cittadine dei Greci.
Infatti Vesta romana fu esclusivamente pubblica — sottratta ai fuochi privati — e le vestali erano costrette alla purezza per una generazione. Esclusivamente statale mai era stata la dea greca del focolare Hestia, né alcuna sacerdotessa greca ha conosciuto alla condizione simbolicamente vertiginosa delle vestali.
In origine Vesta presiedeva ai fuochi di famiglie, gentes, regie casate e anche di villaggi e rioni. Le fiamme ardevano allora nelle capanne accanto alla fossa-dispensa (penus) delle granaglie, che su quelle braci venivano cotte. Ma a Roma Vesta fu distolta da quei fuochi particolari e locali, come rapita dalla città, monopolizzata dallo Stato e relegata nel sua capanna (aedes), dove nessuno abitava o cucinava, e nel cui penus era non farro ma un talismano: il fascinus, cioè un fallo, segno di altri tempi. Le vestali abitavano in una loro capanna, davanti all'aedes, dove cucinavano e tenevano nel penus le provviste. Erano figure stravaganti, immagini viventi della dea. Dovevano preservarsi immacolate, impenetrate come le mura sante della città, e dovevano tenere il fuoco acceso durante l'anno nell'aedes, riaccendendolo ritualmente a capodanno. Se il fuoco si spegneva era una calamità grave. Rivelava che una vestale era stata violata: mostruosità da annientare, seppellendola viva.
Vesta era stata rapita ai fuochi particolari, come le vestali erano state bambine sottratte dal re alle famiglie, per divenire essenza divina esclusiva dello Stato, segno apicale della cosa pubblica. Essendo di nessuno, le vestali erano di tutti. Mai come a Roma lo Stato fu altro da un aggregato di famiglie: una entità centrale e gerarchizzata, sovraordinata rispetto rioni e parentele.
Quando i Greci fondavano una colonia, un «piroforo» recava in un vaso le braci della madrepatria con cui veniva acceso il fuoco nella città figlia, che da quel seme bruciante traeva vita. A Roma le cerimonie di fondazione furono due. Prima Romolo fondò l'epicentro dell'abitato sul Palatino, seguendo riti latini ed etruschi: era un 21 aprile, primitivo capodanno pastorale. Poi, durante il regno con Tito Tazio, egli fondò il centro sacrale e politico nel Foro-Arce: era un primo marzo, capodanno dei primi Romani. Il Foro era stato progettato tra due culti del fuoco. Accanto al fuoco domestico di Vesta risiedevano re e sacerdoti, in un fulcro di sovranità sacrale: al lucus Vestae. Accanto al fuoco bellico di Vulcano il re agiva con consiglieri e cittadini in assemblea, nel fulcro della politica, al Volcanal-Comitium. Fu allora che Vesta assunse il carattere pubblico della greca Hestia. Questa idea straordinaria era giunta forse da Cuma, per cui la fondazione della città era consistita in riti latini, etruschi e greci. Roma interiorizzò il cosmo, fin da principio.
Vesta nel Foro era sola, separata ormai da Vulcano e Marte e lontana dalle ragazze in ritiro prematrimoniale a lei devote, che con quegli dei si erano unite — pronuba la dea — per generare fondatori di città, come Ceculo, Romolo, Servio Tullio. Ora la casta diva era servita da sacerdotesse che, se violate, venivano sacrificate per preservare la salute della città. Quale differenza con la multiforme versatilità della dea originaria, con le sacre unioni che generavano eroi. Eppure qualcosa permaneva di quell'ardore originario, fatto di sovranità, purezza, fecondità, capacità difensiva ed energia nutritiva tesaurizzata.
Vigeva allora in Roma un'austerità puritana, che dell'imbarazzante passato pre-civico conservò traccia incongrua nel fascinus. La trasformazione servì a generare, nel coacervo di fazioni in lotta, il dispositivo della cosa pubblica. Mai era stato inventato un più perfetto correttivo pacificatore. Stava nella sublimazione del particolare nel generale, in un'essenza di virtù civica che rimane immortale: lezione anche per gli italiani che ristagnano ancora nel familismo amorale. Vesta e le vestali non erano di famiglia alcuna, tutt'uno col popolo romano. Vesta è dunque un'invenzione teologica artificiale, razionale. Il suo santuario e il Foro erano in un distretto esterno all'abitato e neutrale, per poter essere riconosciuto da tutti, come il Columbia District, in cui è Washington. I re di Roma furono stranieri per essere accettati dai contendenti locali — oggi diremmo tecnici super partes — e Vesta fu resa straniera a se stessa, per essere la vergine delle vergini, la sposa delle spose e perfino lo sposo degli sposi... Infatti le vestali furono le uniche donne di Roma ad avere i diritti civici dei maschi, compreso quello di sacrificare. Insomma, Vesta era onnipotente, come la Giunone di Lanuvio. Sembra contraddittoria, perché era ad un tempo polifunzionale e olistica. Nella sua sacrale eccezione si conciliava quant'era inconciliabile tra gli uomini. Vesta è il sistema antifamilistico e morale di Roma, simbolico capolavoro nella sua essenza estrema.
Gli antichi erano incerti se attribuire il culto pubblico di Vesta al tempo di Romolo, intorno al 750 a.C., o a quello di Numa Pompilio, intorno al 700. Scavando nel Santuario abbiamo scoperto che i primi edifici risalgono al 750 a.C.: la casa delle vestali davanti all'aedes Vestae e la domus dei re, che avevano lasciato il Palatino per abitare nel Foro. La discontinuità con il precedente abitato proto-urbano è assoluta. Per trasformare una palude nel Foro servirono numerosi interri accumulati dal 750 a.C. circa. Il primo pavimento in ciottoli si data intorno al 700 a.C.
Repubblica 10.12.11
L'Inghilterra discute su come si deve far studiare il passato
Se la storia vcambia sempre padrone
di D. D. Guttenplan
«Chi controlla il passato», osservò George Orwell, «controlla il futuro». Non sorprende, quindi, che proprio la patria di Orwell sia diventata teatro del più recente dibattito sul significato della storia - e sul modo in cui questa dovrebbe essere insegnata. In occasione di due conferenze, tenutesi qui nelle ultime settimane, ai toni tradizionalmente pacati del dibattito accademico si sono sostituite accuse di razzismo, di semplificazione e di ignoranza bella e propria. Il tutto mentre alcuni degli storici più autorevoli del Paese esortano il ministro dell'Istruzione, Michael Gove, ad abbandonare il suo tentativo di riformare l'insegnamento della materia nelle scuole.
Durante una conferenza di storici tenutasi a Londra, David Starkey, autore di diversi volumi su Enrico VIII e le sue mogli, nonché ospite abituale di alcuni programmi televisivi, ha affermato che la scuola dovrebbe concentrarsi di più sulla cultura propria della Gran Bretagna. E al commento di un collega che gli ricordava come la Gran Bretagna dei nostri giorni sia "pittosto multietnica", Starkey ha replicato: «No, nonè vero. Quella della Gran Bretagna è perlopiù una monocultura», aggiungendo che vaste zone del Paese sono "indiscutibilmente bianche".
La scorsa estate Starkey era già salito agli onori della cronaca per aver affermato, a proposito di alcuni disordini che si protraevano da giorni, che la popolazione povera e bianca della Gran Bretagna era "diventata nera", e che tra questa si era diffusa «una cultura violenta, distruttiva, nichilista e malavitosa».
La scorsa settimana David Cannadine, professore di storia a Princeton, ha spiegato al ministro Gove che le affermazioni di coloro che lamentano una crisi nel modo in cui la storia viene insegnata ai giovani si basano sul "mito" di un "periodo d'oro", in cui ragazzi e ragazze erano in grado di recitare i nomi di tutti i re e le regine d'Inghilterra. In occasione di una conferenza presso la University of London, alla quale ha partecipato per lanciare il suo ultimo libro, Il giusto tipo di storia (in cui prende in esame il modo in cui la materia è stata insegnata nell'ultimo secolo), Cannadine ha affermato: «Le rimostranze per l'inadeguatezza dell'insegnamento della storia nelle scuole inglesi esistono da quando le scuole inglesi hanno iniziato a insegnare storia». Attualmente, in Gran Bretagna, ha fatto notare Cannadine, a differenza di quanto accade nella maggior parte dei Paesi europei, gli studenti possono decidere di smettere di studiare storia a quattordici anni. Ma se il governo desidera migliorare la comprensione della storia, ha aggiunto, dovrebbe imporre l'insegnamento della materia sino all'età di sedici anni. La storia, che racconta le vicende di un Paese, è spesso considerata una materia controversa. Lo scorso anno, in Texas, la commissione statale per l'Istruzione ha votato affinché i libri di testo adottati nelle scuole di tutto lo Stato iniziassero a presentare i conservatori in una luce più favorevole, ed enfatizzassero il ruolo svolto dal Cristianesimo nella storia americana.
Negli anni Ottanta, in Germania, scoppiò la Historikerstreit, o "lite tra gli storici"; tutto iniziò quando Ernst Nolte, professore presso la Libera Università di Berlino, pubblicò un articolo nel quale di fatto descriveva l'Olocausto una «reazione sorta dalla paura» della rivoluzione russa.
Nolte era dell'opinione che i tedeschi dovessero smettere di scusarsi per il proprio passato, e che le imprese di Hitler fossero state «comprensibili, e, sino a un certo punto, addirittura giustificabili». Le sue idee scatenarono una polemica che si è protratta per diversi anni. Richard Evans, che all'epoca era un giovane storico presso l'Università di East Anglia, in Inghilterra, prese parte alla controversia, evidenziando le affinità tra le opinioni di Nolte e quelle a lungo impugnate dagli antisemiti, tanto in Europa che negli Stati Uniti.
L'attuale dibattito è invece sorto in Gran Bretagna nella primavera del 2010, quando Niall Ferguson, il professore ad Harvard, intervenne al Festival Letterario di Hay per lamentare il fatto che «in questo Paese, la maggior parte degli ragazzi non studia altro che Enrico VIII, Adolf Hitler e Martin Luther King». Ferguson aggiunse che ai suoi stessi figli non era mai stato insegnato Martin Lutero. Gove, che sedeva tra il pubblico, a quel punto alzò la mano: «Professor Ferguson», chiese, «crede che Harvard le permetterebbe di trattenersi qualche tempo in Gran Bretagna per aiutarci a impostare un programma di storia più entusiasmante e avvincente? ». In seguito, anche Cannadine e Simon Schama, uno storico britannico che insegna alla Columbia University di New York, furono reclutati per contribuire a rinnovare il programma nazionale di storia. Poi, a marzo, dalle pagine della London Review of Books, Evans - oggi Regio professore di storia a Cambridge - si è scagliato contro l'intera iniziativa, accusando il governo di voler imporre una lettura "celebrativa" della storia, che sorvoli sulle vicende più buie del passato della nazione e trascuri il contributo delle persone di colore al retaggio del Paese. Il rischio, ha ammonito, è quello di operare un «tipo di semplificazion e a s s o l u t a m e n t e ignorante». Ferguson, dal canto suo, nega di avere simili intenzioni. «Non so perché (Evans) senta la necessità di ritrarmi come una sorta di mostro reazionario. Un personaggio da dare in pasto alla febbrile immaginazione dei liberal, per farlo odiare», ha affermato in un'intervista.
«Chiunque legge ciò che scrivo sa che non propongo certo l'imposizione di una meta-narrativa pro-Tory». In seguito, Ferguson ha trovato un improbabile difensore in Eric Hobsbawm il quale lo ha descritto come «un uomo estremamente intelligente, nonché ottimo storico». «Per quanto io non sopporti l'idea di prendere le parti dei Tory, ritengo che in questo caso essi abbiano più ragioni di quanto noi accademici siamo pronti ad ammettere».
«La storia dovrebbe insegnare un senso di prospettiva e proporzioni», ha affermato Cannadine, lamentando il fatto che il dibattito si sia «polarizzato attorno a delle posizioni inamovibili: quella di coloro che privilegiano l'importanza della conoscenza dei fatti rispetto alle competenze storiche; di chi desidera una narrativa nazionale dai toni grandiosi, a scapito di una versione del passato che comprenda anche i momenti meno nobili, e coloro che vogliono concentrarsi sul Paese in cui viviamo anziché sui nostri rapporti con il resto del mondo».
Durante una recente conferenza il ministro Gove ha in parte disarmato i suoi detrattori. Pur tornando a lamentare il fatto che la storia britannica sia posta in secondo piano rispetto «a Hitler e agli Enrichi» o a una parte del vecchio West, che lui ha definito "indiani e cowboys", Gove ha definito "pericolosa" la volontà dei politici «di imporre sul programma scolastico nazionale tanti dei loro pregiudizi». Il ministro ha infine aggiunto di tenere la «mente totalmente aperta» circa l'opportunità di prolungare o meno l'insegnamento della storia sino all'età di sedici anni, e si è rifiutato di abbandonare il proposito di rivedere il programma, affermando che «dovremmo insegnare molta più storia», ed essere «molto più esigenti». «È in parte tornato sui propri passi», ha commentato Cannadine, aggiungendo che Gove «è chiaramente una persona con cui possiamo, e dobbiamo, lavorare».
(Traduzione di Marzia Porta) © The New York Times-La Repubblica
Repubblica 10.12.11
Bellocchio a gennaio sul set per il nuovo film
Ispirato al caso Englaro
Partiranno a gennaio le riprese del nuovo film di Marco Bellocchio "Bella addormentata" liberamente ispirato al caso Englaro. In questi giorni si stanno decidendo i protagonisti.