martedì 29 novembre 2011

l’Unità 29.11.11
Il leader Pd: sosterremo Monti anche se non condivideremo tutto al cento per cento
Probabile incontro con il premier prima del Consiglio dei ministri del 5 dicembre
Bersani al Pdl: no veti
Il governo non si faccia intimidire
di Simone Collini

Niente condizionamenti e niente intimidazioni. Pier Luigi Bersani sa bene che questo «non è il governo del Pd» e che però la situazione di emergenza impone di sostenerlo anche se il suo partito non condividerà «al 100 per cento» tutte le misure che verranno portate in Parlamento. E il segretario del Pd chiede lo stesso atteggiamento «responsabile» alle altre forze che appoggiano in Parlamento l’esecutivo.
Mentre Mario Monti riunisce a Roma il Consiglio dei ministri, Bersani è a Monza, dove partecipa insieme ad Angelino Alfano a una tavola rotonda organizzata nel corso dell’assemblea di Confindustria. Negli interventi del segretario del Pd e di quello del Pdl ci sono diversi punti di contatto, a cominciare dal fatto che siamo di fronte a «un caso unico determinato dall’emergenza», come dice Alfano, o dal fatto che questo non è un governo di unità nazionale, come dice Bersani.
La scelta dell’esecutivo tecnico non deve stupire, sostiene il leader del Pd. «Un partito non è mica detto che debba avere interesse a spartirsi governi. Ne ha da fare: le riforme, garantire la stabilità nella maggioranza in Parlamento e anche scrivere una legge sui partiti». L’unica cosa che un partito non può fare in una «situazione veramente difficile» come questa è porre «condizioni preventive». Il riferimento è al «no alla patrimoniale secca» annunciato nei giorni scorsi da Berlusconi e ribadito ieri da Alfano e il tentativo di dipingere determinati strumenti antievasione come misure «da comunisti». «C’è ancora chi dice che la tracciabilità è una cosa da comunista dice Bersani e spero che il governo non si faccia intimidire da queste affermazioni, perché esiste in tutto il mondo liberale».
BILATERALI PRIMA DEL 5 DICEMBRE
Il leader del Pd pare non abbia ancora in programma un appuntamento con Monti e ribadisce la disponibilità a esserci, non appena sarà chiamato. Il presidente del Consiglio, nei colloqui che ha avuto con i segretari di partito, avrebbe assicurato che prima di portare in Parlamento la manovra anticrisi, il 5 dicembre, illustrerà in incontri bilaterali le principali misure del pacchetto. L’auspicio di Bersani è che il governo faccia le sue proposte «senza timidezze», per poi aprire una discussione in Parlamento. «Lì avremo l’occasione per dire la nostra. E abbiamo già avanzato proposte in questi mesi».
Il leader del Pd infatti manda un duplice messaggio, uno indirizzato al Pdl e uno al governo. A chi mette un veto sulla patrimoniale dice che il Pd «non mette condizionamenti né li accetta». All’esecutivo però chiede di tener conto delle indicazioni date fin qui negli incontri riservati e con le proposte di legge presentate alle Camere. A cominciare dalla necessità di prevedere una tassa sui grandi patrimoni immobiliari e dalla richiesta di riflettere molto bene sull’opportunità di aumentare l’Iva (il rischio, ha fatto notare Bersani, è di colpire indistintamente i redditi bassi come quelli alti e di far calare i consumi).
Anche la partita sui sottosegretari è stata giocata dal Pd lasciando a Monti la parola finale ma insistendo su alcuni punti. In particolare, per avere come sottosegretario al ministero per i Rapporti col Parlamento una persona di lunga esperienza in questo campo. È stato in particolare Dario Franceschini a puntare i piedi fino all’ultimo secondo su Giampaolo D’Andrea, facendone una questione di «funzionalità» e sottolineando la necessità che a ricoprire quel ruolo fosse qualcuno con profonda conoscenza dei rapporti tra governo e Parlamento. Una scelta che ha fatto infuriare Maurizio Gasparri, che punta il dito sul fatto che non ci dovevano essere politici nell’esecutivo. In realtà, raccontano nel Pd, nelle consultazioni sia al Quirinale che con Monti l’accordo era di riservare le postazioni ai Rapporti col Parlamento a un ex parlamentare del Pd e un ex del Pdl. I cui vertici poi hanno deciso diversamente.


l’Unità 29.11.11
Come chiudere la stagione del razzismo di Stato
Le 10 cose da fare
di Filippo Miraglia, responsabile immigrazione ARCI

Uscito di scena il governo Berlusconi, adesso bisognerà rimediare ai suoi tragici errori sapendo che non sarà facile visto che in Parlamento i numeri rimangono gli stessi. Noi vorremmo provare a indicare le prime dieci cose da fare subito per chiudere la stagione del razzismo di Stato, stabilendo un rapporto diverso tra istituzioni e persone di origine straniera: 1) ripristinare i tavoli istituzionali di confronto con le organizzazioni sociali operanti prima del 2008; 2) riattivare la programmazione triennale e il decreto flussi annuale, ricostituendo il fondo nazionale per le politiche migratorie; 3) chiudere in modo positivo tutti i casi ancora aperti legati all’ultima sanatoria, riconoscendo le ragioni di chi è stato truffato e di chi si è fidato dello Stato; 4) sostenere i percorsi di regolarizzazione anche attraverso l’applicazione della Direttiva sulla lotta al lavoro nero; 5) chiudere tutti i centri di detenzione, ridimensionando il sistema di controllo e rimpatrio degli irregolari, adottando le misure previste nella Direttiva Rimpatri, consentendo il diritto alla difesa e istituendo una commissione indipendente che verifichi stabilmente il rispetto dei diritti delle persone detenute nei CIE (nella prospettiva di chiuderli); 6) riportare all’interno del sistema SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiatila) rete d’accoglienza emergenziale gestito dalle Regioni e dalla Protezione Civile, arrivando ad un numero di posti SPRAR pari alle persone che ne hanno diritto, e intervenire anche sui percorsi di inclusione sociale di chi ha ottenuto lo status ma viene abbandonato a se stesso; 7) a proposito della cittadinanza per i nati in Italia e della naturalizzazione per chi la chieda, in attesa di riformare la legge, si potrebbe rendere trasparente e meno punitiva la procedura (l’anno scorso c’è stato un forte aumento delle risposte negative). Già un passo avanti sarebbe accelerare i tempi di risposta; 8) finanziare, anche con risorse europee, i corsi di italiano per stranieri, abbandonando l’assurdità del permesso a punti e introducendo un sistema che consenta a chi lavora di seguire i corsi; 9) predisporre un piano nazionale per il superamento dei campi rom, insieme alle organizzazioni sociali e con una ampia partecipazione dei diretti interessati; 10) concludere il processo per l’indipendenza dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), predisponendo un piano nazionale contro le discriminazioni che acceleri il progressivo radicamento sul territorio di strumenti e attività.
Confidiamo che chi è stato chiamato alla responsabilità di ridare credibilità all’Italia, possa farlo anche su un terreno come quello dell’immigrazione che riguarda la qualità della nostra democrazia e il futuro del nostro Paese.

Corriere della Sera 29.11.11
Perché è così difficile diventare cittadini italiani
risponde Sergio Romano

Sulla concessione della cittadinanza italiana ai figli degli immigrati nati in Italia è necessario fare un po' di chiarezza. Non ci dovrebbero essere troppi dubbi, infatti, sulla opportunità, anche dal punto di vista umano, di concedere la cittadinanza,
di diritto o per semplice opzione, al compimento della maggiore età a quelli che in Italia sono nati, hanno fatto i loro studi e vi si trovano ancora a quella data. Ben diverse conseguenze avrebbe invece introdurre lo «ius soli»,
concedendo la nazionalità indiscriminatamente fin dal momento della nascita o comunque a bambini minori, il cui destino è naturalmente legato a quello dei loro genitori. Non tutti gli immigrati intendono restare in permanenza in Italia. Per quanti tornano stabilmente al loro Paese d'origine che senso avrebbe avere con sé in famiglia bambini di un'altra nazionalità? Per converso, con lo «ius soli» basterebbe a qualsiasi donna immigrata, anche clandestina, venire a partorire in Italia per conquistare il diritto alla residenza permanente, come succede in Francia, in quanto non sarebbe possibile né umano rimpatriare genitori staccandoli dal proprio figlio italiano, almeno fino alla maggior età. Forse se si esaminassero più da vicino questi e altri problemi si potrebbero trovare soluzioni meno controverse.
Giacomo Ivancich, Venezia

Caro Ivancich,
Nel corso di una buona trasmissione radiofonica della Rai («Tutta la città ne parla», a cura di Giorgio Zanchini), una sociologa, Giovanna Zinconi, ha ricordato recentemente che lo «ius soli» esiste anche da noi ma è, per così dire, dimezzato. Chi nasce in Italia ha il diritto di chiedere la cittadinanza, ma soltanto alla maggiore età, vale a dire, secondo le leggi vigenti, a diciotto anni. È giusto che un giovane sia privato della cittadinanza sino alla maturità quando frequenta le scuole del Paese, ne conosce la lingua, ha qui la rete delle proprie amicizie? Lei ha ragione, caro Ivancich, quando osserva che esistono, accanto ai matrimoni di comodo, le nascite di comodo, programmate da genitori che non hanno con il Paese alcun legame e verrebbero in Italia, se la cittadinanza fosse concessa sin dalla nascita, soltanto per portare con sé, al ritorno in patria, un passaporto utile per il futuro. Ma credo che occorrerebbe anticipare la concessione della cittadinanza al completamento della scuola dell'obbligo e forse, se i genitori hanno qui la residenza da alcuni anni, alla fine della scuola elementare.
Il vero problema è che l'Italia, non soltanto per colpa della Lega, concede la cittadinanza con avarizia e con procedure in cui i tempi burocratici sono particolarmente lunghi. Ho appreso recentemente il caso di un rifugiato palestinese giunto dalla Striscia di Gaza nel dicembre del 2004. Mi ha scritto di avere studiato, di essersi laureato, di essersi mantenuto agli studi lavorando come custode notturno e di essere oggi candidato a un master d'ingegneria nel Politecnico di Torino. Ha ottenuto lo status di rifugiato politico nel 2008 e allo scadere del quinto anno dal giorno del suo arrivo ha chiesto la cittadinanza italiana. Gli è stato risposto che i cinque anni necessari per l'inizio della pratica non decorrono dal giorno dell'arrivo, ma da quello (per lui tre anni fa) in cui è stata riconosciuta la condizione di rifugiato politico. So che le regole sono necessarie e che la pubblica amministrazione ha il dovere di esaminare ogni richiesta con grande attenzione. Ma per coloro che hanno completato gli studi in Italia dovrebbe esservi, a mio avviso, un percorso preferenziale. Una laurea italiana conferisce allo studente straniero una sorta di cittadinanza culturale. Quella formale, in mancanza di ragioni contrarie, non dovrebbe tardare.

l’Unità 29.11.11
«Nel Lazio il Pd scelse di perdere» Bufera sulle accuse di De Gregorio
Stefano Boeri, assessore alla Cultura, Expo, Moda e Design del Comune di Milano
È polemica tra i radicali e il Pd per le dichiarazioni di Concita De Gregorio
Un «altissimissimo dirigente» le avrebbe detto che ai democratici conveniva perdere le regionali del Lazio. Secca smentita dal Nazareno.
di Virginia Lori

È di nuovo polemica tra i radicali e il Pd, ma stavolta ad accendere la miccia sono state le dichiarazioni dell’ex direttore de l’Unità, Concita De Gregorio, sulle elezioni regionali del Lazio del 2010 e la corsa di Emma Bonino alla presidenza. Durante l’assemblea nazionale dell’associazione “Tilt”, che si è svolta a Pisa nei giorni scorsi, la giornalista riferisce di un colloquio avuto con un «altissimissimo» dirigente del Pd senza tuttavia farne il nome e dando il là a una ridda di illazioni e sospetti che innescano nuove polemiche e parecchi malumori al Nazareno.
De Gregorio racconta (come testimonia un video su youtube) di essere andata nella sede del Pd, dall’ignoto dirigente, perché «il direttore di un quotidiano dovrebbe sapere» come regolarsi in vista della campagna elettorale. E così racconta il dialogo. «Ho chiesto: “Siccome esiste un candidato del centrosinistra e uno del centrodestra, io vorrei sapere se per caso voi avete deciso di non sostenere questa candidatura”». Risposta dell’interlocutore: «A noi questa volta nel Lazio ci conviene perdere. Perché, siccome la Polverini è la candidata di Fini e siccome è l’unica sua candidata della tornata, se vince, Fini si rafforza all’interno della sua posizione critica nel centrodestra e, finalmente, si decide a mollare Berlusconi e a fare il Terzo Polo, insieme a Casini. E noi avremmo le mani libere per allearci con Fini e Casini e andare al governo».
Mario Staderini, segretario dei Radicali, non perde un attimo: «Questa rivelazione avrebbe del clamoroso se non fosse che come Radicali avevamo denunciato tutto a tempo debito». Aggiunge: «Al di là del dirigente citato dalla De Gregorio, e che dall’audio sembrerebbe essere individuabile in Fioroni, credo che Pier Luigi Bersani debba dire la verità e chiedere scusa agli elettori».
Secca la smentita di Nico Stumpo, responsabile organizzazione Pd: «Se non fosse che nella comunicazione quanto non viene smentito passa per essere presumibilmente vero, le affermazioni di Concita De Gregorio non meriterebbero nemmeno di essere smentite. Dunque solo poche parole: quelle affermazioni non hanno alcun fondamento». Smentita non secca ma seccata da Fioroni: «Leggo fantasiose ricostruzioni di identikit che assocerebbero, nella citazione di De Gregorio, un “altissimo dirigente del Pd” al mio nome. Lusingato per l’“altissimo” specifico, ove mai ce ne fosse bisogno, che si tratta di illazioni prive di fondamento: non ho mai parlato con De Gregorio di scenari futuribili e ho sostenuto la Bonino come presidente. Quanto al contenuto delle dichiarazioni attribuitemi mi sembrano più attinenti a lettura della palla di vetro che a considerazioni politiche. E sulle arti divinatorie lascio volentieri campo libero al mago Otelma».
De Gregorio riferisce anche di un colloquio con Bersani sul motivo del mancato appoggio al «No Berlusconi Day», del 5 dicembre 2009, organizzato dal popolo viola. «Perché non l’abbiamo indetta noi», sarebbe stata la spiegazione del segretario. «Facciamo così: io pubblico le lettere dei lettori e voi pubblicate questa risposta. Lo faceva anche Berlinguer...», la replica dell’ex direttore. Ed ecco Gianfranco Mascia, tra gli organizzatori del NoBday innescare un’altra polemica con il Pd: «Delle due l’una: o Bersani ha mentito a Concita De Gregorio, o ha mentito a noi». Dal Nazareno replicano: «Anche in questo caso vale quello che ha detto Stumpo: dichiarazioni prive di fondamento».

Repubblica 29.11.11
"Al Pd convenne la sconfitta di Bonino" scontro sulle elezioni del 2010 nel Lazio

ROMA È di nuovo scontro fra Radicali e Pd dopo che la giornalista Concita De Gregorio ha rivelato un retroscena sulla sconfitta di Emma Bonino alle regionali del Lazio. De Gregorio ha raccontato a una assemblea della associazione Tilt che un «altissimo» dirigente del Pd le spiegò che al partito «conveniva la sconfitta della Bonino». Per quale motivo? Perché la vittoria della Polverini avrebbe rafforzato Gianfranco Fini e lo avrebbe indotto a rompere con Berlusconi creando il Terzo polo con Casini. E con questa nuova formazione il Pd si sarebbe alleato per andare al governo. Durissima la reazione di Mario Staderini, segretario dei Radicali: «Al di là del dirigente citato dalla De Gregorio, e che dall´audio sembrerebbe essere individuabile in Fioroni, credo che Pier Luigi Bersani debba dire la verità e chiedere scusa agli elettori». Fioroni però smentisce subito e il Pd nega che sia mancato il sostegno alla Bonino.

il Riformista 29.11.11
Il partito dei casi L’ultimo si chiama Concita
Pd. Il giallo dell’altissimo dirigente
di Ettore Maria Colombo

Non bastava, a tormentare la vita quotidiana del Pd, il caso Monti: come, quanto e fino a quando, cioè, appoggiare il neonato governo, con relativa appendice sui sottosegretari. Né, evidentemente, bastava quello che ormai è diventato un tormentone, il caso Fassina, dal nome del responsabile economico (nonché esponente della segreteria di Bersani) del Pd, Stefano Fassina. Ieri mattina, infatti, prima è scoppiato il caso Milano con relativo scambio di accuse e ripicche reciproche tra il sindaco, Giuliano Pisapia (vicino a Vendola) e il suo assessore alla Cultura, l’archistar Stefano Boeri (esponente del Pd, anche se molto poco amato pure dentro il Pd milanese). Poi, definitivo, è deflagrato il caso De Gregorio. Nel senso di Concita. L’ex direttrice dell’Unità è stata costretta, prima dell’estate, alle dimissioni da molti fattori (calo di copie, insofferenza di gran parte della redazione, problemi di liquidità della proprietà, oggi ancora in mano a Renato Soru, che però sarebbe molto vicino all’addio definitivo), ma una cosa è certa: non l’ha presa bene. Le colpe non sarebbero del successore, Claudio Sardo, che l’Unità oggi dirige e il quale ha il merito di aver riportato il giornale  interloquire, almeno con il partito e i suoi mondi di riferimento, ma direttamente dello stato maggiore democrat. Quello di adesso. Bersani&co., per capirsi. Concita non gliel’ha perdonata. Prima ha passato in rassegna, su Repubblica, dove ora scrive, tutti gli anti-Pd possibili e immaginabili, poi ha tessuto le lodi del Rottamatore per eccellenza, Matteo Renzi. Infine, il colpo da maestro, quello gobbo. Sabato scorso, invitata a parlare a Pisa, al Tilt Camp, associazione vicina a Nichi Vendola e le sue Fabbriche, tira la bomba. Riguarda la Bonino e il Pd. «Un altissimo dirigente del Pd mi disse racconta Concita, ai giovani del campus, che fremono d’indignazione e che la sommergeranno d’applausi antiCasta dopo l’auto-candidatura di Emma Bonino alle Regionali del 2010 contro Renata Polverini, che “a noi del Pd conviene perdere” perché dietro la Polverini c’è Fini (allora ancora dentro il Pdl, ndr) che così molla Berlusconi, si allea con Casini e fa il Terzo Polo. A quel punto si alleano con noi e mandiamo a casa Berlusconi».
I Radicali e Radio Radicale, seguono tutto, sentono tutto, registrano e, ieri, mandano in onda. Il botto, come è ovvio, è assicurato: la notizia fa il giro della rete (siti, Facebook, Twitter) e scatena ondate di polemiche. Cominciano  i Radicali, con il segretario Mario Staderini («Il Pd chieda scusa a noi e agli elettori»), il Pd cerca di mettere una toppa («Affermazioni prive di fondamento», recita lo stringato e seccato comunicato del Nazareno), ma è peggio del buco e il caso diventa una slavina. Tutti, soprattutto i giornalisti, cercano il nome dell’altissimo dirigente che ha parlato con Concita. Il primo che gira è quello del cattolico Fioroni (che smentisce subito), il secondo è D’Alema, non foss’altro perché, quando c’è di mezzo un inciucio, tendenzialmente perverso, si usa pensare a lui. Altri ipotizzano Walter Veltroni (che volle fortemente De Gregorio direttore della nuova Unità). Chiunque sia, una sola cosa è certa: il Pd non aveva proprio bisogno, pure ieri, dell’ennesimo clima da guerra fredda e notte dei lunghi coltelli interna ed esterna. Non a caso, sono sempre di più le voci che danno per imminente, già a partire dall’Assemblea nazionale convocata il 15-16 dicembre, la esplicita richiesta di congresso anticipato, nel 2012. Per regolare, appunto, un po’ di conti interni.

l’Unità 29.11.11
Classi pollaio e organici. «Ripristinare la legalità, serve discontinuità con la gestione Gelmini»
Incontro con Pd, Idv e Sel. Poi l’edilizia scolastica: «Un’emergenza nazionale da non rinviare»
La ricetta della Cgil per il governo Monti: «Per rilanciare l’Italia si inizi dalla scuola»
di Mariagrazia Gerina

La discontinuità di stile è già un buon segno. L’attenzione al parlamento, la disponibilità al dialogo con gli studenti dichiarata dal nuovo inquilino di viale Trastevere, anche. E però non basta. Sulla scuola, «devastata» dalla gestione Gelmini-Berlusconi, la Flc Cgil chiama il nuovo esecutivo a una vera e propria opera di «ricostruzione», che va dal ripristino della legalità le classi pollaio e gli organici sottodimensionati sono stati bocciati anche dalle sentenze del tribunale amministrativo al ripristino delle 30 ore di lezione nella scuola elementare, invece delle 27 o delle 24 previste dagli attuali moduli, dalla messa in sicurezza degli edifici scolastici «questione non rinviabile al prossimo governo, ma emergenza nazionale da affrontare subito» alla stabilizzazione dei precari. L’organico di diritto per l’anno in corso prevedeva 59.568 posti in meno di quelli che poi è stato necessario introdurre nell’organico di fatto. Stabilizzare quei sessantamila posti in più, che sono una realtà e non un’opinione, quindi. Ed evitare gli incarichi al 30 giugno che costano oltretutto dai 532 ai 706 euro a testa in più rispetto a un contratto al 31 agosto. Ma in futuro la Flc Cgil chiede di abbandanare il vecchio schema per ragionare in termini di organico funzionale alle esigenze delle scuole. Anche rispetto alle supplenze. Il sistema attuale fa acqua. E costa alle casse dello stato un miliardo l’anno. Una cifra sufficiente a coprire 40mila contratti a tempo indeterminato.
Sono alcune delle proposte con cui la Flc Cgil incalza il nuovo governo. Il segretario nazionale Domenico Pantaleo ne ha discusso ieri con i responsabili Scuola dei principali partiti dell’ex opposizione (Pd.Idv. SeL), illustrando loro un dossier dal titolo-sfida: «Ricostruiamo l’Italia, cominciamo dalla scuola». Al nuovo esecutivo la Flc Cgil, che sulle proposte ha già incassato il consenso dei partiti di ex opposizione, chiede segnali tangibili di «discontinuità» (anche nella struttura del ministero).
TRE ANNI DURISSIMI
Alle spalle, 3 anni in cui alla scuola sono stati tagliati 8 miliardi e 130mila posti di lavoro. Primo, dunque: considerare l’istruzione come strumento per uscire dalla crisi e non come fattore di costo su cui continuare a tagliare. «L’Ocse stima che un anno di istruzione aggiuntiva accelera il tasso di crescita dello 0,45%», ricorda il dossier della Cgil. Mentre l’Italia ha ancora un tasso di dispersione scolastica pari al 18,8% quando l’obiettivo indicato nella strategia Europa 2020 è del 10% e la media europea è già oggi già del 14,4%. E se nel 2003, gli studenti che decidevano di passare al secondo ciclo di istruzione erano il 63%, oggi sono il 54%.
Il punto da cui la Flc Cgil suggerisce di ripartire però è la scuola dell’infanzia. Cinquecento classi in più l’anno per andare incontro alle richieste delle famiglie e dare il segno che anche quella è parte integrante del sistema scolastico. Trenta ore alle elementari, tempo prolungato alle medie, no alle classi polliaio, biennio comune alle superiori, marcia indietro sull’apprendistato che «di fatto abbassa l’obbligo». E infine un nuovo piano di assunzioni da ripensare in funzione di questi obiettivi e non del turn over, come faceva il piano del precedente governo. Da una parte, un concorso-concorso per fare spazio ai più giovani. Dall’altra l’esaurimento delle graduatorie, da verificare.
Quanto all’edilizia scolastica, che la Flc Cgil indica come emergenza nazionale: «Servono subito 5-6 miliardi», scandisce Pantaleo. Mentre Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd ricorda che ce ne sarebbero già 4,5 nelle casse dei Comuni virtuosi che il Patto di stabilità impedisce di spendere.


La Stampa 29.11.11
Fondazione Agnelli
“La scuola media italiana? Un disastro”
La scuola media bocciata a tutti gli esami
Prof anziani, studenti delusi, formazione arretrata: la crisi nel rapporto 2011
di Flavia Amabile

La scuola media esce a pezzi dall’analisi della Fondazione Agnelli. Il rapporto del 2011 è tutto dedicato al ciclo intermedio dell’istruzione: 160 pagine di numeri e analisi che descrivono un fallimento. Che altro si potrebbe dire di una scuola da cui 1 professore su 3, se può, scappa? O dove addirittura si trovano insegnanti (quasi uno su dieci) che non esitano a criticare il loro stesso mestiere? Persino un maestro (o una maestra) su 4 delle elementari la considerano un disastro, anche se si tratta di un ciclo superiore e quindi una specie di traguardo a cui aspirare. Nulla, bocciata anche da loro.
Insomma qualcosa non va nelle scuole medie italiane. L’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini probabilmente la considererà per sempre la sua riforma mancata, l’ultima, quella che avrebbe completato la sua opera. Non è detto che gliel’avrebbero permesso nemmeno se il governo Berlusconi fosse rimasto in carica l’intera legislatura ma per non perdere tempo stava preparando una riforma dell’esame di terza media. E comunque alla fine i ragazzi e le famiglie italiane dovranno convivere con la secondaria inferiore ancora per un po’.
Non è un bel vivere a giudicare da quel che si legge nel Rapporto 2011 della Fondazione Agnelli. I professori potrebbero essere i nonni dei loro alunni. Se i docenti italiani sono già i più anziani all’interno dell’Ocse, quelli delle scuole medie detengono il primato assoluto: sono più vecchi persino di quelli delle scuole elementari e superiori italiane, età media dei prof di ruolo di oltre 52 anni, e una loro concentrazione soprattutto nella fascia fra i 58 e i 60 anni. Nessun insegnante di ruolo ha meno di 35 anni. E comunque trovarne è una vera rarità: oggi si diventa di ruolo a oltre 40 anni, il doppio rispetto a quello che avveniva all’inizio degli Anni Settanta.
Quel che più lascia sbigottiti è che i meno soddisfatti della propria formazione sono proprio loro, i prof. Le tecnologie? Il 46% ritiene inadeguata, o poco adeguata, la propria preparazione contro il 39% degli insegnanti delle elementari e il 43% di quelli delle superiori. La multiculturalità? Non ne parliamo: il 44% dei prof delle medie si ritiene non all’altezza rispetto al 27% delle elementari e il 43% delle superiori. Persino per comunicare con i genitori il 47% ritiene di non avere gli strumenti necessari invece del 30% delle elementari e del 45% delle superiori. Stesso discorso per la gestione della classe: il 39% non si ritiene preparato a sufficienza contro il 21% delle elementari e il 36% delle superiori. Come sintetizza il Rapporto, sono «poco attrezzati per affrontare i profondi cambiamenti che interessano gli studenti preadolescenti e l’organizzazione scolastica».
Una simile catastrofe non può non fare vittime. Innanzitutto i preadolescenti italiani vanno a scuola meno volentieri dei loro coetanei stranieri. Solo il 17% dei maschi e il 26% delle femmine di undici anni è contento di stare in classe, un gradimento quasi tre volte inferiore rispetto a quello di Germania e Inghilterra e comunque molto più basso della media europea del 33 e 44%. Ma il gradimento cala ancora se si considerano i ragazzi dopo tre anni di medie. A 13 anni a dirsi contenti di andare a scuola sono solo il 7% dei ragazzi e l’11% delle ragazze italiane. In tutti gli altri Paesi invece, il gradimento aumenta.
Come sempre a rimetterci davvero sono i deboli. «La famiglia continua ad avere un ruolo decisivo e crescente nel tempo sottolinea l’analisi. Chi ha genitori con al massimo la licenza media ha una probabilità tre volte più elevata di essere in ritardo in prima media e quattro volte più alta in terza media. Chi viene da una famiglia povera ha il 60% di probabilità di essere in ritardo rispetto a chi ha un benessere economico elevato.
E gli immigrati figli di stranieri nati però in Italia che iniziano le medie in condizioni di parità rispetto agli italiani possono perdere terreno anche di 3,5 volte entro la terza media. «La scuola media fallisce proprio dove la scuola primaria riesce: contenere l’influenza delle differenze sociali nei livelli di apprendimento», conclude senza sconti il Rapporto. "In tutta Italia non esiste un solo insegnante di ruolo con meno di 35 anni"

il Fatto 29.11.11
Evasione fiscale. Tutti chiedono la tracciabilità
Anche Bankitalia e Procura antimafia vogliono da Monti un nuovo decreto
di Giorgio Meletti

Per Silvio Berlusconi il divieto di fare in contanti i pagamenti superiori ai 2-300 euro sarebbe “una norma che ha insito il pericolo di uno Stato di polizia tributaria, il contrario di quello in cui vogliamo vivere”. Attualmente il limite è a 2.500 euro, dove l’ha riportato Berlusconi dopo che il precedente governo guidato da Romano Prodi aveva fissato un tetto di 500 euro.
Ma adesso il governo Monti non potrà fare a meno di intervenire, in nome della cosiddetta “tracciabilità”. Solo se i pagamenti lasciano la loro impronta sul conto corrente del beneficiario, o sulla contabilità della carta di credito, la lotta all’evasione fiscale e al riciclaggio disporranno di un’arma di dissuasione significativa.
Ieri, a invocare un provvedimento sono scesi in campo il vice direttore della Banca d’Italia, Anna Maria Tarantola, e il procuratore nazionale Antimafia Pietro Grasso. Sostiene Tarantola che la Banca d’Italia “si sta adoperando per ridurre l'utilizzo del denaro contante, particolarmente diffuso in Italia rispetto ad altri paesi sviluppati, la cui gestione comporta per l’economia costi relativamente elevati”. È vero, ammette l’alto dirigente della banca centrale, che un limite alla circolazione del contante “comporta nell’immediato un considerevole mutamento nelle abitudini commerciali degli italiani”, però “rappresenta un ineludibile presidio di legalità”.
GRASSO NEGA che sia in gioco un limite alla libertà dei cittadini, e ricorda che “l’Italia è il terzo Paese in Europa per uso di denaro contante. La banconota da 500 euro è lo strumento più usato per il riciclaggio perchè dà maggiori possibilità di essere trasferita. Basti pensare che in una valigetta 24 ore entrano anche 6 milioni di euro”.
Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha calato sull’argomento l’asso della politica, con un auspicio che va tradotto come pressante invito al premier Mario Monti: “C'è ancora chi dice che la tracciabilità è una cosa comunista, ma c'è in tutto il mondo liberale. Spero che il governo non si faccia intimidire. All’insediamento ho detto che noi non mettiamo e non accettiamo condizionamenti. Il governo fa proposte, e mi auguro senza timidezze”. In campo ci sono due proposte concrete.
LA PRIMA, a cui ha dato voce la giornalista Milena Gabanelli, punta a scoraggiare l’uso del contante introducendo una tassazione su ogni prelievo o versamento di banconote in banca (vedi articolo sopra). Secondo Thomas Tassani, docente di diritto tributario all’Università di Urbino, la tassa suggerita dall’autrice di Report ha il piccolo difetto di essere vietata dalla Costituzione italiana: “Secondo l’articolo 53 ha scritto sul sito www. lavo-  ce.info   ogni imposta, per poter essere legittima, deve colpire una capacità contributiva manifestata dal singolo, ossia una forza economica effettiva. La movimentazione di contante non costituisce un consumo (o un affare) e neppure è realizzo di un reddito”.
L’unico ostacolo al limite dei 300 euro per i pagamenti in contanti è l’idea che le famiglie meno attrezzate con i moderni sistemi di pagamento elettronico, in modo particolare gli anziani, si trovino in difficoltà. Secondo i dati della Banca d’Italia si può stimare che in Italia si facciano ogni anno pagamenti “traccia-bili” per circa 10 mila miliardi di euro (sembra un cifra enorme, ma è così) e 8-9 mila miliardi in contanti. Togliendo dal conto il caffè al bar, il chilo di pane e la frutta al mercato, quanti pagamenti, superiori ai 300 euro, sono fatti in contanti per la comodità del cliente e non per la pretesa del professionista o artigiano evasore? Difficile dirlo. Ma sono gli stessi dati Bankitalia a dirci che circolano in Italia 50 milioni tra carte di credito e tessere Bancomat. Ci sono anche 23 milioni di conti correnti online in grado di fare pagamenti dal computer di casa, in media uno a famiglia.
E IN OGNI CASO, per chi si sente meglio circolando con in tasca denaro di carta e non di plastica, denaro di carta in tasca. Insomma, pur arretrata rispetto ad altri Paesi, l’Italia non è all’età della pietra, e l’idea della vecchietta che va dal dentista con 500 euro arrotolati in tasca perché non conosce altro sistema risulta poco credibile. La tutela dei presunti analfabeti della moneta appare più che altro un argomento propagandistico della lobby dell’evasione facile.

il Fatto 29.11.11
Carta di credito. Elogio della “plastica”
di Caterina Soffici

Con la Gabanelli che vuole abbassare il limite dei pagamenti in contanti a 300 euro? O con Massimo Fini che invoca la banconota come baluardo contro il governo dei banchieri e la “tracciabilità” della vita privata delle persone? Con la Gabanelli al cento per cento. E in difesa delle carte di credito, formidabile misura anti evasione in contanti. Come mai l’Italia è la più “liquida” delle nazioni europee (il 95 per cento degli acquisti al dettaglio è fatto in contanti) e anche quella con l’evasione alta? Come mai così tanti commercianti preferiscono essere pagati in contanti e fanno storie ad accettare la “plastica”? Non è solo un problema di commissioni bancarie (tra l’altro ogni provvedimento in questa direzione sarebbe accompagnato dall’azzeramento delle commissioni bancarie). Ricordiamoci che uno dei primi atti dell’ex governo Berlusconi fu alzare il limite degli assegni tracciabili (“contro lo Stato di polizia tributaria”). E che Tremonti diceva: “limitare l’uso dei contanti non riduce l’evasione. Complica la vita dei cittadini onesti e rende odioso lo Stato”. In verità in ogni altro Stato europeo è normale girare senza soldi in tasca. Si può vivere tranquillamente a Londra senza dover mai dover tirare fuori una banconota. Ogni acquisto anche le cose minime come una pacchetto di caramelle, un caffè o un giornale si fa con la carta. Il taglio da 200 sterline è una rarità da museo e la banconota più comune in circolazione è quella da 20. Sono per questo i cittadini britannici meno liberi? In Italia gli unici a sentirsi meno liberi sarebbero i corruttori, i riciclatori, gli evasori e tutte quelle categorie che si “dimenticano” di emettere fatture e scontrini. Per non parlare di chi riscuote affitti in nero: a botte di 300 euro sarebbe ben più complicato, soprattutto se poi quei soldi non li puoi far passare su un conto. Metterebbe in difficoltà i pensionati e i vecchietti? Anzi, prevedendo un accredito diretto non dovrebbero più andare alla Posta, niente code e niente rischio scippi. Caro Massimo, il denaro sarà anche lo sterco del demonio. Ma l’evasione lo è di più.

il Fatto 29.11.11
Chi se la cava con la residenza all’estero
Da Pavarotti a Rossi: il portafoglio fuori dall’Italia per non pagare le tasse
di Alfredo Faieta

Stefano Gabbana proprio non ce l’ha fatta a trattenere il suo grido di “dolore”, e su Twitter qualche giorno fa ha scritto che “sarebbe meglio andarsene”, sottinteso dall’Italia, perché la Cassazione aveva annullato il proscioglimento del Gup per frode fiscale sua e di Domenico Dolce, e il procedimento andrà istruito di nuovo. Una sparata pesante proprio mentre il direttore d’orchestra Riccardo Muti notava, in un misto di amarezza e malignità, che “molti colleghi, direttori, registi e cantanti, non hanno la residenza in Italia” per motivi fiscali ma poi polemizzano contro la classe politica interna. Lui al contrario la residenza l’aveva mantenuta in Italia e avrebbe pagato le tasse – notava – anche sul “Premio Borsellino, eroe italiano”.
Ma a chi si riferiva Muti nel suo accenno ai colleghi? Ah, saperlo… verrebbe da dire nei panni dell’Agenzia delle Entrate, a caccia perenne di grandi evasori. Purtroppo sembra che anche la lista Falciani, che contiene il nome di 7000 italiani benestanti con conti cifrati in Svizzera non possa essere utilizzata, sia dalla giustizia penale sia da quella tributaria, in quanto non deriva da una attività lecita di accertamento.
La battaglia all’evasione è lunga e complessa, e le certezze sono poche, tranne la spiccata propensione degli italiani con un alto reddito a mandare all’estero il portafoglio. Restando nel giro dei teatri della lirica tanto cari a Muti, come dimenticare il caso di Luciano Pavarotti, che aveva spostato fittiziamente la residenza a Montecarlo, dove le persone fisiche non pagano tasse, e fu scoperto perché denunciava di abitare con la sua famiglia allargata in un appartamento di 100 metri quadri scarsi, lui che a Modena aveva bisogno di una villa faraonica. Pagò, per fare pace col fisco, 25 miliardi di vecchie lire. Ma l’aria del Principato fa probabilmente bene alle corde vocali delle ugole d’oro, perché anche Katia Ricciarelli, Renato Bruson, Cecilia Gasdia e anche Andrea Bocelli avevano spostato lì la loro residenza insieme ad altri 7000 italiani quasi (eravamo la prima etnia), decidendo poi di tornare indietro dopo accertamenti da centinaia di milioni di lire. A Monaco risiedevano – si fa per dire – anche l’altro direttore d’orchestra Salvatore Accardo, Ennio Morricone, Riccardo Cocciante, Umberto Tozzi, Maria Grazia Cucinotta, Ornella Muti, i centauri Max Biagi, Loris Capirossi, il ciclista Cipollini. Quasi tutti hanno scelto di transare col fisco e mettere tutto a tacere. Tra coloro in grado di far valere le proprie ragioni c’è invece il porno attore con redditi a sei zeri Rocco Tano – in arte Siffredi – che da anni è residente in Ungheria (lì le royalties sui diritti di sfruttamento di prestazioni artistiche sono scarsamente tassati) e che ha recentemente vinto in commissione tributaria contro l’Agenzia che gli contestava la residenza fittizia. Non è ancora detta l’ultima parola, ma Siffredi ha segnato un punto a suo vantaggio.
Londra è un’altra meta di prestigio, come ben sa Valentino Rossi che aveva trasferito (fittiziamente) lì la residenza facendo poi ritorno a casa dopo aver pagato 40 milioni di euro. A Londra dimora invece Flavio Briatore, più di un guaio con le tasse, che in una telefonata intercettata con Luigi Bisignani si lamentava proprio dell’Agenzia che “rompe il c… tutti”. Sergio Marchionne e la sua residenza in svizzera a Zug sono stati oggetto anche di una puntata di Report, in quanto nel piccolo cantone vicino Zurigo le tasse sono proprio basse, e lui pagherebbe circa la metà di quanto dovuto in Italia, ovvero il 43% nel suo caso. Ma di prendere residenza in Italia non ci pensa proprio, almeno al momento. Carlo De Benedetti, al contrario, per evitare lunghe e dolorose polemiche sulla sua residenza a Sankt Motitz, l’ha spostata a Dogliani in provincia di Cuneo.

il Fatto 29.11.11
Giustzia, si riparte dalle carceri
Le tensioni tra Pdl, Pd e Terzo Polo sconsigliano leggi ad personam
di Eduardo Di Blasi

È lì da 15 giorni. Il tempo necessario per studiare gli incartamenti di chi l’ha proceduta, costruirsi una piccola squadra di lavoro e immaginare delle linee guida per i mesi a seguire. Paola Severino, neo ministro della Giustizia, succede a Francesco Nitto Palma e Angelino Alfano in quella che era fino a pochi mesi fa la trincea delle truppe berlusconiane della XVI legislatura.
Da qui, nei mesi passati, si faceva politica con Lodi e conflitti di attribuzione, scudi e bavagli, dilazioni e restringimenti dei tempi processuali a seconda che servissero gli uni o gli altri. Quell’epoca sembra destinata a essere sostituita da un periodo di decompressione che questa professoressa, avvocato penalista di fama, figlia e nipote di magistrato, inaugura con buon senso pratico, cosciente che “il governo può cadere anche domani” e che è difficile immaginare di far convergere forze politiche così eterogenee come quelle che sostengono il governo Monti (Pdl-Pd-Terzo polo, con l’appoggio condizionato dell’Idv) su tematiche che le hanno viste fieramente divise fino a tre settimane fa.
Quindi da dove si comincia? “Il carcere – ribadisce (lo aveva già sottolineato nel giorno del giuramento a Quirinale, quando era arrivata al Colle con i nipotini al seguito) – sta diventando un’emergenza”. L’amnistia sarebbe una risposta? Non si sottrae, ma chiarisce in prima battuta che quello è un tema squisitamente parlamentare e che lei non vorrebbe cominciare la propria navigazione con “un’invasione di campo”.
NELLO SPECIFICO, poi, spiega che fare l’amnistia da sola sarebbe come “svuotare il mare con il secchiello. Poi che facciamo? – domanda – Tra due mesi, un mese, due anni, siamo punto e a capo con le carceri piene... ”. Ecco che allora è opportuno mettere mano a un “provvedimento molto articolato” che sia in grado di “stabilizzare” i flussi dei detenuti, guardando anche a “implementare le misure alternative al carcere”.
Il nuovo ministro è consapevole dei limiti dell’orizzonte temporale e della mission prevalentemente economica del governo presieduto da Mario Monti. Lo confermerà anche poche ore più tardi, incontrando il vicepresidente del Csm Michele Vietti: “La vita di questo governo è a tempo determinato, e quindi non possiamo pensare di portare a termine delle riforme dei codici, occorre trovare delle priorità per ottenere un primo progetto di riforma. Priorità che hanno come obiettivo l’efficienza e il risparmio”. Per i dettagli si dovrà attendere oggi pomeriggio quando la Severino esordirà in commissione Giustizia al Senato e illustrerà il proprio programma.
Per adesso le ultime due settimane le ha passate a studiare “la macchina”. In un incontro informale, avuto con la stampa ieri mattina, ha raccontato con il sorriso sulle labbra di quanto sia “scomoda” la poltrona di Guardasigilli, “nel senso che è di quelle antiche, senza ruote, e per rispondere al telefono uno si deve storcere”. Di quanto sia enorme la stanza che occupa al dicastero, tanto da darle un senso di “solitudine”, e di come, avendo chiesto notizie della famosa scrivania di Palmiro Togliatti, sia in corso un’istruttoria per capire dove sia stata portata.
LA CIRCOSTANZA le ha dato modo di parlare anche del telefono ministeriale. “Mi hanno detto che avevo una linea riservata. Una di queste mattine quel telefono ha squillato, io sono andata a rispondere con apprensione e... dall’altro lato c’era un tecnico della Telecom che voleva sapere se la linea funzionasse”.
Si dice felice del nuovo impegno. Spiega che, avendo rinunciato alla professione prima del giuramento, abbia certamente rinunciato anche agli emolumenti che quegli incarichi le portavano (“ci rimetto io – sorride – ma anche lo Stato con tutto quello che pago di tasse”).
Per adesso fronteggia i problemi che gli si pongono davanti giorno per giorno. Ieri, ad esempio, Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, ha denunciato il prepensionamento, da parte dell’ex Guardasigilli Nitto Palma di “alcuni alti dirigenti dell’amministrazione penitenziaria con grande esperienza sul campo che, in questo momento in cui la questione carceri è centrale, sarebbero stati di grande utilità”. Palma ha risposto: “È falso. E a dimostrazione di ciò che dico, ci sono le date dei relativi provvedimenti. Questi sono stati emanati dopo l’insediamento del ministro Severino”.
A sera, da via Arenula, arriva la risposta: “È stata una direttiva emanata il 20 ottobre scorso, quando ministro della Giustizia era ancora Francesco Nitto Palma, quella con cui sono stati di-sposti i prepensionamenti – e chiarisce – Se la direttiva è stata emanata quando ancora Guardasigilli era Palma, gli atti di indirizzo che vi hanno dato attuazione sono stati invece firmati dal capo del Dap e dal direttore dell’organizzazione giudiziaria quando invece si era già insediata il ministro Paola Severino, alla quale sono stati successivamente notificati”.


il Fatto 29.11.11
Dare medicine ai sani
Le case farmaceutiche fanno affari
Il mensile “E” di Emergency spiega la tattica miliardaria
di Chiara Paolin

Il settore del farmaco scoppia di salute, e il mensile E, edito da Emergency, mette in fila i numeri per scoprire quanto vale “Il business dei sani”, come titola la copertina del numero oggi in edicola.
Un business da primato, che nemmeno la crisi planetaria ha scalfito. “Il giro d’affari delle aziende farmaceutiche nel mondo ha superato nel 2010 i 610 miliardi di euro, fatturato a cui quelle italiane contribuiscono con una quota di circa 25 miliardi spiega l’inchiesta di Roberta Villa -. La spesa media pro capite di ogni italiano per le medicine è di oltre 300 euro l’anno, ma non è tutto qui, perché il settore dei farmaci concorre per meno del 15 per cento all’intero comparto economico che ruota attorno alla salute. E questo mercato del benessere, dai confini sempre più sfumati, rappresenta ormai il 10 per cento dei consumi in Europa e il 15 per cento negli Stati Uniti”.
Insomma, meno male, un settore che tira e non licenzia. Peccato per le conseguenze collaterali, che hanno nomi difficilotti ma spiegazioni assai semplici. Il “disease mongering” non è un morbo contagioso ma la prassi di marketing che negli ultimi anni ha consentito al comparto di far volare utili e nuovi brand: come spiega Gianfranco Domenighetti, docente di Comunicazione ed economia sanitaria presso l’Università della Svizzera italiana, l’importante non è riuscire a vendere più medicine ai soliti malati, ma sensibilizzare la gente a nuovi consumi nel nome di una presunta attenzione alla salute. Come?
SEMPLICE, basta “gonfiare l’importanza di una malattia o, se occorre, inventarsela di sana pianta” dice Domenighetti invitando l’utente medio a meditare sull’utilità di screening massivi e campagne di prevenzione sempre più frequenti.
Perché, a dire il vero, le malattie restano più o meno le stesse e “solo il 2,4 per cento dei farmaci immessi sul mercato dal 1981 al 2008 rappresenta un vero importante progresso terapeutico, mentre l’80 per cento non sono che copie dell’esistente, a eccezione del prezzo, che di regola è triplicato”
chiosa l’economista svizzero. Ma davvero l’industria riesce a condizionare la domanda di farmaci fino al punto di danneggiare il reale interesse del consumatore/paziente? Risponde Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano: “Questa idea di curare i sani è solo l’ultimo atto di una strategia che inizialmente è partita allargando artificialmente la platea dei malati. Non è un caso che i valori-soglia considerati un tempo normali per la glicemia, il colesterolo o la pressione arteriosa siano stati progressivamente abbassati: per ognuno di questi aggiustamenti, è cresciuto a dismisura il numero di persone cui prescrivere medicinali”. E se la prossima volta che leggerete sul giornale un mega inserto sulla salute dove si parla di doloretti alla schiena, tenete a mente questa battuta rapida ma efficace: “La fibromialgia, per esempio, è una ‘nuova’ malattia che sembra fatta apposta allo scopo di vendere analgesici”. Parola di Garattini.
Oltretutto, c’è da ragionare sulla relatività del concetto salute e sulla forza dei modelli culturali capaci di espandersi a suon di investimenti miliardari. Gli Stati Uniti, si sa, sono la patria dell’extra large e anche in ambito farmaceutico stanno facendo scuola alla vecchia Europa. Negli Usa una persona su quattro prende ogni giorno la pillola per tenere a bada la pressione e i medicinali contro gli stati ansiosi sono ormai alla portata dei bambini di quattro anni. Donne isteriche? Uomini disoccupati? Adolescenti inquieti? Tutti in fila per la terapia, magari venduta via internet con sconti favolosi, giusto per invogliare il cliente.
IN ITALIA, storicamente, la classe medica ha posto un freno all’invadenza del business, ma i tempi magri e l’inesorabile tendenza al supporto fast meglio buttar giù un antidolorifico al volo piuttosto che impegnare tempo e denaro in cure tradizionali cui la sanità pubblica non può più far fronte fanno pensare a un futuro ancor più florido per i commercianti del benessere. “Per questo abbiamo deciso di occuparcene spiega Maso Notarianni, vicedirettore di E -. Noi siamo la testata di Emergency, e tutti si aspettano notizie sulle attività nei vari luoghi del mondo dove opera l’organizzazione. In realtà il mondo è un affare complicato, dove tutto si correla. I soldi, la ricchezza, la democrazia, i diritti umani. Anche in Italia, nella sanità privata o in quella pubblica, c’è chi pensa solo al profitto. Secondo noi la salute è un’altra cosa, il rispetto per l’essere umano è la priorità: in un ospedale sperduto tra la guerra o nella clinica degli orrori a Milano cambia poco”.


Repubblica 29.11.11
"Perché il nostro futuro dipende dall’uguaglianza"
L’autobiografia di Hessel, autore di "Indignatevi!", esce adesso in Italia
di Stéphane Hessel

C´è chi prevede una grande «implosione» di tutta la civiltà occidentale, ormai incapace di concedere alla poesia il posto che le spetta. Ho posto la domanda al mio angelo custode: «Mi hai sottratto a tanti pericoli, concesso tante gioie, inebriato così spesso di poesia. Era per impedirmi di vedere la lebbra che consuma i miei simili, il disincanto del mondo e la sua corsa all´incenerimento finale?» Non ha risposto ma ha sorriso, come fa ogni volta che mi rivolgo a lui, fin dalla mia infanzia.
Ho sempre diffidato delle previsioni millenaristiche. La natura è talmente generosa nella sua abbondanza, percepibile nella minima particella d´erba, di terra o d´acqua, così «politropa», secondo l´epiteto che Omero attribuisce a Ulisse, «ricca d´astuzie». La credo capace di eludere tutte le trappole delle sue creature. La percepisco proprio come Goethe l´ha dipinta in un testo che ho riletto tante volte e che s´intitola Natura. Ha dotato l´uomo di un prodigioso arsenale di neuroni e sinapsi, di cui è ben lontano dall´aver esaurito le risorse. Se ne è servito per costruire cattedrali e aerosol, Wall Street e missili, campi di sterminio e città fiorenti. Ciò che è in discussione è il corretto utilizzo di quell´arsenale, non la sua portata.
Durante l´ultimo quarto di secolo abbiamo assistito a un´accelerazione esponenziale e cumulativa di ogni branca della tecnica; da ciò è scaturita una mondializzazione dei problemi che causa un accesso febbrile all´angosciante distanza tra minacce e promesse. Dunque dove trovare, nel vortice che solleva ogni cosa, un messaggio di speranza per opporsi all´inquietudine? Nel contatto con coloro che ne sono i messi. Lungo la mia vita ho incontrato principalmente persone di questo tipo, uomini e donne animati da convinzioni forti, determinati a cercare e a trovare un senso al corso del tempo. Forse il mio strabismo morale non mi ha permesso di sondarne il volto oscuro. Distolgo lo sguardo da coloro che si affliggono o si rassegnano; quello che mi fanno vedere non mi interessa. È la mia malattia.
Riconosco subito quelli che proclamano la gioia di vivere, e sono loro grato. Sono tormentati quanto me, eppure quell´angoscia li porta ad accelerare la venuta di ciò che li libererà da quel sentimento. Avrei voluto fare un ritratto degli uomini e delle donne che così intensamente mi hanno offerto il loro affetto, ma ce ne sono troppi.
Alcuni anni fa feci un altro di questi incontri. Abitava a tre chilometri dalla mia casa di campagna. Si chiamava Yvette Pierpaoli. Dopo essere stata cacciata dalla sua famiglia quando aveva quattordici anni, era vissuta nella più estrema miseria. Decise di occuparsi degli altri e divenne la madre di tutti i bambini di strada, in ogni angolo del mondo. Tutto ciò che intraprendeva diventava una missione, fonte di felicità per gli altri e di gioia per sé. Le chiesi: «Dove si annidano i messaggi di speranza?» e lei mi rispose: «Nelle angosce. Il nostro secolo si conclude con una straordinaria presa di coscienza di quelle angosce. La schiacciante maggioranza degli abitanti del pianeta combatte a fianco a fianco per cercare di liberarsene. Il mio ottimismo risiede in questa constatazione».
Yvette mi ha convinto che dovevamo rallegrarci dei progressi della comunicazione e dell´informazione. Io ero contrario. Vedevo quel progresso come un effetto dell´economia di mercato senza regole. Temevo che l´espressione del pensiero personale subisse una banalizzazione attraverso il computer e l´asservimento dell´immaginario individuale alla commercializzazione dei messaggi. «No», ha replicato lei, «sono solo strumenti, la persona che se ne serve ne fa ciò che vuole. È l´uomo ad avere l´ultima parola».
Ho voluto verificare quell´affermazione guardandomi indietro, un tentativo per valutare il corso del nostro secolo. Durante i suoi primi anni di vita, la greve serenità e le nevrastenie generate dalla borghesia avrebbero potuto farne il sudario di un Occidente troppo ben nutrito. Invece da quella stessa classe sociale è nata la rivolta, ed è emerso il radicale rinnovamento del pensiero europeo: Nietzsche, Freud, Dada, il Surrealismo, Lenin.
La distruzione dell´Europa attraverso due guerre avrebbe potuto segnare la fine dei suoi valori. Ma per quanto umiliate, durante i trent´anni successivi le nazioni europee sono riuscite a rinnovare a fondo la loro posizione nello spazio mondiale. Si sono disfatte degli imperi coloniali e insieme hanno realizzato la più ingegnosa delle costruzioni, un´audace mescolanza tra il cemento economico che rende obsolete le vecchie rivalità militari e un´interpenetrazione culturale che crea un´ampia base ai loro valori comuni più importanti: la democrazia e i diritti dell´uomo.
Due potenze ideologiche totalitarie hanno minacciato quell´evoluzione. La prima, quella fascista, era destinata al fallimento dal suo stesso insostenibile antiumanismo, ma il suo passaggio attraverso il secolo, benché breve, è stato devastante. L´altro totalitarismo, quello marxista-leninista, aveva più possibilità di imporsi nel mondo, perché ha saputo fare appello a ciò che di più nobile c´è nell´uomo e per come ha entusiasmato coloro che credevano nel suo successo. Per sfuggire alla cappa di piombo con cui minacciava le società in cui si era imposto, è stata necessaria l´unione faticosa di pressioni interne ed esterne, che ancora qualche anno fa nessuno avrebbe ritenuto in grado di far crollare quella fortezza.
In quell´occasione riuscimmo a valutare l´ampliata forza di penetrazione conferita alle idee, veicoli di libertà, dai sorprendenti progressi della comunicazione, com´era stato trent´anni prima per mettere fine alle ultime guerre coloniali o imperiali, o come avvenne qualche anno dopo per eliminare l´apartheid.
Per la sua stessa rapidità, il crollo dell´ideologia comunista è stato fonte di nuove angosce. Eppure ha fatto sparire diversi spettri dal nostro campo visivo. La cooperazione internazionale organizzata, della quale si poteva contestare la pertinenza dopo il fallimento della Società delle Nazioni, con il «sistema» delle Nazioni Unite ha trovato nuove dimensioni nella storia delle civiltà umane. Quante volte in cinquant´anni le sue manchevolezze non sono state denunciate, né prevista la sua eliminazione! Tuttavia ha conservato la sua ragion d´essere, e anche coloro che le rivolgono critiche legittime sono pronti ad ammettere che non potremmo farne a meno.
Le Nazioni Unite hanno stabilito per la comunità internazionale obiettivi incontestabili: regolamento pacifico delle controversie, promozione e protezione dei diritti dell´uomo, ruoli equivalenti per uomini e donne, sviluppo equo e rispettoso dell´ambiente, lotta al denaro sporco, proveniente dalla droga e dal crimine. Questi obiettivi non sono affatto raggiunti. Ma c´è un fatto: sono stati affermati e riaffermati da tutti gli Stati, e non sono soltanto i governi a sottoscriverli in buona o in cattiva fede, ma vengono presi in considerazione da tutti gli attori della società civile. Ognuna delle calamità da combattere è oggetto dell´attenzione internazionale, delle associazioni cittadine, delle fondazioni e dei movimenti militanti, collegati sempre meglio in reti mondiali.
© add editore, Torino

Repubblica 29.11.11
Richard Sennett
"I direttori d´orchestra sono gli ultimi maestri"
Il sociologo individua le figure che possono essere dei modelli sociali Da uomini come Maazel agli artigiani
di Franco Marcoaldi

Londra. Il nostro breve periplo attorno a una delle parole più importanti ed elusive della vita sociale – "autorità" – si conclude in un piccolo ufficio della London School of Economics. In compagnia del professore Richard Sennett. Difficilmente avremmo potuto trovare un interlocutore migliore per chiudere questa nostra inchiesta. Non soltanto perché Sennett è autore di un saggio del 1981, ripubblicato da Bruno Mondadori nel 2006, che ha per titolo giust´appunto Autorità. Subordinazione e insubordinazione: l´ambiguo vincolo tra il forte e il debole. Ma ancor prima perché questo brillantissimo professore di Chicago, che da molti anni fa il pendolare tra l´LSE e la New York University, è un accademico molto particolare. Capace di far convergere sui suoi studi sociologici (incentrati soprattutto sul mondo del lavoro e sulla vita urbana) i continui riflessi di passioni non meno intense per l´arte e la filosofia, la letteratura e la musica. Soprattutto la musica, disciplina a cui Sennett era votato come violoncellista di talento, se non fosse intervenuta una malattia della mano a impedirgli di intraprendere quella carriera artistica.
Non per caso, nel suo piccolo ufficio, sono affissi alle pareti due poster che raffigurano le casse armoniche di altrettanti Stradivari. E non per caso il mondo musicale continua a rappresentare la stella polare dei suoi studi scientifici.
Professore, le riproporrei la prima considerazione da cui questo viaggio ha preso le mosse. Parlo di quel doppio sentimento che da un lato ci porta a diffidare dell´autorità, nel tentativo di disfarsene, mentre dall´altro evidenzia un diffuso bisogno della medesima.
«Questa doppiezza è del tutto naturale, però oggi salta all´occhio come non mai. Il bisogno di autorità è primario, ma al contempo ne temiamo l´influenza come una minaccia alla nostra libertà. Ed è evidente che questa tenaglia si stringe tanto più quando ci pare impossibile proteggere lo spazio della legittimità da quello della dominazione. Che è poi quanto accade nella società contemporanea, con il trionfo assoluto di quel neoliberismo che ha sostituito l´autorità legittima con il mercato: un dio nascosto, cieco e astratto, che ha di fatto vanificato la tradizionale sfera dell´autorità quale unità di misura della legittimazione del potere».
Tra le definizioni di autorità, ce n´è una particolarmente felice, quella di Mommsen: «più di un consiglio e meno di un ordine».
«Fa proprio al caso mio, visto che parlo di relazione temporanea, vincolo tra ineguali, volontaria sottomissione. Perché il vero test dell´autorità non è rappresentato tanto da ciò che propone la figura dominante, quanto dal grado di accettazione della figura sottomessa. Prenda l´odierna cultura popolare: è del tutto evidente la facilità e la passività con cui si obbedisce collettivamente a un sistema di desideri materiali e di piaceri che ci vengono proposti. Resta il fatto che in un momento di crisi sociale ed economica gravissima, come quella che stiamo attraversando, proprio quel tipo di autorità corre il serio rischio di collassare».
Già nel suo saggio del 1981, lei provava a delineare anche gli aspetti positivi dell´autorità.
«Una buona autorità è quella capace di determinare la partecipazione attiva di chi è chiamato a seguirla. Ho scritto molto sul mondo del lavoro e, da vecchio marxista, continuo a pensare che lì stia il vero cuore della questione. Le dirò una cosa che forse la sorprenderà, ma credo che una certa impresa artigianale del nord italiano offra un ottimo esempio di quanto sto dicendo. Proprio perché fa riferimento a termini come cooperazione e partecipazione. Tutto il contrario di quanto indicano i processi capitalistici oggi dominanti, che evidenziano una crescente finanziarizzazione dell´economia e una crescente ingiustizia sociale. So bene che quando si parla di crisi dell´autorità per lo più si fa riferimento alla scuola, alla famiglia, alla politica. Mentre io penso che bisognerebbe concentrare l´attenzione sul mondo del lavoro. Dovrebbe farlo soprattutto la sinistra, che invece si preoccupa troppo del potere e della politique politicienne, tralasciando i processi sociali e comunitari, la vita concreta delle persone. Ma la maggiore o minore vitalità di una società è legata alle sue pratiche quotidiane e diffuse, più che a ipotetiche riforme politiche calate dall´alto».
Lei ha scritto che soltanto riconoscendo dentro di noi il bisogno di autorità, riusciamo a toglierle la spina dell´onnipotenza. Solo così potremo metterla a distanza, e dunque relativizzarla.
«Ho scritto anche che l´essenza di tale consapevolezza interiore si dà nel rapporto tra l´autorità e il tempo. Nessuno è forte per sempre; i genitori invecchiano e muoiono, i figli prendono il loro posto, l´autorità non è uno stato ontologico, ma un evento temporale, governato dal ritmo della nascita e della morte. Essere consapevoli del legame tra forza e tempo vuol dire sapere che nessuna autorità è onnipotente. È soltanto un processo, un flusso, una relazione, una pratica».
Sempre in quel libro lei prendeva a modello dell´autorità il direttore d´orchestra. La vulgata propone a riguardo due figure opposte: il direttore-dittatore (il cui prototipo, neanche a dirlo, sarebbe Toscanini) e il direttore-democratico. Interpellato a riguardo, Lorin Maazel mi disse che non si riconosceva in nessuno dei due.
«E aveva ragione. Perché queste distinzioni lasciano il tempo che trovano. Il mio professore di violoncello suonava proprio con Toscanini e ovviamente rammentava le sue terribili e celebri sfuriate. Però aggiungeva che una volta raggiunta la reciproca fiducia, quella furia cessava. Come vede, ritorna di nuovo l´idea dell´autorità quale processo, ricerca di una relazione. Aggiungo che, anche in quest´ambito, il problema della fiducia riguarda i professori prima ancora che il direttore. L´ho potuto verificare proprio con Maazel, vedendo i professori abbandonarsi letteralmente a lui. Nella consapevolezza che lui c´era, era lì per loro, fino in fondo. Non saprei trovare una migliore rappresentazione plastica dell´autorità. C´è però anche un altro aspetto in cui la musica, e più in generale l´arte, possono aiutarci a definire la buona autorità. La quale, per sua natura, non è mai statica, definita, fissata una volta per sempre; come invece pretenderebbe il potere politico autoritario. Ce lo rammenta un piccolo episodio che riguarda Matisse. Siamo nel 1914 e un gruppo di ammiratori va a vedere i suoi ultimi quadri, nei quali i rapporti tra i colori sembrano aver raggiunto livelli di sublime perfezione. Di fronte a tanto ammirato stupore, Matisse risponde: ciò che per voi è l´assoluto equilibrio e l´assoluta perfezione, per me è soltanto una tappa del cambiamento necessario. La buona autorità, intendo dire, è quella che si mette perennemente in discussione».
L´artista dunque come modello di autorità in un mondo che sembra dover affrontare il tramonto dell´autorità politica conosciuta in passato?
«So che può suonare bizzarro detto da chi studia i fenomeni sociali. Ma io la penso proprio così: altrimenti non avrei scelto il direttore d´orchestra quale figura paradigmatica del libro sull´autorità, e il quartetto d´archi nel mio nuovo libro sulla cooperazione, che Feltrinelli pubblicherà in Italia il prossimo anno. Quanto all´autorità politica, credo che andrebbe abbandonata una certa fantasia romantica che ancora la ammanta. Altrimenti si continuerà ad andare incontro a inevitabili delusioni, come è accaduto, da ultimo, con Obama.
L´homo faber, malgrado tutto, resta la figura centrale della nostra società. Sono gli oggetti, i manufatti, le opere d´arte a rappresentare il vero legame tra le diverse generazioni, dunque anche l´occasione di confronto e reazione rispetto al passato. Secondo le modalità di cui si è già detto: dapprima interiorizzazione del modello di autorità, poi sua oggettivazione, messa a distanza e critica. Il rapporto con l´autorità può risultare proficuo se lo si pensa come a qualcosa di simile al ritmo cardiaco, come a un succedersi continuo di sistole e diastole».


Repubblica 29.11.11
Caravaggio a Mosca
Il genio del Seicento conquista la Russia
Una vita breve che gli basta però a cambiare per sempre le sorti della pittura
Fino al 19 febbraio il Museo Pushkin ospita ben 11 dipinti dell´artista lombardo. Si tratta di una delle più grandi mostre all´estero dedicate a Merisi
di Lea Mattarella

Caravaggio va in trasferta. Una formazione composta da undici capolavori si gioca la sua partita sul campo del Museo Pushkin. È la prima volta che un gruppo così consistente di opere del grande maestro lombardo viene ammirato fuori dal nostro paese. Il termine "evento" che viene utilizzato un po´ troppo di frequente per quel che riguarda le mostre d´arte, questa volta va davvero scomodato. Intanto per i musei coinvolti: tra i più prestigiosi d´Italia. Da Milano alla Sicilia, da Brera a Capodimonte, dalla Pinacoteca Capitolina alla Galleria Borghese, dal Museo Regionale di Messina alla Galleria Palatina sono partiti i gioielli di questa campagna di Russia. Alla quale ha partecipato anche la Pinacoteca Vaticana che ha mandato un pezzo forte come la Deposizione. E, come se non bastasse, persino la Chiesa di Santa Maria del Popolo si è privata di uno dei due quadri che adornano la Cappella Cerasi. Infatti, è volata a Mosca anche la Conversione di San Paolo.
Così queste 11 tappe di un viaggio attraverso il genio e la sregolatezza caravaggeschi, riescono davvero a fare capire tutta la grandezza di uno degli artisti più amati di tutti i tempi. E anche la sua singolarità, la sua incredibile modernità. Si comincia con un´opera giovanile, il Ragazzo con canestra di frutta della Galleria Borghese e si termina con il Martirio di Sant´Orsola, un´opera dipinta nel 1610 poco prima della sua prematura, drammatica e continuamente presagita, fine. Non ha ancora 40 anni quando muore mentre cerca di ritornare a Roma, dopo aver passato gli ultimi quattro anni in fuga. Una vita breve che gli basta a cambiare le sorti della pittura, a rivoluzionarne per sempre il linguaggio su un palcoscenico di un umanissimo teatro tutto contrasti di luci e ombre, redenzioni e cadute, ricerca spasmodica di verità. Qui si passa dalla luminosità, dalla fresca composizione di uva, pere, fichi tenuta in mano da un giovane che sprizza vitalità del quadro Borghese datato tra il 1593 e il 1594, al buio in cui avviene la sfida tra l´arrendevolezza determinata di Sant´Orsola e la brutalità del re degli Unni suo carnefice. In mezzo c´è un ciclone.
Proprio davanti al Martirio di Sant´Orsola si capisce quanto in Caravaggio la pittura si intrecci con l´esistenza. In questo dipinto drammatico e teatrale si affaccia il volto del pittore, in una posizione tale che pare quasi sovrapporsi al corpo morente della martire. L´episodio raccontato diventa il pretesto per un´autobiografia. Con questo primo genio maledetto l´arte e la vita si scoprono necessarie l´una all´altra. L´artista usa il suo autoritratto anche nel Martirio di San Matteo, nella Cattura di Cristo, nella Sepoltura di Santa Lucia e nella Resurrezione di Lazzaro. E poi la sua faccia, devastata, compare nel Davide e Golia che doveva aprirgli la strada per tornare a Roma. Lui si raffigura come Golia. Ma sta elargendo la sua effigie. È un modo di chiedere perdono. Spedisce l´opera a Scipione Borghese e resta in attesa della grazia. Vuole far sapere al papa di essersi pentito. E lo fa nel modo che gli è più congeniale: teatralizzando su una tela la sua storia.
Nello Stato pontificio, in effetti, sulla sua testa pesava una condanna a morte. È questa la ragione che lo spinge a lasciare la città eterna in cui aveva ricevuto moltissimi onori, ma anche tanti "rifiuti". Gli si rimproverava di non avere abbastanza "decoro". Prendeva i suoi modelli dalla strada, raffigurava i poveri. Roberto Longhi per la Deposizione evocava un funerale di un capo zingaro. Ma Caravaggio non voleva certamente essere dissacrante. Racconta una storia sacra dalla parte dei poveri perché era vicino alle correnti della chiesa degli umili di Borromeo. Allo stesso modo interpreta la Conversione di San Paolo: un uomo investito dalla grazia rappresentata da un chiarore diffuso. Tutto il chiaroscuro di Caravaggio, il suo scontro di oscurità e di improvvise illuminazioni sono la rappresentazione fisica dell´eterna lotta tra le tenebre del peccato e la luminosità della fede in Dio. Che Caravaggio fosse ateo e miscredente è un luogo comune costruito intorno a un personaggio vissuto pericolosamente che nel corso dei secoli è diventato una leggenda. Non è invece un´invenzione il suo carattere impetuoso e ribelle. Il fatto che fosse un attaccabrighe, che girasse armato passando dai bordelli alle osterie è storia. In una di queste notti brave nel 1606, gli capita di uccidere un uomo durante una rissa seguita a una partita al gioco della pallacorda. Da qui la condanna capitale e la fuga. A Napoli lascia questa Flagellazione che pare ambientata tra i vicoli in cui Cristo sembra illuminato da un flash che lo stacca dal quel buio che invece avvolge i suoi torturatori. Un fondo scuro è anche nella Cena in Emmaus di Brera, dove, com´è emerso dagli ultimi restauri, Caravaggio cancella un´apertura, una finestra su una vegetazione, per fermare lo sguardo, come se non volesse distrarlo dal volto dolente e assorto di Cristo intento a benedire un misero tozzo di pane. La sua pittura si fa sempre più tragica mentre la sua corsa non si placa. Raggiunge Malta da cui deve scappare ancora, va a Messina a Palermo, di nuovo a Napoli. Dove passa succede che tutti lo guardino, lo imitino. Non ha mai avuto allievo eppure fa scuola. La sua pittura si diffonde come un virus in tutta Europa. Dopo di lui niente sarà più come prima.


l’Unità 29.11.11
«In Egitto è il primo passo di una svolta democratica»
Il candidato alle presidenziali: «Non credo a un trionfo dei Fratelli musulmani Il panorama è frastagliato, si andrà verso un governo di coesione nazionale»
di Umberto De Giovannangeli

È considerato il favorito alla Presidenza dell’Egitto: già ministro degli esteri dal 1981 al 1991, Amr Moussa, lasciò l’incarico quando fu eletto segretario generale della Lega Araba, incarico che ha ricoperto fino al giugno 2011. Nei giorni della «Rivoluzione dei Loto», Moussa si schierò con i ragazzi di Piazza Tahrir, condividendone le apirazioni al cambiamento e la loro battaglia di libertà. Una battaglia che ora prosegue anche attraverso lo sviluppo del percorso elettorale. «Queste elezioni dice Moussa a l’Unità rappresentano un primo passo verso la democrazia. E le file ai seggi ne sono una testimonianza straordinaria, incoraggiante». E a chi paventa, o teme, che dalle urne possa scaturire una vittoria schiacciante dei Fratelli Musulmani, l’ex segretario generale della Lega Araba, replica: «Il panorama politico risulta molto frastagliato. Attendiamo di conoscere i risultati, ma credo che dalle urne non uscirà un vincitore assoluto. La prospettiva più probabile è quella di un governo di coesione nazionale». E aggiunge: «Ritengo che inserire le formazioni “islamiste” nel processo elettorale rafforzi la democrazia egiziana». Mentre parliamo i seggi sono ancora aperti...
«Lo sono per permettere a tutti di poter esercitare il diritto di voto. Ho visitato numerosi seggi elettorali. Una cosa che mi ha particolarmente colpito è al presenza di giovani. Di giovani e delle donne. È un fatto di grande rilevanza, perché i giovani e le donne sono stati tra i protagonisti della Primavera egiziana. Una “Primavera” che sta continuando».
Non tutti sono di questo avviso. Piazza Tahrir non ha smobilitato e continua a chiedere una uscita di scena dei militari.
«Nessuno deve criminalizzare quelle posizioni né demonizzare la Piazza, perchè Piazza Tahrir resta un luogo di democrazia che va preservato. Con la stessa nettezza dico che aver scelto la via delle urne non significa affatto aver tradito lo spirito della rivoluzione. Semmai è vero il contrario. Abbiamo combattuto per una svolta democratica. Siamo all’inizio, ma è un buon inizio. Considero queste elezioni non come il compimento ma come il primo passo verso la democrazia».
E quali dovrebbero essere a suo avviso i passi successivi?
«Eleggere il Presidente il prima possibile. Sono sempre stato convinto che la situazione non si stabilizzerà finché non ci sarà un Presidente nella pienezza delle sue funzioni, un Parlamento e una nuova Costituzione».
C’è chi teme che dalle urne possa uscire trionfatrice la Fratellanza Musulmana. «Attendiamo lo scrutinio dei voti. Ma ritengo poco probabile questo “trionfo”. Il panorama politico è molto frastagliato e non credo che dalle urne uscira un vincitore assoluto. Ritengo più probabile che si vada verso un governo di coesione nazionale. C’è una cosa, però, che andrebbe sottolineata a seggi ancora aperti...».
Quale?
«Per quanto mi riguarda, ma non credo che di essere il solo a pensarlo, l’inclusione di partiti “islamisti” nel processo elettorale rafforzi la democrazia e non la metta in pericolo. Questo vale per l’Egitto ma ritengo anche per gli altri Paesi che sono andati al voto, come al Tunisia e il Marocco».
Qual è l’idea di democrazia di cui lei si fa portatore?
«L’idea di una democrazia diffusa, che nasce dal basso, con consigli comunali e sindaci eletti, come i governatori e le assemblee regionali. C’è bisogno di una rapporto diretto, costante tra elettori ed eletti. È questo, credo, il modo migliore per selezionare una nuova classe dirigente».
La domanda che in molti si pongono, dentro e fuori l’Egitto, e se i militari si ritireranno nelle caserme dopo le elezioni.
«Su questo sento mi dichiaro ottista. Un ottimismo vigile... E questo ottimismo è cresciuto constatando la partecipazione al voto di oggi (ieri, ndr). Indietro non si torna. Quel voto è un investimento sul futuro. La democrazia non è un esercizio formale, comunque non lo è più per l’Egitto del dopo-Mubarak».
Nel dopo-Mubarak, molti analisti vedono Amr Moussa come Presidente... «Troppo buoni, ma mi lasci essere scaramantico...».
Scaramanzia a parte, se fosse lei il futuro Presidente dell’Egitto, c’è una battaglia particolare in cui si impegnerebbe nei primi cento giorni? «Ve ne sarebbero più d’una. L’impegno a rilanciare l’economia, certamente, e questo rilancia passa anche attraverso la lotta alla corruzione ovunque essa si annidi»

La Stampa 29.11.11
Intervista
“Servono un governo civile e una nuova costituzione”
L’ex islamico candidato alle presidenziali che piace a piazza Tahrir
di Ibrahim Refat

IL CAIRO. Abdel Menem Aboul-Fotouh, 60 anni (di cui sette trascorsi nelle prigioni di Mubarak per la sua militanza nelle file dei Fratelli musulmani), ex capo del sindacato dei medici egiziani, ora candidato indipendente alle presidenziali, è molto apprezzato dai giovani di Piazza Tahrir, tanto da inserirlo nella rosa dei nomi dei candidati alla guida del nuovo governo.
Oggi si vota, ma sarà una maratona: tre mesi...
«Il meccanismo è un po’ lungo, lo ammetto, ma alla fine porterà il Paese fuori dall’impasse. Il voto rimetterà in moto il processo democratico al termine del quale nascerà un governo civile che subentrerà ai militari, l’assemblea eletta avrà il compito di scrivere la nuova Costituzione».
Perché la gente è scesa in piazza a protestare prima delle elezioni?
«Perché la giunta militare e il governo non hanno fatto nulla per dieci mesi. Il processo democratico era slittato; la presenza del passato regime è ovunque; mentre i prezzi sono aumentati, i servizi crollati, c'è insicurezza persino nelle strade».
La rabbia dei dimostranti si appunta sulla polizia e l’esercito...
«Il rancore è soprattutto nei confronti della polizia. Il simbolo più odioso del passato. Rappresenta la violenza e l’oppressione a cui il popolo è stato sottoposto per anni. Tutti avevano paura di andare nei commissariati, persino a fare una semplice denuncia».
Che cosa pensa della protesta violenta e dell'astensionismo?
«I giovani si sono ribellati quando hanno visto la polizia uccidere i loro fratelli come mosche e gettarli addirittura nella spazzatura. Se avessero processato i responsabili dei morti della rivoluzione di gennaio ciò non sarebbe successo».
Corre voce che lei abbia incontrato i militari.
«Lo smentisco nel modo più assoluto. Con loro non ho nulla da spartire. E non potevo incontrarli mentre si uccideva la gente attorno al ministero dell'Interno. Ho preferito recarmi negli ospedali di fortuna allestiti in piazza Tahrir per curare i feriti. Non condivido poi la loro designazione di Ganzouri (attuale premier, già primo ministro ai tempi di Mubarak, ndr) ».
La sua candidatura alle elezioni presidenziali ha determinato la rottura con il suo vecchio partito, i Fratelli musulmani, perché?
«Sono stato sempre contrario a mescolare politica e religione. Il movimento dei Fratelli musulmani doveva conservare la sua natura iniziale di gruppo che si occupava di predicazione e di assistenza sociale lasciando la politica ai partiti. Mi considero un candidato che rappresenta larghi settori della società, compresi i cristiani».
Liberali e laici temono una vittoria degli islamici?
«Anche gli islamici temono i liberali. La soluzione quindi è quella di confrontarsi, competere per ottenere il consenso degli elettori e di non escludersi a vicenda».
Si parla dell’influenza dei Paesi del Golfo Persico sull’Egitto e dell’arrivo di finanziamenti ai candidati islamici in queste elezioni.
«Non lo credo. Comunque il ruolo della Penisola arabica è marginale nella lotta politica in Egitto, che resterà un Paese moderato. L’estremismo è dovuto alla corruzione e alla repressione di Mubarak. Al divario fra le classi; alla discriminazione dei cristiani, dei poveri e delle donne».

il Fatto 29.11.11
Graves, 18 anni nel braccio della morte
“L’America dirà addio alla pena capitale”
di Beatrice Borromeo

New York. Diciotto anni nel braccio della morte per poi essere dichiarato innocente e scarcerato. E ora che il supporto degli americani alla pena di morte ha toccato il livello minimo degli ultimi 40 anni, Anthony Graves ricorda la sua vita in prigione e spiega perché, secondo lui, “l’America riuscirà a superare la pena capitale: la gente sta capendo che, semplicemente, non funziona”.
Gli ultimi sondaggi condotti da Gallup e Cnn hanno mostrato che solo il 61% degli americani continua a sostenere la pena di morte, mentre nel 1994 oltre l’80% era favorevole. Da cosa dipende il continuo declino?
In troppi casi lo Stato ha assassinato gente innocente. Io sono stato quasi giustiziato due volte per un crimine che non avevo commesso. Anche gli americani stanno capendo che correre questo rischio è inaccettabile.
Nel suo caso, per condannarla a morte, è bastata la testimonianza dell’assassino che l’ha indicata come suo complice. Pensa che ci sia un problema nella giustizia penale americana?
È un sistema folle. Il killer, Robert Carter, mi aveva accusato solo perché il pubblico ministero gli aveva promesso uno sconto di pena. Subito dopo però ha ritrattato e ha continuato a dichiarare la mia estraneità agli omicidi fino al giorno in cui è stato giustiziato. Eppure non è bastato. Ma la cosa peggiore è che i pm hanno l’immunità, quindi distorcono i processi sapendo che non pagheranno per i loro errori.
Che tipo di conseguenze dovrebbero esserci?
Dovrebbero essere processati come qualunque altro cittadino che intralcia la giustizia. Il pm che ha cercato di farmi ammazzare due volte ha forzato una testimonianza e nascosto prove che mi avrebbero scagionato. Eppure negli ultimi 18 anni ha sempre dormito nel suo letto, mentre io ho perso la fetta più bella della mia vita. Sto imparando a conoscere i miei figli solo ora che sono grandi.
Com’è stato uscire dal carcere dopo così tanto tempo?
Strano, ho trovato un altro mondo. Sto ancora cercando di capire come funzionano i telefonini. Quando io avevo 26 anni, prima che mi arrestassero, c’erano solo quelli satellitari. Sto imparando a vivere giorno per giorno.
Nelson Mandela ha detto che per scoprire i valori di un Paese bisogna guardare alle sue prigioni. Qual è stata la sua esperienza in Texas?
Ho visto gente impazzire. Sono stato per 18 anni in un buco di 3 metri per 4 senza tv, aria fresca, spesso in isolamento. I secondini mi strappavano le foto dei miei figli dai muri, mi insultavano, li ho visti anche usare lo spray al pepe contro altri detenuti. Spesso non ti lasciano neanche fare la doccia e, quando ti è permesso, ti umiliano con perquisizioni delle cavità corporee. Siamo stati privati della nostra umanità, trattati come animali che aspettano di essere uccisi. Ha presente Guantanamo? Le nostre prigioni sono peggio.
Qual è stato l’ostacolo più difficile da superare?
Paradossalmente né la paura di essere ucciso, né la frustrazione data dal fatto che sapevo di essere innocente. La parte più dura era la vita di tutti i giorni. Il fatto di svegliarsi la mattina e dover rivivere un’altra giornata identica, e lo sforzo immane che fai per cercare di renderla un po’ diversa dal giorno prima, senza mai riuscirci.
Da come parla sembra avere un’attitudine positiva. Non è arrabbiato per ciò che le è successo?
No, non più. Oggi studio i casi di carcerati condannati a morte cercando prove per salvare loro la vita. Giro per le scuole e racconto la mia storia a chiunque voglia ascoltarla. Per educare la gente, per rendere la mia tragedia utile agli altri, non posso farmi schiacciare dalla rabbia.
Gli Usa solo il paese dove avvengono più esecuzioni dopo Cina, Iran, Corea del Nord e Yemen. Come si spiega il sostegno che ancora c’è verso la pena di morte?
In America il problema più profondo è l’ignoranza. Gli stessi antiabortisti che manifestano per la vita hanno chiesto che mi facessero l’iniezione letale. Ma è un capitolo destinato a chiudersi.
Ci crede davvero?
Sì. Cento anni fa in America c’erano gli schiavi. Il cambiamento verso la civiltà è lento, ma arriva sempre. Ciò che è successo a me e ai tanti innocenti ammazzati dallo Stato, non può ripetersi ancora a lungo.
E nel caso di una persona effettivamente colpevole, pensa che la pena di morte sia giustificabile?
Mai. E non solo perché ognuno deve avere un’ultima chance per poter cambiare. Il dramma è che le giurie, in America, decidono sull’onda di emozioni, non sui fatti. E non si può scegliere con la pancia di prendere una vita.

La Stampa 29.11.11
Svetlana, la figlia prediletta che fuggì Stalin tutta la vita
È morta a 85 anni in un ospizio negli Stati Uniti, che aveva preferito all’Urss
di Anna Zafesova

Una vita errante Svetlana Allilueva nel 1967 a Long Island, dopo aver chiesto asilo politico agli Stati Uniti. Non vi rimase per sempre: nel 1982 si trasferì in Inghilterra, nel 1984 ritornò in Unione Sovietica e nel 1986 di nuovo, e definitivamente, negli Usa Vita familiare nel 1935: Stalin prende in braccio la figlia Svetlana, primogenita del suo secondo matrimonio
Era nata al Cremlino, è morta in una casa di riposo municipale nel Wisconsin. La dipartita di Lana Peters così figurava all’anagrafe negli ultimi anni Svetlana Stalina è passata quasi inosservata, e la notizia del suo decesso, il 22 novembre, per un tumore al colon, ha destato curiosità più che altro perché si pensava fosse morta da tempo. Gli 85 anni della sua vita con l’eccezione, forse, di quell’infanzia di cui resta la fotografia di una bambina paffuta che ride in braccio al padre, un papà come gli altri, bonario e affettuoso sono stati un dramma ininterrotto, il suicidio della madre, gli amori distrutti, i figli perduti, le fughe da un Paese all’altro, clamorose conversioni politiche, collassi psicologici e disperati tentativi di costruirsi un’identità che non fosse nell’ombra di un padre «mostro spirituale e morale». Non ci riuscì mai: «Sono prigioniera politica del mio nome», disse una delle ultime volte che parlò con un giornalista.
La principessa sovietica nacque quando Stalin era già all’apice del potere, nel 1926, frutto di quel matrimonio avvelenato che dopo sei anni portò sua madre, Nadezhda Allilueva, a spararsi un colpo di rivoltella nella stanza accanto a quella dove dormiva Svetlana. Nei suoi due libri autobiografici con i quali cercava di fare i conti con il suo passato («Venti lettere a un amico» e «Solo un anno») la figlia prediletta del dittatore aveva descritto un padre tutto sommato affettuoso, e una vita dorata tra banchetti dove scherzava con Churchill e scuole dove prendeva sempre e soltanto voti massimi. Che la gente venisse mandata nei Gulag non lo sapeva probabilmente fino a che il padre non ci spedì il suo primo fidanzato, colpevole di essere ebreo e non troppo affidabile ideologicamente. Il secondo, Yuri Morozov, riuscì a sposarlo nonostante il padre l’avesse schiaffeggiata alla notizia che la figlia si era invaghita di nuovo di un ebreo. Ma con uno suocero così invadente il matrimonio durò appena il tempo di far nascere il piccolo Iosif, e Svetlana si piegò a un matrimonio dinastico con il figlio del gerarca Zhdanov. Ne seguì rapidamente un divorzio, della figlia Ekaterina si sono perse le tracce da anni.
Le rivelazioni del XX congresso per Svetlana, probabilmente furono ancora più choccanti che per i suoi concittadini: ad aver ordinato tutti quei massacri era stato suo padre. Vivere con quel cognome era diventato pesante, e ha preso quello della madre, Allilueva. Nel 1967 Svetlana riesce a ottenere dalle autorità sovietiche il diritto a espatriare in India, per riportare in patria le ceneri del suo terzo marito, Brijesh Singh, un comunista del quale si era perdutamente innamorata, scandalizzando di nuovo l’establishment. Appena arrivata a New Delhi, si fiondò dritta all’ambasciata americana e chiese asilo politico. Il Kgb meditò addirittura di ucciderla, ma poi lasciò perdere, e la figlia di Stalin fu libera di vivere negli Usa decantando le libertà americane, difendendo i dissidenti sovietici e scrivendo libri contro il comunismo costruito da suo padre. Sposa William Peters, assistente dell’architetto Frank Lloyd Wright, dal quale ha Olga. Bruciò il suo passaporto sovietico, cambiò nome e l’incubo di Stalin sembrava finalmente esorcizzato.
Ma spettri di quelle dimensioni non abbandonano mai le loro vittime. L’inquietudine di Lana, come si chiamava ora, l’ha spinta di nuovo a divorziare, e a non rimanere mai ferma: si trasferì in Inghilterra, poi all’improvviso tornò in Urss, per cercare di rivedere i figli, e dichiarò di essere stata «una pedina della Cia». Olga, trascinata a forza nel comunismo, stava per impazzire, e nel 1986 Lana ripartì per l’Occidente. Da allora, per anni, di lei si sono avute solo notizie frammentarie e contraddittorie: era stata avvistata in un ospizio per disabili di mente alla periferia di Londra, in un convento svizzero, infine in una capanna senza luce nel Wisconsin. Sua figlia Olga vive nell’Oregon e non vuole parlare di lei. Svetlana passava le giornate a leggere e cucire. Si è confessata con un giornalista locale, al quale ha parlato ancora del padre, l’unica cosa che in fondo interessava di lei, vittima dell’Edipo più ingombrante della storia. «Mi ha rovinato la vita», ha detto. Ha ripetuto, come faceva da anni, la sua frase preferita: «Il destino colpisce chiunque, non si può cambiare». Ma poi ha aggiunto: «Però avrei preferito che mia madre avesse sposato un falegname».


l’Unità 29.11.11
I ribelli che hanno cambiato il mondo
Un’antologia di rivolta e resistenza Da Sparta fino ai giorni nostri oltre quattrocento autori hanno portato avanti la battaglia contro il potere Vi anticipiamo la postfazione al volume, da oggi in libreria per Fandango
di Tariq Ali

L’anticipazione. Dalla rivolta di Spartaco alla scarpa lanciata contro il presidente Bush a Baghdad: è «Il libro del dissenso» a cura di Andrew Hsiao e Audrea Lim (Fandango, pagine 504, euro 13,50). In questa pagina anticipiamo ampi stralci della postfazione di Tariq Ali.
Le voci di dissenso e le rivolte contro l’autorità costituita sia essa pagana, tribale, religiosa, civile, feudale, borghese o comunista disegnano un motivo ricorrente che si ritrova ai quattro angoli del mondo. Sono sempre esistite, in una forma o nell’altra. A volte si crede per una sorta di pregiudizio che i conflitti antichi o medievali, e perfino le rivoluzioni inglese, olandese e francese, manchino di quella coerenza, consapevolezza e chiarezza di intenti che caratterizzano le lotte sociali del XX secolo, ma questo non e sempre vero. Non per nulla la ribellione degli schiavi capeggiata da Spartaco ha lasciato un segno indelebile nella storia, entrando di diritto negli annali della memoria collettiva, tanto da influenzare la teoria e la pratica della rivoluzione in Europa (ma non solo) per tutto l’arco del XIX e XX secolo. Non e certo un caso se i rivoluzionari tedeschi del primo Novecento, uomini istruiti e dalla solida preparazione, avevano battezzato la loro organizzazione “Spartacusbund”, prima di finire schiacciati dal pugno di ferro dello stato tedesco proprio come aveva fatto secoli addietro lo stato romano, riducendo all’impotenza gli schiavi che avevano osato affrancarsi.
Oppure prendiamo Sparta nel III secolo a.C.: una profonda frattura sociale si era venuta disegnando nel corso dei due secoli successivi alla guerra del Peloponneso, una novità assoluta per una città-stato in cui tradizionalmente i cittadini maschi si erano dedicati senza distinzione alle stesse mansioni militari. Il divario tra ricchi e poveri era accresciuto a tal punto da rendere inevitabile una rivoluzione dall’alto con l’appoggio dei contadini. La divisione di classe servi cosi da catalizzatore di una serie di riforme sociali, politiche ed economiche che prefiguravano quasi senza eccezione le lotte del mondo moderno. Sparta divenne una città-stato politicamente all’avanguardia, ben più avanzata, per esempio, della Gran Bretagna dei nostri giorni.
Tre sovrani radicali uniti in un triumvirato Agide IV, Cleomene III e Nabide diedero vita a una struttura che doveva ricostruire lo stato su fondamenta nuove: i nobili furono mandati in esilio, la dittatura dei magistrati fu abolita, gli schiavi furono liberati, il diritto di voto fu esteso a tutti i cittadini e le terre confiscate ai ricchi furono distribuite ai poveri.
REDATTORI DAI CONTINENTI...
(...) Il libro del dissenso è stato curato e compilato nei nostri uffici di New York e Londra con l’aiuto di autori e amici della casa editrice Verso sparsi in ogni continente. Per rendere giustizia a un tema così vasto avremmo avuto bisogno di intere squadre di redattori dislocati in diverse parti del globo e di tempo e risorse illimitati, e il risultato sarebbe stato un’enciclopedia in tre volumi. Problemi logistici e vincoli materiali, però, hanno reso impraticabile questa soluzione. Era indispensabile rispettare i tempi, perché il volume esce per celebrare il quarantesimo anniversario di New Left Books/Verso, una casa editrice che è riuscita a sopravvivere alla caduta del muro di Berlino perché ha sempre saputo interrogare le verità ufficiali di ciascuno dei diversi mondi di cui era composta la realtà del 1970, il suo anno di fondazione: gli Stati Uniti e i suoi vassalli, l’Unione Sovietica e i suoi sottoposti, senza risparmiare la Cina e l’India, fatte oggetto di indagini critiche. I nostri autori hanno analizzato e rimesso in discussione interi sistemi di pensiero, strutture statali, economie capitaliste e non capitaliste. Il contrasto tra la visione del socialismo difesa da Marx e la realtà degli stati post-capitalisti era troppo stridente per venire ignorato, tanto che le voci dissidenti che provenivano dall’Europa dell’Est e dalla Cina hanno sempre trovato posto nel catalogo Verso.
È stata una fortuna che il gruppo di persone che ha dato vita al progetto New Left Books/Verso fosse costituito in gran parte da figure legate all’esperienza della New Left Review: le affinità intellettuali che univano i collaboratori e gli interlocutori della rivista sono state il fondamento della casa editrice New Left Books, alla quale nel 1975 si affianco Verso come suo prolungamento nel settore dei tascabili: Perry Anderson curava i libri; Anthony Barnett preparo il primo business plan annotando a mano le entrate e le uscite con una matita bicolore. Soprattutto, però, Barnett comprese l’importanza cruciale di una strategia del mercato unico, rifiutandosi di cedere o riacquistando i diritti per il mercato americano: in questo modo permise a Verso di affermarsi come casa editrice transcontinentale, almeno dieci anni prima che molte altre illustri imprese editoriali seguissero l’esempio. Il nome “Verso” che designa la facciata di sinistra, il “retro” di una pagina fu suggerito da Francis Mulhern, e uscì vincitore da uno spietato processo di selezione che coinvolse l’intero comitato editoriale della New Left Review, finendo per prevalere su alternative di maggiore richiamo come October, Salamander e Arcades. Abbiamo un grosso debito nei confronti di Mulhern.
Nel 1970 New Left Books mandò in stampa il suo primo libro: Europe vs America: The Contradictions of Imperialism di Ernest Mandel, una graffiante e polemica risposta a un pamphlet del politico liberale francese Jean-Jacques ServanSchreiber, Le défi américain, che sembrava voler fare dell’Europa la spalla fissa degli Stati Uniti e chiedeva alla Francia di mettere da parte la sua ossessione di marca gaullista per l’indipendenza. Bisogna purtroppo riconoscere che sotto molti aspetti il libro di Servan-Schreiber si e rivelato profetico. Nel 2010 Perry Anderson è tornato sull’argomento con The New Old World, che descrive e analizza le conseguenze dell’atlantismo europeo. Le élite europee si sono trovate a fronteggiare una crisi profonda: una politica interna caratterizzata da un sempre maggiore deficit di democrazia, le conseguenze disastrose dell’adozione del sistema finanziario di Wall Street e la necessità di appoggiare le guerre e le politiche americane nel mondo, in molti casi andando contro l’espresso parere dei cittadini europei.
MARIA ANTONIETTA
I contenuti di questa antologia, insomma, non sorprenderanno più di tanto i lettori dei libri Verso. Ci siamo concentrati su dissidenti e ribelli che si sono sforzati di smuovere le montagne e fin dai tempi antichi hanno tentato di migliorare, cambiare e trasformare il mondo. Ci sono, certo, anche forme di dissenso che si sviluppano all’interno di strutture che esistono allo scopo di consolidare lo status quo, per esempio cercando di prevenire errori troppo evidenti che potrebbero portare a forme di dissenso più estreme, come le rivoluzioni dal basso. Abbiamo deciso di lasciare da parte questa tipologia, anche se la tentazione era forte. Un buon esempio potrebbe essere una lettera scritta (e mai spedita) dall’imperatore Giuseppe II d’Austria alla volubile sorella Maria Antonietta, chiusa nel bunker di Versailles, una lettera molto più dura nei toni e molto più illuminante di certe recenti biografie pseudo-femministe, che inneggiano alla regina nel nome di una simpatia di genere, ma perdono del tutto di vista il quadro generale.
(...) A Sarajevo la maggior parte della gente rimpiange la divisione del paese. Ci sono ritratti di Tito appesi un po’ dappertutto, e giornalisti, studenti e veterani di guerra parlano apertamente di corruzione dilagante e fragilità diffusa. In Serbia ho parlato con i coraggiosi giornalisti di B92, una stazione radio che ha preso posizione contro il proprio governo e contro gli aerei militari Nato che sganciavano bombe su Belgrado e sul ponte di Novi Sad. Il dissenso e vivo e vegeto anche nella ex-Jugoslavia. Molti critici della svolta di vent’anni fa e gli osservatori della crisi odierna stanno ricominciando ad attraversare le frontiere nazionali per incontrarsi alle fiere del libro e ai festival cinematografici, e alcuni hanno proposto di trasformare l’isola di Korkula in Croazia uno spazio virtuale pan-jugoslavo, in cui i dissidenti dell’intera regione balcanica possano riunirsi una volta all’anno per scambiare idee.

Corriere della Sera 29.11.11
Liberalismo all’italiana. L’alternanza impossibile
Perché Einaudi e Croce all'inizio difesero Mussolini
di Paolo Mieli

A dispetto di ciò che può far immaginare il titolo, il libro di Massimo L. Salvadori Liberalismo italiano. I dilemmi della libertà, edito da Donzelli, non è una storia politica dei liberali nel nostro Paese. Attraverso una serie di saggi dedicati a sei personalità — Camillo Benso conte di Cavour, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Nicola Matteucci, Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio — compie invece una disamina delle peculiarità, delle anomalie, ma soprattutto dei problemi e dei difetti (vere e proprie zoppie) del liberalismo italiano. Il «limite strutturale» del nostro liberalismo tra il 1861 e il 1922 è quello di «essere stato l'espressione di pratiche di governo e di un movimento ideologico e culturale cresciuti ignorando il tratto e il compito essenziali dei sistemi liberali maturi: dare luogo a "normali alternative di governo" tra schieramenti politici in reciproca competizione ed egualmente legittimati a reggere le redini del potere». Il «liberalismo zoppo» dell'età prefascista «rimase zoppo anche nell'età postfascista, quando pure acquistò un carattere democratico: zoppo, perché ad esso mancava ancor sempre la gamba tanto essenziale per la vita piena di un sistema liberale: la possibilità non formale ma sostanziale per le principali forze di opposizione di accedere al governo, dando luogo a normali alternative, appunto, di governo». Salvo rare eccezioni, i nostri liberali «considerarono il monopolio di potere della classe dirigente come il positivo baluardo del sistema liberale quale si era venuto configurando in Italia».
È in questo contesto che fu possibile l'abbaglio per il quale è accaduto che alcuni personaggi di questa vicenda, primi tra tutti Croce ed Einaudi, «di fronte alla crisi organica del sistema liberale negli anni del primo dopoguerra e sotto la spinta del timore di un collasso delle istituzioni che aprisse le porte all'eversione sociale rivoluzionaria, abbiano visto con favore l'emergere del fascismo, poi, in seguito, la sua ascesa al potere; e abbiano appoggiato con convinzione il governo Mussolini da essi considerato — si badi — non soltanto in grado di adempiere al compito della restaurazione dell'autorità dello Stato, ma anche di svolgere il ruolo di una forza autenticamente liberale che avrebbe riportato il Paese alla normalità costituzionale». Ed è questo il punto.
Niente nelle pagine di questo libro di Massimo L. Salvadori echeggia le antiche polemiche contro quegli intellettuali che per viltà non si opposero — quanto meno nei primi anni — al regime mussoliniano. Piuttosto, ci si domanda, come fu possibile il fraintendimento in base al quale considerarono liberale il regime fascista? Nell'ottobre del 1923, un anno dopo la marcia su Roma, «proprio quando», scrive lo storico, «lo Stato guidato da Mussolini e il partito fascista andavano seppellendo lo Stato liberale e schiacciando i partiti di opposizione con il concorso delle forze collaborazioniste di varia provenienza in una cornice di vasto e accelerato trasformismo», Benedetto Croce «diede dallo scranno del filosofo la più decisa legittimazione ideologica al fascismo, in pieno contrasto con la teoria liberale nata proprio per dar conto delle diversità organiche tra le diverse forme di Stato e di governo e sostenerne una contro le altre». Disse, Croce, che «per chi guarda con occhio di filosofo e di storico, tutti gli Stati sono sempre un unico Stato, tutti i governi un unico governo: quello di un gruppo che domina e perciò governa la maggioranza; e tutti, finché durano, adempiono a un'utilità, anzi alla maggiore utilità possibile nel momento dato». Utilità destinata a durare fino a quando non abbiano il sopravvento «altri gruppi che rappresentano o fanno sperare una maggiore e migliore utilità sociale». Il che, sottolinea Salvadori, equivaleva a dare il pieno avallo al governo di Benito Mussolini, una legittimazione espressa con decisione nel prosieguo del discorso: «Non esiste ora una questione di liberalismo e fascismo, ma solo una questione di forze politiche». Tutto è dettato, per espressa ammissione di Benedetto Croce, dalla «grande paura di un eventuale ritorno alla paralisi parlamentare del 1922», per cui «nessuno, che abbia senno, augura un cangiamento». Proprio queste furono le parole del filosofo: «Nessuno, che abbia senno, augura un cangiamento».
Del resto persino Gaetano Salvemini il 27 maggio del 1923 scriveva: «è preferibile Mussolini ad una nuova combinazione parlamentare a base di Giolitti, Bonomi, Orlando e governi simili; perché Mussolini si liquida da sé, perché è un clown, e perché è circondato da ragazzacci; ma gli aspiranti al soglio come successori di Mussolini sono sempre i vecchi intriganti parlamentari, che con la loro stupidità e viltà hanno reso possibile e necessario Mussolini». Nessuna contraddizione dunque, chiosa Salvadori, tra la fede liberale e l'accettazione nonché la giustificazione del fascismo: se ai liberali non si può chiedere di diventare fascisti, ad essi, dal momento che non hanno avuto «la forza e la virtù di salvare l'Italia dall'anarchia in cui si dibatteva», spetta «dolersi di sé medesimi, recitare il mea culpa, e intanto accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto, e prepararsi per l'avvenire».
Approvata la legge elettorale Acerbo, che avrebbe assicurato a Benito Mussolini la maggioranza in Parlamento, Croce, nel febbraio del 1924, giustificò il tutto con la considerazione che quella maggioranza a Mussolini «bisogna procurare di dargliela», esprimendo l'infondata convinzione secondo la quale, una volta che il «partito dominante» l'avesse ottenuta, si sarebbe presto rientrati «nella legalità e nel buon sistema costituzionale». Per di più, scriveva il filosofo, essendo «lo spirito umano creatore», non si poteva escludere che sarebbe sorto «un sistema politico affatto diverso dal liberale». Ma, di questo sistema «affatto liberale», Croce diceva di non riuscire ad individuare «neppure le prime linee», mentre vedeva bene «invece lo spontaneo avviamento, mercé le elezioni politiche, a un ritorno, come si dice, alla legalità, cioè alla pratica costituzionale».
Furono poi le elezioni e, nel giugno di quello stesso 1924, l'uccisione di Giacomo Matteotti. In luglio Croce confermò il suo appoggio al fascismo e al Senato votò la fiducia. Ribadì che al fascismo si confaceva il ruolo di un «ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale, nel quadro di uno Stato più forte» e non già la volontà di instaurare «un nuovo tipo di Stato» inaugurando «una nuova epoca storica». La caduta del governo Mussolini, dunque, per Croce non era auspicabile e per questo il voto di fiducia era stato per lui «un voto di dovere», «prudente e patriottico», rispondente alle richieste di quanti non volevano che venisse vanificato il «molto di buono» che il fascismo aveva compiuto e si ritornasse «alla fiacchezza e all'inconcludenza che lo avevano preceduto». Bisognava «dare tempo allo svolgersi del processo di trasformazione».
Idee analoghe ebbe Luigi Einaudi che nel primo fascismo riconobbe una forza in grado di esercitare una funzione schiettamente liberale, dal momento che si dirigeva contro lo statalismo invasivo, contro le leghe rosse che violavano le regole della libertà del lavoro, contro l'anacronismo sociale dei popolari, contro i rivoluzionari che minacciavano la proprietà, contro la debolezza dei governi. Secondo Salvadori, Einaudi «fece allora un uso quanto mai spregiudicato del liberalismo». Nel settembre del 1922 scriveva che il pericolo di «una marcia fascista su Roma per dissolvere il Parlamento e mettere su una dittatura» non aveva fondamento; che «il programma del fascismo è nettamente quello liberale della tradizione classica»; che il fascismo si poneva il lodevole obbiettivo di sostituire la vecchia, «stracca» classe politica giolittiana con una nuova classe che però non aveva bisogno di nuove dottrine e non doveva mirare a costruire «nuovi regimi politici». «Desideriamo ardentemente», fu l'auspicio di Einaudi, «ci sia un partito, e sia quello fascista, se altri non sa far di meglio, il quale usi mezzi adatti per raggiungere lo scopo che è la grandezza materiale e spirituale della patria».
È più che evidente che Salvadori non intende «riscoprire» la circostanza dei numerosi intellettuali liberali i quali, in una fase iniziale, furono in qualche modo affascinati da Mussolini. Tra l'altro dedica molte pagine del suo libro a illustrare i meriti — precedenti e successivi — di questi pensatori nell'approfondimento e nella diffusione della dottrina della libertà. Quelle che vuole approfondire sono le motivazioni che alcuni di loro addussero per spiegare la simpatia per il fascismo in quell'inizio degli anni Venti. E talvolta anche negli anni successivi. È il caso di Nicola Abbagnano, il quale, scrive Salvadori, «fu ferventemente fascista», nel senso che durante tutti gli anni Trenta «a più riprese e in diverse sedi manifestò il proprio convinto consenso alla dittatura, con forme e toni che non possono in alcun modo configurare una sorta di pedaggio opportunistico pagato alle circostanze». E qui l'autore polemizza con tre libri — L'interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo (Laterza) di Luisa Mangoni, Il fascismo e il consenso degli intellettuali (il Mulino) di Gabriele Turi e La cultura a Torino tra le due guerre (Einaudi) di Angelo d'Orsi — che non hanno ritenuto di dover dedicare neppure un cenno al rapporto Abbagnano-fascismo. Mentre invece ce ne sarebbe stato di che.
Nel 1932, in occasione dell'apertura dell'anno scolastico del liceo in cui insegnava, Abbagnano «celebrò in maniera entusiastica il regime, i suoi successi in generale e in particolare le sue benemerenze sul fronte scolastico». In quel discorso, il filosofo plaudeva all'opera di Mussolini e del regime, grazie al quale «tutti i vecchi istituti dello Stato liberale, completamente incapaci a reagire contro quella disgregazione della coscienza politica italiana, che era l'ultimo e tristo retaggio delle secolari divisioni che avevano afflitto l'Italia, tutti i vecchi istituti, diciamo, sono stati rifatti e rinnovati secondo il nuovo spirito della Nazione». Alla «degenerazione parlamentaristica» si era opposto finalmente «saldo e granitico» un governo «vigile e duttile a tutte le esigenze e gli interessi nazionali, vero organo centrale propulsore di vita e di progresso». «Il Parlamento, sottratto alla sterile gara delle ambizioni, è stato ricondotto alla sua dignità e alla sua vera funzione di consigliere e collaboratore del potere esecutivo». Fino ai primi anni Quaranta Abbagnano aveva poi appoggiato ogni iniziativa di Mussolini, a partire dalla guerra d'Etiopia per continuare con le politiche che ne seguirono. «La Nazione italiana», scriveva nel 1939, «ha creato, con l'Impero, una forma di organizzazione politica che ha i tratti essenziali di un'esperienza politica ideale, di un'esperienza cioè nella quale la vita spirituale e la forza si conciliano nella più armonica unità». La guerra, proseguiva, pone ogni uomo di fronte «all'alternativa tra l'essere se stesso nella propria storia e il disperdersi in una vita senza storia». Al cospetto «di questa alternativa, i popoli stringono le fila, si purificano e si definiscono». E qui, secondo Salvadori, il riferimento alla purificazione, nient'affatto generico, «era una positiva adesione a quella politica razziale che, nei Ricordi, Abbagnano avrebbe detto di aver respinto con sdegno sofferente».
Ma torniamo all'abbaglio, nei primi anni Venti, dei liberali nei confronti di Mussolini. Esso fu dovuto al fatto che i liberali italiani ritennero che l'assetto politico del Paese fosse in pericolo, che non fosse più possibile trovare un equilibrio, che stessimo per precipitare in una guerra civile, e che ci fosse bisogno di una soluzione forte. Anche se in contrasto con i principi liberali stessi. Un po' come — in un contesto, è bene sottolinearlo, tutto diverso — era capitato a Cavour dieci anni prima che fosse compiuto il disegno unitario. Impressionato dagli avvenimenti francesi tra il 1848 e il 1852, Cavour ritenne indispensabile il «connubio» tra la destra moderata e la sinistra di Urbano Rattazzi. Già Giuseppe Maranini, nella Storia del potere in Italia, 1848-1967 (Vallecchi), si era soffermato su questo particolare momento storico. A suo avviso il connubio tra Cavour e Rattazzi aveva costituito «un'operazione politica di vasto respiro», ma anche «un avvenimento che contribuì a modellare la fisionomia della Costituzione italiana», dal 1852 all'introduzione della rappresentanza proporzionale subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, nel quadro di un sistema che vide i politici italiani perseguire «la creazione e la demolizione delle maggioranze attraverso manovre parlamentari ed extraparlamentari». E di un tipo di governo che, parlamentare nella forma, nella sostanza era «un governo pseudo parlamentare».
Ripetiamo: non è lecito stabilire paragoni tra il Regno sabaudo del 1852 e l'Italia del 1922, né tra le politiche di Cavour e quelle di Mussolini. Il punto di caduta di questa riflessione si ferma su quanto esponenti politici e pensatori della tradizione liberale italiana si siano sentiti in dovere, in momenti decisivi, di piegare il loro credo a quelle che ritenevano essere le priorità del momento. Questo perché il liberalismo, come avrebbe detto Abbagnano, era considerato inadatto a fronteggiare quella disgregazione della coscienza nazionale «che era l'ultimo e tristo retaggio delle secolari divisioni che avevano afflitto l'Italia». Salvadori riconosce che con il connubio Cavour inaugurò il regime parlamentare nel nostro Paese, ma aggiunge che «riformulando l'espressione, inaugurò uno specifico tipo di regime parlamentare, caratterizzato da una convergenza di forze al centro che — e qui si tocca il nocciolo della questione — non si limitavano a esercitare il governo e a orientare la maggioranza parlamentare, ma reputavano e presentavano se stesse come le uniche forze legittime di governo, tagliando le estreme di destra e di sinistra in quanto antisistema». E quando ci si presenta come unica forza legittima di governo, che non ha alternative d'opposizione ugualmente legittime, sempre ci si accinge — più o meno consapevoli — a fondare un regime.
Qui Salvadori si ferma a riflettere sulla delegittimazione in quegli anni del partito repubblicano e sui percorsi di legittimazione di un eventuale partito cattolico costituzionale. Nei confronti di Mazzini, Cavour fu oltremodo aspro. Nel 1850, pur riconoscendogli le buone intenzioni soggettive («la sincerità del suo amore per la causa della libertà e dell'indipendenza»), il conte disse di non voler sentire «mai più delle sue virtù quale capo di parte, dei suoi titoli ad esser tenuto quale iniziatore del Risorgimento italiano». Accusò poi, nel 1858, la Giovane Italia di aver dato «mala prova» già prima del 1848 e in seguito d'essersi votata, quanto meno quel che rimaneva della setta, alle «più sinistre imprese», dandosi al mutare «le spade in pugnali, le imprese in attentati, le battaglie in assassinii», professando anzi «la dottrina dell'assassinio politico»; al punto che Mazzini venne abbandonato da «quasi tutte le persone di onesti intendimenti, di animo generoso». Mazzini, agli occhi di Cavour, era divenuto il capo di una «minoranza esaltata»; lo definì «nemico come l'Austria e da questa favorito», insinuò il sospetto che potesse allearsi con i clericali, disse di lui che era un uomo il quale «agitava i bassifondi e pescava i suoi seguaci tra i folli e gli imbecilli, un demonio capace di sfuggire alle polizie di tutta Europa e da arrestare e appendere in quanto capo di una banda di assassini, un essere che suscitava ripugnanza nelle masse, nelle classi medie e in tutti i moderati di buoni sentimenti e con cui si doveva condurre una guerra a morte, peggiore degli stessi austriaci, inteso con la sua insensata fazione a cospirare contro la società, forse utilizzato persino a un certo punto dall'Inghilterra contro il Piemonte».
Tra il 1858 e il 1860, scrive Salvadori, la polemica antimazziniana di Cavour «fu dominata dal problema, divenuto quanto mai concreto, di impedire che l'alternativa repubblicana si opponesse con successo a quella monarchica piemontese». Nel marzo del 1859, Cavour scrisse a Costantino Nigra che era necessario unire intorno al programma del governo «tutti coloro che vi aderiscono in maniera assoluta e senza restrizioni, senza darsi pensiero delle opinioni manifestate nei tempi dei disordini e delle rivoluzioni», ma senza fare da parte del governo «la minima concessione ai repubblicani», così da impedire a Mazzini e ai suoi, quando avesse a scoppiare la guerra, di «levar altro stendardo che non sia lo stendardo che la Sardegna tiene alto e fermo», e di distruggerlo se necessario «in quanto più funesto alla causa italiana di quello stesso dell'Austria». Il punto culminante della linea cavouriana contro Mazzini, osserva Salvadori, fu raggiunto a impresa dei Mille conclusa, nell'ottobre-novembre 1860, «i mesi in cui si compì la stretta finale dell'unificazione nazionale». Queste le direttive del conte: fare ogni cosa per impedire a Mazzini di esercitare la sua «nefasta» influenza su Garibaldi; «nissuna transazione coi mazziniani, non debolezza coi garibaldini»; «bisogna spazzare i Crispi, i Mordini e tutti i loro adepti senza eccezione di sorta». Certo, sono parole di uno statista impegnato, come si è detto, nelle ore conclusive di una lunga battaglia. Ma c'è qualcosa di più, in materia di delegittimazione dell'avversario politico e di violazione dei precetti del liberalismo puro, su cui non è superfluo fermarci a riflettere.
Diverso fu l'atteggiamento che Cavour tenne nei confronti della destra cattolica, segno questo che il capo del governo ben comprendeva l'importanza di avere all'interno del Parlamento un'opposizione legittimata a contendere alla maggioranza la guida del governo. «Dirò che se la corte di Roma accetta le nostre proposte, se si riconcilia con l'Italia, se accoglie il sistema di libertà, fra pochi anni, nel Paese legale, i fautori della Chiesa, o meglio, quelli che chiamerò il partito cattolico, avranno il sopravvento e io mi rassegno fin d'ora a finire la mia carriera nei banchi dell'opposizione», disse con parole non insincere allorché gli sembrava che l'accordo con Pio IX fosse possibile. Quando nel febbraio del 1848 gli era parso che Pio IX si schierasse definitivamente dalla parte del Risorgimento, aveva scritto che in Italia «non sono, non possono esistere, nonché guerra, contrasti reali tra la religione, chi l'amministra e lo spirito di libertà». Talché gli appariva che «la gran riconciliazione del clero con la causa del progresso, coi principi che lo informano e dominano la società moderna, mirabilmente preparata da Vincenzo Gioberti è stata compiuta e benedetta dal sommo Pio». Poi però i rapporti con il «sommo Pio» erano andati degenerando e nel giro di pochi mesi si erano trasformati in aperta, reciproca ostilità. Ma Cavour inseguiva il sogno di una riconciliazione nel segno del progetto di cui si è detto.
In due particolari occasioni, osserva Salvadori, nel dicembre del 1857 e nell'aprile del 1861 (poche settimane prima di morire) «Cavour espresse con chiarezza e fermezza il suo auspicio che avesse a sorgere prima nel Regno sardo e poi nel Regno d'Italia un partito cattolico conciliato con i principi liberali». I motivi che addusse «furono sia l'esigenza di rafforzare il fronte della conservazione, sia di rendere più vigorosa la dialettica politica fino al punto di dare vita ad un'alternativa di governo al partito liberale». In questo contesto, osserva l'autore del libro, fece un'affermazione molto significativa — di cui pare sorprendente non abbiano tenuto conto gli studiosi celebratori del connubio — nella quale diede prova evidente di avere egli stesso consapevolezza dei limiti organici posti dal connubio e dai suoi sviluppi alle istituzioni liberali, ovvero del costo di un esercizio monopolistico del potere. «Se in questo sistema», disse Cavour, «non vi fosse che un partito progressista, io penso che le cose dopo qualche tempo, potrebbero volgere al peggio e presentare pericoli». Affermazione che con tranquillità può essere modificata così: se si è in presenza di un solo partito (o di una sola coalizione) legittimato a governare le cose possono volgere al peggio e presentare pericoli. Cavour aveva visto giusto. Tant'è che nella successiva storia d'Italia «pericoli» e «peggio» non ci sono stati risparmiati.

Corriere della Sera 29.11.11
Tutino, militante ma senza collare
di Antonio Ferrari

È impossibile conoscere a fondo un uomo se non si è avuta la possibilità e la pazienza di studiarlo, di potergli parlare spesso e a lungo, di immaginarne le angosce, le malinconie, i segreti, di saper leggere oltre quello che scriveva. Ho incontrato soltanto un paio di volte, durante viaggi poco agevoli, Saverio Tutino, che se n'è andato a 88 anni, costretto a cedere all'aggressione di un ictus. Troppo poco per ritenere di conoscerlo davvero, ma un tempo sufficiente per ammirare la libertà del giornalista di talento e dell'apprezzato scrittore. Nei suoi reportage per «l'Unità» dall'Algeria, da Cuba, dall'America latina e nelle corrispondenze che ha lasciato alle pagine della «Repubblica» c'è davvero il trionfo della memoria. Quella memoria costruita raccontando le memorie degli altri, dei personaggi che Tutino ha frequentato.
Pochi hanno avuto la fortuna di conoscere Guevara, di cenare con Salvador Allende, di bere un bicchiere con Vargas Llosa e García Márquez, di farsi amare e poi odiare da Fidel Castro. Saverio Tutino aveva frequentato quasi tutte le rivoluzioni della seconda metà del secolo scorso. Comandante partigiano in Val d'Aosta e Piemonte. Attratto e poi fagocitato dal Pci, del quale era stato un iscritto inquieto e spesso imbarazzante. Ammiratore del Che ma poi pronto a denunciare la più profonda delusione per gli errori di Castro. In prima fila come testimone (e non solo) in quasi tutte le rivoluzioni possibili, da quella algerina a quelle sudamericane, portando in dote quello spirito libero che, in tante, troppe occasioni era stato umiliato. Se l'esperienza redazionale del «Politecnico» di Elio Vittorini gli aveva regalato l'orgoglio della propria indipendenza, negli anni dell'«Unità», corrispondente da Parigi e da Cuba, aveva inghiottito più di una volta l'amara pillola dell'appartenenza a una rigida chiesa politica.
Ecco perché questo milanese, inquieto e poco incline alla disciplina, era riuscito a essere ingombrante sia per il vertice del giornale del Pci, sia all'«Humanité», il quotidiano comunista francese, che negli anni più difficili gli aveva garantito una scrivania e un telefono. Tutino già preferiva alla gabbia del dovere la frequentazione di quella sinistra non respecteuse (in sostanza extraparlamentare), come la definivano i suoi amici parigini Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, che incontrava ai «Deux Magots» di Saint-Germain-des-Près, nel quartiere latino. E che raccolsero i suoi rabbiosi sfoghi.
Quando nel '75 andò a trovare Eugenio Scalfari, che si apprestava a fondare «La Repubblica», aveva l'entusiasmo di un praticante che affrontava la nuova avventura. Aveva ritrovato, oltre alla felicità affettiva, una nuova stagione di grinta professionale. Inviato speciale e firma illustre di un grande e ambizioso giornale. E finalmente uno stipendio adeguato. Anzi, decisamente «ricco» per un giornalista abituato ai risparmi forzosi de «l'Unità» e ai viaggi senza comfort e garanzie.
Diceva e ripeteva: «Negli anni di militanza mi sono reso conto che la politica, anche quando è fatta in nome dei diritti della persona, finisce per tradirli». Riflessione amara, che il combattente Saverio Tutino ha affrontato a suo modo, compiendo un passo che non esitiamo a definire nobile. Nel 1984 ha fondato l'Archivio dei diari nazionali a Pieve Santo Stefano. Era il suo sogno da sempre. Salvare dall'oblio i diari delle persone, degli italiani, di tutti gli italiani, come se la somma delle sconosciute memorie di ciascuno potesse contribuire a consolidare una vera memoria collettiva.
Grazie Saverio, la tua ruspante biblioteca «alessandrina» di Pieve Santo Stefano è la tessera di appartenenza più bella. Quella di una sfida nella più assoluta libertà.

Corriere della Sera 29.11.11
La nuova epidemia: dipendenza dal sesso
di Alessandra Farkas

Dopo show in tv, film, bestseller, la diagnosi: «Sex addiction epidemic», epidemia di dipendenza da sesso. Così titola il settimanale Newsweek che dedica la copertina alla nuova schiavitù degli americani. Per la Society for the Advancement of Sexual Health, oltre 9 milioni di persone, quasi il 5% della popolazione, sono afflitti da questa sindrome.
La nuova sindrome americana ha il suo show (Bad sex, trasmesso da Logo Tv), un film, (Shame, in arrivo sugli schermi il prossimo 2 dicembre), un bestseller (Out of the Shadows: Understanding Sexual Addiction) testimonial famosi come Michael Douglas, Tiger Woods e Charlie Sheen e, da oggi, anche una diagnosi ufficiale: «Sex addiction epidemic», epidemia di dipendenza da sesso. «Un'intera cultura e un'intera nazione s'interrogano sui motivi di questo boom», scrive Newsweek in un articolo di copertina dedicato alla nuova schiavitù che, per la Society for the Advancement of Sexual Health, affligge oltre 9 milioni di persone, quasi il 5% della popolazione Usa.
«Fino a qualche tempo fa sesso-dipendente era un uomo sui 40-50 anni», spiega Tami VerHelst, vicepresidente dell'International Institute for Trauma and Addiction Professionals, «mentre ora sono aumentati donne, adolescenti e anziani». Un contagio che Newsweek attribuisce in parte alla rivoluzione digitale che avrebbe «risvegliato il metabolismo carnale» di una nazione un tempo sessuofoba. «Mentre in passato i frequentatori di cinema e librerie porno erano costretti a sfidare l'imbarazzo pubblico — teorizza il settimanale Usa — il web ha reso la pornografia accessibile, gratuita e anonima». Negli Usa quaranta milioni di persone al giorno accedono a siti hard. Tra questi c'è Valerie, l'ex sex addict sulla copertina di Newsweek che racconta di aver «perso due mariti e il lavoro», ritrovandosi «senza tetto e costretta a sopravvivere con i buoni pasto dello Stato» per la sua malattia.
«Avevo toccato il fondo, ero totalmente fuori controllo», spiega la 30enne che per anni fece sesso selvaggio nei bagni dei fast-food, con subordinati, colleghi e perfetti sconosciuti, arrivando a farsi pagare «solo per il brivido che tale atto illecito mi procurava». Dopo aver tentato il suicidio con un'overdose di medicinali, Valerie ha capito che doveva farsi curare: «Il sesso era una forma di automedicazione per anestetizzare l'ansia, la disperazione e il terrore dell'intimità che mi perseguitava da quando, bambina, fui abbandonata».
Dalle interviste della rivista diretta da Tina Brown emerge il ritratto di un'America che nell'era di Internet è sempre più emotivamente frigida e socialmente isolata. Ad accrescere il paradosso di un Paese dove l'ossessione erotica è proporzionale alla digitalizzazione dei rapporti, spopolano app per smartphone come Grindr che usa la tecnologia gps per facilitare incontri gay «senza il minimo impegno» in 192 Paesi.


Repubblica 29.11.11
"Ho deciso di morire", l´addio di Magri ai compagni
Il suicidio assistito del fondatore del "Manifesto"
Ha deciso tutto con lucidità. La fine in Svizzera, poi la sepoltura vicino alla sua Mara
Gli amici hanno tentato di dissuaderlo, ma lui era depresso per la morte della moglie
di Simonetta Fiori

E alla fine la telefonata è arrivata. Sì, tutto finito. Ora si rientra in Italia. Alle pompe funebri aveva provveduto lo stesso Lucio Magri, poco prima di partire per la Svizzera. Era il suo ultimo viaggio, così voleva che fosse. Non ce la faceva a morire da solo, così il suo amico medico l´avrebbe aiutato. Là il suicidio assistito è una pratica lecita, anche se poi bisogna vedere nei dettagli, se ci sono proprio le condizioni. Ma ora che importa? Che volete sapere? Non fate troppi pettegolezzi, l´aveva già detto qualcun altro ma in questi casi non conta l’originalità.
S´era raccomandato con i suoi amici più cari, quelli d´una vita, i compagni del Manifesto. Non voglio funerali, per carità, tutte quelle inutili commemorazioni. Necrologi manco a parlarne. Luciana si occuperà della gestione editoriale dei miei scritti. Per gli amici e compagni lascio una lettera, ma dovete leggerla quando sarà tutto finito. Sì, ora è finito. La notizia può essere resa pubblica. Lucio Magri, fondatore del Manifesto, protagonista della sinistra eretica, è morto in Svizzera all´età di 79 anni. Morto per sua volontà, perché vivere gli era diventato intollerabile.
A casa di Lucio Magri, in attesa della telefonata decisiva. È tutto in ordine, in piazza del Grillo, nel cuore della Roma papalina e misteriosa, a due passi dalla magione dove morì Guttuso, pittore amatissimo ma anche avversario sentimentale. Niente sembra fuori posto, il parquet chiaro, i divani bianchi, i libri sulla scrivania Impero, la collezione del Manifesto vicina a quella dei fascicoli di cucina, si sa che Lucio è un cuoco raffinato. Intorno al tavolo di legno chiaro siede la sua famiglia allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi del Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per un quarto di secolo. No, Valentino non c´è, Valentino Parlato lo stiamo cercando, ma presto ci raggiungerà. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana, prepara il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone. Cosa stiamo aspettando? Che qualcuno telefoni, e ci dica che Lucio non c´è più.
Da questa casa Magri s´è mosso venerdì sera diretto in Svizzera, dal suo amico medico. Non è la prima volta, l´aveva già fatto una volta, forse due. Però era sempre tornato, non convinto fino in fondo. Ora però è diverso. Domenica mattina rassicura gli amici: «Ma no, non preoccupatevi, torno domani». La sera il tono cambia, si fa più affannato, indecifrabile, chissà. Il lunedì mattina appare sereno, lucido, determinato. Ha scelto, e dunque il più è fatto. Bisogna solo decidere, e poi basta chiudere gli occhi. L´ultima telefonata nel pomeriggio, verso le sedici. Poi il silenzio.
Una depressione vera, incurabile. Un lento scivolare nel buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e private. Sul fallimento politico conclamato, evidentissimo s´era innestato il dolore privato per la perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il suo filtro con il mondo. «Lucio non sapeva usare il bancomat né il cellulare», racconta una giovane amica. Mara che oggi sorride dalle tante fotografie sugli scaffali, vestita color ciclamino nel giorno delle nozze. Un vuoto che Magri riempie in questi anni con le ricerche per il suo ultimo libro, una possibile storia del Pci che certo non a caso titola Il sarto di Ulm, il sarto di Brecht che si sfracella a terra perché non sa volare. Ucciso da un´ambizione troppo grande, così almeno appare ai suoi contemporanei.
Anche Magri voleva volare, voleva cambiare il mondo, e il mondo degli ultimi anni gli appariva un´insopportabile smentita della sua utopia, il segno intollerabile di un fallimento, la constatazione amarissima della separazione tra sé e la realtà. Così le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma evitando agli amici lo spettacolo del sangue sul selciato.
Aspettando l´ultima telefonata, a casa Magri. Lalla, la cameriera peruviana, va a fare la spesa per il pranzo, vi fermate vero a colazione? E´ affettuosa, Lalla, ha ricevuto tutte le ultime disposizioni dal padrone di casa. No, non ha bisogno di soldi per il pranzo, ci sono ancora quelli vecchi che lui le ha lasciato. È stata lei ad assistere Mara nei tre anni di agonia per il brutto tumore, e poi ha visto spegnersi lui, sempre più malinconico, quasi blindato in casa. Ogni tanto qualche amico, compagno della prima ora. Ma dai, reagisci, che fai, ti lasci andare proprio ora? Ora che esce l´edizione inglese del tuo libro? E poi quella argentina, e quella spagnola? Dai, ripensaci, c´è ancora da fare. Ma lui non era convinto. Non poteva fare più nulla. Lucido e razionale, fino alla fine. E poi s´era spenta la sua stella, così scrive anche nell´ultima lettera ai compagni.
Sembra tutto surreale, qui in piazza del Grillo, tra squilli di telefono e porte che si aprono. Arriva Valentino, invecchiato improvvisamente di dieci anni. Lo accolgono con calore. No, non sappiamo ancora niente. Aspettiamo. Ricordi privati e ricordi pubblici, lui grande giocatore di scacchi, lui grande sciatore, lui politico generoso che preparava i documenti e nascondeva la sua firma. Ma attenzione a come ne scrivete, non era un vanesio, non era un mondano. Dalle fotografie sui ripiani occhieggia lui, bellissimo e ancora giovane, un´espressione tra il malinconico e il maledetto. Dietro la foto più seducente, una dedica asciutta. «A Emma, il suo nonno». Neppure Emma, la bambina di sua figlia Jessica, è riuscito a fermarlo.
Poi la telefonata, quella che nessuno avrebbe voluto mai ricevere. Ora davvero è finita. Le pompe funebri andranno a prelevarlo in Svizzera, tutto era stato deciso nel dettaglio. L´ultimo viaggio, questo sì davvero l´ultimo, è verso Recanati, dove sarà seppellito vicino alla sua Mara, nella tomba che lui con cura aveva predisposto dopo la morte della moglie. Luciana Castellina s´appoggia allo stipite della porta, tramortita: «Non avrei mai immaginato che finisse così». Il tempo dell´attesa è concluso, comincia quello del dolore.


Repubblica 29.11.11
Dai cattolici allo strappo con il Pci una storia a sinistra fuori dagli schemi
Cominciò con la Dc e poi incontrò il comunismo
Uomo di fascino, in occasione della radiazione dal partito fu definito "ferratissimo"
Era nato nel 1932 e già negli anni ´50 era redattore di una rivista che criticava il capitalismo
di Nello Ajello

Un pilastro portante del "Manifesto", rivista e partito. L´interprete d´una maniera di concepire la sinistra italiana diversa da ogni schema. Questo è stato in sintesi Lucio Magri. Ma è una sintesi che non esaurisce la singolarità del personaggio. Perché lui aveva, rispetto ai compagni della sua stagione dorata dalla Rossanda a Pintor, da Natoli a Caprara, da Luciana Castellina a Valentino Parlato un´origine più avventurosa. E, soprattutto, una preistoria precoce.
Precoce, Magri lo era stato in maniera spettacolare. Nato a Ferrara nel 1932 (e poi cresciuto a Bergamo), nei primi anni Cinquanta già figurava fra i redattori della rivista mensile "Per l´azione", un organo dei giovani della Dc cui si consentivano attacchi quasi temerari alle «brutture del capitalismo». Del Magri di allora ci rimane un ritratto che ne fece anni fa Giuseppe Chiarante, suo amico d´una vita: «Era ammirato dalle compagne di scuola», così egli ricorda, «per la sua presenza atletica e perché considerato molto bello». Quello della prestanza fisica resterà per lui una costante. Che poi fosse interessato «alla politica» veniva dato per scontato. Quando, nel 1955, esce un altro periodico democristiano di sinistra, "Il Ribelle e il Conformista", è lui, Magri, a condividerne di fatto la direzione con Carlo Leidi. Fu lì che appare a firma di Cesare Colombi (è uno pseudonimo di Magri) un articolo dal titolo "Bilancio del centrismo", nel quale di delinea un´ipotesi di apertura a sinistra «senza contemplare una contrapposizione» fra il Psi e quel Pci, che in casa democristiana è il nemico. Sta intanto per uscire un´ennesima rivista, "Il Dibattito politico", che, legata all´orbita ideologica di Franco Rodano, è diretta da Mario Melloni, con condirettore Ugo Bartesaghi: per misurarne le qualità ereticali basti ricordare che i due saranno espulsi dalle file dello Scudo crociato per aver votato contro l´ingresso dell´Italia nell´Unione europea occidentale.
Il gruppo redazionale nel quale Magri esercita con passione il suo ruolo riunirà poi, accanto al solito Chiarante, intellettuali del rango di Ugo Baduel, Giorgio Bachelet, Edoardo Salzano (per citarne qualcuno). Programma dichiarato è «la ricerca delle necessità che sollecitano il mondo cattolico e quello comunista al dialogo». Potrà un simile progetto attuarsi dentro la DC?. Magri e gli altri sono i primi a dubitarne. La diaspora verso «la sinistra storica» è nei fatti.
La "vita democristiana" di Lucio Magri è stata breve e intensa: più lunghi saranno il tragitto verso il Pci e poi la permanenza in quel partito. Nell´estate del ´58, Giorgio Amendola, responsabile dell´organizzazione, lo riceve nel suo studio a Botteghe Oscure. Con Magri c´è il quasi gemello Chiarante. «Parlammo un po´ di tutto», racconterà quest´ultimo. L´impressione dei due, che avevano sporto regolare domanda, fu che l´illustre ospite li ritenesse «forse non a torto, degli intellettuali un po´ astratti». Gli raccomandò, comunque, «di avere delle esperienze di base». Così avvenne. Magri se ne tornò a Bergamo, diventando prima segretario cittadino, e, due anni dopo, vicesegretario regionale. Poco più tardi, a Roma, prese a lavorare nell´ufficio studi economici. La sua fama tardava a diffondersi. Non bastava a consolidarla il fatto di essere vicino, come idee, a Pietro Ingrao: gli ingraiani erano tanti.
Lo aiutò alquanto l´amicizia della Rossana Rossanda, e fu Luciana Castellina a procurargli un visto d´ingresso in Polonia dove si svolgeva un´assise di giovani comunisti. In casa di Alfredo Reichlin conobbe Enrico Berlinguer, senza ricavarne alcun pronostico sulla sua successiva, luminosa carriera.
Nel Pci si discuteva tanto. Fra i temi, il trauma causato dal XX Congresso, l´avvento di Krusciov. Non fu occasionale l´accoglienza che a Magri riservò il settimanale "Il Contemporaneo", diretto da Salinari e Trombadori, pubblicandogli vari pezzi polemici. Nel novero delle "bestie nere" di Magri era entrato, accanto al capitalismo che aveva acuito le sue riserve nella fase dc, il riformismo come una forma di inerte ipocrisia a sinistra.
Col tempo, nella galassia degli ingraiani più fattivi, il nome di Magri divenne di casa. Ma non fu certo suo esclusivo merito l´evento cruciale che stiamo per raccontare. Porta la data del 23 giugno 1969 l´arrivo in edicola, a Roma, della rivista "Il Manifesto", che subito apparve un caso esemplare di eresia politica. Stampata a Bari dalla casa editrice Dedalo e diretta da Magri e Rossanda, il periodico è promosso anche da Luigi Pintor, Aldo Natoli, Massimo Caprara, Luciana Castellina, Valentino Parlato. Sulle prime, Magri vorrebbe chiamarlo "Il Principe", ma poi rinunzia. In un suo volume, "Ritratti in rosso", Massimo Caprara descriverà i responsabili dell´avventura: «Rossanda lucidamente egemone, Pintor imprevedibile, Natoli rigoroso». A Magri assegna un superlativo: «ferratissimo».
Ma che cosa c´è scritto nella rivista-scandalo, il cui primo numero ha venduto 50 mila copie? Si riserva un devoto rilievo alla «rivoluzione culturale» cinese. Si biasimano certi anticipi di «compromesso» fra Pci e Dc. Sotto il titolo "Praga è sola", si tesse un elogio della "primavera" di quella capitale, che Mosca ha represso.
A Magri e Rossanda venne rivolto un vano invito a ritrattare. Rimbalzarono da "Rinascita" all´Unità" i preannunzi d´un "redde rationem" rivolto ai reprobi. La liturgia della repressione è macchinosa. Una Comissione, detta "la Quinta", presieduta da Alessandro Natta, delibera la soppressione della rivista, ma la decisione viene delegata al Comitato centrale, dove Rossanda difende con dignità le posizioni del Manifesto. Alla fine, lo stesso Comitato centrale delibererà è ormai il novembre ´69 la «radiazione» dal Pci della stessa Rossanda, di Pintor e Natoli. Pene equivalenti vengono comminate a Caprara, Castellina e Parlato. Un analogo «provvedimento amministrativo» (vaghezza del lessico repressivo!) è applicato ai danni del "ferratissimo" Magri.
Fine anni Cinquanta: fuori dalla Dc. Fine anni Sessanta: fuori dal Pci. Ma di Lucio Magri si continuerà a parlare. Almeno un po´. Nel settembre del 1977, sul Manifesto, egli attacca Berlinguer per la sua decisione di reprimere chiunque si collochi alla sinistra del Pci, e questa sua protesta trova l´appoggio di Norberto Bobbio (è Giuseppe Fiori a ricordare l´episodio nella sua biografia del leader sardo). Alla sinistra del Pci, egli di fatto era collocato, avendo assunto la segreteria del Pdup, partito di unità proletaria, con il quale il gruppo del Manifesto s´era fuso. Nel 1984 lo si ritrova daccapo nel Pci, quando il Pdup vi confluisce. Sempre in Parlamento, a volte in questo o quel vertice di partito. Fino alla finale dissoluzione del Pci,
Rimini, febbraio 1991. La scena mostra la patetica assise nella quale per pochi voti Achille Occhetto non viene eletto segretario del partito che subentrerà al Pci (vi sarà reintegrato poco più tardi). Chi era presente in quell´occasione conserva un´immagine di Lucio Magri. Lo ricorda in piedi, mentre, apprendendo l´esito delle votazioni, agita il pugno chiuso e scandisce un antico slogan: «Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-tung!».