lunedì 28 novembre 2011

l’Unità 28.11.11
Intervista ad Anna Finocchiaro
«Equità e giovani: così Monti vincerà la sfida»
La presidente dei senatori Pd: «I sacrifici vengano ripartiti in base al reddito
Il Parlamento sarà il più potente alleato del premier. Ma faccia la legge elettorale»
di Simone Collini


Monti consideri il Parlamento il suo più potente alleato», dice la capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro.
E però la nomina dei sottosegretari, indispensabile per garantire il rapporto tra governo e Parlamento, ancora non c’è stata.
«Questo è l’ultimo dei problemi, e sono sicura che il presidente Monti deciderà rapidamente e in piena autonomia, per poi consentire al Parlamento di conoscere e discutere le misure anticrisi e per consentire al governo di sapere quali sono le valutazioni delle Camere».
La manovra verrà presentata il 5 dicembre: non si poteva fare in tempi più stretti?
«Direi piuttosto che abbiamo avuto un raro esempio di tempestività. In pochi giorni è stato formato un governo, si è insediato, Monti ha svolto i suoi doveri istituzionali e poi ha avuto incontri comunitari molto importanti, visto che il riferimento all’Europa è essenziale. Il 5 verrà presentata la manovra, che mi auguro tenga conto delle posizioni espresse in questi mesi, per essere poi approvata in Parlamento con il più ampio consenso possibile».
Voi avete insistito sui concetti di equità, crescita e rigore: sicuri che saranno alla base della manovra?
«Quel che vediamo è che sono gli stessi criteri che compaiono nel linguaggio ufficiale del presidente Monti. Potremo avviare una discussione che mi auguro sia il più possibile seria e responsabile. E Monti poi potrà andare in qualunque sede europea e dire di avere con sé il più potente degli alleati, il Parlamento».
Come si declina concretamente, per voi, l’equità?
«Essenzialmente chiedendo che i sacrifici vengano ripartiti in base al reddito e poi, soprattutto, lavorando per l’equità generazionale. I sacrifici dovranno essere virtuosi, produttivi. Ogni euro ricavato dovrà essere investito sulle nuove generazioni, per assicurar loro un’esistenza libera e dignitosa, come dice la Costituzione, un lavoro adeguato ai loro talenti e bisogni».
Il Pdl è contrario alla patrimoniale.
«Vedremo cosa propone il governo. Noi abbiamo indicato lo strumento della patrimoniale immobiliare. Può essere realizzato attraverso l’Ici o attraverso l’aumento delle rendite catastali. Quel che è certo è che da lì, da una tassa sui grandi patrimoni immobiliari, dobbiamo partire se vogliamo ottenere rapidamente un risultato».
La ministra Fornero è intervenuta sulla riforma previdenziale in un articolo di Italianieuropei: la sua valutazione? «Mi pare sia una proposta interessante, su cui ragionare di concerto con le parti sociali. E mi sembra un buon segnale la chiusura della trattativa di Termini Imerese. Non sarà il massimo, ma grazie al nuovo governo siamo usciti da una situazione di impasse che rischiava di mortificare i lavoratori di Termini Imerese e il Mezzogiorno».
Non la preoccupa il fatto che sulla riforma del mercato del lavoro ci siano posizioni diverse nel suo partito?
«No perché partiamo tutti dalla stessa esigenza, che è quella di chiudere con una stagione che ha visto il mondo del lavoro diviso verticalmente tra garantiti e non garantiti, cioè i giovani. Una convergenza allora è possibile, sapendo che nessuno è detentore della verità e ognuno di noi è chiamato in causa per trovare la soluzione». Vede le condizioni, in questo Parlamento, per approvare una nuova legge elettorale?
«Ci sono le condizioni e le risorse per farlo, e in tempi rapidi. Oppure si celebrerà il referendum, e il Parlamento sarà messo in mora».
La caratteristica che dovrebbe avere la nuova legge elettorale?
«Far sì che il Parlamento sia realmente collegato al Paese, che gli eletti rispondano direttamente agli elettori. Ci attendono anni difficili e solo con un vincolo forte di rappresentanza si può costruire la necessaria coesione sul territorio».
Vede le condizioni anche per una riforma istituzionale?
«Di nuovo, è necessario che si faccia, perché per modernizzare il sistema e renderlo più funzionale dobbiamo ridurre il numero dei parlamentari, per proseguire sulla strada del federalismo dobbiamo superare il bicameralismo perfetto. Il Parlamento può tornare centrale, altro che tecnocrazia».
Avviare una fase costituente può essere anche il modo per consolidare il governo e garantirgli l’arrivo al 2013?
«Il governo arriverà al 2013 se riuscirà, e me lo auguro, a portare a termine la sua missione. Il punto è vedere se il Parlamento sarà all’altezza della situazione».
Il deputato del Pdl Crosetto dice che c’è bisogno di un esecutivo di unità nazionale: che ne pensa?
«Che abbiamo preso le decisioni giuste, che un governo tecnico è l’unico possibile in questa fase. C’è bisogno di una comune assunzione di responsabilità, che va ogni giorno curata con grande attenzione».
Berlusconi non sembra averla curata parlando di una «sinistra non matura» e ancora fatta di «comunisti».
«Ci sono momenti in cui si vedono quali sono le classi dirigenti. C’è chi guarda avanti e produce speranze e chi guarda indietro e mastica risentimento».
A proposito di guardare avanti, dice Casini che sull’appoggio al governo si giocano le alleanze del futuro. «Vedremo. Quel che è certo è che gli italiani ora osservano con grande attenzione le forze politiche e sapranno giudicare chi si assume le proprie responsabilità e chi non lo fa».
Voi state tranquilli?
«Se c’è un partito a cui conveniva andare al voto è il Pd. Ma abbiamo messo davanti a tutto il bene del Paese. Il nostro senso di responsabilità mi pare evidente».
Se il governo arriva a fine legislatura le politiche saranno ad aprile 2013: voi farete il congresso nell’autunno di quell’anno, come previsto dallo statuto, o lo terrete prima delle elezioni? «Vedremo cosa succede e valuteremo anche la possibilità di anticiparlo».

Repubblica 28.11.11
La presenza ecclesiale nel governo Monti
di Mario Pirani


Il governo tecnico del professor Monti ha in sé una dimensione che più politica non potrebbe essere, una presenza cattolico-democratica, che segna, per certi aspetti, una novità assoluta, l´emergere di una adesione ecclesiale diretta, rappresentata non tanto dal numero di ministri credenti ma dalla presenza di alcune personalità che trovano Oltretevere una fonte personale di legittimazione. Due, tra gli altri, appaiono di maggiore spicco: il fondatore della Comunità di Sant´Egidio, professor Andrea Riccardi, ministro per la Cooperazione internazionale e l´Integrazione, e il ministro dei Beni culturali, professor Lorenzo Ornaghi, rettore dell´Università cattolica. Due posizioni collocabili in quell´organigramma di un cattolicesimo democratico che sembra vorrebbe collegare e rappresentare le angosce di Paolo VI ai dilemmi che incombono su Benedetto XVI. Dilemmi che nel secolo scorso parvero risolti attraverso due tappe di diversissimo segno e in una opposta condizione politica: i patti Lateransi nel 1929 e il trionfo della Dc nel 1948. Non è, quindi, casuale che il tema si ripresenti oggi non solo in rapporto ad un evento pubblico, il convegno di Todi, organizzato da associazioni e movimenti cattolici animati dall´intenzione di rappresentare una svolta di fronte a una dialettica che aveva finito per restringersi al contrasto tra Segreteria di Stato e Conferenza episcopale, ma altresì in conseguenza di un altro fatto, non pubblico ma non per questo meno incisivo. Intendo riferirmi alla decisione, presa individualmente e personalmente dal Papa, di liberare la Santa Sede da ogni relazione che potesse essere intesa come ambiguo appoggio al degrado berlusconiano. La notizia mi è stata data da un alto prelato di grande prestigio, molto introdotto in Vaticano, di cui non mi è consentito rivelare l´identità.
Queste premesse mi hanno indotto a seguire con attenzione alcuni recenti documenti di parte cattolica fra cui il discorso di Andrea Riccardi ad un convegno sulla Dc, la Chiesa e il mondo cattolico (Roma, 19 novembre), tutto inteso a ripercorrere la strada per allargare l´orizzonte del partito cattolico e non ridurlo solo alla lotta al comunismo, «preoccupazione centrale di Pio XII che lo leggeva come un nuovo islam conquistatore e sradicatore della religione» … contro il quale bisognava «recuperare le destre e legarle alla Dc in uno schieramento anticomunista che si giocasse sulla bipolarità». Per contro, «la lotta al comunismo non era priorità assoluta per De Gasperi ... per il quale la Dc non deve essere solo un partito cattolico, schiacciato nel bipolarismo comunismo-anticomunismo», capace per contro di inanellare invece «varie legittimazioni, cattolica, americana, dell´economia, elettorale, dei lavoratori. Un partito degli italiani al centro del sistema, capace di mediare, unire, sintetizzare … La politica per la Dc deve fuggire la solitudine e la contrapposizione bipolare, anche se questa può dare successo per un momento».
Il discorso di Riccardi tocca molti altri punti, riannodando fino ad oggi il percorso politico del cattolicesimo democratico e merita di esser letto nella sua interezza e approfondito. È, comunque, di grande significato che in un governo di salvezza nazionale, accanto all´impegno tecnico degli economisti, riaffiori un afflato politico che tanto ha contribuito alla storia d´Italia nell´ultimo secolo.

Corriere della Sera 28.11.11
Tecnici o urne? Il Pdl diviso aspetta la scelta sul referendum
di Paola Di Caro


ROMA — L'uno, il padre nobile, incendia la platea di Verona evocando un voto che potrebbe anche arrivare a breve, perché da oggi — dice — siamo «in campagnaelettorale». L'altro, il segretario, prima di incontrarlo nei prossimi giorni per mettere i paletti del suo partito alla manovra che sta per essere presentata, a Mario Monti si rivolge con rispetto e comprensione: certo, il premier «è il presente ma non è il futuro», ma «non merita che si fissi al suo governo una data di scadenza che non sia quella del 2013». A far da corifei all'uno e all'altro, ci sono un po' tutti nel Pdl: quelli della linea dura come Brunetta (nonché di quasi tutti i giornali d'area) che concedono a Monti due-tre mesi per onorare gli impegni della lettera all'Ue e poi si va al voto, in ogni caso. Quelli come Crosetto che vedono l'immane pericolo che si para di fronte ad un'Italia al centro della speculazione internazionale e chiedono esattamente il contrario, cioè che si vari un «governo di unità nazionale», di larghe intese, con la Lega dentro. E tutti gli altri del gruppo dirigente — da Cicchitto a Quagliariello a Bonaiuti — che predicano calma e gesso perché il momento è grave e oltre che «vivere alla giornata sostenendo il governo su misure che certo devono essere conosciute in anticipo e condivise», come dice Raffaele Fitto, oggi non si può fare.
È insomma un Pdl ancora molto diviso e agitato quello che si appresta a conoscere le prime urgenti misure dell'esecutivo. Con un occhio ad una Lega che scappa via, Lega alla quale ieri Berlusconi ha cercato di lanciare un amo ricevendone una porta in faccia, e l'altro al Terzo polo che intona il canto delle sirene: «Chi sostiene questo governo — ripete Casini — può rappresentare l'alleanza che andrà al voto nel 2013».
Quale sarà la strada che imboccherà il partito di un Berlusconi scalpitante ma che pure assicura di voler rimanere dietro le quinte? Difficile dirlo, se è vera l'analisi di Osvaldo Napoli: «In questo momento non succede niente, saremo tutti abbottonati e coperti. Ma a gennaio dovremo votare i provvedimenti, e soprattutto potrebbe arrivare il via libera della Corte al referendum... Allora sì che ne vedremmo delle belle».
E in effetti il referendum «se poi davvero si farà», come in fondo dubita Gaetano Quagliariello, potrebbe davvero trasformarsi in spinta verso un voto anticipato del quale al momento non si vedono i segnali. Perché anche se non tutti giurano che Berlusconi non punti davvero alle urne («Lui potrebbe pure pensarci — dice un fedelissimo — ma chi gli è vicino, gente che conta per lui come Ennio Doris, lo hanno avvertito che sarebbe una pazzia forzare i tempi, creare sconquassi perché a saltare per aria non sarebbero solo le sue aziende ma l'Italia»), le spinte centrifughe sarebbero difficili da arginare.
Ad oggi però l'emergenza è un'altra, spiega Fabrizio Cicchitto: «La situazione è talmente grave che non ci sono margini per pensare a scherzetti, e chi ci pensa davvero è fuori dalla realtà. Ragionare con i vecchi schemi politici è impensabile, come fare piani a due-tre mesi: ma di che parliamo? Qui stiamo sostenendo quello che appare quasi un governo di guerra, calcoli politicistici non esistono». E anche per questo, conviene Quagliariello, farebbe bene la Lega a smetterla di cercare facili scorciatoie: «Questa crisi dipende da variabili esterne, converrebbe anche a loro usare maggiore prudenza e non esasperare il conflitto».
E però, a quello che potrebbe succedere tra qualche mese ci pensano in molti nel Pdl. Ci pensa chi appunto vorrebbe tenere saldo il rapporto con la Lega così come chi invece lavora per strutturare un'intesa profonda con il Terzo polo. Perché la nebbia scura che oggi avvolge l'Italia tra qualche settimana potrebbe diradarsi, e come dice Andrea Augello potrebbe essere più chiaro se dalla comunità internazionale saranno prese quelle decisioni cruciali (prestito agevolato per 1.000 miliardi, modifica dei Trattati, Eurobond) che dando una svolta positiva alla crisi potrebbero «permettere anche di tornare alle urne», o se la situazione sarà ancora più drammatica di oggi tanto da richiedere scelte davvero draconiane che «un governo tecnico potrebbe non essere in grado di prendere».
In questo secondo caso, si fa avanti nel Pdl l'idea che possa davvero essere necessario varare un governo — politico — di emergenza nazionale, che rimescolerebbe definitivamente il quadro e cambierebbe le alleanze quali sono state finora. Magari mettendo insieme chi, per dirla con Alfano, in questo «clima nuovo» di cui si stanno gettando le basi tiene insieme «noi che tifiamo Italia» come «gli altri» che pure «tifano Italia». Perché c'è già chi nel Pdl nell'anonimato sospira: «L'alleanza con la Lega? Ormai è finita, inutile girarci attorno...».

Corriere della Sera 28.11.11
Prima i tagli alla politica, poi i sacrifici dei cittadini
di Gian Antonio Stella


«N ei Paesi evoluti non si protesta contro la Casta, ma contro Wall Street», ha detto Massimo D'Alema infastidito dalle polemiche sugli eccessi della politica. Tiriamo a indovinare: che sia perché il Parlamento costa a ogni americano 5,10 euro, a ogni inglese 10,19, a ogni francese 13,60, a ogni italiano 26,33? O perché un consigliere regionale lombardo come Nicole Minetti o Renzo Bossi prende quanto i governatori di Colorado, Arkansas e Maine insieme?
O sarà perché secondo la «Tageszeitung» l'assessore provinciale alla sanità di Bolzano guadagna circa seimila euro più del Ministro della Sanità tedesco?
O perché un dipendente del Senato costa mediamente 137.525 euro lordi l'anno cioè 19.025 più dello stipendio massimo dei 21 collaboratori stretti di Obama?
Bastano pochi dati a dimostrare quanto sia un giochetto peloso spacciare la difesa di certi spropositi con la difesa della democrazia. Se la Camera spende oggi per gli affitti delle sue dependance 41 volte di più di trent'anni fa cosa significa: molte più spese, molta più democrazia?
Il quotidiano sgocciolio su questo tema di parole acide, permalose, stizzite dimostra come l'idea di Monti che la politica debba dare «un segnale concreto e immediato» sui suoi costi non sia stata affatto digerita. Anzi. E col passare dei giorni e il crescere del nervosismo dei cittadini intorno al mistero sui sacrifici in arrivo, diventa sempre più urgente quel segnale di forte discontinuità invocato e promesso.
Prendiamo i vitalizi parlamentari. La Camera ha deciso a luglio e il Senato giorni fa che dalla prossima legislatura non ci saranno più. Meglio: saranno sostituiti per i prossimi parlamentari da qualcosa di diverso. A naso, una pensione integrativa calcolata sui contributi versati come accade ai comuni mortali dalla riforma Dini di 16 anni fa, quando la classifica marcatori (siamo nel giurassico) fu vinta da Igor Protti. A naso, però. Perché la decisione «vera» sarà presa da una «apposita commissione». E mai come in questi casi gli italiani temono che avesse ragione Richard Harkness spiegando sul New York Times che «dicesi Commissione un gruppo di svogliati selezionati da un gruppo di incapaci per il disbrigo di qualcosa di inutile».
Ci sbagliamo? È l'augurio di tutti. Ma, come riconosce la più giovane dei deputati italiani, Annagrazia Calabria, l'intenzione di abolire i vitalizi dalla prossima legislatura è «del tutto insufficiente, se non inadeguata», rispetto alla gravità del momento. Ogni ritocco alle pensioni (e girano voci di interventi dolorosi) sarebbe assolutamente inaccettabile se avvenisse un solo istante prima di una serie di tagli veri ai vitalizi e agli altri assegni pubblici privilegiati. E non si tirino in ballo i «diritti acquisiti»: quelli dei cittadini sono stati toccati più volte. Prendiamo il blocco dell'adeguamento automatico all'inflazione: potrebbero i pensionati accettarlo se prima (prima!) non fosse smentito che i dipendenti del Quirinale (i quali solo nel 2011 hanno perduto un po' di privilegi) godono dell'aggiornamento pieno come fossero ancora in servizio?
Vale per tutti: tutti. Certo, come migliaia di pensionati-baby, anche chi è finito sui giornali per certi vitalizi altissimi, da Lamberto Dini a Giuliano Amato, da Publio Fiori a Gustavo Zagrebelsky, può a buon diritto dire «non ho rubato niente, la legge era quella». Vero. Se andiamo verso una stagione di vacche magrissime, però, chi ha avuto di più sa di avere oggi anche la responsabilità di dare di più. Qualche caso finito sui giornali ha già dimostrato che formalmente non è possibile rinunciare a una prebenda e comunque non ha senso che lo Stato chieda al singolo gesti di generosità individuale che non possono che essere «privati»? Si trovi una soluzione. Ma, con la brutta aria che tira in Europa e coi nuvoloni che si addensano da noi, l'intera classe dirigente a partire dallo stesso Mario Monti non può permettersi neppure di dare l'impressione di tenersi stretti certi doni, oggi impensabili, di una stagione che va dichiarata irrimediabilmente finita.
Gian Antonio Stella

l’Unità 28.11.11
La laicità del Pd e i religiosi del maggioritario
di Cristoforo Boni


Il Pd è un partito che può vivere con qualunque sistema elettorale: non ha bisogno del maggioritario per definire la propria identità. Per aver detto queste cose, che rappresentano peraltro un atto di fiducia verso il futuro del Pd, Dario Franceschini è stato bersaglio di critiche: per qualcuno in casa democratica l’implicita apertura a una riforma di tipo proporzionale è quasi una bestemmia (contro la religione del maggioritario, s’intende).
Nell’emergenza economica, parlare di legge elettorale può apparire un diversivo. Ovviamente, altre sono oggi le priorità. Tuttavia il tema è di grande rilievo. Almeno per due ragioni. La prima riguarda, appunto, la natura del Pd. Contestare le affermazioni di Franceschini vuol dire avventurarsi nel territorio più ostile al Pd, abbracciando di fatto la tesi in base alla quale la sua fondazione è figlia di uno stato di necessità, indotto dalla costrizione del maggioritario. Il Pd non sarebbe nato dunque da un incontro di culture riformatrici, o dal proposito di dare un orizzonte “democratico” al centrosinistra cresciuto con l’Ulivo, ma dalla gabbia maggioritaria imposta nella (fallita) transizione istituzionale. E, senza la gabbia, il Pd sarebbe destinato a disintegrarsi.
Peraltro, sostenere che il Pd possa vivere e affermarsi come la forza più rappresentativa dei progressisti italiani qualunque sia l’assetto del sistema (maggioritario, proporzionale o misto) è la convinzione originaria del progetto. La stessa “vocazione maggioritaria”, il tratto più significativo della stagione di Walter Veltroni, sarebbe fortemente ridimensionata in uno schema dove il maggioritario diventa una necessità: non a caso il Pd fu apprezzato come via d’uscita dalla confusione dell’Unione e ottenne un risultato lusinghiero (pur nella sconfitta) in uno schema di gioco molto simile al “modello tedesco”, con due competitori maggiori (Pd e Pdl) e due forze intermedie (l’Udc e la Sinistra).
Ma c’è un’altra ragione che milita a sostegno di Franceschini. Alla fine del ciclo berlusconiano è arrivata l’ora di sfatare i falsi miti della Seconda Repubblica. Bipolarismo e maggioritario non sono affatto sinonimi. Il bipolarismo è un concetto che appartiene alla politologia. Mentre invece il maggioritario è un meccanismo elettorale. Non è vero che la cosiddetta Seconda Repubblica ha portato il bipolarismo: è vero invece che il bipolarismo è stato presente sin dalle origini della nostra Repubblica. Solo che nei primi trent’anni non ha mai prodotto, per ragioni internazionali, una vera democrazia dell’alternanza.
Tanto è connaturato il bipolarismo alla politica italiana che la sua crisi strutturale, negli anni Ottanta (quando il Psi di Craxi tentò di sviluppare l’alternanza all’interno di una maggioranza bloccata), ha provocato il collasso del sistema. Con la Seconda Repubblica abbiamo conquistato la democrazia dell’alternanza. Ma il meccanismo maggioritario non ha mai davvero funzionato. Il mito dell’elezione diretta del premier si è sempre scontrato con i principi costituzionali. La promessa della semplificazione è stata contraddetta dalla moltiplicazione dei partiti e dal dilagare del trasformismo. Il Porcellum ha accentuato i difetti del Mattarellum, aggiungendo le liste bloccate al cancro del maggioritario di coalizione (il nostro surrogato presidenzialista dentro un sistema di governo parlamentare).
Speriamo che con il governo Monti si riesca ad uscire da questa condizione di inferiorità, che penalizza innanzitutto il Paese impedendo governi efficaci. Il Pd può andare al confronto molto laicamente. Non è fedele di alcuna religione del maggioritario. Probabilmente la soluzione migliore dovrà essere cercata in una formula mista, con una componente proporzionale significativa e con fattori di disproporzionalità che aiutino a formare, attorno al leader del primo partito, una coalizione efficace di governo. Speriamo che il radicamento territoriale degli eletti venga sancito da collegi uninominali maggioritari (che funzionano in Germania, come in Francia, come in Gran Bretagna).
Sarebbe bello infine se la coalizione di governo fosse incentivata a formarsi davanti agli elettori attraverso il doppio turno. Ma per il Pd neppure il turno unico è una minaccia esistenziale. La minaccia piuttosto è un’altra: è la logica perversa del maggioritario di coalizione (peraltro sconosciuta nei Paesi occidentali). Questa sì corroderebbe la struttura del Pd minandone l’autonomia e la credibilità. Il maggioritario di coalizione riporterebbe per forza d’inerzia il Pd all’Unione. Invece un bipolarismo sano può essere ricostruito attorno a due forze con vocazione maggioritaria, lasciando alle forze intermedie la libertà di organizzarsi e di coalizzarsi. Con alcuni paletti: soglia di sbarramento significativa e nessuna pretesa di imporre una leadership senza che il relativo partito abbia conquistato il primato dei consensi. Ancora un mito da sfatare: per stabilizzare i governi vale molto di più la sfiducia costruttiva che le balle raccontate per vent’anni sul premier eletto dal popolo e unto dal Signore.

l’Unità 28.11.11
Il Pd stacca il Pdl
Crescono Terzo Polo astenuti e incerti
Se si votasse oggi i Democratici col 28 per cento otterrebero 3 punti e mezzo in più del partito di Alfano. Il centrosinistra prevarrebbe nettamente
Le incognite riguardano le divisioni a sinistra e il dopo Berlusconi a destra
di Carlo Buttaroni


L’apprezzamento nei confronti del Capo dello Stato e del nuovo Presidente del Consiglio non frena la crisi di fiducia più generale verso il sistema politico. Il termometro del consenso ai partiti punta verso il basso, con una diminuzione dell’area della partecipazione elettorale e una contestuale crescita della quota di apatia politica che si traduce in incertezza e astensionismo.
Alle politiche del 2008 l’area del non voto era al 22,5, oggi la quota di chi dichiara che non voterebbe o è incerto è sopra il 36 percento.
Una dinamica che suona come un campanello d’allarme per i partiti impegnati a disegnare la nuova geografia politica del dopo-Berlusconi.
La ricerca Tecné sulle stime di voto e i flussi di consenso impone, quindi, una lettura dei dati diversa da quella tradizionale, non più nella direzione di chi guadagna voti, ma di chi è in grado di ridurre al minimo i consensi in uscita verso l’area dell’astensione.
La fotografia che emerge dalla curva del consenso, calcolata sul totale degli elettori, mette in evidenza, infatti, una calo di voti per entrambe le coalizioni rispetto al 2008 e una lieve crescita dei partiti che costituiscono il terzo polo. In particolare il centrodestra perde 16 punti rispetto alle politiche con un decremento costante e progressivo e con la punta più bassa registrata proprio nel mese di novembre 2011.
Il centrosinistra, al contrario, ha un andamento più stabile nel corso delle rilevazioni, con un massimo dei consensi a luglio (33,1%) e un minimo a novembre (29,5%), registrando un saldo negativo di circa 3 punti percentuali rispetto alle politiche 2008.
La coalizione di Casini, Fini e Rutelli cresce in consensi ma l’incremento si rileva meno consistente di quanto appaia a una prima lettura. I flussi evidenziano, infatti, che solo una minima parte dei voti in uscita dal Pdl si sposta verso il terzo polo – privilegiando Futuro e libertà – mentre la grande maggioranza degli ex elettori del partito di Berlusconi sceglie di astenersi.
Se si votasse oggi – sulla base delle percentuali di chi esprime il voto Il PD sarebbe il primo partito con il 28 percento, mentre il Pdl scenderebbe dal 37,4 del 2008 al 24,5.
Il centrosinistra vincerebbe le elezioni con un vantaggio di circa 13 punti rispetto al centrodestra, mentre il terzo polo, pur crescendo in termini relativi, si fermerebbe al 14 percento.
Ma proprio l’elevato numero d’incerti, e la tendenza ad astenersi che riguarda quasi quattro italiani su dieci, rende difficile qualsiasi previsione. Basta riflettere su questo dato: se chi dichiara l’astensione oggi rivotasse lo stesso partito del 2008, il Pdl sarebbe al 30,5 percento dei voti, il Pd al 28,5 percento e la differenza tra centrosinistra e centrodestra, da 13 punti, si ridurrebbe a 4,5.
Al momento il quadro elettorale somiglia molto, a parti invertite, a quella uscita dalle urne nelle elezioni politiche del ’94, con un’area centrista tra il 12 e il 14 percento alternativa alle due principali coalizioni. Ma oggi, probabilmente, né Fini, né Casini, né Rutelli pensano a una corsa solitaria. Molto dipenderà da come evolverà la crisi del Pdl nei prossimi mesi, perché è evidente che un ruolo forte di Berlusconi rende impossibile, o perlomeno difficilissima, qualsiasi ipotesi di alleanza tra centristi e Pdl. Nel caso, comunque, la Lega dorebbe stare alla finestra.
Per Casini e Rutelli, sul fronte opposto, il Pd rappresenta un interlocutore privilegiato, anche in virtù delle sincronie attivate condividendo i banchi dell’opposizione. Nel centrosinistra, però, ci sono le variabili Idv e Sel. Più facile risolvere la prima, quasi irrisolvibile la seconda, perché indebolirebbe la prospettiva di consolidamento del terzo polo in quell’area d’ispirazione cattolica che rappresenta la stella polare della neocoalizione centrista. D’altronde anche nel Pd c’è chi non vede bene l’alleanza con Casini, proprio per non rischiare di mettere in crisi i rapporti con Sel e Idv.
Mentre il terzo polo si prepara a una partita che si deve ancora giocare, a complicare il quadro politico ci sono le dissonanze all’interno del Pd.
Ormai è impossibile tracciare una mappa chiara delle posizioni e delle iniziative che si sovrappongono e contrappongono. E non passa giorno che qualche dirigente non polemizzi con qualcun altro. Fra rottamatori, conservatori, innovatori, riformatori, liberali, progressisti, tra chi guarda a sinistra e chi guarda al centro, il Pd sembra un partito di addetti al montaggio che dibattono continuamente su come dovrebbe essere, su quello che andrebbe fatto, sulle parole che andrebbero dette, sulle posizioni che andrebbero prese, perdendo di vista la concretezza dell’immanente. Scrive un esponente democratico sulla sua pagina Facebook: adesso che non c’è più Berlusconi nel Pd tira una brutta aria. Una battuta che fotografa una situazione e la dice lunga sul fatto che l’uscita di scena dell’ex Presidente del Consiglio impone una veloce riconfigurazione della sintassi politica. In questo momento, anche se il consenso gonfia le vele del partito di Bersani, i democratici appaiono più deboli dal punto di vista politico di quanto registrino i sondaggi, proprio a causa delle divisioni interne e – per la legge dei vasi comunicanti – il Pdl e il terzo polo più forti politicamente di quanto siano realmente dal punto di vista dei voti.
Senza dimenticare che la storia recente è presagio di cattive pratiche: l’ultimo Governo Prodi, nacque nel 2006 e cadde due anni dopo, lacerato dalle divisioni all’interno dei partiti.
Il centrosinistra ha l’occasione a breve, se sarà in grado di trasformare in voti il consenso potenziale che registrano i sondaggi, di tornare al governo del Paese. E’ evidente, però, che per riuscirci deve fare un salto in avanti, non solo dal punto di vista della proposta politica, ma anche nella costruzione di un’identità condivisa e nella capacità di comunicarla. Ed è proprio sotto quest’aspetto che i democratici giocano un ruolo fondamentale. Il centrosinistra può vincere solo con un Pd forte e unito, capace di interpretare, orientare e attrarre quote di società sempre più ampie. Ma il Pd, per completare la sua evoluzione, ha bisogno di percorrere l’ultimo miglio, perché l’uscita di scena di Berlusconi, di fatto, ha dissolto i perimetri dell’antiberlusconismo, che favorivano il consenso e l’unità sulla base di una semplice scelta di campo. E deve fare in fretta perché, ancora oggi, sembra immerso in un eterno congresso che dovrà definire, in un indefinito futuro, la linea politica e l’identità dei democratici.
Bersani, nella partita interna al Pd, è di mano, ma è evidente che non può giocare da solo e occorre una presa in carico di responsabilità da parte di tutto il gruppo dirigente, compreso quello territoriale. Nei prossimi mesi, per i democratici, passerà l’ultimo treno e per salirci il Pd dovrà essere più partito e più unito di quanto appaia ora. Di certo altri treni non passeranno.

Repubblica 28.11.11
I ragazzi e i generali
L’ultima sfida di piazza TahrirAl via la maratona elettorale nel più grande Paese arabo: oggi inizia il voto, a giugno la scelta del presidente. Ma la rivoluzione è tutt´altro che compiuta
di Bernardo Valli


Oggi l´Egitto va alle urne per la prima volta dalla caduta di Mubarak: sarà una maratona elettorale di sei mesi e i ragazzi della rivolta temono la truffa dei militari. La posta in gioco è alta, il futuro della democrazia: così i giovani cercheranno di non far morire la rivoluzione
In duecento giorni ci saranno quindici o più appuntamenti al voto. Troppi per l´elettorato
Gli oppositori disposti a credere nell´elezione promossa dal regime sono pochi
Per la maggioranza silenziosa i generali sono la spina dorsale della nazione

IL CAIRO Più che un voto è una maratona. Una marcia di resistenza destinata a durare più di sei mesi. Ci vorrà un bel fiato politico per arrivare a un risultato, a un traguardo democratico che non si riveli un miraggio. Ma questo voto egiziano, il cui svolgimento si annuncia impervio prima ancora dell´esito, deve essere seguito come la tappa di un lungo processo rivoluzionario. È un importante momento dell´irrisolto confronto tra le forze del rinnovamento e quelle della conservazione. La rivolta di gennaio non si è conclusa con l´avvenuta esautorazione del rais; se è riesplosa dieci mesi dopo è perché la posta in gioco è più profonda: è storica e culturale. Il vecchio regime, il sistema politico e sociale in vigore resiste agli assalti della rivoluzione. E le rivoluzioni hanno tragitti lunghi. È in questa prospettiva che va seguita la maratona elettorale che comincia stamane nel più grande paese arabo.
La conclusione è prevista in un ancora imprecisato giorno di giugno: quando, formatisi i due rami del parlamento, eletti separatamente, a distanza di due mesi, e ognuno in tre tempi (nove province per volta su ventisette), gli egiziani sceglieranno infine un presidente. Contando i ballottaggi e un paio di referendum, per approvare la Costituzione e forse per decidere sul potere dei militari, nell´arco di circa duecento giorni, ci saranno quindici o più appuntamenti elettorali.
Troppi, anche per un elettorato paziente come quello egiziano. Il voto è simultaneo alla rivoluzione di piazza Tahrir. Questa è la sua peculiarità. Quello di oggi riguarda la camera bassa, l´Assemblea del popolo, ed è limitato alle grandi città: il Cairo, Alessandria, Assiut, Porto Said. Le altre province andranno alle urne fino ai primi giorni di gennaio. La camera alta (Shura) sarà eletta tra gli ultimi giorni di gennaio e i primi di marzo. Poi ci saranno i referendum e l´elezione presidenziale. Alla vigilia del primo voto vado in piazza Tahrir, epicentro della rivoluzione. Alcune migliaia di cairoti assiepati danno l´impressione di un accampamento ancora insonnolito. Il sole non è abbastanza alto per riscaldare le sponde del Nilo. La piazza non si presenta come l´arena rivoluzionaria che ha messo in crisi un regime militare, cacciato un rais e gettato il panico tra monarchi ed emiri del mondo arabo. Una piazza dove sono stati uccisi negli ultimi giorni quarantun giovani e feriti almeno un migliaio. E dove hanno perduto la vista decine di manifestanti investiti dai gas nervini.
L´aria di smobilitazione non deve ingannare. La folla riempie la piazza, fino a traboccare nei quartieri vicini, a investire i palazzi del governo e a paralizzare il Lungonilo, nei momenti di tensione. Lo stesso accade ad Alessandria, a Porto Said, ad Assiut. Gli irriducibili di piazza Tahrir in quelle occasioni attirano masse di egiziani di tutte le classi sociali: dagli operai ai professionisti, dagli studenti ai disoccupati. Di primo mattino, in un giorno che non sembra riservare sorprese, senza collera e repressione, a poche ore dal voto, ho l´impressione di essere in una numerosa adunata di anarchici sobri e taciturni. Niente simboli di partito, niente ritratti di leader, niente palchi per gli eventuali oratori.
I giovani disposti a credere nell´elezione ininterrotta promossa dai generali sono pochi. Molti la giudicano una trappola, una specie di terapia di massa tesa a sfiancare la rivolta e a riportare l´ordine nel paese grazie alla guida dei militari. Dopo una notte passata in un sacco a pelo, Wael Abu Hamad, 25 anni, dei quali tre in Inghilterra a studiare economia, dice senza esitare: «È una truffa». Un imbroglio ben programmato perché, anche per la sua durata, l´elezione sarà facilmente truccata. E i generali cercheranno di dimostrare al mondo che loro sono capaci di organizzare libere elezioni. Lui, Wael, pur essendo indignato, pur denunciando la manovra subdola dei militari, andrà comunque a votare. Ma poi ritornerà in piazza Tahrir per mantenere accesa «la fiamma della rivoluzione». E con gli irriducibili denuncerà gli imbrogli e promuoverà manifestazioni che smaschereranno il regime.
Ci si perde volentieri tra gli abitanti del grande accampamento di piazza Tahrir. Si esprimono con chiarezza e i loro discorsi sono maturati rispetto a quelli di gennaio. Dieci mesi dopo non si limitano ad esigere che i militari abbandonino il potere. La loro protesta implica una profonda riforma del sistema politico e sociale. Gli obiettivi immediati sono la destituzione del maresciallo Tantawi, ex braccio destro di Hosni Mubarak e adesso capo della giunta militare (il Consiglio superiore delle Forze armate), e il rifiuto del primo ministro da lui designato, il vecchio economista Kamal el Ganzuri, ex capo del governo pure lui di Mubarak. Ma c´è anche l´obiettivo più ampio di riformare la società dominata dalla classe militare, una casta formatasi nei decenni, che invade tutte le attività più importanti della vita nazionale: dall´economia all´industria alla stessa giustizia, affidata in larga parte ai suoi tribunali.
I militari hanno destituito in febbraio il loro capo, Hosni Mubarak, adesso imputato, con i figli e una manciata di complici civili, in un processo che sembra impantanato, ma è come se avessero gettato fuori bordo una zavorra, pensando di poter cosi salvare l´essenziale del regime. Vale a dire se stessi. Raccolti nel Consiglio supremo delle Forze armate, composto da una ventina di generali, si sono sostituiti al capo dello Stato. Una specie di presidenza collettiva, contestata, vilipesa, e tuttavia dotata di tutti gli strumenti di un regime autoritario: i mukabarat, i poliziotti (numerosi come gli scarafaggi, dice il giovane Wael di piazza Tahrir), continuano a tenere sotto sorveglianza il paese, come un tempo.
I generali reprimono e poi si scusano. Annunciano che si ritireranno dal potere politico ma chiedono garanzie per conservare i loro privilegi, anche quelli politici. E hanno programmato la maratona elettorale, destinata a rinnovare le istituzioni e la stessa Costituzione, ma non hanno nascosto l´intenzione di collocarsi al di sopra della Costituzione (suggerendo che il paese approvi questo singolare privilegio con un referendum). Hanno altresì chiesto che il loro bilancio rimanga segreto. Quest´ultima esigenza sarebbe giustificata dal ruolo decisivo che le forze armate egiziane hanno in Medio Oriente. Esse sono garanti degli accordi di Camp David (1979), su cui si basano i rapporti tra Egitto e Israele, e di riflesso quelli con gli Stati Uniti. I quali danno ogni anno un miliardo e trecento milioni di dollari all´esercito del Cairo. Un aiuto secondo soltanto a quello elargito all´esercito israeliano. Il recente richiamo della Casa Bianca, che ha invitato con toni asciutti i militari egiziani a trasferire i poteri ai civili, deve avere preoccupato i generali. Anche se essi sanno di essere interlocutori indispensabili alla super potenza, per quel che riguarda la pace mediorientale.
Per la maggioranza silenziosa egiziana i militari sono la spina dorsale del paese. La loro forza risiede in quella larga parte della popolazione. I rivoluzionari di piazza Tahrir raccolgono l´adesione della società civile, di una qualificata parte della popolazione urbana, ma l´Egitto rurale, prigioniero delle tradizioni e dei richiami religiosi, non ha le stesse reazioni. La principale formazione politica, il Partito della Libertà e della Giustizia, emanazione della Confraternita dei Fratelli Musulmani, dopo avere partecipato alle grandi manifestazioni di protesta di piazza Tahrir, ha assunto una posizione molto più moderata, e in definitiva tollerante se non sottomessa, nei confronti dei militari. Sui quali conta per far rispettare l´inevitabile successo elettorale dei Fratelli musulmani.
L´"alleanza per la continuità della rivoluzione", in cui sono raccolti i partiti di sinistra e i musulmani progressisti, oltre a non pochi cristiani copti, rifiuta il confronto tra laici e musulmani che ha prevalso nella campagna elettorale degli altri partiti, e pone soprattutto il problema della giustizia sociale e del potere dei militari. Ma pur essendo uno dei motori della protesta, può difficilmente concorrere con i Fratelli Musulmani e con la maggioranza silenziosa, in cui sono annidati anche i partiti nostalgici di Mubarak. La maratona elettorale è quindi al tempo stesso un essenziale esercizio democratico e un´abile operazione dei militari. In essa possono infatti dissolversi, sia pur per breve tempo, le forze rivoluzionarie di piazza Tahrir.

Repubblica 28.11.11
È arrivato il gran giorno ma senza le trombe del giudizio
di Niccolò Ammaniti


"Dio ha tolto a tutti gli uomini l´anestetico che ti permette di vivere senza soffrire e di divertirti. Come se fossimo torturati 24 ore al giorno"
"Alla Asl distribuiscono gratis ogni tipo di droga, pure l´oppio ma non serve a niente Che strano, nessuno aveva pensato a questa punizione"
L´anticipazione/ Niccolò Ammaniti descrive la "sua" fine del mondo nel racconto sul prossimo numero di "Wired"
"Non ci sono stati terremoti e piogge di meteoriti. Mi sono svegliato e tutto mi faceva male"

Cara Franci, ti scrivo innanzitutto per sapere come stai tu e come sta Eric e i vostri figli meravigliosi. E poi volevo sapere se pure in Australia è arrivata l´apocalisse. Manu dice che non è detto che sia arrivata pure laggiù, voi siete in un altro emisfero e che l´Australia è un paese abbastanza vergine e che la gente lì non può aver commesso lo stesso numero di peccati che qui.
Secondo me è una stronzata. Non ci può essere una apocalisse a metà, solo mezzo mondo. E poi alla televisione dicevano che era un problema globale. Ma vatti a fidare. Comunque spero tanto che a voi non sia arrivata e abbia ragione Manu. Comunque io e Manu continuiamo a litigare nonostante l´apocalisse. Da un paio di anni non si parlava altro che di questa benedetta apocalisse che sarebbe arrivata e saremmo morti tutti. Soprattutto gli esperti, in televisione, avevano ognuno una ricetta su come sarebbe avvenuto. In tanti concordavano su sta storia della Bibbia dei cavalli colorati.
La conosci? L´Anticristo arriva sopra un cavallo bianco ad annunciare la fine della terra. Poi arriva un cavallo rosso che fa scoppiare una guerra totale su tutta la terra tra tutti i paesi. Poi un cavallo nero che porta fame e carestia e anche in conseguenza della guerra. E per finire un cavallo giallo, dopo 21 mesi, quando un quarto della popolazione è morta. Di questi cavalli non c´è stata traccia, o almeno, qua da noi, a Pistoia, non si sono visti. E non ci sono stati nemmeno terremoti e piogge di meteoriti e rane. Però l´apocalisse c´è stata. È arrivata così, il tre di Marzo, in una giornata nuvolosa, senza trombe del giudizio ad annunciarla. Mi sono svegliato la mattina e ho scoperto che mi faceva male tutto. Qualsiasi parte del corpo. Ogni movimento, anche solo piegare un dito mi faceva male. Persino sbattere le palpebre fa male. Un dolore costante che non mi ha abbandonato più. Tutti, dai vecchi ai bambini, uomini e donne, nessuno risparmiato. Camminare è quasi impossibile senza urlare. È difficile da spiegare. Ma qualsiasi processo biologico produce dolore. Pure la crescita della barba, dei capelli e delle unghie. I denti sono tutti irritati. Digerire poi ti lascia praticamente senza fiato, cominci a piangere. E a livello microscopico, anche la divisione cellulare fa male. Dio ha tolto a tutti gli uomini l´anestetico che ti permette di vivere senza soffrire e di divertiti, di campare in santa pace.
Sai quella storia delle endorfine che vengono prodotte dal nostro cervello per farci stare meglio? Ho capito che i tessuti, le cellule, il sangue stesso soffre per esistere e che Dio (e pensare che io non credevo) aveva infuso insieme alla carne sostanze anestetiche che ora, per punirci, ci ha tolto. Non abbiamo più niente che ci protegge e ogni secondo di vita è un martirio. Come se fossimo torturati ventiquattro ore al giorno senza pause. Scopare, scusa se mi esprimo così, è praticamente impossibile. L´altro ieri ho avuto un´erezione e per poco non sono svenuto a terra. Di eiaculare non se ne parla. Non vedo come si riuscirà a fare figli. E le donne incinte sono quelle che soffrono di più, tutte abortiscono in preda a spasmi lancinanti.
Detto ciò, non la voglio buttare sul drammatico esagerato, forse passerà. Forse il Padreterno ci sta mettendo alla prova con questa punizione ma poi ci rifonderà questa droga naturale, la felicità che rendeva la vita degna di essere vissuta. I medici non sanno che fare. Le droghe non funzionano. Alla ASL (azienda sanitaria locale) distribuiscono gratis ogni tipo di droga e anestetico, pure l´eroina e l´oppio. Ma non serve a niente. Che strano, nessuno aveva pensato a questa punizione. Era la peggiore di tutte. Tutti a parlare di punizioni assurde. Ora però pure parlare è impossibile. Le corde vocali le usiamo oramai solo per lamentarci. Ora devo smettere di scrivere, la mano mi si sta paralizzando e gli occhi mi si appannano, anche guardare fa male. Di là il piccolo Ettore non smette di piangere da un mese e Manu quando lo allatta deve stringere una pezza tra i denti per non implorare pietà.
Spero tanto che lì da voi non sia così. Se a voi non è successo, dovete pensare che la vita che vivete è meravigliosa, gustatene ogni secondo, respirate a pieni polmoni, correte, baciatevi, fate l´amore, godete il fatto di vivere liberi dal male. Franci ti voglio tanto bene. Ah, non ti ho detto che ogni battito del cuore è una fitta che mi strappa un sottile lamento.
tuo, Filippo.

Corriere della Sera 28.11.11
Se sette italiani su dieci non capiscono la lingua
De Mauro: cresce l'analfabetismo di ritorno
di Paolo Di Stefano


«Voi sapete che, quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto...». Così Luigi Settembrini ricordava quanto conti la lingua nell'identità e nella coesione di un popolo. Purtroppo, se oggi si dovesse giudicare dal livello di padronanza dell'italiano il grado di attaccamento alla nazione, saremmo davvero messi molto male. La salute della nostra lingua, infatti, sembra piuttosto allarmante, almeno a giudicare dai dati che Tullio De Mauro ha illustrato ieri a Firenze, durante un convegno del Consiglio regionale toscano intitolato «Leggere e sapere: la scuola degli Italiani».
Tra i numeri evocati da De Mauro e fondati su ricerche internazionali, ce ne sono alcuni particolarmente impressionanti: per esempio, quel 71 per cento della popolazione italiana che si trova al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà. Al che corrisponde un misero 20 per cento che possiede le competenze minime «per orientarsi e risolvere, attraverso l'uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana». Basterebbero queste due percentuali per far scattare l'emergenza sociale. Perché di vera emergenza sociale si tratta, visto che il dominio della propria (sottolineato propria) lingua è un presupposto indispensabile per lo sviluppo culturale ed economico dell'individuo e della collettività.
Fu lo stesso Tullio De Mauro quasi cinquant'anni fa, in un libro diventato un classico, Storia linguistica dell'Italia unita, a segnalare il contributo non solo della scuola ma anche della televisione nell'apprendimento di una lingua media che superasse la frammentazione dialettale. Si assisteva in quegli anni al declino del dialetto e contemporaneamente al trionfo di quell'italiano popolare unitario che avrebbe portato, secondo le previsioni dei linguisti, a un innalzamento delle conoscenze linguistiche in parallelo con il progresso economico, culturale e civile. Nel 1973, Pier Paolo Pasolini aprì una discussione: il tramonto del dialetto equivaleva per lui all'abbandono dell'età dell'innocenza e all'entrata nella civiltà dei consumi e nell'età della corruzione. Gli fu risposto che la conquista dell'italiano da parte delle classi subalterne, come si diceva allora, era piuttosto la premessa e la promessa della loro promozione sociale.
Oggi, a quarant'anni da quelle accesissime polemiche tra apocalittici e integrati, tra nostalgici delle parlate locali e fautori delle magnifiche sorti e progressive, sembrano tutti sconfitti di fronte al pauroso ristagno economico, culturale e linguistico. L'allarme lanciato da De Mauro chiama in causa anche il nuovo governo, che finora, ha detto lo studioso, «sembra aver dimenticato l'istruzione». Istruzione e scuola sono i due concetti chiave. Se nel dopoguerra, fino agli anni Novanta, il livello di scolarità è cresciuto fino a una media di dodici anni di frequenza scolastica per ogni cittadino (nel '51 eravamo a tre anni a testa), oggi si registra, con il record di abbandoni scolastici, un incremento pauroso del cosiddetto analfabetismo di ritorno, favorito anche dalla dipendenza televisiva e tecnologica. Non deve dunque stupire che il 33 per cento degli italiani, pur sapendo leggere, riesca a decifrare soltanto testi elementari, e che persista un 5 per cento incapace di decodificare qualsivoglia lettera e cifra. Del resto, pare che la conoscenza delle strutture grammaticali e sintattiche sia pressoché assente persino presso i nostri studenti universitari, che per quanto riguarda le competenze linguistiche si collocano ai gradini più bassi delle classifiche europee (come avviene per le nozioni matematiche).
Non bisognerebbe mai dimenticare che la conoscenza della lingua madre è il fondamento per lo studio delle altre discipline scolastiche e delle altre lingue (inglese compreso), così come è alla base della capacità di orientarsi nella società e di farsi valere nel mondo del lavoro. Sembrano constatazione banali, ma non lo sono affatto in un contesto in cui l'insegnamento dell'italiano nelle scuole soccombe all'anglofilia diffusa e la lettura, sul piano sociale, è nettamente sacrificata rispetto all'approccio visivo, comportando vere mutazioni psichico-cognitive. Se ciò risulta vero, non è eccessivo affermare che l'emergenza culturale, nel nostro Paese, dovrebbe preoccupare almeno quanto quella economica.

Repubblica 28.11.11
Il maestro, che ieri a Roma ha diretto il Macbeth, non fa nomi, accusa e precisa: io pago le tasse qui
L’ira di Muti sui colleghi evasori "Vivono fuori e sputano sull´Italia"
Molti, direttori, registi e cantanti, non hanno la residenza in Italia. Ma non sopporto che poi polemizzino
di Luisa Grion


ROMA - Troppo facile e troppo scorretto lanciare il sasso e nascondere la mano, criticare le mancanze dell´Italia, polemizzare con i suoi vertici politici e le sue istituzioni, ma non versare un euro di tasse nelle casse dello Stato. Fra i «vip», uomini e donne, dello spettacolo e dello sport ce ne sono diversi che - pur di pagare meno imposte - decidono di trasferire la residenza all´estero, verso regimi fiscali più favorevoli. Anche se nei fatti vivono in Italia, sfruttando servizi che non contribuiscono a finanziare.
Ed è a loro che, pur senza fare nomi, ha pensato ieri il maestro Riccardo Muti prima di inaugurare la stagione dell´Opera di Roma con il «Macbeth», dramma shakespeariano sulla tirannide che cade grazie all´eroismo del popolo insorto. Mancavano poche ore al debutto quando il maestro, ai microfoni di Radio 24 ha tuonato contro i «furbi». Un´accusa precisa e che non lascia scampo: «Ho la residenza in Italia e so che molti miei colleghi, direttori, registi e cantanti, non hanno la residenza qui» ha detto. «E´ una loro scelta e ognuno è libero di fare quello che vuole. Però non sopporto chi poi polemizza contro la politica e i ministri: non si può tenere la residenza fuori e poi sputare sul proprio paese». Muti è appena stato premiato con il «Paolo Borsellino, eroe italiano» che gli è stato conferito per «gli altissimi meriti artistici e morali»: «E´ chiaro che questo premio sarà tassato - ha detto il maestro - ma sono comunque contento di avere la residenza fiscale qui».
Eppure sono in tanti Italia, paese di grandi evasori, a non pensarla come lui. Si susseguono gli appelli, ma la cattiva abitudine non muore. Le cronache giudiziarie sono gonfie delle storie di «vip» richiamati dal fisco a saldare i debiti dalle loro paradisiache residenze fiscali. Va detto che spesso si tratta di personaggi che i conti con l´Agenzia delle Entrate li hanno subito regolati, ma l´elenco delle pendenze - fra artisti e sportivi - è davvero molto lungo. Per restare nell´ambito dell´opera ebbe problemi fiscali, conclusi poi con un patteggiamento, il grande tenore Luciano Pavarotti. Qualche guaio, sempre per restare in tema, lo sta passando anche la soprano Mirella Freni, indagata nei giorni scorsi dalla Procura di Bologna non per evasione, ma per esportazione di valuta all´estero nell´ambito dell´inchiesta sulla banca Ber. La soprano ha respinto la tesi e ha già chiesto di essere convocata dalla Finanza per chiarire la sua posizione.
Passando dalla classica al pop, pochi giorni fa anche a Tiziano Ferro sarebbe stata contestata la residenza a Londra, l´effettiva presenza in Italia e una evasione di imposte per 5 milioni di euro fra sanzioni e interessi. Sempre per essersi dichiarato cittadino londinese ebbe i suoi guai la star della moto Valentino Rossi, che patteggiò nel 2008. Ancor prima, nel 2000 a patteggiare con il fisco fu il campione di sci Alberto Tomba. Una lista lunghissima, quella dei «vip» con cattivi rapporti con il fisco: va dagli artisti agli sportivi, senza trascurare le star della moda. La scorsa settimana la Cassazione ha annullato l´ordinanza con cui, ad aprile, gli stilisti Dolce e Gabbana erano stati prosciolti dall´accusa di evasione fiscale.

l’Unità 28.11.11
I dannati di Herzog
Into the Abyss il nuovo lavoro del regista tedesco arriva al Torino Film Festival. È un resoconto di un brutale omidicio ma anche un viaggio negli abissi dell’animo. Un film di una forza potente e oscura, tra i suoi più belli
di Alberto Crespi


Forse A sangue freddo ha trovato un degno erede. Ci riferiamo al celebre romanzo/reportage di Truman Capote, nonché all’omonimo film di Richard Brooks (1967). Il resoconto di un brutale omicidio che era anche un viaggio negli abissi dell’animo umano. Il nuovo film di Werner Herzog si intitola Into the Abyss, «dentro l’abisso». Vedendolo – al Torino Film Festival – si ha veramente l’impressione di scrutare dentro una voragine di dolore e di solitudine.
È un documentario, ma quando c’è in ballo il grande tedesco la distinzione si fa sfumata. Da anni Herzog ha trovato nelle storie autentiche lo strumento migliore per proseguire la sua indagine cinematografica nella follia umana. I capolavori, in questo senso, rimangono Apocalisse nel deserto – sulla prima guerra in Iraq – e Grizzly Man. Per Into the Abyss, Herzog ci porta in Texas, sulle tracce di un triplice omicidio commesso nel 2001 da due ragazzi, Michael Perry e Jason Burkett. I due uccisero la signora Sandra Stotler per rubarle la macchina, e altri due giovani – un figlio della Stotler e un suo amico – per impossessarsi del telecomando del cancello dal quale dovevano fuggire con l’auto rubata. Perry è stato giustiziato con l’iniezione letale nel 2010, Burkett è condannato all’ergastolo. Herzog li ha intervistati entrambi in carcere, e naturalmente il colloquio con Perry è toccante, perché avviene 8 giorni prima dell’esecuzione. Entrambi i ragazzi hanno sempre giurato di essere innocenti, anche se il loro coinvolgimento nel crimine appare indiscutibile. Al regista, la verità giudiziaria interessa relativamente: «I crimini di cui si sono macchiati le persone nel mio film sono mostruosi, ma non sono mostri coloro che li hanno commessi. Sono uomini e per questo li tratto con rispetto».
LE VITTIME DI HUNTSVILLE
In realtà, Into the Abyss non è l’intervista con due assassini (non reo-confessi). È molto, molto di più. Herzog incontra anche il padre di Burkett (come lui in galera, per una serie infinita di reati), la moglie che l’ha sposato in carcere ed ora è incinta pur non avendo mai potuto nemmeno toccarlo (come sia successo, è un «mistero» su cui Herzog e la signora glissano con ironia), i parenti delle vittime e alcuni testimoni neutrali, come l’ex direttore del carcere di Huntsville dove lo stato del Texas macella le sue vittime e il cappellano che si occupa della salvezza delle loro anime e della sepoltura dei loro corpi. Grazie a lui scopriamo che, quando un condannato a morte non ha parenti che reclamino la salma (accade spesso), viene sepolto a Huntsville in un agghiacciante cimitero dove sulle croci ci sono solo numeri: una contabilità del massacro che fa pensare, absit iniuria, ad altre stragi altrettanto pianificate...
È un film incredibile, Into the Abyss. Di una forza potente ed oscura, fra i più belli nella carriera di Herzog. Per la cronaca il sito www.savemichaelperry.info è ancora attivo, dategli un’occhiata. Dopo averlo visto, essere a favore della pena di morte è un po’ più difficile.