il Riformista 17.6.11
Intervista a Anna Maria Panzera
Caravaggio antiumanista
di Roberta Lombardi
nelle edicole, più tardi disponibile qui
segnalazione di Giovanni Senatore
Questo articolo del Washington Post ha vinto il Premio Pulitzer nel 2010:
Internazionale n.902 17.6.11
Bambini dimenticati
di Gene Weingarten, The Washington Post
nelle edicole, più tardi disponibile qui
La Stampa 17.6.11
Clandestini espulsi e immigrati nei Cie fino a diciotto mesi
Il governo vara un nuovo decreto legge voluto da Maroni
La svolta caldeggiata dalla Lega che si era vista bloccata la linea dura
Cittadini comunitari. Per la prima volta introdotta la misura del rimpatrio se sono ritenuti pericolosi
di Flavia Amabile
Espulsione immediata per tutti i clandestini, e aumenta il tempo di permanenza nei Cie a 18 mesi. A tre giorni da Pontida e dalla resa dei conti con la Lega, il Consiglio dei ministro ha approvato un decreto legge fortemente voluto dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Alla fine del consiglio il premier Silvio Berlusconi spiega che il prolungamento dei tempi è necessario per rendere possibile «l'identificazione e la procedura di espulsione» e che il decreto dà «attuazione a due direttive europee».
Si tratta di un’indubbia accelerazione alla lotta contro l'immigrazione irregolare che negli ultimi tempi è risultata bloccata dalle sentenze della Corte di giustizia europea e della Corte Costituzionale che considerano poco coerenti con le norme le fughe in avanti volute dalla Lega.
Il ministro Maroni però si dice sicuro di sé. Il decreto, sottolinea, «é coerente con le norme dell'Unione». Anzi, le rende più chiare perché «fornisce un'interpretazione della direttiva europea sui rimpatri (la 115 del 2008), che finora era stata interpretata dalla magistratura con la possibilità di consegnare ad alcuni clandestini un foglio di via, dando loro da 7 a 30 giorni per allontanarsi dall'Italia, vietando di fatto le espulsioni coattive». Col decreto approvato, ha proseguito, «noi le ripristiniamo per tutti gli extracomunitari clandestini pericolosi per l'ordine pubblico, a rischio fuga, coloro che sono stati espulsi con provvedimento dell'autorità giudiziaria, violano le misure di garanzia imposte dal questore, violano il termine per la partenza volontaria». E il giro di vite riguarda anche i cittadini comunitari, per i quali, «viene introdotta per la prima volta l'espulsione per motivi di ordine pubblico se permangono sul territorio nazionale in violazione delle prescrizioni della direttiva sulla libera circolazione dei comunitari».
Il punto più contestato del decreto è il prolungamento del periodo di permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) fino a 18 mesi, «attraverso una procedura di garanzia – ricorda Maroni - che passa dal giudice di pace. Nel 2009 quando noi abbiamo messo mano alle normative, si poteva trattenere nei Cie solo due mesi, poi siamo passati a 6 e adesso termine il termine è di 18 mesi per consentire l'identificazione oppure l'effettiva espulsione, cioè l'ottenimento da parte dell'autorità diplomatica del Paese di origine del visto d'ingresso. Può passare molto tempo, in 18 mesi siamo in grado di garantire l'espulsione di tutti coloro vengono messi nei Centri».
Canta vittoria Roberto Calderoli, ministro leghista della semplificazione normativa. «Arrivano le prime risposte concrete ai problemi abbiamo posto». Soddisfatto anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno: «Da molto tempo aspettavamo questo strumento se la legge sarà simile alle nostre attese sarà finalmente possibile espellere i cittadini comunitari che violano la legge così come gli extracomunitari». In questo modo, «possiamo garantire i cittadini romani e le comunità di immigrati rispetto a coloro che violano la legge italiana e le regole».
Decisamente contrarie le opposizioni e il mondo cattolico. «Si vede che mancano tre giorni a Pontida», commenta Anna Finocchiaro, presidente del gruppo in Senato . «Non c'è che dire: – aggiunge - continua il pericoloso populismo demagogico del governo. In nome del ricatto leghista, spunta l'assurda e grave, quanto inapplicabile e inattuabile, detenzione nei Cie di persone incensurate fino a 18 mesi e le altrettanto poco attuabili espulsioni immediate». Per il leader di Sel Nichi Vendola si tratta di «un atto tanto volgare quanto disperato». E, ancora: «uno scalpo da esibire a Pontida» . Leoluca Orlando (Idv) sottolinea che l’estensione della permanenza nei Cie è «contraria alle norme comunitarie».
«Vuol dire esasperare maggiormente la situazione», osserva mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei, mentre i Gesuiti del Centro Astalli parlano di decisione «assurda». Per mons. Perego, i Cie «non sono un luogo dove le persone vengono tutelate». «Il problema vero - dice al Sir, l'agenzia dei vescovi - non sono tanto i tempi quanto il luogo di trattenimento. Sappiamo che i Cie sono un luogo di grande conflittualità, violenza, autolesionismo, perché la persona non è tutelata». Inoltre «nei Cie non c'é nessun progetto, mancano percorsi che possano portare ad un discorso lavorativo, scolastico e di tutela più generale». «E' una forma di carcerazione - aggiunge il direttore di Migrantes - che non aiuta assolutamente la promozione della persona», considerando che «la clandestinità non è reato». Per Paolo Ferrero (Prc), «riemerge l'anima autenticamente xenofoba e securitaria» del ministro. L'Arci ha definito una «vergogna» l'aumento a 18 mesi per il trattenimento nei Cie, il Cir (Consiglio italiano rifugiati), un «atto punitivo, viste le condizioni in cui versano questi centri».
il Riformista 17.6.11
Nei Cie 18 mesi ed espulsioni coatte pure per cittadini Ue
Il piano di Maroni. Presentato il nuovo pacchetto immigrazione. Aumenta di un anno la permanenza dentro i centri di identificazione ed espulsione. Critiche da opposizioni e Onu.
di Francesco Persili
nelle edicole, più tardi disponibile qui
«si sono incontrate le delegazioni del Parlamento di Tel Aviv e della Lega Nord...hanno discusso delle comuni radici giudaico-cristiane di Europa e Israele»
Corriere della Sera 16.6.11
Attraverso Maroni e Israele la Lega scopre la politica estera
di Dario Di Vico
qui
https://docs.google.com/document/d/1b7NsoJsvgdnEuaE_7ifFmXMNwleOoXhDsY1FRJPrkL8/edit?hl=it
il Fatto 17.6.11
Al freddo e in catene: i nuovi schiavi europei
Traffico di disperati tra Portogallo e Spagna. Lo stesso trattamento dei negrieri
di Alessandro Oppes
Madrid. La crisi, in qualche modo, c’entra. Con le sue devastanti conseguenze di precarietà, disoccupazione, nuove povertà. Ma mai nessuno avrebbe immaginato che potesse produrre un effetto collaterale distorto e criminale che si sperava cancellato per sempre dal codice genetico delle società avanzate: si chiama schiavitù – ed è in tutto simile nelle forme alla pratica aberrante abolita due secoli fa – la nuova ombra inquietante che plana minacciosa sul vagone di coda dell’Europa del XXI secolo. La prima prova tangibile della ricomparsa dei “negrieri”, e delle loro vittime, è in una sentenza pronunciata ad aprile dal Tribunale di Fundão, nel Portogallo centro-orientale. Sul banco degli imputati, una banda criminale a gestione familiare: il capo, Antonio José Fortunato Maria, soprannominato “Tó Zé Cigano”, e i genitori settantenni, entrambi complici. Oriundi portoghesi ma residenti in Spagna. Qui percorrevano le campagne per verificare chi avesse bisogno di manodopera a basso costo. Poi tornavano al loro paese d’origine e andavano alla ricerca di persone che vivessero in miseria, preferibilmente unita a problemi di alcolismo o deficienze mentali. Quello che offrivano era una retribuzione minima, assicurando però vitto e alloggio gratis a cambio del lavoro nei campi.
UNA VOLTA ARRIVATI in Spagna, la situazione a cui i malcapitati si trovavano di fronte era completamente diversa. L’incubo cominciava con il sequestro dei documenti. Li obbligavano a lavorare anche 20 ore al giorno tra percosse incessanti, freddo, fame e ogni tipo di vessazioni. Dormivano in 12 incatenati gli uni agli altri – proprio come avveniva all’epoca della tratta degli schiavi nelle stive delle navi negriere – in un pollaio vecchio e sudicio. Qualcuno, come il minorenne Ricardo dos Santos, è poi riuscito a fuggire da questa “hacienda” degli orrori, nelle campagne di Iscar, provincia di Valladolid, ad appena 150 chilometri da Madrid. E alla denuncia sono seguite le condanne: vent’anni di carcere a “Tó Zé Cigano”, 12 e 8 ai genitori. L’accusa: pratica della schiavitù. È la prima volta che accade nella storia del Portogallo. Ma non sembra destinata a essere l’ultima. Di recente è stata sgominata un’altra banda che portava disperati portoghesi in Spagna. A Coimbra è già tutto pronto per celebrare il processo contro i sette imputati principali, con una ventina di vittime disposte a raccontare tutto davanti ai giudici.
Secondo il quotidiano di Lisbona Publico, la schiavitù è un crimine sempre più diffuso in Portogallo. Le piantagioni spagnole di cipolle, patate, carote e aglio non sono l’unica destinazione dei nuovi schiavi. A far scattare l’ultimo campanello d’allarme è il sindacato degli edili, che parla di migliaia di portoghesi sfruttati in modo vergognoso persino in Francia e Germania, dove lavorano dodici ore al giorno e vivono in condizioni subumane, in 15 in una stessa stanza.
LA CRISI FINANZIARIA li costringe a partire, a volte allettati da promesse di stipendi fino a 2.500 euro al mese, che poi, alla prova dei fatti, non superano in genere i 700. Ma per chi resta in Portogallo, le cose possono andare anche molto peggio: come il caso, denunciato dall’arcivescovo di Beja, monsignor Antonio Vitalino Dantas, di “centinaia di persone impegnate in modo abusivo nella raccolta delle olive”. Succede a poca distanza dai lussuosi resort turistici dell’Algarve, nella regione dell’Alentejo, dove si vedono cittadini portoghesi (ma anche rumeni, bulgari o moldavi), lavorare a piedi scalzi, al freddo, e frugare nei bidoni della spazzatura per non morire di fame.
l’Unità 17.6.11
«Io firmo» punta a raccogliere 500 mila firme entro settembre. Tra i promotori Passigli, Sartori, Cheli
Adesioni eccellenti, da Abbado a Hack, da Piano a Eco, da De Mauro a Carandini, da Pollini a Loy
Un’altra onda referendaria per portarsi via il Porcellum
Lo tsunami referendario potrà affondare anche la pessima legge elettorale? Ci credono Passigli, Sartori & co che hanno presentato ieri «Io firmo, riprendiamoci il voto»: quattro quesiti per cambiare il sistema politico.
di R. Bru.
L’onda alta del referendum può portarsi via anche il Porcellum? L’idea è semplice, l’obiettivo ambizioso, ma non impossibile: 500 mila firme entro la fine di settembre. Quattro punti per intervenire chirurgicamente sulla legge elettorale: togliere di mezzo le liste bloccate che confinano dentro il recinto dei partiti la scelta dei candidati lasciando fuori gli elettori, eliminare il premio di maggioreanza, che attribuisce tutto il potere ad una minoranza, fissare una soglia di sbarramento al 4%, vietare l’indicazione del nome del candidato premier sulla scheda, perché questa scelta deve essere rigorosamente attribuita, come prevede la Costituzione, al capo dello Stato. La parola, insomma, torni ai cittadini.
L’iniziativa «Io firmo, riprendiamoci il voto» è stata lanciata ieri dal Comitato per il referendum sulla legge elettorale, che già vede una rosa di adesione che sembra comporre il gotha delle eccellenze italiane: da Claudio Abbado ad Alberto Asor Rosa, da Andrea Carandini a Umberto Eco, da Rosetta Loy a Carlo ed Inge Feltrinelli, da Tullio De Mauro a Dacia Maraini, da Renzo Piano a Maurizio Pollini, da Corrado Stajano a Innocenzo Cipolletta, da Benedetta Tobagi a Margherita Hack.
Spiega Stefano Passigli, uno dei promotori del referendum, che «ogni tentativo di modificare la legge è destinato a fallire», perché gli effetti del Porcellum sono proprio la frammentazione politica, le coalizioni disomogenee e ingovernabili, il trasformismo. Qualcosa che è molto lontano dal sogno maggioritario alla anglosassone sognata da Mario Segni nei roventi anni novanta. Ecco allora questa mobilitazione trasversale, volta a tagliare di netto i quattro punti più controversi della legge Calderoli. Che, lo ricordiamo, è in vigore dal dicembre 2005 e fu battezzata non a caso «Porcellum» dal politologo Giovanni Sartori, oggi tra i promotori del nuovo referendum: è lui a ricordare «uno dei maggiori vizi della legge», ossia il premio di maggioranza dato a una minoranza. «Falsa tutto il sistema politico: le leggi elettorali trasformano i voti in seggi e questa legge li trasforma male». Lui ritiene adatto all’Italia «il doppio turno alla francese o quello tedesco». Ma perché ricorrere ad un referendum? Con la sua consueta franchezza, Sartori non ha dubbi che sia «l’unico rimedio contro l’inerzia dei partiti in materia di legge elettorale». Alla fine, è il costituzionalista Enzo Cheli a riservare l’affondo più netto: «Dopo la legge Acerbo (quella del 1923, voluta da Mussolini allo scopo di assicurare al partito fascista una maggioranza granitica, ndr), è la peggiore legge elettorale della storia italiana: intere aree sociali buttate fuori dal parlamento, mentre il premio di maggioranza dato ad una coalizione al di là di una soglia minima è a rischio costituzionalità».
Bene. Ma un problema, che già ha cominciato a causare qualche polemica, c’è. Ed è il fatto che, quel che ne uscirebbe sarebbe una legge proporzionale, che butterebbe a mare vent’anni di maggioritario. Infatti, il padre del maggioritario italiano, Mario Segni, protesta con durezza: «Il referendum Passigli è il ritorno alla peggiore partitocrazia». Arturo Parisi è d’accordo: «Che la legge elettorale introdotta da Berlusconi debba essere abrogata al più presto è fuori discussione. Ma una cosa è abrogarla per andare avanti verso una democrazia compiuta. Un’altra è abrogarla per tornare indietro alla stabile instabilità della prima repubblica».
I nuovi referendari la mettono così: l’iniziativa intende essere uno stimolo per spingere il parlamento a modificare il Porcellum, colpevole di aver sprofondato l’Italia «in un finto bipolarismo che riversa la frammentazione politica in ciascuno dei due schieramenti garantendo solo l’ingovernabilità del paese». E poi, chiude Passigli, «nel nostro referendum la soglia al 4% senza eccezione alcuna ridurrebbe a sei il numero dei partiti attuali». Detta così sembra semplice, ma l’ex senatore rivela che per riuscire a modificare la legge elettorale con lo strumento referendario è stato necessario un complicatissimo lavoro di «tagli e cuci»: i quattro quesiti sono formulati in modo da apporre alla legge 90 modifiche. Di tutto, per affondare il Porcellum.
il Fatto 17.6.11
Referendum
Tre quesiti contro la legge porcata
Tre quesiti per cambiare il porcellum, la “peggiore delle leggi elettorali possibili”. È partita ieri una nuova campagna referendaria, dopo il successo dei Sì su acqua, nucleare e legittimo impedimento. Questa volta, la legge da abrogare è quella che traduce in seggi i voti degli elettori, senza dare ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Dunque: “Riprendiamoci il voto”. Come si fa? Primo, abolire le liste bloccate e chiudere con il Parlamento dei “nominati”, dove il rischio “trasformismo” è moltiplicato all’ennesima potenza: l’eletto non risponde all’elettore ma a chi gli garantisce il mantenimento del seggio. Secondo, l’abrogazione del premio di maggioranza che con la “porcata” (Calderoli dixit) viene attribuito alla lista che ottiene anche un solo voto in più rispetto alle altre. Un “vizio”, ha spiegato ieri il politologo Giovanni Sartori, che “falsa tutto, perchè dà un premio di maggioranza a una minoranza”. Terzo, cancellare le “deroghe” alla soglia di sbarramento (ora varia se i partiti sono coalizzati o meno) e tornare al 4% valido per tutti, per evitare il proliferare dì mini-partiti. Quarto, eliminare l’indicazione del candidato premier: il Porcellum ha inserito un meccanismo dei sistemi presidenziali, senza che ci siano gli adeguati contrappesi. Nel Comitato promotore ci sono esperti di diritto e di scienza della politica (Stefano Passigli, Enzo Cheli, Giovanni Sartori, Gustavo Visentini ) che sanno perfettamente che dal referendum non uscirebbe la migliore legge elettorale possibile, ma “qualsiasi innovazione” è meglio che restare fermi. Che poi è quello che sta facendo il Parlamento. Sartori non esista a parlare di “inerzia” e pure di “malafede”. Tutti, comunque, si augurano che alla Camera e al Senato si trovi presto un accordo, perché “la via parlamentare” resta quella maestra. La campagna referendaria può servire da stimolo, anche se al Comitato sono consapevoli che non saranno i big dei partiti ad aiutarli nella raccolta firme. L’unica reazione positiva è arrivata dall’Udc, sostenitrice del proporzionale. I fan del bipolarismo del Pd, invece, l’hanno già bocciata. Si tornerebbe “alla stabile instabilità della prima Repubblica”, dice Arturo Parisi; è una proposta “in direzione opposta a quelle del Pd” anche per il costituzionalista e senatore democratico Stefano Ceccanti. Contro i referendari anche i Radicali. In compenso, hanno aderito alla proposta, tra gli altri, Umberto Eco, Alberto Asor Rosa, Dacia Maraini, Innocenzo Cipolletta, Renzo Piano. Si comincia dalla settimana prossima. I moduli sono scaricabili da www.referendumleggeelettora le.it . Obiettivo: 500 mila firme entro fine settembre. (pa.za.)
I firmatari: Claudio Abbado, Salvatore Accardo, Maurizio Pollini, Tullio De Mauro, Mario Pirani, Umberto Ambrosoli, Alberto Asor Rosa, Gae Aulenti, Andrea Carandini, Luigi Brioschi, Vittorio Gregotti, Renzo Piano, Carlo Federico Grosso, Benedetta Tobagi, Franco Cardini, Luciano Canfora, Margherita Hack, Carlo Feltrinelli, Inge Feltrinelli, Rosetta Loy, Giovanni Sartori...
«Sì agli eletti, no ai nominati». Abolire le liste bloccate, cancellare il premio di maggioranza e l’indicazione del candidato premier, la Camera eletta col proporzionale con una soglia di sbarramento unica al 4%
I parlamentari non sarebbero più nominati dalle segreterie dei partiti, ma scelti con la preferenza unica
Corriere della Sera 17.6.11
Legge elettorale Segni, Parisi Tonini e i Radicali contro i referendari
Passigli, Pd, lancia la raccolta di 500mila firme e replica: «Sono solo gelosi delle opere altrui»
di M. Gu.
ROMA — Parte la corsa per abolire il «porcellum» . Ed è subito scontro. Sulla necessità di cambiare il sistema elettorale in vigore sono (quasi) tutti d’accordo, ma la nascita di un Comitato per il referendum fa litigare i nemici del modello ideato da Roberto Calderoli. La mobilitazione trasversale «Io firmo. Riprendiamoci il voto» è stata presentata a Roma da Stefano Passigli e ha suscitato un vespaio di polemiche. Insorgono referendari storici come Segni, costituzionalisti come Ceccanti e Barbera, i veltroniani con Tonini e i Radicali con Staderini. Ma intanto il comitato continua a reclutare nomi noti della cultura: Claudio Abbado, Salvatore Accardo, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Vittorio Gregotti, Giovanni Sartori, Renzo Piano, Innocenzo Cipolletta... Il comitato ha depositato i quesiti in Cassazione e ha lanciato la raccolta delle 500 mila firme necessarie. «Sì agli eletti, no ai nominati» , dice uno degli slogan della campagna. Abolire le liste bloccate è il primo obbiettivo dei referendari, che vogliono cancellare il premio di maggioranza e l’indicazione del candidato premier, nonché fissare una soglia di sbarramento unica al 4%. La Camera risulterebbe eletta col proporzionale e i parlamentari non sarebbero più nominati dalle segreterie dei partiti, ma scelti con la preferenza unica. Il Senato sarebbe eletto su base regionale, senza premio e in collegi uninominali. Mario Segni, leader del fronte referendario anni 90, accusa Passigli di voler tornare «al periodo più squallido della prima Repubblica» e ai governi «fatti e disfatti dai partiti alle spalle dei cittadini» . Ma Passigli ribalta le critiche: «Segni, come tutti gli autori, soffre di gelosia nei confronti delle opere altrui» . Arturo Parisi non è d’accordo, anche per lui si tornerebbe «indietro di vent’anni» e a scegliere i governi sarebbero i «capipartito» . Referendum «strambo» è il commento di Augusto Barbera, convinto che i promotori stiano agitando uno specchietto per le allodole: «L’elettore non sceglierebbe i governi e nemmeno i candidati» . Il segretario radicale Mario Staderini trova «grottesco» che Passigli abbia escogitato una «controriforma proporzionalistica che ci porterebbe dritti a Weimar, mentre Pierluigi Mantini conferma il gradimento dell’Udc e rilancia il modello tedesco: «Sosteniamo il comitato con convinzione».
Repubblica 17.7.11
“Un popolo si è messo in marcia la politica si lasci contaminare dai nuovi colori dei movimenti"
Saviano: chi vuole cambiare ha saputo unirsi
intervista di Annalisa Cuzzocrea
Non c´è un percorso definito, né un unico programma. Tutto questo ha un sapore rivoluzionario
La Rai ha perduto credibilità, lavora contro i suoi migliori programmi: la gente deve difenderli
La macchina del fango è stata scoperta, non sconfitta. Quella su Bisignani è una inchiesta fortissima
ROMA - La fine dell´indifferenza. La rivincita sulla paura. A suo modo, una rivoluzione. Roberto Saviano legge così i giorni delle elezioni amministrative e dei referendum, i giorni in cui l´Italia si è scoperta un Paese diverso. Lancia una sfida alla politica: si faccia contaminare dai colori dei movimenti. Alla Rai: se non vuole Vieni via con me la rifarò altrove, magari all´estero. Poi avverte: la macchina del fango è stata scoperta ma non sconfitta.
I giovani sono tornati. Il bene comune è di nuovo al centro della scena dopo anni di silenzio e individualismo?
«Credo che qualcosa stia cambiando in modo radicale e che metta molta paura al governo. Quello che sta avvenendo è una sorta di mutazione dell´indifferenza. Il termine movimento non è corretto, parlerei quasi di una moltitudine, di un popolo in cammino. Perché non c´è per ora un percorso definito, non c´è un solo e unico programma, ma arrivano da più parti. Tutto questo ha un sapore rivoluzionario. Sa di rivoluzione liberale così come la intendeva Gobetti».
I segnali di questo cambiamento si potevano già intravedere?
«La politica in questi anni è stata lontana dai problemi reali, e questa distanza - paradossalmente - ha significato poter comprare voti. "Manca il lavoro? Votami e l´avrai". "Le strade non vanno bene, hai bisogno di un asilo? Appoggiami e forse l´avrai". Finalmente da cittadini stiamo capendo che lo scambio non significa avere qualcosa, ma perdere tutto il resto. Quel politico che magari ti apre la piscina comunale ti sta togliendo tutto il resto. I segnali erano nella protesta degli studenti, in quella delle donne, nella manifestazione per la libertà di stampa, al Palasharp. Lì c´erano cittadini che chiedevano risposte».
In questo scenario, quale deve essere il ruolo dei partiti?
«I partiti vincono se sanno guardare oltre se stessi. E questo non significa cedere all´antipolitica. Significa cambiare la selezione delle classi dirigenti non cercando solo amministratori ma talenti. La moltitudine di cui parlavo ha portato alla politica colori nuovi: il viola, l´arancione. I cittadini hanno saputo mescolarsi, hanno saputo unirsi come i partiti non sono riusciti a fare. Questi nuovi colori possono trasformare i partiti a una condizione: che gli apparati non ne siano spaventati. Devono essere disposti ad ascoltare prima ancora di indicare una strada. È fondamentale trasmettere idee che vadano oltre i personaggi carismatici, idee che siano valide per se stesse e possano sopravvivere al politico del momento».
Lo scorso 14 dicembre a Roma gli studenti protestavano in piazza mentre il Parlamento era chiuso a votare una fiducia rattoppata al governo. Oggi, dopo il referendum, quell´immagine è un simbolo: il fortino della maggioranza assediato da un movimento che gli cresce attorno e con cui non sa e non vuole comunicare. Il caso Brunetta è l´ultimo esempio. Come si reagisce a questa chiusura?
«Il governo ha paura, non rispondere è avere paura. E la loro chiusura è l´inizio della fine, la dimostrazione della loro debolezza. Il movimento dei giovani ha saputo rinunciare alla strada della violenza e ha rilanciato nuove forme di comunicazione, di aggregazione. Anche laddove c´erano posizioni diverse ci si è uniti nella necessità di dover cambiare il Paese. Questa è la novità che la politica dei partiti non ha saputo trovare, e che ha risposto - vincendo - alla chiusura del governo».
Da una parte il ruolo di Internet, che ha veicolato i messaggi della politica portandoli in ogni casa, attraverso giovani che hanno convinto genitori, zii, nonni. Dall´altra la vecchia televisione, che dovrebbe parlare a tutti ma che in questo caso è sembrata non raggiungere nessuno. Il servizio pubblico non esiste più?
«La Rai perde autorevolezza. Quando, nei giorni successivi la vittoria dei sì al referendum, fa più di un servizio attaccando i social network per vendicarsi del ruolo che Facebook ha avuto alle ultime elezioni. Quando nel servizio sul processo che condanna Dell´Utri si riferisce la seconda parte della sentenza, ovvero l´assoluzione per i fatti successivi al ‘92, e non la condanna per quelli precedenti, la televisione diventa propaganda. E perde credibilità. Verso tutti, non solo verso chi non è d´accordo con il governo».
Il ritardo nei palinsesti, trasmissioni come Vieni via con me e Annozero cancellate dal futuro della televisione pubblica. Come ha vissuto questi giorni?
«Con sofferenza. La Rai lavora contro le sue migliori trasmissioni. Vieni via con me è arrivata a 9 milioni di persone, ha superato il Grande Fratello e la Champions League parlando di temi difficilissimi, ed è stata cancellata. Perché parlava a un pubblico trasversale. Perché anche chi non è d´accordo con Mina Welby ha potuto ascoltarla, e riflettere. La Rai ha paura di Vieni via con me. Del suo successo, delle migliaia di elenchi e mail arrivate alla trasmissione, delle persone che il lunedì si riunivano insieme per seguirci. Ha preferito non parlarne, dimenticarlo. Ma io voglio rifarla, e con me vogliono rifarla Fabio Fazio e gli altri autori. Non so dove andrò, non so chi avrà il coraggio di ospitarla, se non vorrà farlo nessuno ci inventeremo uno spazio, magari all´estero. La verità è che la Rai è disposta a perdere denaro pur di non infastidire il potere politico. Come se un editore, davanti a uno scrittore che vende milioni di copie, preferisse rinunciarvi perché quell´autore parla a troppe persone. Mi sento di dire una cosa, anche come telespettatore: se vogliamo una trasmissione prendiamocela, chiediamola. Difendiamo con la presenza, con le parole, trasmissioni e storie che vogliamo ascoltare, da Annozero a Report, da Che tempo che fa a Parla con me. Noi da qualche parte forse troveremo uno spazio. Chi ora pone ostacoli avrà paura, noi no.
C´è chi dice che a questo punto, dopo il successo del referendum, visto il declino dei media tradizionali, si può considerare il conflitto di interessi italiano meno preoccupante, meno pericoloso per la democrazia. Basta l´ironia a sconfiggere la macchina del fango come è successo a Milano con Pisapia?
«In questa fase i media classici stanno subendo Internet, anche per la poca qualità della comunicazione. Ma se l´onda dell´indignazione dovesse scemare, quei media torneranno a essere centrali. La macchina del fango è stata scoperta, non sconfitta. L´inchiesta che ha portato all´arresto di Luigi Bisignani è un´inchiesta fortissima. Voglio essere cristallino: il gossip è un sistema di estorsione. Un racket. Con metodi identici a quelli mafiosi. Gossip è una parola allegra che nasconde il tentativo di distruggere l´immagine delle persone, giocando sulla vendetta».
l’Unità 17.6.11
C’è bisogno di persone sane
Luigi Cancrini risponde a Fabio Della Pergola
Sono in tanti a reclamare il merito e la gloria della vittoria. Anzi delle vittorie. Vorrei però dire che senza la pacata solidità di un Bersani non saremmo andati lontano. Sensazione indefinibile, ma non incomprensibile, di trovarsi di fronte uno che sembra sano nella mente. A differenza di Bossi e di Berlusconi con le sue fregole ossessivo/compulsive.
Penso anch'io che la «pacata solidità» di Bersani abbia avuto un ruolo importante in queste due vittorie della gente e del centrosinistra. La necessità di affidarsi a persone visibilmente «sane di mente» è forte nel tempo in cui il teatrino della politica è stato dominato da un narcisista megalomane. Bersani e pochi altri hanno cominciato a far vedere che intervenire in televisione non è, per il politico, l'occasione di esibirsi dilatando il proprio Ego ma un lavoro faticoso che serve ad aiutare chi ascolta a capire qualcosa di più sui problemi del Paese. Anche se molto c'è da lavorare ancora per fare chiarezza sul modo in cui il risveglio della società civile cui abbiamo assistito in questa fase servirà alla formulazione di un progetto di governo e alla valutazione del quadro di alleanze (elettorali) e di uomini (di governo) in grado di realizzarlo. Puntando, come nei referendum, sulle questioni concrete più che sui sentimenti più o meno confusi di appartenenza. Come dovrebbero fare sempre persone davvero sane di mente che si accingono a governare il loro paese.
Massimo D’Alema: «io mi sento l’altro, con la minuscola»
Corriere della Sera 17.6.11
D’Alema: «Come la fede, la politica è vocazione»
di Armando Torno
Ogni anno in Vaticano, all’inizio della quaresima, si tengono degli esercizi spirituali di fronte al Pontefice e alla curia romana. È una pratica che per taluni evoca la lezione di Sant’Ignazio, il fondatore dei gesuiti; tuttavia, dopo il Vaticano II, gli schemi sono stati rielaborati e integrati. Lo scorso anno tale compito è toccato a Enrico dal Covolo (rettore della Lateranense), che al centro delle riflessioni ha posto la vocazione. Il suo In ascolto dell’altro. Esercizi spirituali con Benedetto XVI, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana (pp. 216, e 16), è stato motivo dell’incontro di ieri, organizzato dalla Fondazione Corriere della Sera in Sala Buzzati. Oltre l’autore, sono intervenuti Massimo D’Alema, Innocenzo Gargano (priore camaldolese di San Gregorio al Celio) e Alberto Melloni. Coordinava Gian Guido Vecchi. Gargano, leggermente critico, ha richiamato l’attenzione sulla «Lectio divina» — «Lettura divina» o modo di leggere la Sacra Scrittura — componente essenziale di questi Esercizi. Se nel secolo XII un monaco certosino chiamato Guigo descrisse le tappe più importanti di tale pratica, Gargano ha ricordato che la parte irrinunciabile oggi per praticarla sono l’ «ascolto della storia» e dell’altro (si scrive maiuscolo alla fine del percorso). Ha infine invitato ad «aprirsi all’oltre» , osservando che «il dubbio è la forza motrice della fede» . Senza di esso si finisce nel fideismo. Massimo D’Alema, attento e impeccabile nella scelta dei termini, dopo aver proferito «io mi sento l’altro, con la minuscola» , ricorda la sua formazione marxista e il continuo interesse al dialogo con il mondo cattolico e le Chiese. Non lascia cadere il «parallelo tra la vocazione sacerdotale e la politica intesa come scelta di vita» ; cita Max Weber, Antonio Gramsci, elogia le pagine del libro sui turbamenti dei giovane Giovanni Paolo II durante la guerra, non dimentica Enrico Berlinguer e una sua frase nella quale la vita politica può diventare una «chiamata» : «Sono rimasto fedele agli ideali della mia gioventù» . Del resto, sottolinea D’Alema, il pericolo per politico e sacerdote si annida nell’abitudine, nel mestiere: in tal caso si trasforma in un dispensatore e non in un testimone. Tra l’altro: «Ho trovato di grande valore l’impegno culturale dell’attuale Pontefice» . Del brevissimo intervento di Melloni salveremmo la locuzione «la pazienza di Dio» ; delle parole di dal Covolo: «Io credo nella presenza del male nel mondo, e anche in quella del demonio» . La più grande sua tentazione? «L’attorcigliamento su se stessi» . La battaglia del male desidera «annullare il dialogo» , far ripiegare gli uomini sui mezzi mediatici. Insomma, farli sprofondare in sé, nei soliloqui informatici della moderna Torre di Babele.
Corriere della Sera 17.6.11
È scontro fra Bersani e Vendola ROMA— Lite Bersani-Vendola su leadership e programma del centrosinistra. «La parola spetta al popolo delle primarie» dice il governatore pugliese all’Espresso. Replica Bersani: «Sono forse l’unico segretario di partito d’Europa e del mondo a essere eletto con le primarie. Ma l’idea che la scelta di una persona sia la chiave per risolvere i problemi non la condivido e in Italia ha provocato un mare di guai» . Chiude Vendola: «L’alternativa non sia la leadership di partiti e oligarchie» .
l’Unità 17.6.11
La crisi, l’Europa e il silenzio della sinistra
La devastante situazione economica è il frutto di scelte politiche sbagliate: perché la sinistra non le denuncia con forza? Tirare la cinghia non basta: bisogna cambiare i modelli di sviluppo
di Silvano Andriani
Se si considerano le elezioni tenutesi in Europa nell’ultimo anno Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Spagna, Portogallo appare una costante: i partiti al governo di destra o di sinistra subiscono pesanti sconfitte. Naturale, sostiene qualcuno: quando si tratta di applicare necessarie politiche impopolari, i partiti al governo ne pagano il prezzo. Ma probabilmente l’elettorato è più maturo di così e la scarso consenso che la risposta alla crisi riesce a ottenere dipende dal modo in cui essa viene raccontata e dalla visione del futuro che ne scaturisce. Per la sinistra esiste poi un problema particolare: dai risultati recenti emerge che agli occhi degli elettori la sinistra non riesce a distinguersi dalla destra nell’interpretazione della crisi e nella risposta ad essa.
Per quanto riguarda il passato in estrema sintesi si può dire che in Europa la sinistra, negli anni in cui è prevalso l’approccio “Terza via”, si è caratterizzata positivamente sul piano dei diritti e della modernizzazione culturale, ma non sulla definizione di una via diversa per la realizzazione del processo di globalizzazione e di un diverso modello di sviluppo e di società: eppure è soprattutto su questo terreno che si sta giocando e si giocherà la partita. Il caso del governo Zapatero è l’ultimo ed è molto chiaro.
Anche nel racconto della crisi in Europa non si avvertono nette differenze. Prevale la lettura del governo tedesco: ci sono stati “paesi virtuosi”, Germania in testa, che hanno puntato sulla competitività, hanno mantenuto attivi strutturali delle bilance dei pagamenti, hanno risparmiato e ci sono stati “paesi viziosi” che hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi, provocato crescenti passivi delle bilance dei pagamenti e si sono pesantemente indebitati con l’estero. Ora i paesi virtuosi devono con i quattrini dei propri contribuenti evitare il fallimento o l’espulsione dall’euro di quelli viziosi. Nessuna meraviglia che gli elettori tedeschi si sentano infelici e che la Merkel perda consensi anche se sono positive le performance dell’economia tedesca. Nessuna meraviglia che si tenda allora ad imporre ai Paesi viziosi terrificanti politiche di austerità che potrebbero rivelarsi controproducenti.
C’e un’altra lettura possibile. È evidente che gli attivi strutturali di certi paesi non potrebbero esistere senza i passivi strutturali di altri; che i paesi viziosi non avrebbero potuto indebitarsi così pesantemente per aumentare i propri consumi se le banche dei paesi virtuosi non avessero fatto loro credito utilizzando sconsideratamente i risparmi dei propri clienti. Non esistono allora virtuosi e viziosi, ma solo due facce dello stesso vizio: uno sviluppo squilibrato che richiederebbe per essere corretto politiche diverse da quelle correnti.
Che la crescita economica dell’Europa stesse andando in una direzione diversa da quella auspicata nei progetti politici tipo “Libro bianco” o “ Progetto Lisbona” e che ciò mettesse in evidenza la mancanza di politiche adeguate per ottenere lo sviluppo desiderato si poteva vedere in tempo reale, ma la sinistra non ha fissato su questo tema il confronto sul futuro dell’Europa. Ed anche oggi non riesce a fare emergere una visione del futuro diversa da quella sconcertante che emerge dalla semplice tendenza all’austerità.
Prima ancora di entrare nel merito delle politiche alternative, tuttavia, vi è un tema a monte. È chiaro ormai che gli orientamenti che prevarranno a livello sovranazionale e i diversi scenari che essi configureranno avranno un’influenza determinante sul futuro. Per le scelte nazionali farà una grande differenza se a livello mondiale si affermeranno atteggiamenti conflittuali e pratiche protezioniste più o meno mascherate o si riuscirà a creare nuove forme di cooperazione tali da consentire di ristabilire un controllo politico sul processo di globalizzazione e ridurre gli squilibri.
A livello europeo la rottura dell’area euro appare ora un’eventualità possibile. È chiaro che l’Unione europea non resterà così come è: o andrà avanti nel processo di unificazione o dovrà fare dei passi indietro. Ed è altrettanto chiaro che il fatto che si realizzi una scenario o l’altro farà un’enorme differenza per le diverse politiche nazionali. Ma queste scelte non fanno parte del dibattito politico della sinistra. Certo esiste un documento del Partito Socialista Europeo ed anche una proposta di programma del Pd dove questi temi vengono in parte affrontati, ma si tratta di documenti semiclandestini che non stanno influenzando il dibattito e le scelte.
La sinistra non ha alcuna speranza di recuperare un consenso sostanziale dando ai cittadini un senso del proprio futuro senza rimettere questi temi al centro del dibattito politico.
l’Unità 17.6.11
Intervista a Maurizio Landini, segretario generale Fiom-Cgil
«Abbiamo 110 anni
e tanti giovani con noi I vecchi sono gli altri»
«Su Pomigliano abbiamo visto giusto, colpisce che il governo e la politica non vedano la realtà. E non è vero che seguiamo solo le vie dei tribunali»
di Massimo Franchi
Storia e cronaca, cronaca e storia. L’anniversario dei 110 anni di vita per la Fiom cade in contemporanea con le notizie sulla cassa integrazione a Nola e Pomigliano e alla vigilia del processo di Torino intentato proprio dal sindacato di Landini contro la Fiat per il trasferimento di impresa «mascherato» nella stessa Pomigliano. Una specie di circolo che si chiude fra la nascita del sindacato dei metalmeccanici e l’attualità targata Marchionne.
Landini, come si sente ad essere il segretario generale di un sindacato con 110 anni di storia? «Beh, l’età non si sente. Si sente invece la responsabilità di guidare un sindacato che è si è sempre battuto per trasformare la società, che ha contribuito alla conquista di diritti fondamentali per i lavoratori, oggi rimessi in discussione. Non ci sentiamo vecchi anche perché proprio negli ultimi tempi sentiamo attorno a noi l’affetto di tanti giovani e il rinnovato interesse per le questioni del lavoro. Un’attenzione che rende felici ma che allo stesso tempo aumenta, se possibile, le nostre responsabilità». La Fiat ha chiesto la cassa integrazione per cessazione attività a Pomigliano, due anni di cig per ristrutturazione e riorganizzazione nel polo logistico di Nola e due per cessazione attività dell'ex Ergom.
«Credo che questa notizia confermi tutti i dubbi sugli investimenti e sui tempi della vicenda Pomigliano. Dopo il referendum qualcuno parlava di futuro radioso. Invece quasi un anno dopo ci troviamo di fronte alla cassa integrazione in deroga che scade il 18 luglio e l’azienda che ne chiede per altri due anni, decidendo di chiudere altri suoi stabilimenti. Il problema è che le cose che la Fiat ha raccontato un anno fa si stanno rivelando false. Avevano detto più occupazione e invece gli operai sono in Cig e non sanno assolutamente quanti e quando torneranno a lavorare. Mi pare di poter dire che, un anno dopo, avevamo visto giusto su Pomigliano. Colpisce che il governo e la politica in generale continuino a mettere la testa sotto la sabbia per non vedere la realtà e che rimangano subalterni alla Fiat».
In questo quadro, domani inizia a Torino il processo per il trasferimento d’impresa della Newco a Pomigliano... «Mi pare che quanto successo avvalori la nostra tesi. Noi chiediamo al giudice di accertare la palese violazione di legge italiane ed europee sul trasferimento d'impresa, visto che gli operai si devono dimettere da un’azienda e verranno, forse, assunti da un’altra che fa lo stesso mestiere».
Non è che oramai la via giudiziaria è l’unica che seguite? «Da quando esiste il diritto del lavoro un sindacato che si trovi di fronte ad un'impresa che viola le leggi ricorre alla magistratura. È quindi un'attività sindacale. E non è vero che facciamo solo quello, come questa tre giorni di Bologna dimostra». Susanna Camusso è venuta alla festa e ha difeso le ragioni della Fiom. Come sono i rapporti con la confederazione?
«Il rapporto con la Cgil in tutta la nostra storia è stato dialettico, tra entità forti. In questo momento mi pare che dopo lo sciopero generale del 6 maggio da parte della confederazione ci sia grande attenzione per i temi da noi sollevati, in primo luogo rappresentanza e contro gli accordi separati. Chiediamo alla Cgil continuità sotto questo aspetto, chiedendo una legge sulla rappresentanza che renda obbligatorio il voto dei lavoratori su ogni accordo. Non certo quella proposta da Sacconi che vuole sostituire il contratto nazionale con quelli aziendali».
E con gli altri sindacati? Il perdurare dell’atteggiamento Fiat potrebbe far cambiare idea a Fim e Uilm? «Al momento non vedo segnali di ravvedimento. Anzi, la Uil ha appena disdetto l’accordo del ’93 sulla rappresentanza, andando in direzione opposta. Ma continuiamo a sperare che un ravvedimento alla fine ci sia. Noi siamo sempre pronti a coglierlo».❖
il Fatto 17.6.11
La “peggiore istruzione” Altri 20 mila insegnanti a casa
Terza tranche di tagli alle scuole, licenziati anche 14.200 tecnici
di Caterina Perniconi
Non ci sono solo precari nella parte “peggiore” del Paese: da settembre, a ingrossare le file degli sgraditi al ministro Renato Brunetta ci saranno anche 33.900 disoccupati in più tra docenti e personale tecnico della scuola.
Quando i bambini torneranno sui banchi non troveranno 19.699 insegnanti che fino all’anno scorso li hanno seguiti. Nonostante l’altro ieri il Consiglio di Stato abbia accolto la class action contro le classi “pollaio”, i tagli imposti dai ministri dell’Istruzione e dell’Economia, Mariastella Gelmini e Giulio Tremonti, con la Finanziaria 2008, continuano a falcidiare la scuola pubblica. A farne le spese saranno gli studenti, costretti a rinunciare a molte ore di lavoro con i loro docenti e le famiglie che dovranno rinunciare al tempo pieno. In Lombardia, per esempio, saranno tagliate 2.415 cattedre tra scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I e II grado, di cui la metà nella sola città di Milano che eliminerà 482 insegnanti nelle scuole superiori. Non va meglio agli studenti piemontesi che su un totale di 42 mila cattedre ne vedranno tagliate 1.179 di cui 625 a Torino e, complessivamente, 796 alle elementari. La situazione del Sud non è più rosea: in Campania il taglio sarà di 2.234 insegnanti, più della metà nella città di Napoli. Chi ne risentirà di più sono gli studenti della scuola superiore, che perderanno 1.081 docenti.
IL MINISTRO dell’Istruzione ha giustificato la riduzione affermando che i docenti “in Italia sono troppi”. Ma qualunque persona abbia avuto un contatto con la scuola pubblica sa invece che la verità è un’altra: la carenza di personale costringe all’addio al tempo pieno, a un numero sempre più ridotto di ore di compresenza tra insegnanti, che significa sostegno ai disabili e recupero per chi incontra maggiori difficoltà.
“Il taglio di 19.699 docenti provocherà l’ulteriore peggioramento della qualità dell’offerta formativa nella scuola pubblica – spiega Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil – non si riesce più a garantire tutto il tempo pieno nella primaria e di quello prolungato nella secondaria. Alle superiori la riduzione di ore d’insegnamento e di laboratorio non garantiscono il salto di qualità necessario a garantire ai ragazzi una formazione all’altezza delle innovazioni del mondo del lavoro”.
I numeri delle altre regioni sono anche peggiori: in Sicilia, su un totale di 62.418 cattedre è previsto un taglio di 2.534 insegnanti, in Veneto di 1.398, in Abruzzo di 475, in Basilicata di 373 e in Calabria resteranno a casa 1.093 docenti. Stessa situazione al centro: in Emilia Romagna il taglio sarà di 881 cattedre, 917 in Toscana, 512 nelle Marche, 246 in Umbria, 158 in Molise e 1.989 nel Lazio, di cui 1400 nella Capitale. Infine, 364 insegnanti in meno in Friuli Venezia Giulia, 383 in Liguria, 670 in Sardegna e 1.878 in Puglia.
Non meno allarmanti i numeri che riguardano il personale tecnico amministrativo che vedrà ridurre il proprio organico di altre 14.200 unità. Infatti il piano triennale imposto dal governo con l’articolo 64 della legge 133 del 2008 ha tagliato in tutto 87.400 cattedre e 44.500 Ata tra il 2009 e il 2012.
“Questo significa che migliaia di precari resteranno senza supplenze annuali – analizza Pantaleo – e tantissimi docenti saranno dichiarati in soprannumero e quindi costretti a cambiare sede o a fare da tappabuchi. Nel mezzogiorno la situazione è disastrosa. Di epocale nelle politiche del ministro Gelmini ci sono solo i licenziamenti di massa, la mortificazione delle professionalità e la distruzione della scuola pubblica per lasciare campo libero alla privatizzazione della istruzione pubblica”.
“NON APPAGATI dal triplice schiaffo preso tra amministrative e referendum, forse non hanno capito che i cittadini, nel conto presentato al Governo, hanno messo anche i tagli all’istruzione – dichiara Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Partito democratico – quale sarà l’effetto dell’ennesimo taglio? Classi affollate oltre ogni limite di legge, liste d’attesa nella scuola dell’infanzia, definitiva cancellazione delle compresenze e del tempo pieno, impossibilità per le scuole di organizzare i laboratori, meno sostegno per gli studenti con disabilità e altri precari licenziati che non sapranno di che vivere. Il risultato sarà un Paese meno uguale e con meno opportunità di crescita. Abbiamo chiesto la cancellazione dei tagli e la stabilizzazione di chi lavora su posti vacanti. Ma la miglior cosa sarebbe che questo governo, che non rappresenta più il sentimento di un Paese intero, andasse a casa”.
Senza dimenticare la denuncia dei sindacati di base sulla cassa integrazione prevista per 11.500 lavoratori nel settore delle pulizie. Forse servivano a pulire le cattedre che non ci saranno più.
il Fatto 17.6.11
Vieni via con me verso La7
La Rai si tiene Che tempo che fa e rinuncia all’evento dell’anno
di Carlo Tecce
È la Rai dei grandi numeri. Appena un programma fa un risultato d'ascolto straordinario, per rimediare a tanta fortuna, viene eliminato.
È successo con Annozero, salutato da 8,3 milioni di telespettatori. E si ripete con Vieni via con me che, nonostante 9,8 milioni di italiani in media a puntata, è considerato un fastidio in più e pure di nuova fabbricazione.
La Rai per mesi ha ignorato l'evento televisivo di Fabio Fazio e Roberto Saviano e nel contratto, che garantisce tre anni di Che tempo che fa, Vieni via con me non esiste, semplicemente. Il direttore generale Lei ha annunciato trionfalmente in Consiglio di amministrazione: abbiamo l'accordo con Fazio. Ma dimentica di ricordare che il giornalista, in fondo a una lunga trattativa, preferisce avere la libertà di fare altrove Vieni via con me perché la Rai non è interessata.
Nella cartina geografica televisiva, altrove cade su La7. Cade, appunto: come insegna la metafora confezionata per il Fatto da Giovanni Stella, amministratore delegato del gruppo di Telecom Italia Media, la concorrenza accoglie di buon grado chi viene più o meno tacitamente sbolognato da Viale Mazzini. Nessuno scappa dal servizio pubblico, tanto le porte per l'uscita sono vistosamente spalancate.
L'ELENCO come forma e mantra, tratto distintivo di Vieni via con me, impazza in rete e nei convegni dal novembre scorso, eppure né il presidente Garimberti né il direttore generale Lei (e prima Masi) mai hanno pensato di chiedere a Fazio e Saviano di tornare. A La7 aspettano senza farsi notare troppo, un atteggiamento che Stella traduce nel banano-Rai e macachi-conduttori con la sua televisione in posizione attendista. Per Michele Santoro è una strategia condizionata dal conflitto di interessi di Silvio Berlusconi: “Nella situazione italiana è un atto di estremo coraggio, ma in sostanza – spiega il giornalista a Un giorno da pecora – Stella dice: ‘Io sono in una tv che fa parte di un grande gruppo telefonico, sarebbe un guaio se Telecom usasse le sue risorse per andare a fare una campagna acquisti nel campo dei concorrenti di Berlusconi’”. Il rischio è prevedibile: “Questo non lo dice Stella ma lo dico io: perché altrimenti il governo potrebbe usare tutti i mezzi a sua disposizione per sparare su Telecom”.
Per confermare qualsiasi cattivo presagio, basta leggere le confidenze del Cavaliere ai ministri riuniti a Palazzo Chigi: il nostro calo di consensi è colpa dei programmi di La7, Annozero, Ballarò e Maurizio Crozza. Il presidente del Consiglio avrà un bel dispiacere il giorno del debutto di Santoro a La7. Una data che si avvicina sempre di più. Il giornalista risponde al quesito irrisolto da un paio di settimane: in percentuale, domandano a Radio2, quante possibilità hai di passare nella televisione di Enrico Mentana e Gad Lerner?
SANTORO riempie le possibilità numeriche scherzando con i conduttori e, in serata, aggiunge un commento per chiarire la situazione: “Fino a domani sono impegnato a Bologna. Non vedo alcun ostacolo perché la trattativa si possa concludere positivamente. Sempre che La7 lo voglia”.
Anche se fuori tempo massimo, il consigliere Rodolfo De Laurentiis (Udc) presenta in Cda Rai un ordine del giorno per convincere l’azienda a trattenere l’inventore di Anno-zero. Con una doppia motivazione per persuadere la maggioranza: aiutiamo la concorrenza e riduciamo la nostra pubblicità. E magari qualcuno è contento.
il Fatto 17.6.11
Parco Cecchin, la paura della piazza nera
A Roma intitolato un giardino (a due passi da Forza Nuova) a un militante di destra ucciso nel 1979
di Alessandro Ferrucci
Le facce, le bandiere, i gesti. Colore prevalente: il nero. E ancora gli atteggiamenti militareschi, la poca voglia di interagire con l’esterno, ma al tempo stesso la rabbia per una presunta emarginazione socio-culturale. La liturgia è completa. Immobile. Uguale a trenta e oltre anni fa, cambiano solo le generazioni. Luogo prescelto: Roma. L’occasione: l’intitolazione di un giardino di Piazza Vescovio, quartiere Trieste, a Francesco Cecchin, militante di destra ucciso da ignoti nel 1979. Ucciso in maniera infame. Per dirlo ci sono volute indagini su indagini, processi, accuse di scarsa capacità investigativa, polemiche infinite. La prima tesi fu: è morto perché caduto da un terrazzino mentre scappava da un’aggressione. L’ultima verità: qualcuno l’ha buttato di sotto dopo averlo inseguito, raggiunto e picchiato. Di sicuro, il biondo diciottenne con gli occhi azzurri è rimasto in coma per diciannove giorni. Poi è morto. Da allora è una sorta di “milite noto” dell’estrema destra romana, ricordato ogni anno con manifestazioni e picchetti, affissioni e pubblicazioni. Ogni anno lo organizzano sempre lì, proprio dietro piazza Vescovio, ai lati del portone nel quale aveva tentato di rifugiarsi e dove hanno aperto uno spazio-libreria, ritrovo dei militanti di Forza Nuova.
IN VETRINA testi sul Führer, altri su Mussolini, saggi su Salò, poi magliette, oggettistica, insomma, tutto quanto fa militanza. Parole poche, insulti molti e altrettanti gesti plateali, della serie: è meglio se ti levi di torno. Per loro, la maggior parte, i giornalisti dicono solo bugie, meglio non interagire, se poi uno scrive sul Fatto Quotidiano, ancora peggio “siete di parte, vattene. Che stai registrando? (nessuna stava registrando, ndr). E tanto di noi dite solo bugie”. Quindi inutile chiedere della paura riscontrata in molti degli abitanti della zona: due pensionati ci raccontano di aggressioni verbali, minacce perché trovati a leggere il Manifesto. Altri denunciano atteggiamenti bulleschi e comunque un clima poco sereno, peggiorato in questi ultimi giorni dopo le polemiche suscitate dalla decisione di intitolare il luogo a Cecchin. Si sono ribellati intellettuali, cineasti, cittadini comuni. Ma il sindaco Gianni Alemanno, il presidente del municipio Sara De Angelis e lo stesso ministro Giorgia Meloni sono andati avanti. Per loro nessun dubbio rispetto alla scelta fatta, al contrario una certa commozione manifestata al momento di scoprire la targa.
Comunque, per ottenere qualche risposta ci siamo allontanati dal gruppo principale. Scopriamo che in molti hanno votato al referendum, Silvio Berlusconi non è il loro punto di riferimento morale, credono nella solidarietà sociale e vogliono uno Stato maggiormente presente. Per carità, mai dimenticare il motto “ordine e disciplina”, passano gli anni, ma resta sempre un caposaldo. Quindi i più giovani: sono ancora nell’età di chi si sente portatore di risposte assolute, la maggior parte è inquadrata militarmente dai più grandi, si schierano ordinati in fila per un picchetto d’onore all’altezza della situazione. Rispondono a comandi come “riposo” o “libertà”. Indossano una maglietta nera con su scritto “in un mondo di menzogne la verità è rivoluzionaria”. Una frase “rubata” ad Antonio Gramsci che appunto diceva: “La verità è sempre rivoluzionaria”.
GLI OVER 50 sono diversi. Hanno relativizzato. Hanno subìto sulla loro pelle certe scelte. “Sai una cosa? – ci spiega Daniele – Francesco (Cecchin, ndr) lo conoscevo, ero con lui: un ragazzo meraviglioso, non ci posso pensare. E comunque anche io ho pagato con quattro anni e mezzo di galera. Come mi giudico se penso a quegli anni? Un cretino”. Gli si strozza la voce, si inumidiscono gli occhi. Se ne va. Accanto un gruppo veste una polo, nera, con su scritto “Arriverà il nostro momento”. Ci credono. E una giornata come questa diventa l’indice di un percorso, quello giusto. Poi un anziano rompe il silenzio e urla “camerata Cecchin, presente!”. Scoppia l’applauso di alcuni, ma anche l’imbarazzo di molti altri.
Corriere della Sera 17.6.11
Ritorna in Cina l’eros proibito ma per leggere occorre il visto
di Marco Del Corona
PECHINO— Mao Zedong raccomandò ai suoi sottoposti di leggerlo: «Ci troverete la vera storia della dinastia Ming» , l’epoca nella quale venne pubblicato per la prima volta (1610). Solo lui poteva permettersi di dire una cosa e il suo contrario. Perché, infatti, il Chin P’ing Mei, epopea di un Don Giovanni d’epoca Sung (960-1127), è uno dei libri licenziosi per eccellenza della letteratura cinese ma anche sotto lo stesso Mao era stato relegato nel limbo del feudalesimo immorale. Solo studiosi provvisti di titoli accademici indiscutibili potevano accostarsi alle imprese erotiche di Hsi-Men Ch’ing. Adesso, nella Cina che consuma tutto, anche il porno, il Chin P’ing Mei ritorna. In versione integrale ma solo per pochi. L’edizione è a tiratura limitata, a 998 renminbi, circa 110 euro. Il «Jiang Huai Morning Post» riporta che le librerie non possono esporlo (poster ammessi, però); la pubblicazione è mirata alle istituzioni e se un privato cittadino volesse comprarlo dovrebbe comunque esibire il permesso della sua danwei, l’unità di lavoro. Resteranno dunque le edizioni pirata. «Il libro è ufficialmente inaccessibile ai più nella versione integrale. Ma i miei allievi lo leggono online» , dice al «Corriere» la professoressa Yu Xiaopeng, del corso di letteratura cinese dell’università Beiwai. La fama sulfurea del Chin P’ing Mei ne ha accompagnato le traduzioni. In Italia, quella per Einaudi di Piero Jahier (il poeta di Con me e con gli alpini) e di Maj-Lis Rissler Stoneman subì una «potatura» — come scrisse Olimpio Cescatti per l’edizione Es del 2005 coi tagli ripristinati — peraltro «comprensibile nel clima degli anni Cinquanta» .
Repubblica 17.6.11
Rapporto dalla Siria tra i ragazzi in fuga da Assad
di Alberto Stabile
Non sono né disperati, né rassegnati. E da questa grande terrazza sul Nord della Siria, che è la provincia turca di Antiochia, guardano i villaggi da cui sono fuggiti con occhi asciutti, senza nostalgie. Semmai un sentimento alberga nei loro cuori, è la rivalsa, il desiderio ardente di tornare in Siria da vincitori, naturalmente dopo che Assad se ne sarà andato. Per questo, più che profughi, i siriani che hanno trovato rifugio in Turchia sembrano piuttosto dei militanti che hanno deciso di continuare la loro lotta con altri mezzi, il telefonino che li mantiene collegati alla loro "rete" oltre confine, e con la parola, i racconti che aggiungono orrore ad orrore e sfidano le versioni edulcorate della propaganda di regime.
E´ vero, non sempre, le loro sono ricostruzioni di cose viste con i propri occhi, spesso si tratta di storie apprese da altri. Ma le testimonianze su certi episodi sono così ripetute e consistenti da lasciare poco spazio al dubbio.Poteva sembrare che su Jisr al Shugur, la città-martire di 50 mila abitanti, che domenica scorsa è stata piegata dai carri armati della famigerata IV Divisione guidata da Maher el Assad, il fratello del presidente, dai servizi di sicurezza e dagli Shabiha, i miliziani fedeli al regime, non ci fosse più nulla da aggiungere.
I portavoce di Damasco hanno esaltato il "ritorno alla normalità" della città e hanno chiesto ai fuggitivi di tornare nelle loro case. Imad, che come gli altri rifugiati accetta soltanto di indicare il suo nome per paura di esporre a ritorsioni i parenti rimasti di là, invece, ribatte: «Sono dei bugiardi, guidati da un grande bugiardo. Non è vero che la situazione a Jisr al Shugur adesso è tranquilla. La città è semivuota. Le strade, la sera, sono deserte. Continuano ad arrestare la gente e a sparare. Quattro giorni fa, hanno fermato 12 persone, componenti della famiglia degli Yusef. Erano appena tornati a casa dopo essersi allontanati durante gli incidenti dello scorso fine-settimana. Sono stati tutti portati allo zuccherificio. Gli uomini sono spariti oltre il cancello, quattro donne, due sui 35-40 anni e due poco più che adolescenti, sono state umiliate in pubblico».
In che modo, umiliate? «Hanno tolto loro i vestiti e le hanno lasciate nude per strada. Me l´ha detto un mio amico che è rimasto e si nasconde in montagna, ma in città ne parlano tutti». Poi prende il telefonino è fa partire la registrazione di un uomo che invoca Allah u akhbar, "Dio è grande". «E´ lui - dice Imad - il mio amico. Mi ha chiamato dopo che è stato ferito al fianco e a una coscia, e sta pregando».
Chiediamo, ma cos´è questa storia dello zuccherificio? «È una vecchia fabbrica di zucchero che occupa un´area di un chilometro quadrato e che è stata trasformata in centro di comando dell´esercito e del mukabarat. Dentro ci sono anche alloggi per gli ufficiali. La gente arrestata per strada viene portata lì e nessuno sa che fine faccia».
La faccia deturpata da un incidente o da una malattia infantile, la barba delineata a punta di forbice, Imad ha 31 anni e non è sposato. Nega di aver mai usato armi contro il regime, ma ammette, implicitamente di avere partecipato alla protesta. «Lavoravo ad Aleppo, in un grande supermercato. Quando sono cominciate le manifestazioni ho perso il lavoro. Allora sono tornato dai miei, in un villaggio vicino a Jisr al Shugur. Ma anche lì ci sono state manifestazioni. L´esercito ha sparato. Ci sono stati molti morti. Poi, domenica sono arrivati i carri armati».
Un momento, il regime accusa i manifestanti di aver ucciso, a Jisr al Shugur, 120 tra poliziotti e agenti dei servizi. «Non è vero - interviene Alì, 28 anni, sposato, con un bambino, contadino, proprietario di un uliveto - L´ordine che hanno dato gli ufficiali, era di sparare sulla folla e molti soldati si sono rifiutati. E allora li hanno uccisi. Io ne ho visti cadere una decina».
Ma uccisi da chi? «Funziona così. Gli ufficiali schierano una prima fila di soldati, venti, trenta, che hanno l´ordine di sparare sui manifestanti. Dietro ci sono gli uomini dei servizi. Chi si rifiuta di sparare viene immediatamente colpito. I soldati lo sanno. Gli ordini sono espliciti: chi non spara sarà ucciso. ciononostante molti sono riusciti a scappare».
Questa storia, ripetuta anche da altri rifugiati, contrasta in maniera stridente con la versione ufficiale che accusa i manifestanti (ovvero "bande di terroristi armati") di aver ucciso i 120 militari. E questo è stato il pretesto offerto all´esercito d´intervenire in forze. Ma davanti allo sguardo febbricitante di Osama, un ragazzino di 14 anni che ha la metà destra del cranio coperta da una benda ed escoriazioni profonde lungo tutto il collo, c´è da chiedersi quale pericolo deve aver rappresentato per ridurlo in quel modo. Come molti dei rifugiati arrivati mercoledì a Guvecci, Osama viene dal paesino di Aram Joz (letteralmente, Il campo dei noccioli) quasi attaccato a Jisr al Shugur.
Osama non vuole parlare, preferisce restarsene diffidente all´ombra di grande gelso con alcuni amici. Per lui, però, parla Ahmed, un adulto che lo conosce bene. «Quella di Osama - dice - è una famiglia tranquilla: padre madre e tre figli. Lui faceva la settimana classe. Quando è arrivato l´esercito, domenica scorsa, erano tutti in casa. Nessuno era fuggito nei giorni precedenti. Improvvisamente i soldati hanno cominciato a demolire la casa con un bulldozer. Lui s´è lanciato contro di loro. Un militare lo ha bloccato, mentre un altro lo colpiva sulla testa con un bastone...».
Solo dopo la famiglia è scappata. Osama è stato portato all´ospedale di Antiochia, medicato e curato. Gli altri parenti aspettano che si apra la frontiera per raggiungerlo. «Adesso sono laggiù», ed indica con il dito indice una macchia d´azzurro nel verde delle colline, oltre una strada militare che costeggia la frontiera: l´accampamento provvisorio dei siriani in attesa della salvezza.
Più di ottomila, ormai, ce l´hanno fatta, la metà è stata sistemata nell´edificio di un´ex manifattura tabacchi a Yayladagi, una ventina di chilometri a nord di Guvecci, un paesino lindo, sereno, con la piazzetta piena di anziani che sorseggiano una straordinaria tisana che si trova soltanto fra queste montagne e il cortile del municipio pieno di volontari. Ma per l´altra metà dei rifugiati non c´è più posto nelle tende bianche con il simbolo della mezzaluna rossa allineate poco lontano dalla manifattura. Per questo, ha scritto ieri il Post, vicino al premier Erdogan, se la situazione in Siria dovesse peggiorare, e la massa dei rifugiati crescere a dismisura sarebbe obbligatorio un intervento militare per creare una zona-cuscinetto in territorio siriano dove fermare e assistere i profughi.
Per ora, dalla cancellata della manifattura avvolta da teli di plastica che impediscono agli obbiettivi dei media di penetrare all´interno, trapelano storie di salvezza. Come quella di Soleiman, commerciante di 38 anni, fisico atletico, barba appena incolta e della moglie Suha che hanno percorso a piedi, con i loro cinque figli, dai tre ai 12 anni, sei dei venticinque chilometri che separano Jisr al Shugur dalla frontiera turca. Tornerete a casa come vorrebbero le autorità di Damasco, chiediamo? «Sì - risponde Soleiman, ironico - solo quando Assad deciderà di indire libere elezioni, e a condizione che a Jisr al Shugur prenda anche un solo voto. Ma non lo prenderà».
Repubblica 17.6.11
Parla Fouad Ajami, professore alla John Hopkins University
"È una crisi senza fine il regime ucciderà ancora"
di Francesca Caferri
«Sarà una crisi lunga. E sanguinosa. Nessuno può prevedere come finirà, ma sappiamo di certo che il regime di Bashar al Assad ha mostrato la sua vera faccia: quella di un gruppo di assassini. L´attuale presidente non è diverso dal padre, un massacratore a sangue freddo: e farà di tutto per non perdere il potere. Di tutto». Il parere di Fouad Ajami è di quelli che pesano sulla scena della politica internazionale: professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies, è uno degli analisti più ascoltati della scena americana, columnist fisso di Time, Wall Street Journal e New York Times.
Professor Ajami, a che punto è la crisi siriana?
«A un punto di non ritorno. Bashar ha bruciato tutte le speranze nate quando è arrivato al potere: oggi è chiaro a tutti che la breve stagione della primavera siriana che aveva salutato il suo arrivo è tramontata e non tornerà. È chiaro prima di tutto ai siriani, che avevano speranza, ma hanno visto l´economia aprirsi solo a beneficio di pochi e le riforme ridursi a cambiamenti cosmetici. Per questo oggi sono pronti a tutto: hanno assistito al dilagare della rivolta in Tunisia, Egitto e Libia. I siriani sono gente orgogliosa, hanno sempre avuto un ruolo di primo piano nella storia araba: ora se lo sono ripreso, hanno trovato la loro voce. Di fronte hanno un regime che non ha intenzione di cedere, pronto a uccidere ancora».
In mezzo, una comunità internazionale con un ruolo sempre più ambiguo e imbarazzante...
«Al di fuori di questo direi. Non c´è possibilità di un intervento straniero in Siria e in questo i siriani sono molto più sfortunati dei libici: nessuno si muoverà per loro, mi pare chiaro. Il silenzio della Lega Araba, che ha abbandonato Gheddafi ma non Assad, è significativo. Ma anche qui siamo a un punto di non ritorno: le parole di Obama, che qualche settimana fa ha detto ad Assad "guida la transizione o vattene" sono da mettere in archivio. Neanche in questo si può più sperare, Assad è andato oltre».
Qualcuno sta reagendo?
«La Turchia ha capito: quando ha visto migliaia di persone arrivare alla frontiera, Erdogan ha cambiato radicalmente politica condannando Assad che fino ad allora aveva protetto. Ha capito Israele: lo stallo che per anni aveva fatto comodo è finito. Quando hanno visto i siriani lasciare arrivare i palestinesi alle frontiere sul Golan, i politici israeliani hanno messo a fuoco la nuova situazione. Oggi Israele sa che quello è un regime che non solo supporta Hamas e Hezbollah ma è anche pronto a danneggiarlo direttamente: per questo spera in un cambio, anche se non può fare molto per facilitarlo».
Cosa accadrà ora?
«Solo Dio lo sa. Ma finché gli alawiti staranno con il regime e gli garantiranno l´appoggio delle brigate più importanti dell´esercito lo scontro proseguirà: perché la gente non andrà via dalle piazze. Non so cosa accadrà: so che non sarà una cosa rapida, né tantomeno incruenta».
La Stampa 17.6.11
In tutta Italia l’età massima per tentare la procreazione assistita è 43 anni
“Mamme a 50 anni con il ticket”
In Veneto innalzata l’età massima per la fecondazione assistita E’ polemica: si ingolfano le liste d’attesa e si sprecano soldi
di Silvia Zanardi
I FAVOREVOLI «L’aspettativa di vita cresce: il caso della Nannini dimostra che si può procreare più tardi»
I CONTRARI «Innalzare il termine di 43 anni significa alimentare illusioni pericolose»
15 per cento. La stima dell’Oms delle coppie con problemi di fertilità nei Paesi industrializzati
3-4 tentativi. I cicli di trattamento contemplati dalla delibera a seconda della tecnica usata
2,5 per cento. La percentuale di successo della fecondazione assistita suuna donna di 44 anni
VENEZIA. I veneti potrebbero battezzarla «delibera Nannini», visto che proprio alla celebre cantante italiana, diventata mamma di Penelope a cinquant’anni compiuti, devono la loro ispirazione. Fra applausi e polemiche, per diventare mamme in un età in cui si potrebbe anche essere nonne, nella regione leghista di Luca Zaia, basterà pagare il ticket.
Con una delibera «a sorpresa» approvata martedì scorso, la giunta regionale del Veneto ha infatti deciso all’unanimità di innalzare a 50 anni l’età massima in cui le donne possono usufruire della fecondazione assistita erogata dal Servizio sanitario nazionale.
Se l’età massima consentita è di 43 anni in tutto il territorio nazionale, la giunta di Zaia ha invece deciso di dare una possibilità in più alle donne meno giovani facendole accedere fino a 50 anni compiuti ai servizi offerti in questo campo dal Servizio sanitario nazionale.
«È stata una scelta condivisa - dice l’assessore regionale veneto alla Sanità Luca Coletto - pur rispettando la letteratura scientifica non possiamo non tener conto di un’aspettativa di vita in crescita e di casi, come quello della cantante Gianna Nannini, che testimoniano la possibilità di procreare anche in maturità. Non c’e nulla di male».
Ma, a cinquant’anni, quante probabilità ci sono di portare a termine una gravidanza? E davvero una mamma over 50 avrà poi tutta l’energia per correre avanti e indietro con biberon e pannolini, e per trascorrere lunghe notti in bianco fra i pianti del piccolo?
I primi a criticare la delibera veneta sono i medici, compresi quelli del comitato tecnico che la stessa giunta aveva consultato proprio per fissare i termini.
«In Italia non si registrano parti sopra i 43 anni di donne sottoposte a procreazione assistita - osserva Federica Nenzi dell’ospedale di Oderzo (Treviso) -. Innalzare questo termine significa ingolfare ulteriormente le liste d’attesa e sprecare soldi utili a pazienti più giovani».
Favorevole invece il sottosegretario alla Salute, Francesca Martini: «Considero dimostrazione di grande civiltà la scelta della giunta Zaia, attenta a cogliere le aspettative di moltissime donne. Nei Paesi più avanzati in Europa i 50 anni vengono considerati un limite accettabile e la scienza oggi ci aiuta moltissimo per ottenere buoni margini di esito positivo».
La delibera non modifica gli altri parametri previsti dalla Regione, e cioè l’età massima di 65 anni per il futuro padre, 4 cicli di trattamento per il primo livello e tre per il secondo.
La Stampa 17.6.11
Carlo Flamigni
Il medico: rimanere incinte a quell’età è quasi impossibile
di Valentina Arcovio
Aver innalzato a 50 anni l’età minima in cui viene garantito l’accesso alla fecondazione assistita potrebbe lasciare moltissime donne deluse di fronte a un insuccesso quasi certo». Per Carlo Flamigni, tra i massimi esperti italiani in fecondazione assistita e docente all’Università di Bologna, la delibera approvata dal Veneto è «velleitaria e illusoria».
Quante sono le probabilità di rimane incinte a 50 anni grazie alla fecondazione assistita?
«Sono vicine allo zero. Sia la Società europea di riproduzione umana ed embriologia che la sua equivalente americana sono chiare in merito: è consigliabile interrompere i trattamenti verso i 43-44 anni».
Allora è inutile provarci dopo?
«Se non si vuole mettere a rischio la salute della donna, è meglio escludere i trattamenti più complessi. Quelli raccomandabili sono i più semplici ed è difficile che portino alla gravidanza. È sbagliato, quindi, alimentare false speranze».
Ma tentare non nuoce?
«A livello fisico può anche non nuocere, ma spesso il danno maggiore è quello psicologico: molte donne si illudono di poter avere un figlio nonostante l’età avanzata».
Però qualcuna ci riesce. Non vale la pena provare?
«In Europa si contano circa 300 casi di donne rimaste incinte a un’età di 50 anni in su. In quei casi c’è il rischio altissimo che la gravidanza non arrivi a termine o di dover ricorrere a parti d’urgenza che possono essere pericolosi per la mamma per il bambino».
Ci sono però casi celebri di gravidanze andate a buon fine anche a 50 anni.
«Sono storie rare che il più delle volte riguardano casi di ovodonazione che in Italia è assolutamente proibita. Un divieto, questo, che difficilmente verrà cancellato».
«Le gravidanze che hanno successo riguardano spesso casi di ovodonazione, pratica proibita in Italia»
La Stampa 17.6.11
Anna Oliverio Ferraris
La psicologa: le cure costringono la donna a stress eccessivi
di V. Arc.
C’è un età ideale per ogni cosa. Avere un figlio a 50 anni può essere stressante per la donna e non la scelta giusta per il bambino». Per Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo all’Università Sapienza di Roma, la scelta di diventare madre in età avanzata «deve essere ben ponderata».
A 50 anni si è troppo grandi per avere un figlio?
«A quell’età bisognerebbe pensare ai nipoti e non ai figli. L’età ideale per avere e crescere un bambino va dai 20 ai 35 anni. Dopo potrebbe non essere la cosa giusta né per la donna e né per il figlio».
Perché «I trattamenti di fecondazione assistita sottopongono la donna a sforzi fisici e psicologici non indifferenti. Senza contare il rischio di rimanere profondamente delusi per un insuccesso, visto che le probabilità a quell’età sono davvero molto basse. Può essere devastante accettare di non esser riusciti a diventare genitori. Se poi si riesce a portare a termine la gravidanza, c’è da considerare lo sforzo di crescere un figlio».
A 50 anni non si può essere una buona mamma?
«Certo che si può essere buone mamme, ma è più difficile seguire il bimbo durante le fasi dello sviluppo. Quando sarà adolescente, la madre avrà superato i 60 anni e non è detto che sia così semplice seguirlo in questa età critica».
Sconsiglierebbe a una donna di avere un bambino in età ormai matura?
«La questione va affrontata su più punti di vista e in primis va considerato ciò che è giusto per il proprio bambino. Ci sono casi di mamme mature che non hanno avuto problemi a crescere i loro figli anche perché potevano contare sull’appoggio della famiglia. Diventare mamme in età avanzata non deve essere una decisione impulsiva ed egoista, ma dev’essere valutata nei suoi pro e contro».
«L’età ideale per avere e crescere un bambino è quella compresa tra i 20 e i 35 anni»
La Stampa 17.6.11
Richard Serra “È il segno che crea lo spazio”
«Chi guarda il rosso, giallo o rosa pensa ad altro, invece il nero è una proprietà»
Incontro con il grande scultore americano che espone i suoi disegni al Met di New York
di Maurizio Molinari
Vestito di nero e con un quaderno di appunti fra le mani in costante movimento Richard Serra ci accoglie al secondo piano del Metropolitan Museum, dove è allestita la mostra Drawings: a Retrospective . È la prima mai realizzata negli Stati Uniti dei suoi disegni e ne ripercorre il lavoro grafico degli ultimi 40 anni. Celebrato come il più grande scultore vivente, Serra guida alla scoperta della sua produzione, scandendo ogni tappa. «All’inizio nel 1972 - esordisce - facevo disegni come tanti altri, alla maniera degli studenti, solo per fare segni, forme e linee. Poi nel 1973 sono andato in un negozio chiamato Gemina, avevo un rullo e lo passavo più volte sulla carta, ne uscivano dei disegni seriali e sono uscito così dalla dimensione del guardare per approdare a quella del fare». Ma il salto è venuto più tardi «quando decisi di fare disegni autosufficienti».
È il caso di Abstract Slavery del 1974 che «riempie la parete, crea uno spazio» così come Pacific Judson Murphy del 1978 che estendendosi su un muro ad angolo «crea il contesto della stanza». E questa capacità del disegno di «creare lo spazio» si ricongiunge alla passione per la scultura. Evocata anche dai Forged Drawings del 1977, composti da quattro forme: quadrato, rettangolo, ottagono e cerchio. «Vengono spiega - da quanto ho appreso da giovane in acciaieria: tutto ciò che lì si crea si basa su una di queste forme semplici». Sala dopo sala, Serra, classe 1939, si ferma di fronte ad ogni opera. Ne ricorda la genesi tecnica, si sofferma sul significato, la guarda fino a riconoscersi. Parla spesso del nero, il colore prescelto, «perché la relazione nero-bianco riporta all’origine di Gutenberg, la genesi della stampa è legata alla maniera più semplice per controllare un messaggio senza metafore». Lo dimostra il fatto che «chi guarda il rosso, giallo o rosa pensa ad altro mentre il nero più di un colore è una proprietà» e come tale semplifica la trasmissione del messaggio.
«Stando in piedi fra pareti nere ti rendiconto di cosa intendevo prima di spazio e volume» sottolinea davanti agli Zadikians , disegni che rendono evidente la differenza con gli artisti del passato: «In Cézanne ciò che importa sono gli oggetti, tu sei fuori e guardi, io invece trasformo il ruolo di chi osserva: è l’esperienza di chi guarda che diventa il soggetto dell’esperienza, si tratta di un cambiamento del rapporto fra oggetto e soggetto. Noi siamo venuti dopo i minimalisti, prima gli scultori lavoravano su immagini appese nello spazio con noi invece è la forma fisica a creare lo spazio». L’importanza della «fisicità dell’arte» lo porta ad esprimere scetticismo nei confronti di Internet perché «la manifestazione fisica si perde in uno schermo fatto di punti, non abbiamo più la sensazione della materia. Proprio come il gps: ci dice tutto sulla strada che percorriamo tranne la grandezza di un camion che ci viene dietro a 100 km l’ora». La differenza che conta è fra «la realtà artificiale e quella fisica». Lui si sente interprete e protagonista della seconda.
Arrivati davanti al Titled Arch si parla di politica. Il nome del disegno evoca la scultura costruita nel 1981 e collocata nella Federal Plaza di New York. Otto anni dopo le autorità cittadine la smantellarono con un cambiamento di opinione che suscitò polemiche mai del tutto sopite. «La vollero e poi la distrussero» dice con un’irritazione ancora evidente e prende spunto da quanto avvenne per parlare dell’America «come di una nazione dove i cittadini hanno in realtà pochi diritti perché si tratta di una oligarghia capitalistica in cui i voti non contano». Quattro giorni prima era al Dipartimento di Stato ospite di Hillary Clinton e Joe Biden per il ricevimento in onore della cancelliera tedesca Angela Merkel. Serra è vicino all’amministrazione democratica perché «ho votato per Obama, ho raccolto fondi per lui e mi piace ancora oggi», ma ciò non toglie che «sono in profondo disaccordo con quanto ha fatto, non ha mantenuto la promessa di abolire gli sgravi fiscali di Bush ai ricchi e a guadagnare dalle sue scelte economiche sono state le banche, che investono non nell’occupazione qui in America ma nei mercati emergenti».
Nato in California da padre spagnolo e madre ebrea russa, Serra è una sintesi del sogno americano, ma non si riconosce in un Paese «che non costruisce più come facevamo negli Anni Venti quando creammo metropoli come New York». La responsabilità è «di una nazione spaccata fra estrema sinistra ed estrema destra dove manca il centro ed anche persone come Obama non riescono a fare ciò che vogliono». Il rimprovero ad Obama è di «essersi adeguato all’oligarchia capitalista». Arrivando fino «a pronunciare da Londra un discorso sulla superiorità del modello anglosassone che è stato recepito assai male nelle economie emergenti dove a prevalere sono le identità tribali e la forza creatrice di società composte da decine di milioni di giovani».
Questo nuovo mondo che si affaccia lo appassiona. Sta realizzando opere in Spagna, Brasile e Qatar. È l’Emirato sul Golfo a colpirlo di più «perché l’Emiro settantenne e la moglie, coperta dal chador e con i tacchi alti, sono venuti insieme con me nel cuore della notte fino in cima alla torre d’acciaio che sto realizzando. Potete immaginare un solo leader americano o europeo che avrebbe fatto altrettanto, svelando passione e partecipazione per l’arte?». Certo, «si tratta di nazioni dove il commercio è ancora limitato dai poteri famigliari», ma quando apre il libro di appunti e fa vedere la torre di Doha gli brillano gli occhi, è come se vedesse sul Golfo l’orizzonte delle sue opere.
Dell’Europa parla per la mostra di Basilea in cui i suoi lavori sono esposti assieme a quelli di Constantin Brancusi». Ammette di non aver creduto all’inizio in quell’iniziatiova: «Pensavo che servisse solo a vendere biglietti, ma ora mi sono ricreduto», perché «la sovrapposizione fra le nostre opere così diverse ha avuto un impatto». Senza contare che «quando andavo da giovane a Parigi nello studio di Brancusi mi accorsi subito che quello sculture era il migliore disegnatore in circolazione» anche grazie all’influenza «di Giacometti: arrivava trafelato nello studio alle 3 del mattino e si capiva che qualche problema esistenziale in fondo doveva averlo».
L’Italia fa parte della sua identità. La recente mostra «Made in Italy» nella galleria Gagosian di Roma alla quale ha partecipato con un Greenpoint Round intitolato a Italo Calvino cela «un legame profondo con il vostro Paese, testimoniato dal fatto che è stato Borromini a darmi l’ispirazione per la Torqued Ellipsis di Bilbao». Tiene in particolare a citare Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini e Primo Levi. «Sono fra gli scrittori che mi piacciono di più». Aggiunge una riflessione sui Sommersi e Salvati , il libro di Levi a cui ha intitolato una sua opera: «in alcune di quelle pagine descrive il dramma dell’esistenza che lui stesso ha incarnato».
Repubblica 17.6.11
Se il dottor Jekyll ci svela l´uomo e il suo doppio
Domani con "Repubblica" la quarta uscita della collana dei classici: l´autore scozzese è introdotto da Niccolò Ammaniti
Pubblicato nel 1886 anticipò di quasi un secolo il saggio sull´Ombra di Carlo Gustav Jung
di Laura Lilli
Chi non avesse ben capito – o non si fosse mai chiesto – cosa significhi la formidabile scoperta dell´"Ombra"da parte di Carl Gustav Jung, potrebbe trovarne una potente e immediata esemplificazione nel capolavoro di Robert Louis Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. L´Ombra, secondo Jung, è la parte più sgradevole e ripugnante di noi, che preferiremmo ignorarla. Invece, secondo il maestro zurighese, prenderne coscienza e impastarla al nostro "Io" è l´unica strada per crescere e maturare. Fra gli scrittori inglesi, l´"Ombra" c´è, anche se non si chiama così. E forse per questo sono tanto bravi a scrivere "gialli", in cui per strappare le maschere dai "veri" volti sono necessari addirittura dei professionisti, i detective. L´ammissione della colpa, tuttavia, quasi mai porta alla maturazione o redenzione del colpevole. Al contrario, di solito lo uccide.
Il romanzo di Stevenson è la storia di un uomo irreprensibile, disponibile, benevolo – il dottor Jekyll – che ha, ben nascosto in una stanza segreta – un suo doppio perfido e ripugnante, capace di tutto. Anche di far inciampare una ragazzina che incontra per caso, di sera, e poi calpestarla e prenderla a calci senza pietà. È la scena che apre il racconto, ricco di sorprese e di suspense. Uscì nel 1886, poco meno di un secolo prima di quel 1946 in cui Jung avrebbe scritto un saggio su Il problema dell´Ombra, appunto, dopo che questo lo aveva tormentato a lungo di giorno e di notte, nei sogni come nella delirante realtà delle sue ricerche sul simbolico, l´irrazionale, Simon Mago e tutto quanto di "stregonesco" avrebbe tanto irritato lo "scientifico" Freud, che lo mise al bando. Lo stesso Freud peraltro, come ben ricorda Joyce Carol Oates in un saggio su Stevenson: «nel suo malinconico Il disagio della civiltà (1930), riconosce che nella psiche umana c´è una frattura tra Ego e istinto, e che l´etica rappresenta una dolorosa concessione dell´Ego al gruppo». Ma questo è un dibattito novecentesco, anche se fa parte da sempre della nostra cultura (si pensi al "doppio" del Simposio di Platone). Mentre, a proposito di Stevenson, ci interessa il dibattito ottocentesco, vivacissimo a sua volta, e improntato piuttosto alla letteratura.
Era il secolo vittoriano, in cui apparenza e rispettabilità erano tutto (e forse nelle classi alte inglesi lo sono ancora oggi. Basta pensare alle esclusive scuole – sempre le stesse – in cui viene forgiata con lo stampino la classe dirigente di quel bizzarro Paese che ha inventato l´habeas corpus e la democrazia ma resta il più classista d´Europa). Una folla di romanzi prelude o segue quello di Stevenson: da William Wilson (1839) del bostoniano Edgar Allan Poe (Boston non è mai stata troppo lontana dall´Inghilterra) a The Mistery of Edwin Drood (1870) di Dickens, purtroppo incompiuto, all´elegante Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1891), storia del bellissimo giovane che resta giovane negli anni perché intanto il suo ritratto, ben nascosto, invecchia per lui. Ma quando il protagonista e il suo malevolo doppio si sovrapporranno, prevarrà il secondo.
Repubblica 17.6.11
Contrordine scienziati l’evoluzione è altruista
Aiutare il prossimo attiva certe aree del cervello e diventa fonte di piacere
di David Brooks
Ecco alcuni saggi in cui gli studiosi mettono in dubbio che gli uomini siano "egoisti per natura". Poiché tendiamo, invece, a cooperare
La logica non è più quella della competizione ma piuttosto l´idea di collaborazione
La teoria evoluzionistica ci insegna che a sopravvivere sono gli individui che meglio si adattano all´ambiente. Il più forte prevale sul più debole. Le creature che si adattano trasmettono i propri, egoistici, geni. Quelle incapaci di adattarsi vanno incontro all´estinzione. Stando a questa tesi noi esseri umani siamo marcati da un profondo egoismo, alla stregua di tutti gli altri animali. Puntiamo al massimo risultato entrando in competizione per la posizione sociale, il reddito, le opportunità di trovare un partner. I comportamenti apparentemente altruistici sono in realtà dettati da un interesse personale dissimulato. Carità e fratellanza non sono altro che una mistificazione culturale apposta sulla logica ferrea della natura.
Tutto ciò è in parte vero, ovviamente. Ma ogni giorno mi arriva sulla scrivania un libro che pone la questione sotto una luce diversa. Libri sulla solidarietà, l´empatia, la cooperazione e la collaborazione, scritti da scienziati, psicologi evoluzionisti, neuroscienziati. A quanto sembra gli studiosi di questa materia hanno cambiato orientamento, dando vita a un´immagine più sfumata e spesso più tenera della natura.
Partiamo dal saggio più modesto. Si tratta di SuperCooperators scritto da Martin Nowak assieme a Roger Highfield. Nowak ricorre alla matematica superiore per dimostrare che «cooperazione e competizione sono perennemente e strettamente interconnesse». Intenti a perseguire il nostro interesse personale spesso siamo portati a restituire una gentilezza ricevuta, così da poter contare sugli altri in caso di bisogno. Siamo stimolati a crearci la reputazione di persone gentili con l´intento di invogliare gli altri a collaborare con noi. Siamo incentivati al lavoro di squadra, anche se nel breve periodo può risultare controproducente rispetto ai nostri interessi personali, perché i gruppi coesi sono destinati al successo. Nowak attribuisce alla cooperazione un ruolo centrale nell´evoluzione equiparandola alla mutazione e alla selezione.
Ma gran parte dei nuovi saggi superano la teoria dell´incentivazione in senso stretto. Michael Tomasello, autore di "Why We Cooperate", ha creato una serie di test adatti, con poche variazioni, sia agli scimpanzé che ai bambini. Dalla sperimentazione è emerso che già in tenerissima età i bambini hanno un comportamento collaborativo e condividono le informazioni, a differenza di quanto accade negli scimpanzé adulti. Un bimbo di un anno informa gli altri della presenza di qualcosa indicandolo. Gli scimpanzé e le altre scimmie non condividono le informazioni con spirito collaborativo. I bambini sono pronti a condividere il cibo con estranei. Gli scimpanzé generalmente non offrono cibo, neanche alla prole. Se un bimbo di 14 mesi si accorge che un adulto è in difficoltà, non riesce ad esempio ad aprire la porta perché ha le mani impegnate, cercherà di aiutarlo. La tesi di Tomasello è che l´uomo mentalmente si è differenziato dagli altri primati. La disponibilità alla cooperazione è una qualità umana innata che viene intenzionalmente esaltata nelle varie culture.
In Born to Be Good, Dacher Keltner illustra gli studi su cui è impegnato, assieme ad altri, sui meccanismi dell´empatia e della connessione, descrivendo le dinamiche del sorriso, dell´arrossire, del riso e del contatto fisico. Quando si ride assieme agli amici si parte con vocalizzazioni separate che poi però si fondono in suoni interconnessi. Pare che il riso si sia sviluppato milioni di anni fa, ben prima delle vocali e delle consonanti, come meccanismo per costruire cooperazione. Fa parte del ricco strumentario innato della collaborazione tra esseri umani.
In un saggio Keltner cita l´opera di James Rilling e Gregory Berns, dell´università di Emory. I due neuroscienziati hanno scoperto che l´atto di aiutare il prossimo attiva le aree del nucleo caudato e della corteccia cingolata anteriore coinvolte nei meccanismi del piacere e della gratificazione. Significa che rendersi utili agli altri è fonte di piacere, come soddisfare un desiderio personale.
Nel suo libro The Righteous Mind, in uscita all´inizio del prossimo anno, Jonathan Haidt si associa a Edward O. Wilson, David Sloan Wilson ed altri nel sostenere che la selezione naturale avviene non solo attraverso la competizione a livello individuale, ma anche tra gruppi. In entrambi i casi la carta vincente è la capacità di adattamento, ma nella competizione tra gruppi la capacità di coesione, di cooperazione, l´altruismo dei membri, sono fattori determinanti per imporsi e trasmettere i propri geni. Parlare di "selezione di gruppo" era eresia fino a qualche anno fa, oggi questa teoria sta prendendo piede.
Gli esseri umani, sostiene Haidt, sono le "giraffe dell´altruismo". Come le giraffe hanno sviluppato il collo per sopravvivere, così gli uomini hanno sviluppato il senso morale per vincere nella competizione, a livello individuale e di gruppo. Gli uomini danno vita a comunità morali condividendo regole, abitudini, emozioni e divinità per poi combattere e addirittura talvolta morire per difenderle. Le nuove tesi evoluzionistiche che esaltano il fattore cooperazione fanno sì che si rivedano vecchi criteri di analisi come quello che imponeva nelle scienze sociali e in particolare in economia il modello del massimo vantaggio sulla base del principio della competizione egoista.
Ma l´aspetto più rivoluzionario riguarda il rapporto tra comportamento e morale, per decenni negato in base a criteri cosiddetti "scientifici". Se è vero però che la cooperazione è parte integrante della nostra natura umana, altrettanto vale per la moralità, non possiamo capire chi siamo e come siamo arrivati fin qui senza considerare l´etica, le emozioni e la religione.
(© New York Times-la Repubblica Traduzione di Emilia Benghi)
il Venerdi di Repubblica 17.6.11
Eric Hobsbawm
Il comunismo è morto ma Karl Marx sta bene più che mai
Il grande vecchio del secolo breve racconta la riscoperta del filosofo di Treviri
Ora anche i capitalisti vogliono rileggere il suo Capitale
E in un libro spiega perché è giusto riscoprire un’eredità ancora attuale
di Mario Cicala
nelle edicole, più tardi disponibile qui
il Riformista 17.6.11
José Saramago
Il don Chisciotte del Portogallo
di Rossana Miranda
nelle edicole, più tardi disponibile qui