giovedì 16 giugno 2011

l’Unità 16.6.11
Secondo livello
di Concita De Gregorio


Quando più di un anno fa, nel mese di maggio del 2010, chiesi da queste colonne cosa ci facesse un tipo come Luigi Bisignani nelle stanze di palazzo Grazioli, ospite fisso munito di ogni comfort tecnologico e non solo, e quale ruolo esattamente avesse nello staff del Presidente del Consiglio ricevetti la mattina dopo, molto presto, quattro telefonate. Una era di un ex direttore di giornale che si congratulava, mi disse, per “aver avuto il coraggio di mettere il dito nella piaga”. Un’altra di una collega celebre e sempreverde, fonte occulta e abituale di un sito di regolamenti di conti, uno di quei posti on line dove chiunque fa sapere quel che non può dire in modo da poterlo poi “riprendere” come se fosse una notizia: chiedeva se ne sapessi di più. La terza di un parlamentare di lunghissimo corso di area una volta andreottiana. L’ultima, la più importante, direttamente da palazzo Grazioli via centralino del Viminale, la Batteria. “Mia cara signora mi disse costui per la stima che ho di lei mi permetto di metterla in guardia da eventuali errori. Non vorrei davvero che avesse a dolersene. Lei sa meglio di me quanto certi terreni siano insidiosi e fitti di trappole. Stia attenta a non farsi strumentalizzare, a non dar credito a voci denigratorie e interessate. Sarebbe un peccato: dovremmo fare a meno di una voce che è così importante, invece, nel nostro panorama”. Credo che non vi sfugga il sottotesto muto. Tempo dopo di Bisignani hanno cominciato a parlare in molti. Se cercate in rete trovate articoli dettagliatissimi che raccontano la sua storia e le sue amicizie. Da Licio Gelli, lo scopritore del suo talento, ai Ferruzzi e Tavaroli passando per lo Ior e quella celebre volta in cui fece transitare le tangenti Enimont su un conto corrente destinato ad un’associazione di bambini poveri. Trovate anche qualche nota di colore, come si dice in gergo: che sia stato legato da affettuosissima amicizia a Daniela Santanchè e in quanto tale sponsor della sua fulminea carriera, che sia una delle principali fonti (un’altra era il non da tutti compianto Francesco Cossiga) del sito Dagospia, quella pagina internet dove una compagnia di giro fa circolare allo stesso livello facezie e carte sporche, veline e foto di salotti in uno spaccato del Paese per nostra fortuna lontanissimo da quello che si è espresso nel voto di maggio e giugno, un paese di loschi potenti e affari di pochi esattamente quello che da qualche giorno sembra vecchio di trent’anni. Mummie, pterodattili. Pericolosissimi, certo, ma preistorici e destinati alla polvere. E’ questo l’effetto che fanno, del resto, certi dibattiti tv e certe riflessioni lette in queste ore: è come se in una settimana fossero passati dieci anni, come se da ieri a oggi tutto il resto fosse diventato in bianco e nero.
Certo prima o dopo sapremo con certezza dalle carte giudiziarie e dai processi in quale oscura trama fosse coinvolta la cosiddetta P4, la loggia di affaristi e facilitatori di negozi di cui Bisignani è accusato di far parte. Sentiremo tremare i vetri dei palazzi, se è vero e non ne dubito quel che mi diceva il mio quarto interlocutore. Aspettiamoci palate di fango, e forse peggio. Resta il fatto che il secondo livello di questa nuova impresa collettiva, quella culminata con il voto di 27 milioni di cittadini, è spazzare via le cricche, le mafie, le corruttele. Un’impresa titanica perchè il paese ne è infiltrato a tutti i livelli e a tutte le latitudini politiche, leggete le cronache di oggi. La corruzione è il cancro di questo sistema: lo dicevo l’altro giorno al ministro Fitto ricevendone in cambio insulti, eppure non facevo che ripetere le ultime parole da governatore di Mario Draghi. Non ci sarà crescita senza legalità. Non ci sarà lavoro nè futuro per i giovani che sono andati domenica alle urne finchè le leve del comando saranno nelle mani delle eminenze nere. Quelle che hanno l’ufficio a Palazzo Grazioli, per esempio, e nessuno ci ha ancora spiegato per fare che cosa, per conto di chi.

Repubblica 16.6.11
Una vittoria che viene da lontano
di Stefano Rodotà


Tutto è cominciato poco più di un anno fa, quando la raccolta delle sottoscrizioni per i referendum sull´acqua come bene comune s´impennò fino a raggiungere il picco di un milione e quattrocentomila firme, record nella storia referendaria. Pochi si accorsero di quel che stava accadendo. Molti liquidarono quel fatto come una bizzarria di qualche professore e di uno di quei gruppi di "agitatori" che periodicamente compaiono sulla scena pubblica. O lo considerarono come un inciampo, un fastidio di cui bisognava liberarsi. Basta dare un´occhiata ai giornali di quei mesi.
E invece stava succedendo qualcosa di nuovo. Il travolgente successo nella raccolta delle firme era certamente il frutto di un lavoro da tempo cominciato da alcuni gruppi. In quel momento, però, incontrava una società che cambiava nel profondo, dove l´antipolitica cominciava a rovesciarsi in una rinnovata attenzione per la politica, per un´altra politica. Ai referendum sull´acqua si affiancarono quelli sul nucleare e sul legittimo impedimento. Nasceva così un´altra agenda politica, alla quale, di nuovo, non veniva riservata l´attenzione necessaria.
Mentre i referendari lavoravano per blindare giuridicamente i quesiti e farli dichiarare ammissibili dalla Corte costituzionale, le dinamiche sociali trovavano le loro strade, anzi le loro piazze. Sì, le piazze, perché tra l´autunno e l´inverno questi sono stati i luoghi dove i cittadini hanno ritrovato la loro voce e la loro presenza collettiva. Le donne, le ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori, il mondo della scuola e della cultura hanno creato una lunga catena che univa luoghi diversi, che si distendeva nel tempo, che faceva crescere consenso sociale intorno a temi veri, nei quali si riconosceva un numero sempre maggiore di persone - il lavoro, la conoscenza, i beni comuni, i diritti fondamentali, la dignità di tutti, il rifiuto del mondo ridotto a merce.
Le piazze italiane prima di quelle che simboleggiano il cambiamento nel nord dell´Africa? Le reti sociali, Facebook e Twitter come motori delle mobilitazioni anche in Italia? Proprio questo è avvenuto, segno evidente di un rinnovamento dei modi della politica che non può essere inteso con le categorie tradizionali, che sfida le oligarchie, che rende inservibile la discussione da talk show televisivo. Forse è frettoloso parlare di un nuovo soggetto politico per una realtà frastagliata e mobile. Ma siamo sicuramente al di là di quei "ceti medi riflessivi" che segnarono un´altra stagione della società civile. Di fronte a noi sta un movimento che si dirama in tutta la società, prensile, capace di costruire una agenda politica e di imporla
Mentre tutto questo avveniva, le incomprensioni rimanevano tenaci. Patetici ci appaiono oggi i virtuosi appelli contro il "movimentismo", provenienti anche da persone e ambienti dell´opposizione, che oggi dovrebbe riflettere seriamente sulla realtà rivelata dalle elezioni amministrative e dai referendum invece di insistere nella ricerca di categorie astratte - il centro, i moderati. E se la maggioranza vuol cercare le radici della sua sconfitta, deve cercarle proprio nell´incapacità totale d´intendere il cambiamento, con un Presidente del consiglio che ci parlava di piazze piene di fannulloni, una ministra dell´Istruzione che non ha incontrato neppure uno studente, una maggioranza che pensava di domare il nuovo con la prepotente disinformazione del sistema televisivo.
Guardiamo alle novità, allora, e alle prospettive e ai problemi che abbiamo di fronte. Il voto di domenica e lunedì ha restituito agli italiani un istituto fondamentale della democrazia - il referendum, appunto. Ma ci dice anche che bisogna eliminare due anomalie che continuano a inquinarne il funzionamento. È indispensabile riscrivere la demagogica legge sul voto degli italiani all´estero, fonte di distorsioni, se non di vere e proprie manipolazione. È indispensabile ridurre almeno il quorum per la validità dei referendum. Pensato come strumento per evitare che l´abrogazione delle leggi finisse nelle mani di minoranze non rappresentative, il quorum ha finito con il divenire il mezzo attraverso il quale si cerca di utilizzare l´astensione per negare il diritto dei cittadini di agire come "legislatore negativo". Si svilisce così anche la virtù del referendum come promotore di discussione democratica su grandi questioni di interesse comune.
Ma il punto cruciale è rappresentato dal fatto che ai cittadini è stato chiesto di esprimersi su temi veri, che liberano la politica dallo sguardo corto, dal brevissimo periodo, e la obbligano finalmente a fare i conti con il futuro, con una idea di società, con il rinnovamento delle stesse categorie culturali. Un´altra agenda politica, dunque, che dà evidenza all´importanza dei principi, al rapporto nuovo e diverso tra le persone e il mondo che le circonda, all´uso dei beni necessari a garantire i diritti fondamentali di ognuno. La regressione culturale sembra arrestata, il risultati delle amministrative e dei referendum ci dicono che un´altra cultura politica è possibile.
Il voto sul nucleare non ipoteca negativamente il futuro dell´Italia. Al contrario, impone finalmente una seria discussione sul piano energetico, fino a ieri elusa proprio attraverso la cortina fumogena del ritorno alla costruzione di centrali nucleari. Il voto sul legittimo impedimento ci parla di legalità e di eguaglianza, esattamente il contrario della pratica politica di questi anni, fondata sul privilegio e il rifiuto delle regole. Il voto sull´acqua porta anche in Italia un tema che percorre l´intero mondo, quello dei beni comuni, e così parla di un´altra idea di "pubblico". Proprio intorno a quest´ultimo referendum si è registrato il massimo di disinformazione e di malafede. Si è ignorato quel che da decenni la cultura giuridica e quella economica mettono in evidenza, e cioè che la qualificazione di un bene come pubblico o privato non dipende dall´etichetta che gli viene appiccicata, ma da chi esercita il vero potere di gestione. Si sono imbrogliate le carte per quanto riguarda la gestione economica del bene, identificandola con il profitto. Si sono ignorate le dinamiche del controllo diffuso, garanzia contro pratiche clientelari, che possono essere sventate proprio dalla presenza dei nuovi soggetti collettivi emersi in questa fase.
Quell´agenda politica deve ora essere attuata ed integrata. È tempo di mettere mano ad una radicale riforma dei beni pubblici, per la quale già esistono in Parlamento proposte di legge. E bisogna guardare ad altre piazze. Quelle che affrontano il tema del lavoro partendo dal reddito universale di base. Quelle che ricordano che le persone omosessuale attendono almeno il riconoscimento delle loro unioni: un diritto fondamentale affermato nel 2009 dalla Corte costituzionale e che un Parlamento distratto e inadempiente non ha ancora tradotto in legge, com´è suo dovere.
La fuga dai referendum non è riuscita. Guai se, dopo un risultato così straordinario, qualcuno pensasse ad una fuga dai compiti e dalle responsabilità che milioni di elettori hanno indicato con assoluta chiarezza.

Repubblica Roma 16.6.11
Referendum, finalmente il risveglio dal lungo incubo della politica-spot
di Ascanio Celestini


Il partito è un logo, un marchio non differente da quello stampato sulle scarpe da tennis. E io sono stato cliente delle scarpe con la falce e il martello, tu di quelle col fascio littorio, lui delle altre con lo scudo crociato.
Poi le aziende hanno rinnovato l´estetica e quei simboli sono stati sostituiti da altri, la pubblicità è aumentata, ha chiuso col porta-a-porta, s´è servita dei grandi mezzi di comunicazione di massa e per vendere ha puntato sui testimonial. I partiti si sono personalizzati e accanto al logo hanno scritto anche il nome della star che lo promuove. I politici stessi sono diventati attori e ballerine, cantanti e barzellettieri. Ci hanno messo la faccia e i giornalisti si sono interessati a quella. Gli hanno messo le dita nel naso, gli hanno contato i capelli e ridisegnato le rughe. E loro, le star, se le sono stirate, hanno raddrizzato il naso e ripiantato i capelli. Per mostrarsi meglio sono diventati mostruosi e ne è venuta fuori una storia di fantascienza, forse un horror.
Poi un giorno ci siamo svegliati e abbiamo capito che era solo marketing. Abbiamo ricominciato a distinguere tra la dialettica politica e i consigli per gli acquisti, e ogni volta che ci capita scegliamo la prima. Non so se è successo questo a Milano e a Napoli, ma sicuramente è quello che ci è accaduto in questo faticoso giro di referendum. Anche qui qualcuno ha provato ad interrompere la festa con uno spot.
Molti hanno cambiato idea in corsa come un´azienda che sostituisce una musichetta per conquistare un nuovo target. Ma non hanno capito che la pubblicità dura pochi secondi, che anche una bella fotografia sul giornale di oggi, tra ventiquattr´ore diventa un pezzo di carta qualsiasi da buttare al secchio. Invece la storia di questo referendum è iniziata da molti anni, è passata per le lotte territoriali in Val di Susa e Vicenza, nelle scuole distrutte dalle pseudo-riforme e al G8 di Genova. È un movimento di cittadini attivi che vuole fare un passo avanti rispetto alla delega. Cittadini che non hanno tempo per la pubblicità.
I politici mostri che ci hanno messo tanto per imparare un po´ di dizione, che hanno investito in corsi di abbaio e ringhio per i combattimenti di cani nelle trasmissioni televisive, adesso finiscono in secondo piano. Forse per un attimo hanno pensato che s´erano rifatti la faccia inutilmente come quelli che spendono tutto per comprarsi la Ferrari e poi la devono tenere parcheggiata dietro a una Panda qualsiasi.
Non lo so se questo paese è migliorato davvero o è solo peggiorato un po´ meno, ma dopo il risultato dei referendum i mostri ci hanno fatto un po´ tenerezza. Li abbiamo visti sconfitti non dalla nostra vittoria, ma dalla loro bassa statura. Nelle piazze e nelle strade, nelle foto di gruppo hanno cercato di rimettersi in primo piano e venivano sullo sfondo lo stesso, perché se in una fotografia inquadri il popolo tutti diventano piccoli o grandi alla stessa maniera. Brutta cosa per un mostro che ha bisogno di mostrarsi e se non lo guarda nessuno, non è più nemmeno mostruoso.

il Riformista 16.6.11
L’opposizione faccia un passo avanti
di Massimo L. Salvadori

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il Riformista 16.6.11
Il sì più clamoroso del Referendum
di Claudio Petruccioli

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il Riformista 16.6.11
Quarant’anni dopo la piazza è in rete
di Anna Chimenti

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http://www.scribd.com/doc/57985633

l’Unità 16.6.11
Sondaggio il 39% degli intervistati dà fiducia a un governo di centrosinistra, mentre il 30% al fronte opposto
Bersani «Il partito non è più un’ipotesi e se ne convincano tutti. Bene le aperture fatte dal leader dell’Udc»
Una coalizione con Casini non spaventa più gli elettori Pd
Bersani: «Bene le aperture di Casini». Spetta al Pd, primo partito del Paese, con il 29,8% dei consensi, «costruire l’alternativa» con il centrosinistra e le forze moderate. Una coalizione che non spaventa più gli elettori.
di Maria Zegarelli


Non è stato sorpreso il segretario Pd Pier Luigi Bersani quando ha sentito l’altra sera le parole pronunciate da Pier Ferdinando Casini: «Non è nel novero delle possibilità» il ritorno dell’Udc in un centrodestra anche senza Silvio Berlusconi. E non solo perché i contatti tra i due leader sono costanti. «Rivendico di avere sempre detto che la cosa avviene nel profondo, che c’è nella testa dei cittadini una saldatura non verbale ma sostanziale tra questione democratica e sociale», spiega Bersani. Come, d’altra parte, hanno dimostrato le elezioni amministrative laddove il Pd e l’Udc si sono presentate insieme. «Per amore o per forza le forze politiche dovranno tenere conto di quel che avviene nel profondo e indicare una strada. Sono contento che anche le forze politiche facciano i conti con quello che si muove nella società e apprezzo che si rifletta su questo da ogni lato». Oltre al fatto che tra gli elettori l’idea di una alleanza allargata dal centrosinistra classico a Fli non sembra costituire più le forti perplessità di qualche mese fa, come dimostrerebbero i sondaggi commissionati dal Pd. Dall’ultimo, che risale al 10 giugno, emerge che una formazione del genere oggi raccoglierebbe il 58,6% dei consensi a fronte del 40,6% su cui si attesterebbe una coalizione Pdl-Lega e destra di Storace. Questo dato, insieme a quello illustrato l’altra sera a Ballarò, da Pagnoncelli, di un Pd al 29, 8% (seguito dal Pdl al 27,1%), al Nazareno viene indicato come un incoraggiamento a proseguire sul percorso intrapreso. «Il Pd è il primo partito e merita rispetto dice Bersani -. Mi rivolgo ai commentatori e a quanti seguono il Pd: nelle loro opinioni devono avere più rispetto, perché l’evoluzione del quadro politico come si è manifestata non è stata inaspettata per il Pd che ne ha intuito la direzione profonda». Un partito nazionale, presente «nelle piazze e anche in rete», «in rapporto con la realtà», perno di una coalizione di centrosinistra che secondo il 42% degli italiani se si andasse oggi sarebbe vincerebbe a fronte di un 31% che attribuirebbe al vittoria al centrodestra. Così come il 39% degli intervistati sostiene di avere più fiducia per il futuro del Paese con un governo di centrosinistra, mentre soltanto il 30% si affiderebbe al fronte opposto e un 30,5% (cifra enorme) non sa a chi affidarsi.
E se il Pd «non è più un’ipotesi e se ne convincano tutti, anche chi ha coltivato questa illusione», come sostiene Bersani, anche una coalizione ampia, in grado di affrontare le grandi riforme e le questioni più urgenti del Paese, non spaventa più gli elettori. «Ora bisogna andare avanti dice Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria del Nazareno offrendo le nostre proposte al confronto con le altre forze sociali e politiche dell’opposizione, a cominciare da quelle del centrosinistra, ma estendendo l’offerta a tutte le forze moderate che vogliono superare il berlusconismo, nel rispetto della Costituzione».

Repubblica 16.6.11
Sondaggi, sorpasso del centrosinistra
Bersani: "Pd primo partito, meritiamo rispetto". Caduta della Lega
di Mauro Favale


ROMA - La cautela è sparita, spazzata via da un quorum raggiunto con un´affluenza così ampia che pochi si erano azzardati a prevedere. A urne chiuse, però, quelle percentuali, quei milioni di voti e quella valanga di sì dicono che il vento sta cambiando, tanto che adesso anche i numeri dei sondaggi raccontano un´altra storia. La storia di un trend («Mutamenti millimetrici, niente di sconvolgente», avverte Nicola Piepoli, direttore dell´omonimo istituto di ricerca) che ora vede il centrosinistra in crescita e il centrodestra in lenta e costante discesa. Questa volta, però, c´è una novità e la rincorsa ha prodotto un risultato: la coalizione di centrosinistra è stabilmente avanti e il Pd è il primo partito in Italia. Un primato che per alcuni andrebbe condiviso col Pdl, ma che per altri è occupato esclusivamente dai democratici che avrebbero staccato il Popolo delle libertà di quasi 3 punti.
La rilevazione è stata fatta martedì, 24 ore dopo la chiusura delle urne, dall´Ipsos di Nando Pagnoncelli e comunicata in serata a Ballarò: il Pd sarebbe al 29,8%, il Pdl al 27,1%. Un distacco importante a cui si va ad aggiungere un calo della Lega che, sia per Ipr sia per Piepoli, scenderebbe sotto al 10% con un calo dell´1,5%. E se per Piepoli il Pdl è ancora avanti di mezzo punto (29,5 contro 29), per Swg e Ipr i due partiti sarebbero appaiati. Per ora il sorpasso è solo virtuale, certo. Ma tanto basta al segretario Pierluigi Bersani per dire che «il Pd è il primo partito e merita rispetto». L´invito l´aveva già pronunciato durante una puntata di Annozero, qualche mese fa. Ieri l´ha rivolto «ai commentatori e a quanti seguono il Pd: nelle loro opinioni devono avere più rispetto». Secondo Bersani «l´evoluzione del quadro politico non è stata inaspettata per il Pd che ne ha intuito la direzione profonda. Siamo l´unico partito veramente nazionale: siamo nei gazebo, nelle piazze e nella rete, abbiamo un rapporto con la realtà». Un atteggiamento che, visto il risultato di amministrative e referendum, l´elettorato sembrerebbe apprezzare.
Secondo i sondaggisti, infatti, il centrosinistra è nettamente avanti: 47,2% contro 37,3% dice Ipsos che calcola con Pd, Idv e Sel anche Verdi e Federazione della sinistra, mentre dall´altra parte lascia soli Pdl e Lega, senza la Destra. Il Terzo Polo per Pagnoncelli si assesta intorno al 9,5%. Tra i ricercatori c´è una sostanziale uniformità di analisi. Per Ipr Marketing (che, nel governo, rileva al primo posto per gradimento il ministro Angelino Alfano, con un crollo verticale della fiducia in Berlusconi, ferma al 29%), il centrosinistra (senza Fds) è al 42,5%, il centrodestra al 39%. Per Piepoli il risultato è 44% a 41,5%, per Swg 41% a 39%. Fuori dai poli anche il movimento di Beppe Grillo, dato tra il 2,5% e il 4%. Insomma, a leggere percentuali e tendenze di voto, qualcosa è cambiato. Ma per sapere se si tratta di un terremoto bisognerà attendere. «Non c´è una rottura vera - spiega Piepoli - la Dc, quand´è crollata, veniva da due anni in cui ogni mese perdeva 1-2 punti. Vediamo cosa accadrà nei prossimi 6 mesi». «Non equivochiamo la natura del voto referendario - avverte Roberto Weber di Swg - il centrodestra mantiene ottime percentuali al centro e al sud. Il centrosinistra avanza nelle città, il Pdl si tiene le sue roccaforti. Certo, se continua così, avrà grosse difficoltà. Devono dare una sterzata, cambiare qualcosa». Altrimenti è difficile invertire il trend.

Corriere della Sera 16.6.11
Bersani, messaggio a Casini «Abbiamo elettori saldati»
Sul lavoro sostegno di Chiamparino e Veltroni alle proposte di Ichino
di  D. Mart.


ROMA — La realtà dice che gli elettori del centro e quelli di sinistra si sentono più vicini. Così, Pier Luigi Bersani commenta l’apertura di Pier Ferdinando Casini a una possibile alleanza tra i centristi e i democratici: «Non si tratta di questioni politiciste ma di realtà perché nella testa dei cittadini c’è una saldatura non verbale ma sostanziale sulle questioni democratiche e sociali» . E ancora: «Tra gli elettori c’è una saldatura di cui le forze politiche alla fine devono tenere conto e quindi apprezzo che ogni forza politica faccia i conti con questa realtà» . Bersani, dunque, apprezza la mossa di Casini. Ma la fa scaturire dal corso naturale degli eventi cristallizzatisi con i risultati delle Amministrative 2011. All'ex ministro dell’Industria del governo Prodi, poi, piace ricordare il dato che ha premiato il Pd con punte lusinghiere soprattutto al Nord e i sondaggi che lo danno addirittura come primo partito: «Questi mesi suggeriscono a tutti,— analisti e commentatori, di avere maggior rispetto per il Pd che, a prescindere dalle opinioni, è un partito riformista la cui evoluzione non è stata inaspettata. Perché siamo l’unico parito veramente nazionale, siamo nei gazebo, nelle piazze, nella rete. Siamo presenti in tutte le generazioni, abbiamo un rapporto con la realtà» . Eppure la leadership di Bersani, più salda dopo i risultati elettorali, deve ancora guardarsi le spalle. Da un lato il segretario incassa il giudizio positivo di Massimo D’Alema: «Non era facile, come ha fatto Bersani, scommettere sulla partecipazione di massa dei cittadini ai referendum» . Ma i fronti aperti ci sono e alcuni di essi si preannunciano come molto scivolosi: sulla «messa in sicurezza delle primarie» , Giuseppe Fioroni si raccomanda di «non compiere sbagli» ; in vista della conferenza di Genova dedicata a lavoro, il senatore Pietro Ichino ha presentato un documento alternativo condiviso anche da Walter Veltroni e Sergio Chiamparino. Particolarmente insidioso, infine, appare il fronte aperto da una ventina di parlamentari del Pd che hanno firmato una proposta di legge dei radicali (c’è anche un ddl fotocopia al Senato) per introdurre una legge elettorale maggioritaria con doppio turno alla francese in alternativa al cosiddetto modello ungherese ipotizzato da Bersani. In coda ai testi di legge dei radicali, dunque, ci sono le firme di una ventina di parlamentari del Pd: tra gli altri Andrea Rigoni, Gianni Cuperlo, Nicodemo Oliverio, Vinicio Peluffo, Stefano Ceccanti, Franco Laratta, Giorgio Merlo, Fausto Recchia, Tommaso Ginoble, Simonetta Rubinato, Gianni Farina. Invece Massimo Pompili, inserito nella lista, ha smentito: «Io non ho mai firmato nulla su questo tema» . L’iniziativa dei radicali ha un solo obiettivo: Pier Luigi Bersani che, spiega Marco Pannella, ha saputo trasformare il doppio turno alla francese «da un bel bambino roseo» a «un vero e proprio mostro» . A forza di ritocchi e sbarramenti.

Corriere della Sera 16.6.11
E De Mita «ritorna» per dare la linea: Udc alleata del Pd
di Maria Teresa Meli


C’è qualche spiffero nel palazzo di Montecitorio. E il (cosiddetto) vento del cambiamento (ormai lo chiamano così anche i politici che preferiscono di gran lunga la bonaccia) potrebbe creare delle perniciose correnti d’aria. Quindi meglio chiudere porte, portoni e battenti. Non si sa mai. Ma un refolo si insinua anche nel chiuso degli uffici della Camera dei deputati. In attesa della verifica del 22— l’ennesima— i parlamentari tentano di addomesticare l’onda del referendum e del voto amministrativo e provano a convogliarla lungo binari conosciuti e sicuri, al riparo dall’imprevedibilità della piazza. Al gruppo dell’Udc è riunito lo stato maggiore del partito. Enzo Carra esordisce così: «Dobbiamo guardare ai giovani, ai nostri giovani» . E volge l’occhio alla sala: ha davanti a sé Ciriaco De Mita, 83 anni, Paolo Cirino Pomicino, 72, e Savino Pezzotta, il più «piccolo» del trio. Nella stanza un deputato chiede al collega vicino se quella di Carra sia una battuta, magari riuscita non benissimo: non riceve risposta ma preferisce non insistere. Anche perché ora è il turno di De Mita. E’ l’ex leader della fu Democrazia cristiana a dare la linea. C’è un solo modo, dice, per sfruttare il declino di Berlusconi e non farsi travolgere dal cambiamento: il Terzo polo deve «allearsi con il Pd, che ormai è una forza politica che riflette in pieno la cultura di D’Alema e Bersani» . Perciò è affidabile. Toccherà poi al Partito democratico «sbrigarsela con quelli alla sua sinistra» . Casini dondola la testa ritmicamente per assentire. «Del resto, Pier ormai non ha problemi: Bersani può essere il candidato premier, lui aspira al Quirinale» , spiegherà più tardi un altro ex democristiano, il pd Sergio D’Antoni, rimasto in buona con i compagni di un tempo. Lo schemino appena descritto prevede quindi che sia il Partito democratico ad ammansire movimenti e forze politiche che non stanno nel Palazzo. Impresa improba, almeno stando a sentire gli stessi Democrats. Questo è il racconto del prodiano Giulio Santagata di fronte a un ristretto uditorio di deputati amici: «Ma lo sapete che i comitati referendari l’altra sera non hanno voluto parlare con il Tg3 perché sapevano che c’era anche Bersani in collegamento? Sono arrabbiati con lui perché lo accusano di aver messo il cappello sui referendum. Mi hanno raccontato che per protesta si sono girati e a mo’ di sberleffo si sono calati i pantaloni per far vedere il sedere» . «Addirittura?» , è la domanda più divertita che incredula degli astanti. «Addirittura» , è la conferma di Santagata. Nel Transatlantico di Montecitorio Arturo Parisi prova a trarre la morale: «Il 22 non succederà niente, in compenso se i partiti continueranno così, con i loro giochini, gli indignados italiani ci verranno a prendere con i forconi» . Ma non è detto: una folata inaspettata potrebbe scompaginare schemi e schemini.

La Stampa 16.6.11
L’avviso di Prodi: “Attenti tutti l’Italia si sta scongelando”
“I referendum dicono che i cittadini agiscono grazie a nuove catene di rapporti”
di Maurizio Molinari


«La gente si è chiesta che fare sui singoli problemi. Non a chi conveniva»
«Bisogna riorganizzare la politica sui contenuti e sull’innovazione»
Sull’Unione Africana «Gheddafi ha tolto i finanziamenti, ma è fondamentale per gestire le crisi Bisogna costituire un fondo di aiuti»

Sulla Libia «Serve un’iniziativa per la ricostruzione che abbia come interlocutore le tribù perché lì non c’è identità nazionale»
Sul Medio Oriente «Le rivolte in atto in Medio Oriente e Nord Africa hanno portato un indebolimento della nostra presenza»

Ieri a Washington Romano Prodi dando il via alla conferenza sull’Africa ha parlato anche della posizione italiana e dei rischi che il nostro Paese corre nei rapporti anche commerciali nella zona
I referendum sono stati un momento di trasformazione politica per l’Italia mentre sul fronte internazionale il governo Berlusconi sta perdendo terreno nel mondo arabo: di questo parla l’ex premier Romano Prodi in coincidenza con l’inizio dei lavori della Conferenza sull’Africa organizzata dalla Fondazione per la cooperazione fra i popoli da lui presieduta.
Poco prima della seduta inaugurale, alla quale partecipano rappresentanti di Cina, Europa e Stati Uniti, Prodi sceglie i microfoni del Tg3 per una riflessione sulla vittoria dei sì nei quattro referendum appena celebrati. «Il messaggio dei referendum è che i cittadini prendono iniziative anche rischiose che sembrano non aver successo, grazie a catene nuove di rapporti, non solo elettroniche» esordisce, indicando l’elemento che ha fatto la differenza nella «convinzione personale» di chi si è recato alle urne, mosso dalla volontà di «riflettere sul singolo problema e non su a chi conviene». E’ questa dinamica che «sta trasformando il Paese» segnando un risveglio di attenzione per i temi specifici «che è un problema gravissimo ovviamente per Silvio Berlusconi ma non meno grave per l’opposizione perché significa riorganizzare i programmi e la vita politica sui contenuti e sull’innovazione». Da qui la richiesta anche al partito democratico «fare attenzione» perché «c’è chi si è spostato sull’analisi dei contenuti e abbandona schieramenti e giochi» innescando «una scomposizione delle carte è anche la scomposizione del Paese».
Sono frasi che lasciano intendere la convinzione che l’Italia si stia scongelando ed è in questa cornice che, poco dopo, Prodi incontra alcuni giornalisti nella cornice dell’hotel Willard nei pressi della Casa Bianca per estendere la riflessione ai temi di politica estera. «Le rivolte in atto in Medio Oriente e Nord Africa hanno portato ad un indebolimento della nostra presenza e dei nostri interessi a vantaggio di altri» osserva, riferendosi anzitutto a «Francia e Gran Bretagna che avanzano dove noi arretriamo». Il riferimento è alle nazioni al centro dei sconvolgimenti politici «dove noi siamo il primo o il secondo partner, come nel caso di Libia, Tunisia, Egitto, Siria e Iran». Anziché sfruttare i propri legami per «svolgere un ruolo», l’Italia «ha lasciato spazio ad altri» sottolinea Prodi, ammonendo che «rischiamo di pagarne il prezzo quando tutto sarà finito». A nuocere all’Italia sono state «le continue oscillazioni di posizioni come avvenuto sulla Libia» così come «l’incapacità di vedere come per noi l’interesse più importante è nell’Egitto», uno scacchiere dal quale l’Italia è stata assente dall’indomani dell’abbandono del potere da parte di Hosni Mubarak. «Se Francia, Gran Bretagna e Turchia si profilano come potenze regionali - aggiunge Prodi - è perché gli Stati Uniti tendono ad essere meno presenti, facendo dei passi indietro» ma questa dinamica che «vede protagonisti gli Stati nazionali» per l’ex presidente del Consiglio è «negativa» perché porta a situazioni di stallo «come quella a cui stiamo assistendo in Libia». Prodi non vede grandi spazi di mediazione con il leader libico Gheddafi ma poiché il mandato di cattura del Tribunale internazionale dell’Aja ancora non è stato spiccato, l’ipotesi di una «composizione della crisi» può passare «attraverso le organizzazioni multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite e l’Unità Africana». Ciò a cui pensa è «un’iniziativa internazionale per la ricostruzione della Libia» che abbia come interlocutore l’universo delle tribù ovvero 22-25 ceppi suddivisi all’interno in 1500 kabile grandi gruppi famigliari - che costituiscono l’ossatura di una nazione «che non ha un’identità nazionale come nel caso dell’Egitto». Il «dialogo con le tribù libiche» evoca quanto è stato fatto in Afghanistan con l’assemblea della Loya Jirga dopo la caduta del regime dei taleban e Prodi a tale riguardo sottolinea «l’importanza del ruolo dell’Unione Africana» il cui maggiore problema però è la carenza di fondi circa il 30 per cento del totale - conseguente al taglio di finanziamenti da parte di Gheddafi. «Per risollevare l’Unione Africa bisogna creare un fondo di aiuti» osserva, ricollegandosi all’agenda della Conferenza di Washington che propone di istituirne uno congiunto grazie al contributo di Stati Uniti, Unione Europea e Cina.

Repubblica 16.6.11
Romano Prodi a Washington per presiedere la seconda conferenza internazionale "53 Countries One Union"
"Troppe contraddizioni sulle rivolte arabe così l´Italia perderà peso in Nordafrica"
Aumenterà l´influenza di quei paesi che hanno strategie più chiare: Francia, Inghilterra Cina e Turchia
di Federico Rampini


WASHINGTON - «E´ ondivaga la politica dell´Italia verso il Nordafrica. Le oscillazioni italiane, i continui cambiamenti, non ci giovano in nessuno scenario, qualunque sia l´esito finale in Libia e altrove». Romano Prodi è a Washington per presiedere la seconda conferenza internazionale "Africa: 53 Countries One Union" e da qui lancia l´allarme per la perdita d´influenza del nostro paese in un´area strategica.
Quale prezzo pagherà l´Italia?
«In Libia e in tutto il Nordafrica aumenterà l´influenza di quei paesi che hanno strategie più chiare: la Francia e l´Inghilterra tra gli europei, la Cina sicuramente, anche la Turchia per il suo peso economico crescente. Il problema non si limita alla Libia. Sono in preda a sconvolgimenti tutti i paesi nei quali storicamente l´Italia si trova al primo o secondo posto come partner economico: Egitto, Tunisia, Siria, Iran. L´ondeggiare non ci aiuta, l´Italia va verso una perdita secca su questo fronte strategico. Manca la capacità di inventare una nuova politica. Il governo italiano dovrebbe farsi promotore di una nuova visione europea, perché solo un approccio multilaterale ci può salvare».
Lei qui a Washington oggi incontra i dirigenti americani e cinesi, oltre ai rappresentanti dell´Unione europea e dell´Africa. Di tutte le rivoluzioni democratiche incompiute quale la preoccupa di più?
«L´Egitto, per l´importanza unica di questo paese. Le cose non stanno andando bene al Cairo, le difficoltà economiche sono enormi, l´industria turistica ha visto crollare le entrate in valuta, aumenta la delinquenza, un milione e mezzo di emigrati egiziani in Libia sono tornati e s´inaridiscono le rimesse. I capitali sono fuggiti, gli imprenditori sono in carcere o progettano di scappare all´estero».
Lei propone "una grande prova di amicizia" verso quei paesi. Al G8 di Deauville Barack Obama ha già annunciato la cancellazione del debito egiziano e tunisino.
«E´ importante, ma bisogna vigilare al rispetto degli impegni, i G8 non hanno una gran tradizione nel mantenere le promesse».
Lei chiede di trasferire risorse e competenze all´Unione africana, ma paesi come la Francia e l´Inghilterra si oppongono.
«E´ comprensibile, in certi paesi africani le ex potenze coloniali ancora svolgono un ruolo immenso, gestiscono molti servizi essenziali. Ma bisogna uscirne, non è credibile una gestione degli interventi affidata ai vecchi colonizzatori».
Potrebbe uscire da questa conferenza una mediazione per sbloccare l´impasse libica?
«La parola mediazione è impropria. La Nato non la vuole, evidentemente pensa che la vittoria è vicina. Ma la fine di Gheddafi avrà implicazioni profonde in tutta l´Africa, basti pensare che l´Unione africana otteneva il 30% dei suoi fondi dalla Libia».

La Stampa 16.6.11
Il ministero dell’istruzione dovrà emanare il nuovo piano per l’edilizia scolastica
Via libera alla class action contro le “scuole pollaio”
Arriva l’ok del Consiglio di Stato: aule affollate e poca sicurezza
di Flavia Amabile


Il tetto massimo di alunni nelle scuole primarie è fissato in 26
Alle medie e alle superiori limite massimo a 27 alunni (30 in casi eccezionali)
Il limite scende a 20 alunni nelle classi con ragazzi disabili

ROMA. Nuovo piano Il ministro Gelmini dovrà presentare un nuovo piano per l’edilizia: solo il 46% delle scuole ha ottenuto il certificato di agibilità statica
Basta con le classi pollaio, superaffollate a dispetto di leggi e norme sulla sicurezza. Anche il Consiglio di Stato ha dato il suo via libera alla class action promossa dal Codacons sulle aule sovraffollate dove il numero di alunni supera il limite previsto dalle leggi. A questo punto si procede con la prima class action italiana contro la pubblica amministrazione.
Secondo il ministero dell’Istruzione si tratta di pochi casi visto che le classi con un numero di alunni pari o superiore a 30 - ha più volte ripetuto viale Trastevere - sono appena lo 0,4% del totale. Ma anche se fosse vera questa cifra - ha fatto notare proprio ieri l’Udc - lo 0,4% corrisponde comunque a 1.500 classi per un totale di 45 mila studenti.
La legge, comunque, parla chiaro. Nelle materne si può arrivare al massimo a 26 alunni (elevabili in casi eccezionali a 29). Nella scuola primaria il tetto è di 26 alunni (elevabili in casi eccezionali a 27). Nella secondaria di primo grado e di secondo grado si può arrivare fino a 27 alunni (elevabili in casi eccezionali a 30). Nelle classi con alunni disabili si può invece al massimo avere 20 alunni. Limiti quasi sempre disattesi nella realtà come dimostra la class-action.
Ora - secondo l’associazione dei consumatori Codacons il ministero «dovrà obbligatoriamente emanare il piano di edilizia scolastica come stabilito dalle leggi vigenti». Il Tar aveva già ordinato al Ministro di emanare il Piano generale di edilizia scolastica, ma il dicastero dell’Istruzione aveva presentato un ricorso al Consiglio di Stato, ricorso ora rigettato sottolineando, tra l’altro, la necessità di una «riqualificazione dell’edilizia scolastica, in specie di quelle istituzioni non in grado di reggere l’impatto delle nuove regole introdotte con riguardo alla formazione numerica delle classi».
Il ministero dell’Istruzione ha assicurato che il Piano Generale per l’edilizia scolastica sarà presentato al più presto. L’iter non sarà breve, però. Sono stati infatti «avviati gli accertamenti per la preparazione», come spiega il ministero in una nota. «Il Piano sarà completato - prosegue la nota - e sottoposto alla firma dei ministri competenti dell’Economia e dell’Istruzione».
Il Pd ha chiesto la convocazione di una specifica commissione parlamentare d’inchiesta. Quella degli edifici scolastici infatti è una questione che si trascina da anni senza risposte: in Italia due edifici scolastici su tre - denuncia il Pd - non sono a norma di legge; solo il 46% delle scuole ha il certificato di agibilità statica, contro il 98 della Germania, il 93 per cento della Francia, il 92 dell’Inghilterra e il 53 dell’Albania.
Per i sindacati non si può più perdere tempo. «Si mette in discussione ogni giorno - avverte il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo - la sicurezza e il diritto di alunni e del personale della scuola ad avere a disposizione spazi vitali per potere insegnare e apprendere meglio. La ministra Gelmini dovrebbe vergognarsi per i colpi devastanti che ha inferto con i tagli alla scuola pubblica».

l’Unità 16.6.11
Dopo i Referendum e la chiusura di biblioteche e librerie attori e precari gridano «no ai privati»
Lo stabile romano, ancora occupato, intanto è stato transitoriamente scaricato al Teatro di Roma
Dal Teatro Valle ai tetti di Roma. Gli artisti rivogliono la cultura
In pochi giorni artisti e cittadini, a Roma, hanno occupato il Teatro Valle e l’ex Cinema Palazzo di San Lorenzo; e sono state chiuse la biblioteca della Siae al Burcardo e la libreia Bibli.
di Luca DEl Fra


«Signore e signori, benvenuti al Teatro Valle occupato!» Ecco le parole che l’altro ieri hanno aperto la pacifica riappropriazione di uno dei gioielli storici dello spettacolo capitolini e italiani, chiuso da un paio di mesi per l’ignavia culturale del nostro paese e che rischia di essere venduto o forse svenduto ai privati. A riprendersi il Valle è stato il movimento dei precari della cultura –attori, registi, scenografi, costumisti, ma anche studenti e ricercatori. Insomma, la parte peggiore del paese come dice Brunetta, perciò a loro si sono subito uniti con entusiasmo Anna Bonaiuto, Andrea Camilleri, Ascanio Celestini, Maddalena Crippa, Emma Dante, Elio Germano, Sabina Guzzanti, Maya Sansa, Claudio Santamaria, Toni Servillo e molti altri.
Il tutto avviene in una Roma oramai giunta ai saldi da fine del mondo: in pochi giorni è anche stata chiusa la biblioteca della Siae al Burcardo, di altissimo valore scientifico sullo spettacolo nel nostro paese, e del pari una libreria molto vivace come Bibli. Nel frattempo però ieri sera sui tetti del quartiere Monti jazzisti come Danilo Rea e Paolo Damiani improvvisavano un concerto per Emergency.
«È la riscoperta di un sentimento puro di partecipazione» -commenta piacevolmente incredulo Fabrizio Gifuni arrivando al Valle: sospinti dalla poderosa propulsione delle elezioni amministrative e dei referendum, ora i movimenti vogliono contare e decidere anche sulle sorti della cultura. Come sottolineava il senatore del Pd Vincenzo Vita passando nel teatro occupato: «Il referendum sull’acqua pubblica ha segnato un cambiamento nella sensibilità della gente su cosa debba essere privato e cosa no».
UNA STORIA SURREALE
D’altra parte la storia del Valle ha qualcosa di surreale: il teatro della prima di Cenerentola di Rossini, di tante opere di Donizetti, dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello dovrebbe essere gelosamente tenuto in vita dalla mano pubblica. Invece, in quella vergognosa vicenda che è stata l’anno scorso la chiusura dell’Ente Teatrale italiano (Eti) che lo gestiva, nessuno si è posto il problema. Dilettantismo del ministero delle Attività Culturali? Macché! La dimenticanza è funzionale agli appetiti di privati che sono partiti all’arrembaggio: per primo Alessandro Baricco, con nota ditta di ristorazione, ci voleva fare un cabaret-restaurant, con attori che recitavano testi tra un cotechino e un culatello. S’è poi fatto avanti l’onorevole Luca Barbareschi, proprio alla fine dell’anno scorso mentre Berlusconi cercava spasmodicamente i voti per la fiducia al suo governo –vedi i casi della vita–, infine è toccato all’onorevole Gabriella Carlucci. Ne sono scaturite polemiche e il ministero se ne è pilatescamente lavato le mani, assegnando lo stabile al Comune di Roma: ma trattandosi di un tesoro inestimabile, che volete, Alemanno e la sua giunta non sanno cosa farci. Transitoriamente lo hanno scaricato al Teatro Di Roma, che già gestisce con fatica l’Argentina, lì a due passi, e l’India. L’assessore alla Cultura della capitale Gasperini annuncia severo una apposita commissione che dovrà definire un bando con delle priorità, secondo lui nella massima trasparenza e con la partecipazione consultiva di tutti: insomma, la solita task force che farà una road map, mentre lui aspetta ordini superiori.
E gli occupanti cadranno nel trappolone della «inutil commissione»? Per ora di sera fanno spettacoli per il gentile pubblico, dove si esibiscono anche pezzi da ’90 del nostro teatro e cinema a titolo grazioso, e di giorno fanno assemblee: per decidere cosa chiedere per il futuro del Teatro Valle, che prioritariamente dovrebbe restare pubblico. D’altro canto però un teatro pubblico deve rientrare, almeno in qualche misura, nella sfera della politica: quella politica verso cui in fatto di cultura, e non solo, i movimenti mostrano un deciso disprezzo e, sarà bene ricordare, bipartisan, nel senso che non è rivolto solo a destra. Questo dovrebbe essere spunto di riflessione: proprio nell’estinzione dell’Eti, unico Ente teatrale nazionale ma a dir poco iperclientelare, non pochi furono contenti anche a sinistra, in base a un’idea molto in voga che da noi nulla sia riformabile. Un atteggiamento certo tipico della destra e che in generale dimostra una certa inettitudine, ma oggi rischia di essere sempre meno compreso.
QUALE FINALE?
Così, l’avventura del Valle, la sua occupazione, le decisioni che scaturiranno da queste giornate sanguigne e movimentate, tra polemiche e applausi sotto lo sguardo di un severo Arlecchino che troneggia sul soffitto della sala, ed è in fin dei conti il simbolo della gente di spettacolo, hanno una posta altissima. Il movimento riuscirà a fare politica anche fuori dai canonici strumenti istituzionali di elezioni e referendum con cui finora si è imposto? Sarebbe davvero una riappropriazione.

Corriere della Sera Roma 16.6.11
Valle, show di Camilleri: «Sì alla rivolta spontanea»
di Alessandro Capponi


Dopo ventiquattr’ore di occupazione dei «lavoratori dello spettacolo» , il ministero dei Beni culturali alza la voce (quella del sottosegretario Giro): «Il Valle va liberato subito. L’occupazione, dopo che il teatro è passato al Campidoglio, è solo una dimostrazione di prepotenza e di violenza che fa a pugni con la cultura. Bisogna liberarlo prima che diventi un bivacco. Sarebbe inaccettabile» . Gli occupanti— che ieri sera hanno offerto pastasciutta e vino ai numerosissimi visitatori — sorridono: «Non ce ne andiamo. E in ogni caso non è il sottosegretario a dettare i tempi della protesta. A lui possiamo solo dire che, a prescindere dagli accordi tra ministero e Campidoglio, a noi non interessa chi lo gestisce, ma come» . Insomma, l’occupazione prosegue. E anche con notevole partecipazione di cittadini. Ieri sera, sul palco, applausi lunghissimi per Andrea Camilleri il quale, intervistato da Elio Germano, non si rifugia in banali giri di parole: «L’unico modo per resistere è la ribellione spontanea» . La sala è stracolma, l’applauso fortissimo. Accade anche altro: martedì pomeriggio, diverbio all’ingresso di alcuni occupanti che non hanno gradito la presenza di Luca Barbareschi, attore e politico (ora gruppo misto, prima Pdl e Fli). Gli è stato chiesto di non entrare, lui è andato via. Camilleri esordisce così: «Mi chiedono molti perché sono qui, in questo storico teatro occupato. Il senso della mia presenza qui è chiaro: negli ultimi anni della mia vita, visto che ne ho 86, mi trovo sempre più caricato da quelli che avverto come doveri di cittadino: ad esempio, come si fa a sopportare i tagli alla cultura? Forse bisognerebbe spiegare a questi signori che cos’è, la cultura» . Gli applausi non si contano. Lui prosegue: «Colpire il Valle significa colpire il simbolo del teatro italiano. Qui si è svolta la prima rappresentazione di Sei personaggi in cerca d’autore che ha cambiato modo di fare teatro. Lo sanno, i signori che ci governano? Temo di no» . Anche perché, sintetizza Camilleri, «Una nazione civile di questo teatro avrebbe fatto un monumento nazionale. Noi siamo costretti a lottare per non farlo trasformare in una paninoteca. E io penso che l’unica resistenza a questa frana che sta travolgendo il Paese sia la rivolta spontanea» . Secondo Camilleri, «per cambiare questo andazzo che ci sta portando verso nulla, bisogna mettersi assieme, le persone devono unirsi. L’hanno dimostrato anche i referendum, che hanno spiazzato anche i partiti...» . Una stoccata alla Lega: «Perdere la cultura significa rinunciare all’identità. Parlano tanto di Padania, ma l’unica identità di un popolo è quella, la cultura» .

La Stampa 16.6.11
Il farmaco ha superato l’esame del Consiglio superiore di sanità
Pillola dei 5 giorni dopo Primo sì: “Ma serve il test di gravidanza”
Per l’approvazione definitiva manca il parere dell’Agenzia del farmaco
diu Francesca Schianchi


ROMA. Tra qualche tempo, anche in Italia potrebbe essere commercializzata la pillola dei cinque giorni dopo. Manca ancora il via libera dell’Agenzia italiana del farmaco, ma un passo avanti notevole lo ha fatto fare ieri il Consiglio Superiore di Sanità: ha dato all’unanimità parere favorevole alla pillola EllaOne, già approvata dall’Autorità farmacologica europea nel marzo 2009, purché non venga usata in caso di gravidanza accertata. Il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, aveva chiesto un parere al Css sulla compatibilità del farmaco con la legge 194 vigente in Italia sull’aborto: ebbene, la pillola, che va presa entro cinque giorni da un rapporto sessuale non protetto per evitare una gravidanza indesiderata, non è un abortivo, ha risposto l’organo consultivo, ma un contraccettivo d’emergenza. Via libera quindi secondo il Css al medicinale già in commercio in Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Stati Uniti, ma a una condizione: che prima dell’assunzione venga fatto un test per escludere una gravidanza in corso. Un «paletto importante», sottolinea la sottosegretaria alla Salute Eugenia Roccella, perché chiarisce che la pillola è «compatibile con le leggi italiane se c’è un test che elimina ogni dubbio di gravidanza in atto». Ora, ricorda, «la parola passa all’Aifa», che dovrà autorizzare la commercializzazione del farmaco in Italia, e che già in passato aveva espresso «preoccupazione riguardo alle eventuali conseguenze di un uso ripetuto». Interviene la senatrice radicale Donatella Poretti: «L’Aifa ora non potrà fare altro ciò che avrebbe già dovuto fare da tempo, intervenire per quanto di sua competenza: la modalità di vendita - con obbligo di ricetta - e in caso la sua rimborsabilità». Per la pillola dei 5 giorni dopo «l’Aifa ha la pratica aperta dal gennaio 2010, è ora un atto dovuto porre fine al ritardo».
Accusa il cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la vita: «È un aborto a tutti gli effetti, di raffinata malizia». Per questo «non potrà avere alcuna attenuante dal punto di vista della morale né cattolica né razionale» e «mi auguro che questa deliberazione sia responsabilmente respinta dal governo». D’accordo con lui Lucio Romano, copresidente nazionale dell’Associazione Scienza e vita, «il via libera è un ulteriore passo verso la trasformazione dell’aborto in contraccezione», mentre esulta il ginecologo Silvio Viale: «Era ora. Adesso mi aspetto che il prossimo passo sia l’abolizione della ricetta obbligatoria per la contraccezione di emergenza».

La Stampa 16.6.11
La denuncia: una strage silenziosa
L’Onu: metà del mondo non è per le donne
Il “gendercidio”, punta avanzata della discriminazione sessuale
di Francesca Paxi


I POVERI. In molte nazioni le braccia femminili sono considerate un peso insostenibile
I RICCHI. Anche nell’India avanzata resiste lo stereotipo e muoiono 600 mila bambine l’anno
100 milioni di fantasmi. Sono le donne che mancano all’appello nel mondo secondo una stima (del 1990) del Premio Nobel Amartya Sen
1152 stupri ogni giorno. È l’orrendo primato della Repubblica Democratica del Congo, dopo l’Afghanistan il Paese più pericoloso per le donne
87 per cento di analfabete. Il regime dei talebani ha lasciato un’eredità drammatica: in Afghanistan moltissime donne non sanno leggere né scrivere
134 neonati maschi. Sono i bambini che nascono in Cina ogni 100 bambine: una sproporzione dovuta agli aborti selettivi e al pregiudizio culturale

Correva l’anno 1985, quando la studiosa americana Mary Anne Warren denunciava, pioniera, i rischi dello sterminio volontario di un genere sessuale nel saggio «Gendercide: The Implications of Sex Selection». È passato un quarto di secolo e lungi dal rivelarsi un’iperbolica previsione, il «gendercidio», punta avanzata della crescente violenza contro le donne, si è trasformato in drammatica attualità. Ieri cinque agenzie dell’Onu hanno firmato a Ginevra una dichiarazione contro l’aborto selettivo delle bambine diffusissimo in Asia sud-orientale, mentre uno studio del Fondazione Thomson Reuters rilascia ora la classifica dei Paesi più pericolosi per la popolazione femminile, uccisa prima o dopo la nascita, socialmente discriminata o marginalizzata fino al silenzio.
È noto che povertà e sottosviluppo non favoriscano le pari opportunità. Con l’87% delle donne analfabete e il 70% costrette a matrimoni combinati, l’Afghanistan guida la lista nera della Fondazione Reuters. Seguono il Congo con l’orrendo primato di 1152 stupri al giorno, il Pakistan degli oltre mille delitti d’onore l’anno, l’India e i suoi 3 milioni di prostitute, il 40% delle quali minorenni, e la Somalia, dove il 95% delle ragazze ha subito mutilazioni genitali. Eppure il benessere economico non sembra serva da antidoto contro la mattanza, che già nel 1990 il Nobel Amartya Sen stimava aver impoverito il mondo di almeno 100 milioni di esseri femminili. Taiwan e Singapore, per dire, sono campioni di crescita, ma mostrano una sproporzione nel numero di fiocchi azzurri che sarebbe biologicamente impossibile senza l’intervento umano. C’è poi la Cina, dove secondo la Chinese Academy of Sociale Sciences entro il 2020 un uomo su 5 non potrà sposarsi per mancanza di potenziali mogli, decimate dalla selezione «innaturale» che già oggi «produce» 134 neonati ogni 100 neonate. Sbaglierebbe anche chi attribuisse la moria al perdurare atemporale del comunismo o alla famigerata politica del figlio unico. Il fenomeno infatti è in ascesa anche nei Paesi a dir poco allergici all’eredità sovietica, come Armenia, Azerbaijan e Georgia, o nella modernissima India, modello globalmente esaltato di democrazia liberista.
«Crescere una figlia è come innaffiare l’orto del vicino», recita un proverbio indù, alludendo all’inutile investimento sulla prole destinata alla famiglia del futuro marito. Il risultato è che la più grande democrazia della Terra guadagna capacità tecnologica, ma perde ogni anno 600 mila bambine (più esposte a morte precoce perché trascurate). E non conta che dal 1994 il governo abbia bandito l’aborto selettivo: se un tempo la diagnosi prenatale costava 110 dollari e prometteva ai genitori di far risparmiare i 1100 dollari della dote, oggi con 12 dollari lo scanner a ultrasuoni è alla portata dei meno abbienti e più interessati ad allevare braccia maschili. Figurarsi gli altri, benestanti e dunque convinti a riprodursi in modo contenuto e ottimale in termini di benefici futuri. Il tutto con buona pace della legalità.
L’impressione di studiosi come il demografo dell’American Enterprise Institute Nick Eberstadt è dunque che il «gendercidio» abbia poco a che fare con l’arretratezza economica e culturale, ma dipenda piuttosto dall’atavica preferenza per il maschio, dal boom delle famiglie ridotte e dalle tecnologie diagnostiche, una miscela letale di pregiudizi antichi e nuovi bisogni.
Qualcuno in realtà comincia già ad invertire la marcia. La Corea del Sud, fino al 1990 assestata su standard cinesi, ha compensato il dislivello maschifemmine con un’impennata di matrimoni misti, che dal 2008 sono oltre l’11% del totale. L’alternativa è l’aggressività macha di città come Pechino, dove negli ultimi 20 anni la delinquenza è raddoppiata, o Mumbai, con gli uomini senza donne responsabili per almeno un decimo dell’aumento dei crimini.
L’emancipazione femminile batte in ritirata? Al ritmo di due passi avanti e uno indietro c’è da sperare. Sebbene la crisi abbia colpito l’occupazione rosa e la violenza domestica avvicini tristemente Oriente e Occidente, un rapporto della Casa Bianca rivela che le donne contemporanee si laureano e brillano nel lavoro più dei maschi. Certo, i loro stipendi sono fermi al 70% di quelli dei colleghi ma gradi e responsabilità combaciano. La sfida è di genere, il pericolo però riguarda tutti: se crolla quella che Mao definiva l’altra metà del cielo è difficile che sotto qualcuno sopravviva.

La Stampa 16.6.11
“Un aspetto positivo? Ora se ne parla di più”
5 domande a Tiziana Leone demografa


Ricercatrice alla London School of Economics Tiziana Leone ha studiato alla Sapienza di Roma e a Southampton, ha lavorato all’ufficio statistico dell’Onu e dal 2006 è alla London School of Economics

Sembra che il gendercidio sia andato avanti, da quando nel 1990 Amartya Sen denunciava 100 milioni di donne scomparse. È così?
«Purtroppo le proiezioni non sono buone. In India, in particolare, il modello patriarcale un tempo circoscritto alle regioni del nord sembra aver contagiato anche il sud portandosi dietro le sue peggiori conseguenze».
Perché nonostante la globalizzazione del sapere, lo sviluppo economico e la crescente attenzione per i diritti umani, la situazione delle donne in certe zone sta peggiorando?
«La spiegazione è in parte demografica: il fenomeno si è accentuato negli ultimi anni perché la fecondità decresce ma le famiglie continuano a desiderare il fiocco azzurro. Se pianifichi due soli figli invece dei sei di una volta hai meno chance di avere un maschio. Così, oltre all’aborto selettivo, cresce l’infanticidio: nei primi mesi di vita la differenza nella mortalità di bambine e bambini è spaventosa».
Le donne studiano e lavorano di più ma restano vittime della violenza maschile, sia nel mondo povero che in quello “evoluto”. Perché?
«I dati, in realtà, devono essere letti con attenzione. Alcune cose vanno peggio, è vero. Ma l’aumento dell’autonomia, dell’educazione e dell’occupazione femminile significa anche una superiore consapevolezza in termini di diritti che si traduce in maggiori denunce delle violenze subite. Insomma, forse se ne parla di più».
Come si può contrastare la resistenza diffusa del retaggio patriarcale?
«Credo che la cosa migliore sia coinvolgere di più gli uomini, specialmente a livello locale. La legge cambia poco, bisogna intervenire sul piano culturale, sulla mentalità. Il governo di Delhi, per esempio, ha vietato gli aborti selettivi e in tutti gli ospedali ci sono cartelli che lo ricordano. Ma basta una mancia al tecnico di turno perché una strizzata d’occhio riveli il sesso del feto indagato dai macchinari. In alcuni villaggi indiani manca l’acqua ma non lo scanner a ultrasuoni per la diagnostica prenatale».
Cosa caratterizzerebbe un mondo molto meno colorato di rosa?
«Superlavoro per gli psicologi, aumento della violenza e della prostituzione, concorrenza feroce per le mogli. La Cina sta già pagando il prezzo della selezione dei sessi». [FRA.PA.]

La Stampa 16.6.11
Per un giorno Haaretz fatto dagli scrittori
“La pace è impossibile” Netanyahu si confessa al romanziere Keret
La dichiarazione scuote il mondo politico Il governo: va presa nel contesto «artistico»
di Aldo Baquis


TEL AVIV Persona pacata ed efficiente, il segretario del governo israeliano Zvi Hauser ha avuto ieri un soprassalto improvviso quando, aprendo di prima mattina il quotidiano Haaretz , ha visto spalmato sulla prima pagina un titolo raccapricciante sul futuro del processo di pace: «Netanyahu: questo conflitto non è risolvibile». Firmava il pezzo un corrispondente politico insolito: il romanziere Etgar Keret ( Meduse , Gaza Blues , Pizzeria Kamikaze ) giovane e allegro bohémien.
Ma ieri era una giornata speciale: perché in occasione della «Settimana del Libro» Haaretz aveva deciso di sostituire per una volta i suoi cronisti con una cinquantina di scrittori, israeliani e stranieri. I quali si sono rimboccati le maniche e hanno dissertato di politica, di cronaca nera, di sport, di previsioni meteo. Con le firme di Mario Vargas Llosa, Nicole Krauss, Nathan Zach, Sami Michael.
A Netanyahu è toccato concedere un’intervista a Keret. I portavoce hanno fatto il possibile per limitare i danni, chiedendogli che domande avesse in mente. «Ho subito capito che in un dialogo fra un giornalista e un premier che si sente perseguitato dalla stampa - afferma il romanziere -, la paura per una domanda fuori luogo equivaleva a quella che io introducessi di nascosto un’arma».
Mentre il giornale veniva distribuito agli abbonati, Hauser era già impegnato a circoscrivere i danni, spiegando a una radio che Keret aveva sì citato correttamente Netanyahu, ma purtroppo non aveva ben compreso il contesto: «Se i palestinesi riconosceranno Israele come Stato del popolo ebraico, il conflitto sarà risolvibile».
Virtuoso della scrittura satirica, Keret in realtà non ha infierito sul premier. «Sul piano umano, anzi, mi ha fatto un’impressione migliore di quella che avevo in partenza», ammette. «Invece, sul piano politico...». Come molti israeliani credeva che Netanyahu fosse in sostanza un politico molto condizionato dalle relazioni pubbliche, dalla sua immagine. Dunque passibile di cambiamenti. E invece, avendolo incontrato «a 20 centimetri di distanza», ha scoperto con sgomento che è un ideologo puro, «che le sue convinzioni politiche sono nel suo Dna». Insomma, lo ha trovato sincero. Da qui il senso di frustrazione che domina il pezzo e che, in definitiva, ha dettato il titolo. Netanyahu non comprende che gli israeliani hanno bisogno di tenere in vita la speranza «senza la quale - conclude Keret - non abbiamo futuro».

Sette del Corriere della Sera 16.6.11
Speculazioni, fallimenti, Graffiti d’autore: in Israele si vive così lungo il muro
Alla fine sarà lungo 725 km. Due terzi sono già stati realkizzati, alti fino a 8 metri, il doppio di quello di Berlino. Dichiarato illegale da Onu e Corte dell’Aja
di Francesco Battistini, foto di Francesco Cito

qui
http://www.scribd.com/doc/57979284

Repubblica 16.6.11
Cina, la rivolta degli operai nella capitale dei blue jeans
Qui si guadagna da 45 a 90 euro al mese per turni da 18 ore. Chi protesta viene picchiato
di Giampaolo Visetti


Salari bassi, corruzione e sfruttamento. Nella regione del Guangdong migliaia di lavoratori sono scesi in strada Chiedono più diritti, il rispetto dei proprietari delle aziende, assistenza sociale. E Pechino manda l´esercito

PECHINO. Milioni di cinesi la sera intonano vecchie canzoni rivoluzionarie nei parchi delle metropoli e ieri la nazione si è fermata per il debutto del kolossal sulla fondazione del partito comunista, glorificazione cinematografica estrema del maoismo. A novant´anni dalla nascita del più longevo autoritarismo della storia moderna, la Cina non riesce però a nascondere proteste e rivolte di massa che la scuotono come mai negli ultimi sessant´anni. Le insurrezioni degli ultimi giorni, a differenza di quella di piazza Tiananmen nel 1989, non scoppiano per ragioni politiche, o per sete di libertà e democrazia. Il popolo cinese, per la prima volta, occupa ora le piazze e si scontra con la polizia per chiedere maggiori diritti sul lavoro, salari dignitosi, un´occupazione stabile, il rispetto dei proprietari delle aziende, la tutela di case e terreni, accoglienza e servizi sociali nelle metropoli.
Pechino assiste all´esplosione di sommosse in serie con un´inquietudine senza precedenti, ma le minacce di «tolleranza zero» e di repressioni violente, tese a scongiurare «il contagio del virus democratico partito dall´Africa mediterranea», non riescono a contenere la nuova rabbia di migranti, operai e contadini. Simbolo di questa Cina inquieta è il villaggio di Xintang, lungo il delta del Fiume delle Perle, epicentro mondiale delle industrie tessili, nel Guangdong. Centomila immigrati del Sichuan producono qui ogni anno 200 milioni di paia di jeans per 60 tra i più famosi marchi del pianeta. I lavoratori guadagnano da 45 a 90 euro al mese per turni quotidiani da 18 ore e chi protesta viene massacrato di botte. Sabato scorso un´ambulante ventenne, incinta, è stata pestata a sangue fuori da un supermercato e l´ennesima violenza degli agenti ha scatenato la rivolta popolare. Migliaia di persone hanno bruciato auto e distrutto negozi, dando l´assalto al quartiere dove si concentrano i nuovi milionari. Le autorità sono state costrette a proclamare il coprifuoco e a chiedere l´intervento dell´esercito.
Dopo cinque giorni la tensione resta altissima, le fabbriche sono chiuse, mentre scioperi e saccheggi si diffondono in tutto il Paese. A Lichuan, nella regione dell´Hubei, duemila insorti hanno preso d´assalto il municipio dopo che un funzionario schierato contro gli espropri forzati della terra è stato ucciso a calci. Agenti in tenuta antisommossa pattugliano la città di Zengcheng e i principali distretti produttivi della costa e del Sud, dove centinaia di scioperi stanno paralizzando le esportazioni. Nonostante la censura, le segnalazioni di rivolte si moltiplicano su Internet. A fine maggio una folla inferocita ha occupato le strade della Mongolia Interna, tre esplosioni misteriose hanno distrutto i palazzi amministrativi dello Shanxi, mentre Pechino, per due mesi ha deciso di tornare a chiudere il Tibet agli stranieri. A metà anni ´90 le proteste di massa in Cina erano circa 9 mila all´anno. Sono schizzate a 180 mila nel 2010 e quest´anno la facoltà di Sociologia dell´università Tsinghua prevede che supereranno le 200 mila.
I leader comunisti, più del numero, temono però la loro qualità. Contadini, migranti e operai, sembrano non sopportare più la corruzione dei funzionari, la prepotenza delle forze dell´ordine, lo scandalo di salari da fame. Può essere l´annuncio della crisi del modello che per trent´anni, grazie allo sfruttamento, ha alimentato l´inarrestabile crescita della seconda potenza economica del mondo. Per questo, con Pechino, anche l´Occidente Asia-dipendente inizia a preoccuparsi.

Repubblica 16.6.11
La Valle de los Caìdos dovrebbe diventare un luogo per onorare tutte le vittime della Guerra civile Ma in difesa del luogo caro ai nostalgici insorge Carmen, l´ottuagenaria figlia del dittatore spagnolo
La sfida di Zapatero "Il corpo di Franco via dal mausoleo"
di Omero Ciai


È l´ultimo strappo alla transizione "morbida" che sul finire degli anni Settanta, dopo la morte del dittatore Francisco Franco, trasformò la Spagna in una monarchia costituzionale. Con la legge sulla "memoria storica" il premier socialista Zapatero ha fatto rimuovere dalle piazze delle principali città le numerose statue del Caudillo e altre immagini della dittatura franchista sopravvissute nell´era democratica. Ora lancia l´ultimo assalto al simbolo più crudele e brutale del trionfo delle truppe golpiste sull´esercito repubblicano nella Guerra Civile del 1936-39: el Valle de los Caìdos. Sessanta chilometri a nord di Madrid, nella sierra del Guadarrama, scavato nella roccia c´è il mausoleo, che sotto una lastra di granito da 1500 chili, conserva le spoglie di Francisco Franco. In questi giorni è stata formata una commissione, composta da storici, giuristi e religiosi, che entro il prossimo novembre dovrà pronunciarsi sul trasloco dei resti del dittatore per trasformare la «valle dei caduti» in un luogo dove onorare tutte le vittime della Guerra Civile.
Il principale ostacolo alla trasformazione della vallata da simbolo franchista in un luogo di riconciliazione è la figlia ultraottantenne di Franco, Carmen. Ma il futuro è già deciso e Ramon Jauregi, il ministro alla Presidenza del governo Zapatero, si augura che i resti del dittatore possano traslocare entro la primavera del 2012, prima della fine della attuale legislatura. Il loro destino più probabile è il cimitero di El Pardo, dove si trova già la tomba della moglie, Carmen Polo, e il trasferimento potrebbe essere l´ultimo atto del governo di José Luis Rodriguez Zapatero che non ripresenterà la sua candidatura alle prossime elezioni.
Costruito con il lavoro forzato di migliaia di prigionieri politici, el Valle de los Caìdos è rimasto, a quasi 36 anni dalla morte di Franco (20 novembre 1975), un luogo intoccabile. Prima di Zapatero hanno tentato di trasformarlo senza successo sia Adolfo Suarez, il primo capo di un governo democratico, sia Felipe Gonzalez. Nel complesso si trovano una Abbazia benedettina e una Basilica scavata nella roccia dove ci sono le tombe di Franco e di José Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange spagnola.
Insieme a quelle di altri 40mila militari dei due schieramenti che si fronteggiarono nella Guerra Civile. I fascisti con nome e cognome, i repubblicani senza identità, la maggior parte fucilati e riesumati dalle fosse comuni per essere sepolti accanto ai loro aguzzini. Sopra la Basilica sorge la Croce cristiana più alta del mondo, 150 metri, visibile da oltre 40 chilometri di distanza.
Per la Spagna democratica «la valle dei caduti» è una ferita anche perché ogni anno è meta di pellegrinaggi e luogo d´incontro per i nostalgici della dittatura. Ma non tutti sono d´accordo con Zapatero. Il presidente del Parlamento, il socialista Josè Bono, ha detto in proposito che «il momento di lottare contro Franco è finito nel 1975, quando morì». Nonostante consideri superflua l´idea di spostare la tomba di Franco, Josè Bono ha approfittato della polemica per attaccare gli storici della Real Accademia colpevoli, proprio in queste settimane, di aver pubblicato una biografia molto agiografica dell´ex dittatore.

Repubblica Firenze 16.6.11
La vicenda della falsa Amina e i dubbi sull’informazione dei blog
di Giovanni Ruffini


L´autrice del diario "A gay girl in Damascus" non esisteva. Ma i suoi post non hanno comunque aumentato la visibilità della rivolta democratica in Siria?
Bisogna domandarsi se i dubbi non siano sempre salutari, dal momento che invitano e quasi obbligano a non subire passivamente le informazioni

La scoperta che Amina, la giovane blogger siriana autrice del famoso diario "A gay girl in Damascus" - che si credeva incarcerata e per la cui liberazione si è mobilitata una gran quantità di attivisti on-line - fosse in realtà un falso, ha destato scalpore e indignazione. Chi più si era impegnato per difendere le idee diffuse dalla misteriosa ragazza, con maggior vigore si è scagliato contro gli autori ‘veri´ degli articoli del blog. E però, attenzione: indignarsi, in questo caso, potrebbe essere una reazione del tutto sbagliata. Meglio partire da una domanda: che risultati, reali, hanno ottenuto i post di Amina?
Quegli articoli, letti e commentati da migliaia di persone, hanno acceso un riflettore sulla scarso rispetto dei diritti umani da parte del regime siriano, contribuendo così alla crescita civile e sociale di un intero paese (reale). Del resto, i contenuti del web 2.0 sono costituiti in massima parte da storie, commenti e opinioni personali di milioni di utenti della rete, con visibilità immediata da parte di altrettanti milioni di utenti. Tutto questo avviene in modo trasparente: tutti possono essere identificati dalle tracce lasciate quotidianamente nella rete attraverso l´uso di telefoni cellulari, social networks e normale attività on-line. Moltissimi utenti strutturano volontariamente le proprie identità sul web, a cui attribuiscono grandissima importanza. E, fra gli altri, a ricordarcelo autorevolmente è, proprio in questi giorni, la mostra della Strozzina «Identità virtuali», rassegna di video e installazioni fra cui quella della fotografa Diana Djeddi, che illustra la triste vicenda di Neda Soltan, la studentessa iraniana uccisa a Teheran nelle manifestazioni del 2009. La notizia della tragedia, come si ricorderà, aveva avuto grandissima risonanza grazie ai social network, ma, incredibilmente, la fotografia della ragazza divenuta icona della rivolta era stata tratta dal profilo Facebook di un´altra Neda Soltani, giovane insegnante quasi omonima e somigliante, costretta poi a rifugiarsi in Germania per evitare ritorsioni.
Per tornare ad Amina: i suoi racconti non avranno cambiato il mondo, ma hanno di sicuro creato un seguito internazionale e fatto pensare e discutere un gran numero di persone su problemi reali e molto seri nei luoghi geografici in cui erano (fittiziamente?) ambientate: vivere l´omosessualità maschile o femminile in Siria non dev´essere esattamente una passeggiata, in particolare in questo periodo di dura repressione delle libertà individuali. Molti attivisti delusi denunciano un grave danno di credibilità per i veri dissidenti siriani, o almeno la distrazione del pubblico della blogosfera dalle reali ragioni della lotta per la libertà. Ma, al contrario, non è più probabile che la vicenda di Amina abbia aumentato la visibilità della rivolta democratica in Siria?
Insomma, coerentemente con questo punto di vista, si può affermare: Amina c´è. Amina esiste, o almeno esisteva finchè tale Thomas MacMaster, scrittore americano di scarso successo e incarnazione materiale (fittizia?) dell´identità (reale?) di Amina, non ha deciso di confessare la finzione, cioè la verità. Certo, la grande facilità ai giorni nostri di creare e diffondere contenuti fittizi costringe tutti a porsi dei dubbi sull´attendibilità delle informazioni e sull´identità degli autori. Ma questo non rappresenta forse un aspetto positivo della comunicazione via internet? I dubbi non sono forse sempre salutari, dal momento che invitano e quasi obbligano a non subire passivamente le informazioni propinate da fonti esterne, ma obbligano ad attivarci per verificarle? Spingendo, inoltre, ad approfondire le conoscenze individuali e a condividerle con gli altri, andando ad ampliare sempre più le possibilità di ognuno di crescita intellettuale e, paradossalmente, di discernimento fra la verità e le tante finzioni ufficiali e istituzionali che condizionano da sempre la vita reale e sociale. Concludendo: in fondo è preferibile credere ad Amina piuttosto che alla nipote di Mubarak. Così è (se vi pare).
L´autore è ricercatore di Sistemi informativi territoriali all´università di Firenze

Repubblica 16.6.11
Fuga dalla libertà
Guida antropologica al "servo arbitrio"
di Gustavo Zagrebelsky


Un brano della lezione che Zagrebelsky terrà a Roma per il ciclo "Le parole della politica"
Dobbiamo liberarci dei nemici che ci portiamo dentro. Per farlo servono diversità, legalità, cultura uguaglianza e sobrietà
Sono quattro i tipi umani che rinunciano al loro volere: il conformista, l´opportunista, il gretto e il timoroso

Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è – parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – questa complicità degli oppressi con l´oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome – apparso allora per la prima volta - è "servitù volontaria". Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d´essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s´impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l´opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi.
a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L´uomo-massa è l´espressione per indicare chi solo nel "far parte" trova la sua individualità e in tal modo la perde. L´ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi "a posto", "accettato".
Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l´autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l´affettazione modaiola. La "tirannia della pubblica opinione" è stata denunciata, già a metà dell´Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell´immagine, è certo più pericolosa di allora. L´individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della "polizia" senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d´essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?
b)L´opportunista è un carrierista, disposto a "mettersi al traino". Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d´essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d´essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t´accorgi d´essere prigioniero d´una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo. Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?c)L´uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente "la politica". Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l´ipocrita superiorità: "certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione", dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell´ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti. La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta "autenticità" personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d´esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell´immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della "uguaglianza solitaria": vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria. Su questa massa solitaria s´innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: "al di sopra di costoro s´innalza un potere immenso e tutelare, che s´incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E´ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti". Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, "immenso e tutelare", è un uomo libero o è un bambino fissato nell´età infantile?
d)La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra "costituzione psichica", dice Freud: l´uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po´ di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l´essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del "pane terreno", simbolo della mercificazione dell´esistenza. Il "pane terreno" che l´uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: "il superfluo, cosa molto necessaria". E´ libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?
Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l´insidiano "liberamente", dall´interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all´apparenza; l´opportunista, alla carriera; il gretto, all´egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d´omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà. La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l´amore per la diversità; l´opportunismo, con la legalità e l´uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.

Corriere della Sera 16.6.11
Prima si vive e poi si parla
Non siamo computer: impariamo le parole solo in un contesto
di Massimo Piattelli Palmarini


Immaginiamo di dover imparare una lingua straniera e di avere a disposizione due anni di tempo. Ci prefiggiamo, quindi, di imparare su un buon dizionario, o ascoltando la radio o guardando la televisione di quel Paese, appena (dico appena) 10 parole al giorno, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Dopo due anni, teoricamente, sapremmo 7.300 parole di quella lingua. Ma, in realtà, nessun adulto ci riuscirebbe, nemmeno alla lontana. Invece, qualunque bimbo di età tra circa uno e sette anni ci riesce, per la sua lingua materna, senza alcuno sforzo, mentre gioca, mangia, viene portato a spasso e fa mille altre cose. Infatti, in media, un bimbo normale, in situazioni di vita normale, in qualunque parte del mondo, impara una parola nuova per ogni ora in cui è sveglio. Non solo impara parole semplici come cane, cucchiaio e finestra, ma anche concetti astratti come compleanno, regalo e giocattolo, e verbi astratti come sapere, indovinare e restituire. La profonda differenza, tra il bimbo e l’adulto, nelle loro potenzialità di apprendimento, risiede senza dubbio nella loro diversa conformazione cerebrale e nello sviluppo delle reti nervose. Di questo poco sappiamo nello specifico, ma da molto tempo gli psicologi dello sviluppo e i linguisti si sono chiesti come tale apprendimento sia possibile, quale tipo di informazione sia necessaria e sufficiente affinché i bimbi riescano a completare questo formidabile compito. Nell’ultimo numero dei «Proceedings of the National Academy of Sciences» , la decana degli psicologi cognitivi americani, Lila Gleitman, con i suoi giovani collaboratori all’Università della Pennsylvania a Filadelfia, cioè Tamara Nicol Medina e John C. Trueswell, e con la sua collega Jesse Snedeker di Harvard, ha appena pubblicato i risultati di alcuni recenti nuovi esperimenti. A soggetti adulti e a bambini intorno ai sei-sette anni, sono state presentate brevi sequenze filmate di situazioni reali spontanee, nelle quali un genitore parla al suo bimbo piccolo (età tra un anno e un anno e mezzo) e introduce una parola nuova, ma del tutto comune (come, ad esempio, scarpa, cane, palla o cavallo). A questi filmati era stato, però, tolto il sonoro, eccetto per un segnale acustico (un beep) udibile esattamente nel momento in cui, nella situazione reale filmata, il genitore pronuncia quella parola, e per la durata esatta della pronuncia della parola. Una variante è far udire ai soggetti, invece del beep, una parola inventata, della stessa durata della parola reale («flarpa» invece di scarpa, «lacollo» invece di cavallo). Si è verificato che questa variante non cambia niente di essenziale. Il compito dei soggetti sperimentali era, appunto, cercare di capire quale parola era stata veramente pronunciata nella situazione effettiva del filmato e cosa questa parola significhi. Tali esperimenti potrebbero sembrare a prima vista molto artificiosi, ma sono invece una replica rigorosa delle situazioni più difficili realmente incontrate dai bimbi piccoli, quando viene loro presentata una parola nuova. Infatti, raramente un genitore pronuncia parole isolate. Non è naturale indicare una palla e dire solamente «palla» , nel vuoto. Normalmente il genitore dirà qualcosa come: «Guarda, questa è una palla, guarda che bella» . Oppure: «Domani andiamo allo zoo a vedere le zebre. Ora apriamo il libro, guarda, questa è una zebra, domani le vedrai allo zoo» . La parola nuova viene sempre incastonata tra altre parole, in una frase. In anni recenti, in altri esperimenti, proprio Lila Gleitman aveva mostrato quanto sia fondamentale per il bimbo più grandicello capire la sintassi della frase per comprendere il significato di verbi per i quali non c’è niente, proprio niente, che si possa mostrare. Per esempio verbi come dire, negare, ripetere e simili. Ma la situazione più difficile per il bimbo più piccolo è proprio quella ora simulata nei suoi nuovi esperimenti, cioè quando il bimbo piccolo non capisce nemmeno le altre parole della frase. Chiedo a Lila Gleitman quali risultati ha ottenuto in situazioni pur tanto restrittive. «Come era da attendersi, in molti casi i soggetti individuano la parola giusta e il suo significato alla prima battuta, senza bisogno di ripetizioni. Così deve essere, infatti, dato che il bimbo impara una parola nuova circa ogni ora» . Chiedo come mai non si verifichino ogni sorta di errori. «Due sono le spiegazioni — precisa la Gleitman —. La prima è che i nostri soggetti, proprio come i bimbi, sanno benissimo, d’istinto, quali sono le situazioni tipiche per ricevere una parola nuova e le sfruttano. La situazione deve mettere in risalto ciò cui la parola nuova si riferisce. Tutti portiamo sempre delle scarpe e vedere le scarpe ai piedi dei genitori non apporta alcuna informazione. Ma se una scarpa viene appositamente estratta da un cassetto o da una borsa e manifestamente mostrata, allora è chiaro che la si mette appositamente in risalto. La seconda è che un’idea, un’ipotesi implicita su una parola viene tenuta in memoria per ulteriori situazioni tipiche. Per esempio quando la mamma è intenta a lustrare una scarpa. Udire di nuovo quella parola in questa nuova situazione tipica, anche se entro un flusso di altre parole non note (come lustrare), la fissa stabilmente» . Ulteriori opportune verifiche, simmetriche e opposte, sono venute, in questi esperimenti, da filmati di situazioni non tipiche, nelle quali né i bimbi né gli adulti riescono a individuare la parola. Tra l’una e l’altra situazione, quando non tipiche, nemmeno si ricordano più l’idea che si erano fatti precedentemente. Le conclusioni di questi esperimenti confutano una teoria molto diffusa e pervicacemente perseguita da altri psicologi e incorporata in simulazioni al computer, cioè la teoria generale dell’apprendimento basata sulle ripetizioni e le associazioni. Anche le ripetizioni in situazioni non tipiche dovrebbero, secondo questa teoria, consentire di imparare le parole nuove, ma questo non succede. Invece, una singola presentazione di una situazione tipica ottiene di botto l’effetto sperato. Da molti anni, con svariati eleganti esprimenti, Lila Gleitman ha lottato contro le teorie dell’apprendimento basate su congetture, errori, ripetizioni e generalizzazioni statistiche, cioè contro le teorie dette empiriste. Insieme al suo coetaneo, vecchio amico, talvolta coautore e sempre alleato, il linguista Noam Chomsky, la Gleitman ha profuso dati e argomenti molto persuasivi contro l’empirismo e a favore dell’innatismo. Eppure la teoria empirista va ancora per la maggiore. Come mai? Mi risponde, allargando le braccia e sorridendo un po’ maliziosamente, con un paradosso: «Che ci vuoi fare? L’empirismo è esso stesso innato» .

il Riformista 16.6.11
Per la scienza la religione rende più forti
Giornate pisane di psichiatria. Uno studio condotto dall’Università di Pisa in collaborazione con quella de l’Aquila, sulle condizioni post-traumatiche a seguito del sisma del 2009, rivela che la fede riveste un ruolo protettivo
di Flavia Piccinini

qui

il Fatto 16.6.11
Ci manchi, Ragazzo rosso
di Diego Novelli


La prima volta che ho sentito parlare di Gian Carlo Pajetta ero bambino. Quel nome veniva pronunciato con molta circospezione nei discorsi degli adulti, fatti alla sera, sotto un pergolato di uva americana, al fondo del cortile di casa mia, un vecchio edificio di Borgo San Paolo. Sua madre, El-vira, insegnava alla scuola elementare “Santorre di Santarosa”. Sopportava con grande fierezza una brutta disgrazia che le era rovinata addosso; il primogenito dei suoi figli, era in galera, ma non nascondeva la sua vergogna. Quel “Barabba” si chiamava Gian Carlo e la maestra quando lo menzionava con mia madre e le altre donne del borgo, diceva semplicemente, con tono affettuoso, “il mio Gian”.
GIAN CARLO ERA NATO a Torino nel 1911, in un decoroso edificio lungo la strada principale del quartiere, via Villafranca (oggi via Dante di Nanni), nel tratto che si affaccia sulla piazza Sabotino, cuore del borgo. Ha vissuto gli anni della fanciullezza e della prima adolescenza in questo quartiere operaio, durante la Prima guerra mondiale, nel “biennio rosso”, poi nei primi anni del fascismo. Borgo in cui ha vissuto con la famiglia Montagnana anche Togliatti, i fratelli Negarville, Battista Santhià. Antonio Oberti, Eusebio Giambo-ne. (...)
Nella primavera del 1925, a soli 14 anni, Pajetta entra nella Federazione Giovanile comunista. Si iscrive alla scuola di partito per corrispondenza voluta da Antonio Gramsci: ne uscirono solo due dispense. Il settore di giovani comunisti di Borgo San Paolo contava una quindicina di aderenti. Gian Carlo non ha ancora compiuto il quindicesimo anno di età quando viene espulso dalla scuola per la sua attività di “sovversivo”, antifascista. Il giorno dei morti del 1926, il 2 novembre, arrivano le leggi dei Tribunali Speciali. Nel febbraio del 1927 è sospeso per tre anni dal Liceo-ginnasio Massimo D’Azeglio, il mitico istituto frequentato da molti giovani diventati poi personalità del mondo della politica e della cultura italiana: Vittorio Foà, Massimo Mila, Leone Ginzburg, Cesare Pavese, con insegnanti come Umberto Cosmo, Augusto Monti e i giovani “supplenti” Norberto Bobbio e Franco Antonicelli.
“Fecero tutto per bene – scrive Pajetta nel suo libro Il ragazzo rosso – c’era l’ispettore venuto da Roma. Si riunì il Consiglio dei professori, la deliberazione fu che non bastavano le testimonianze di compagni di scuola sul fatto che io avessi persino parlato “contro la religione” e che mi dicessi comunista. Mi assolsero al primo consiglio, ma non potei tornare a scuola. Non furono assolti dal ministero i professori che avevano dato quel giudizio. Venne un altro ispettore, più fascista, inutilmente insinuante con me, arrogante non senza frutto con quelli che dovevano tornare a essere i miei giudici. Decisero, nel verdetto di appello, richiesto dal ministero ed emanato dagli stessi che prima avevano pronunciato l’assoluzione, che dovevo essere espulso, come esprimeva la formula rituale: “Da tutte le scuole del Regno per tre anni”. Era il massimo della pena, prima della reclusione che, per fortuna, i professori non potevano essere obbligati ad irrorare”. Prima che l’anno finisse, arrivava anche quella. Gian Carlo Paietta iniziava l’anno nuovo nella sezione dei minorenni delle carceri giudiziarie di Torino. Non aveva ancora 17 anni. Scontata la prima condanna a due anni di reclusione nelle carceri di Torino, Roma e Forlì, appena uscito dalla galera riallaccia i rapporti con l’organizzazione clandestina del suo partito che dopo poco tempo lo fa espatriare in Francia, dove assume il nome di battaglia “Nullo”, un eroe garibaldino, un ufficiale della spedizione dei Mille, andato a morire in Polonia, per la libertà di quel paese. Diventato un funzionario comunista, “un rivoluzionario di professione” viaggia con passaporto falso dall’Italia alla Francia, alla Germania dove partecipa al IV Congresso del Pci che si svolgerà a Colonia. Viene eletto segretario della Federazione giovanile comunista italiana, l’organizzazione a cui aveva aderito appena quattordicenne. Assunse la direzione del giornale Avanguardia e viene designato a rappresentare l’Italia in seno al Kim, l’organizzazione giovanile comunista internazionale. Festeggia il suo ventesimo compleanno a Mosca, partecipando a un Congresso del partito. Il 1933 sarà un anno terribile per il “Ragazzo rosso”. In una delle numerose missioni clandestine in Italia viene arrestato a Parma: è il 17 febbraio, non ha ancora compiuto 22 anni. L’anno dopo, il 2 febbraio del 1934, verrà processato di fronte al Tribunale Speciale fascista che lo condannerà a 21 anni di reclusione. Ne sconterà 11 (di cui tre in isolamento) nei carceri di Civitavecchia e di Sulmona da dove verrà scarcerato il 23 agosto del 1943, dopo la caduta del fascismo. Poi venne l’8 settembre, la guerra partigiana (dove cadde suo fratello Gaspare), la Liberazione e gli anni della democrazia vissuti da Gian Carlo Pajetta da protagonista, come una delle figure più rappresentative del suo Partito.
Nel secondo dopoguerra l’angolo della casa di Pajetta è stato sino all’ultima recente campagna elettorale, lo spazio tradizionale per il comizio di chiusura del Borgo. Ho avuto modo di lavorare con lui per molti anni, a partire dall’ormai lontano 1953, durante le elezioni politiche che avevano come obiettivo primario il cambiamento della legge elettorale, per introdurre un premio di maggioranza alla coalizione dei partiti “apparentati” che raggiungevano il 50% dei voti più uno. Quella campagna elettorale contro quella legge fu caratterizzata, oltre che dall’immediata denominazione di legge truffa (oggi sarebbe grasso che cola), anche da uno slogan inventato da Pajetta, che ebbe grande successo: “I forchettoni”. Ricordo che su suo suggerimento passavamo le notti alla redazione dell’Unità di Torino, di corso Valdocco, a ritagliare su fogli di cartone, grandi coltelli, cucchiai e forchette che, sempre di notte, andavamo ad appendere ai giganteschi tabelloni della propaganda demo-cristiana, sistemati lungo i viali e le piazze torinesi, trasformando i platani e i tigli che li circondavano, in veri e propri alberi di Natale. Gian Carlo Pajetta è stato nella storia politica italiana un grande comunicatore attraverso i suoi comizi che richiamavano le folle. Ma è l’avvento della televisione (che impauriva importanti leader politici) che fa di Pajetta una sorta di mattatore. Memorabili rimangono le sue apparizioni, all’inizio degli anni Sessanta, nei programmi di “Tribuna politica” e “Tribuna elettorale”, con la sua accattivante ironia, le sue brucianti battute e i suoi sferzanti colpi di teatro. Indimenticabile la sedia vuota riservata al presidente della Coldiretti che lui aveva invitato perché rendesse conto dei bilanci della Federconsorzi.
LA MORTE LO HA COLTO nella notte tra il 12 e il 13 settembre del 1989. (...) Poche ore prima Gian Carlo aveva rilasciato un’intervista al Mattino di Napoli. Confidava al giornalista che neanche in carcere aveva sofferto come in quella fase politica che il suo partito stava attraversando, dopo la cosiddetta svolta della Bolognina e la formazione di due componenti contrapposte all’interno del Pci. Pajetta non si era schierato per nessuna delle due mozioni che stavano per confrontarsi nell’imminente congresso. “Questo è il momento peggiore della mia vita di militante”. Una vita dedicata totalmente al suo partito. Negli ultimi vent’anni della sua esistenza la mia conoscenza con Pajetta e la nostra comune militanza si era trasformata, via via, in fraterna amicizia. “Il partito è una macchina che ti assorbe fino a travolgerti – mi ha detto più volte – ma in fondo è stata mia madre a insegnarmi a essere comunista”.

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Sul Riformista di oggi una lettera di Flore Murard
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