martedì 14 giugno 2011

l’Unità 14.6.11
Un Paese nuovo
di Concita De Gregorio


È solo l’inizio”, abbiamo scritto il prima pagina il 14 febbraio all’indomani della grande manifestazione delle donne, sordi agli insulti e allo scherno che si levava dai giornali della destra, al sarcasmo greve, alle offese personali. Era solo l’inizio ma insieme era l'approdo di un lungo cammino, ostinato e silenzioso, sotterraneo: il cammino che ci ha portati sin qui, 30 milioni di persone alle urne, una vittoria dei cittadini e dell’Italia intera. La vittoria di quelle parole che insieme in questi anni abbiamo rinominato da capo: verità, autenticità, coraggio, dignità, responsabilità, giustizia. Adesso dette così, tutte in fila, possono sembrare l’ennesimo rosario retorico e astratto ma noi sappiamo bene, invece, che a ciascuna di queste parole corrisponde una battaglia, un episodio, un gesto, un segnale che si è levato dal Paese in questi mesi e che qui abbiamo ascoltato, accolto, amplificato, illustrato. Prendendo quel refolo di vento e provando con le nostre forze la forza di chi osserva la realtà e la racconta, la forza del giornalismo libero a farlo crescere con noi. Se scorriamo all’indietro le prime pagine del nostro giornale troveremo tutte le orme, le tappe di quel cammino. Ne abbiamo raccolte alcune, all'interno, per aiutare la memoria breve che è così volatile, per ricordare a tutti che niente accade all’improvviso e per caso, che il futuro era già qui bastava saperlo vedere. È questa cecità, questa sordità il difetto di chi è rimasto cristallizzato in un tempo che stava scivolando via: è questa incapacità di ascolto che ha punito chi ha perso.
Era maggio del 2009 quando dicevamo “La rabbia dei figli”, saranno i giovani a portarci via da qui. “Ribellarsi fa bene” quando era ancora il momento del torpore apparente, bisognava spronare. Era luglio di due anni fa quando abbiamo lanciato la campagna sul nucleare, era ottobre (“La legge è uguale per tutti”) il tempo di quella sul legittimo impedimento, era il 6 novembre 2009 quando abbiamo denunciato “Le mani sull’acqua” il tentativo in atto. Poi il risentimento e la rabbia che tanti temevano ci riportasse agli anni Settanta ricordate? sono stati cavalcati da alcuni e non da altri. Non ci è mai piaciuta la politica della bava alla bocca, non ci sono piaciute le urla e le minacce, i tentativi di provocare incidenti, le città blindate. “La lezione degli studenti”, dicevamo il giorno dopo la grande manifestazione dei ragazzi che sfilavano con le copertine dei libri appese al collo. La rivolta delle donne, poi l’ironia e la forza del web “Avanti Pop” e “Avotar” il vento, infine, finalmente.
Ecco, siamo arrivati fin qui. Il voto di ieri ci consegna un Paese nuovo. Veramente nuovo, profondamente nuovo. Guai a chi si ostinasse a non vederlo, a chi continuasse ad interpretarlo col vecchio lessico e i vecchi schemi. Dopo le amministrative la “rivoluzione gentile” il referendum. Proverò a dire quelli che mi sembrano i tratti salienti di questo voto e mi scuso in anticipo coi lettori abituali del nostro giornale che queste parole le hanno già lette molte volte, nei mesi, qui. Scusate se mi ripeto, ma oggi è il giorno: riassumiamo, dopo averne avuta conferma, quello che ci siamo già detti nei giorni.
Oltre. Non (solo) un voto contro Berlusconi ma un voto oltre Berlusconi. La stagione del Sultano è finita. Restano in quattro a ballare la sua musica. Bossi che studia come uscirne, e quando. I servi sciocchi e stipendiati. I comprati, che dalla sua caduta hanno solo da perdere. Non vale la pena occuparsi di loro, adesso. Il Paese non si occupa di loro, è oltre. Dei trenta milioni che hanno votato moltissimi sono elettori di centrodestra, molti altri astenuti che sono tornati a votare perchè chiamati a riprendersi la delega, a esprimersi finalmente su qualcosa di concreto, che li riguarda. A dire: non ci sentiamo rappresentati da questa classe politica, ne vogliamo una nuova che ci somigli e ci tuteli.
I partiti. Continuare a leggere il voto, come sento fare ancora nei salotti tv e nelle direzioni politiche, con la logica del chi ha vinto e chi ha perso, quale alleanza è opportuno adesso fare, destra sinistra centro, come spostare i blocchi di voti secondo convenienze di vertice è miope e sbagliato. Se ce ne fosse ancora bisogno il voto di ieri conferma che è finita l’epoca della politica verticale, quella in cui il leader di partito dà indicazione all'elettorato e quello obbiediente e acritico esegue. È orizzontale, questa politica.
È politica, non c'è dubbio che lo sia: non è antipolitica velleitaria e populista. E' politica che nasce dal basso, dai comitati dai cittadini che si organizzano, che passa anche attraverso i partiti ma non solo, che è capace di disubbidire, che esercita in prima persona la responsabilità. Direte: ma la nostra è una democrazia rappresentativa, le forme di democrazia diretta come il referendum sono un'eccezione non sempre salutare. Sì, ma se la democrazia rappresentativa è bloccata da un sistema elettorale che impedisce ai cittadini di scegliere gli eletti, se gli eletti sono nominati dai leader e non rispondono più all'elettorato, se sono deboli perchè dipendono da quella nomina e dunque corruttibili come possono, allora i cittadini, dare un segno? Come possono chiedere di tornare ad essere i protagonisti di un sistema in cui “la sovranità appartiene al popolo” se le forme in cui la esercita sono sclerotizzate e ammalate? Gli elettori hanno imparato a dissentire dalla “linea” dettata dalle segreterie. Raccolgono firme sui tavoli anche quando i loro partiti di riferimento non lo fanno, vanno a votare anche quando i loro leader dicono di no. La Padania di Bossi è andata alle urne in massa, il Veneto e il Piemonte assai più della Calabria: uno scollamento che deve togliergli il sonno, e che connoterà domenica prossima l'appuntamento di Pontida. Hanno fatto come volevano: a sinistra come a destra, al centro. Inoltre, vedete, torna al voto il partito del non voto: quel 30 per cento di italiani che non si fida e non si identifica più in nessuno – per stanchezza, per disillusione, perchè troppe volte eccetera eccetera – ecco che quando trova spazio per dire la sua in un'area non rappresentata solo dai partiti lo fa. Il tesoro nascosto riemerge. In questa struttura a rete, orizzontale, certo che i partiti hanno una funzione fondamentale: ne sono parte, non ne sono più il vertice. Possono e devono mettersi al servizio dei cittadini: quando lo hanno fatto, sebbene in ritardo in qualche caso, seppure con qualche prudenza al principio, hanno vinto. Nella battaglia referendaria, per esempio, nata dai Comitati così a lungo dileggiati, sostenuta da principio da Di Pietro e da Sel, poi anche convintamente dal Pd tutti costoro possono dire oggi di aver vinto. Come tutti coloro che hanno sostenuto con lealtà De Magistris e Pisapia hanno vinto. Come le primarie che ora anche la destra con ridicolo ritardo e nessuna credibilità dice di voler fare – insegnano. L'elettorato ha dimostrato, tutte queste volte, di avere più lungimiranza e più coraggio di chi lo rappresenta in Parlamento. In qualche caso, penso al voto cattolico, persino di essere più a sinistra dei suoi leader. Gli elettori di centrodestra hanno detto invece che possiamo voltare pagina, Berlusconi è passato, adesso torniamo a fare politica.
I giovani. La rivoluzione arriverà quando i nonni si alleeranno coi nipoti, abbiamo scritto tante volte. Quando i ragazzi convinceranno i genitori: a votare, a cambiare, ad uscire dal torpore ipnotico di cui la generazione di mezzo è stata in grande parte vittima, nel trentennio di regime mediatico. I vecchi e i giovani hanno realizzato questo cambiamento. I ragazzi, soprattutto. E principalmente usando mezzi e linguaggio nuovo: il web, l'ironia, il passaparola, i videomessaggi, la satira. Vale più una vignetta che gira in rete di un comizio.
La Rete. Dicevamo qualche giorno fa che il voto delle amministrative decreta la fine dell'era televisiva. L'inizio della fine, certo, perchè ci vorrà tempo. Ma oggi non c'è chi non veda come questo voto non sia stato in alcun modo determinato dalla tv. A parte tre o quattro dibattiti televisivi, sempre gli stessi, del referendum non ha parlato nessuno. Gli otto milioni di Santoro non sono nemmeno un terzo dei trenta che sono andati a votare: davvero è colpa o merito di Annozero presidente? Non penso proprio, fate un giro in rete. La quantità e qualità della mobilitazione ha raggiunto l'eccellenza creativa anche con mezzi rudimentali: vi abbiamo mostrato in copertina, negli ultimi giorni, di cosa fosse fatta questa campagna. Del protagonismo di ciascuno e della sua capacità di “bucare”. Capacità, scrive oggi il blogger Alessandro Capriccioli, direttamente proporzionale all'autenticità del desiderio di esserci, di passione e ragione, di verità. La verità, l'autenticità hanno vinto sulle menzogne sulle censure e sulle prepotenze. Si riconoscono, le une e le altre. Non serve più che il Tg1 oscuri Napolitano che va a votare, come non serve censurare le voci scomode: si leveranno altrove. Vale per tutti, a destra e a sinistra. Del resto: il governo ha provato a boicottare in ogni modo il voto: spostandolo al primo week end dopo la chiusura delle scuole, scrivendo leggine e inoltrando ricorsi. Ma se era inutile, perchè tanta fatica presidente?
Un tempo nuovo. Erano 15 anni che un referendum non raggiungeva il quorum. Ventidue, dal '97, hanno fallito l'obiettivo. Vogliamo continuare a discutere, da domani, come se non fossimo davanti a un'Italia che rinasce? Vogliamo ancora baloccarci con le pensose analisi degli opinionisti tv tutti uomini, di solito, tutti cinquantenni o vogliamo andare a sentire anche i ragazzi per strada, i giovani dei comitati, gli amministratori coraggiosi, quelli che non contano niente perchè non hanno l'autista, quelli che lavorano nei circoli e nelle sezioni ma nessuno gli chiede mai altro che obbedienza, magari per fax? Liberiamo le donne e i bambini, ascoltiamo la voce dei figli e dei nonni, riprendiamoci la libertà, la dignità, la bellezza dell'impegno politico. Nei partiti e fuori di lì, dappertutto. Costringiamo chi pensa che il potere sia facoltà di comando a ricordarsi che è obbligo di servizio. Una grande responsabilità, una fatica e una gioia. Tutto il resto verrà, sta già arrivando. Buongiorno, Italia. E grazie.

l’Unità 14.6.11
«Divorzio fra governo e Paese. Berlusconi passi la mano al Colle»
Il leader del Pd invoca il passo indietro del premier: «il referendum dimostra quanto il centrodestra sia lontano dalla gente». Ma si verifichi anche se c’è «uno spiraglio» per cambiare la legge elettorale.
di Maria Zegarelli


Umore alle stelle, qui nella sede del Pd, come di là in quella dell’Idv, come in piazza della Bocca della verità. «Stavolta non rie-
sco a non ridere, per quanto ce la metta tutta» e quindi se la ride Pier Luigi Bersani, a urne chiuse, quorum fermo poco sopra il 57%, ben oltre ogni previsione, grazie a tanti ma tanti voti anche di centrodestra. Complicato, ragiona, per il governo. dopo questo ennesimo segnale che gli italiani mandano forte e chiaro fare finta di niente.
IL DIVORZIO
«Questo è stato a mio parere un referendum sul divorzio, il divorzio tra il governo e il Paese». Dunque, il passo successivo del presidente del Consiglio, secondo il segretario Pd, dovrebbe essere quello di presentarsi alle Camere dimissionario, «fare un viaggio verso il Quirinale» e poi andare al voto. Posizione che trova d’accordo anche Sel e Terzo Polo ma non l’Idv. Poi, se nel mezzo di questo percorso si aprisse «uno spiraglio» per cambiare la legge elettorale e restituire ai cittadini «la possibilità di scegliere», be’ allora tanto meglio. «Da parecchio tempo chiediamo le dimissioni del governo, dato che non è in grado di affrontare i problemi del Paese. Noi non abbiamo mai collegato né per le amministrative né per il referendum il voto allora x, dice ma certo dopo oggi e dopo che da un anno chiediamo le dimissioni del governo, Berlusconi e il centro destra devono riflettere e fare un’assunzione di responsabilità. Il referendum dimostra infatti che sono su una strada diversa rispetto a quella del Paese, in un altro universo», come dimostra «l’enormità di questo risultato» che racchiude nella forza del dato dell’affluenza anche «una richiesta di un segnale di cambiamento, dalla maggioranza assoluta degli italiani». Mentre per Antonio Di Pietro chiedere le dimissioni post-referendum sa tanto di strumentalizzazione, per il leader Pd («la pensiamo allo stesso modo anche se Di Pietro è stato più prudente») questa è l’unica strada che la maggioranza già dalla prossima settimana dovrebbe imboccare proprio in vista della verifica in parlamento chiesta dallo stesso presidente della Repubblica. C’è bisogno di «creare un elemento di fiducia e ripartenza. Si può fare solo con le elezioni», davanti a un Paese che non chiede più miracoli «ma serietà: non si può andare avanti con le favole».
Difficile prevedere l’evoluzione politica che l’impatto di questi referendum avrà dentro la maggioranza e sull’asse Pdl-Lega e quanto converrebbe al Carroccio rompere il matrimonio. Secondo Bersani anche restare al governo non gli farebbe tanto bene, perché «va bene stare con uno che vince se perdi tu o stare con uno che perde se sei tu a vincere, ma se si perde in due...». Né farebbe tanto bene alla coalizione «limitarsi a mettere Berlusconi sul lettino dello psicanalista...».
L’IRRILEVANZA DI SILVIO
E a questo punto della storia poco importa stabilire se ha avuto una qualche incidenza quella dichiarazione di non voto del premier, perché ormai «sta diventando irrilevante», nel Paese e nella sua stessa maggioranza. Un’irrilevanza che venderà a caro prezzo, come soppesa Franceschini: «Ora inizia la fase più difficile: le persone che hanno pulsioni autoritarie,
o quelle che proprio non possono andare via perché pensano che sennò gli crolla tutto addosso, pur di non andare a casa le tentano tutte. Berlusconi passerà dal buonismo alla violenza istituzionale». Ma il Pd che oggi festeggia il rag-
giungimento del quorum mesi fa era tiepido, inevitabile la domanda a Bersani. «Usiamo cautela nel mettere il cappello sulle cose che devono avere una libera espressione, ma un grande partito, e noi siamo il più grande partito di questo paese, dà una mano alla società civile e credo che in questa occasione l’abbiamo data». Ai partiti spetta, ora, di dare risposte concrete a chi è andato a votare e ha messo una croce sui quattro sì. Il Pd, assicura, «prende un impegno». Sull’acqua, con una proposta di legge che non prevede la privatizzazione forzata, «per il miglioramento del servizio giustizia perché tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge» e per un piano energetico che consideri archiviato l’atomo.

l’Unità 14.6.11
Una bella vittoria, ma ora pensiamo a una vera alternativa
di Nicola Tranfaglia


I risultati che gli italiani hanno raggiunto con i voti espressi nei quattro referendum sono di grandissima importanza. Il voto ha dimostrato che il vento del cambiamento soffia al Sud come al Nord e che la Lega, come hanno detto prima Bossi e poi Maroni, mollerà il cavaliere se questi non cambierà strada. Ma come fa a cambiare un uomo che ha sempre deciso da solo e ha un orientamento culturale profondamente antidemocratico? È una domanda che non ha risposta, se non quella radicalmente negativa.
I risultati hanno invece dimostrato che, se i partiti politici (che dovrebbero essere più democratici e meritocratici) sono aperti ai grandi problemi di cui è afflitta l’Italia dominata negli ultimi diciassette anni da un populismo autoritario e senza scrupoli, come quello di Silvio Berlusconi e di chi lo segue da molto tempo, da Straquadanio a Giuliano Ferrara gli italiani sono capaci, come lo furono in altri tempi i loro padri, di raggiungere l’unità, di cogliere il punto essenziale e di pronunciarsi, con una netta maggioranza, per i valori contenuti nella nostra grande Costituzione repubblicana del 1948.
Quei valori fondamentali dicono che l’acqua deve essere pubblica e non deve favorire speculazioni economiche. Che, al posto delle centrali nucleari, occorre incoraggiare a fondo le energie rinnovabili e tutti gli altri sistemi che non inquinano e salvaguardano l’ambiente naturale. Infine che il cosiddetto “legittimo impedimento” è una legge che rimane incostituzionale, anche con tutti i possibili aggiustamenti. E che va abrogata perché contraddice in maniera radicale il principio dell’eguaglianza sostanziale degli italiani sancita nell’articolo 3 della Costituzione che al primo comma si preoccupa persino di rafforzarla, sottolineando che spetta proprio alla Repubblica mettere in atto azioni supplementari per consentirle l’attuazione effettiva.
Ma, come sappiamo, le parole da sole non bastano. Bersani ha perfettamente ragione a dire che «i referendum segnano ormai il divorzio tra il paese e il regime populista», che ha condizionato per oltre un quindicennio la nostra vita, ma a lui, come agli altri leader di tutto il centro-sinistra spetta la responsabilità di preparare un’alternativa programmatica, ma anche etica e culturale, degna di questo nome. Un’alternativa che si fondi sul merito e che consenta all’Italia e agli italiani di archiviare in maniera definitiva le numerose leggi ad personam, il degrado culturale, la crisi gravissima dell’università della scuola e della ricerca scientifica, l’incertezza e il disagio dei giovani, la disperazione degli anziani con una pensione troppo esigua. Insomma, un’alternativa concreta che permetta di uscire dal baratro in cui il Paese è da troppo tempo precipitato.

il Fatto 14.6.11
Liberazione
di Antonio Padellaro

  
Scajola e soci costretti (unitamente ai tre dell’Ave Maria: Feltri, Sallusti e Belpietro) a fingere in tutte le tv, che i quasi 27 milioni di ceffoni ricevuti da Silvio Berlusconi sui quattro referendum, fossero teneri buffetti. Divertente anche la scena dell’inquilino di Palazzo Grazioli impegnato in compere di anellini e farfalline nella bigiotteria di sotto, mentre tutto gli sta crollando addosso. I regimi finiscono così. Con i cortigiani che sparlano della “malattia” senile del padrone e pensano a come mettersi in salvo dalla gente che “già sta tirando le monetine” (Santanchè a Briatore). Con gli ex alleati che sparano sul monarca diventato un peso insopportabile, un “bollito” che “non sa più comunicare” (Bossi). È il governo dei morti viventi a cui manca solo l’atto finale.
Come Craxi, l’uomo di Arcore travolto dal voto popolare minimizza: sperando in tempi migliori, che però possono essere solo peggiori. Non si rende conto di essere già a Salò con la Liberazione alle porte. Come sempre, è la spinta del popolo a cambiare le cose. Non le congiure di palazzo. Non le alchimie dei professionisti della politica. Adesso sono in tanti a mettere il cappello sulla vittoria. La verità dice che i referendum li hanno fortemente voluti i comitati di base per l’acqua pubblica e contro il nucleare. E Di Pietro, che ci ha creduto quando nessuno ci credeva e ha raccolto le firme. Poi, dopo Pisapia e De Magistris, è sceso in campo anche il Pd con tutto il suo peso. Cerchiamo invece di dare ascolto a ciò che dicono quei 27 milioni di italiani. Di sinistra, ma anche di destra. Ritornati a essere cittadini, consapevoli di diritti e doveri. Decisi a spazzare via illusionisti e imbonitori. Dopo diciassette anni di sultanato.

il Fatto 14.6.11
Il quorum della svolta
L’uragano perfetto
di Furio Colombo


USO L’ESPRESSIONEdei meteorologi quando intendono spiegare il combinarsi di circostanze insolite per scatenare una tempesta molto più grande e molto più potente del solito. È esattamente ciò che è accaduto in queste ore in Italia: una partecipazione ai referendum senza precedenti da decenni, il raggiungimento e il superamento del quorum molto al di sopra della pur difficile prescrizione della legge, l’approvazione di tutti i quesiti con un voto alto e univoco che vuol dire: voto politico, con clamorosa e deliberata intenzione. Si aggiunga che tutto è avvenuto mentre una potente forza di governo, una larga maggioranza parlamentare, un vasto dominio dei media (soprattutto le televisioni) un’esplicita e ostentata presenza di Berlusconi e di tutti i suoi proconsoli alla testa di un rifiuto sprezzante di ciascun quesito e di tutto il referendum, hanno dato un segno (politico) e un senso (prendere o lasciare) a tutta la vicenda.
MA ECCO COME si è verificato il perfetto uragano. I cittadini dovevano decidere se partecipare, come chiedevano i referendari, o andare al mare come è stato raccomandato dal capo del governo, della maggioranza, della quasi totale forza mediatica, di quasi tutto il potere disponibile in Italia. Hanno voltato le spalle al gonfio potere berlusconiano che dura da un ventennio e hanno partecipato in numero ampiamente superiore a quello richiesto dalla legge. Dunque il primo ingrediente dell'uragano perfetto è la partecipazione, un vero e proprio appassionato ed esplicito impegno politico. Il secondo è il voto. Si è verificata una quasi completa coincidenza tra partecipazione ampia e sicura (il famoso quorum) e ogni singola risposta alle domande espresse nelle quattro schede referendarie, domande molto diverse l'una dall'altra. Tutte (ovvero una maggioranza intorno al novanta per cento) hanno ottenuto il “sì” che, come si sa, vuol dire un “no” a leggi, decisioni e proposte del governo di Berlusconi. Quattro respingimenti nel modo netto e brutale che, in altri tempi, sarebbe piaciuto a Maroni, purché avvenisse in mare e contro disperati.
Qui il respingimento avviene nei confronti di un potere esteso ad ogni ganglio e aspetto e dettaglio della vita italiana e della vasta onda di conformismo e di opportunismo che ha sostenuto il potere di Berlusconi per oltre diciotto anni praticamente ininterrotti (qualche volta ha governato Prodi o il centrosinistra ma le notizie le dava comunque Berlusconi mostrando e vendendo l'Italia che voleva).
La terza condizione per il perfetto uragano è il legittimo impedimento. Qui non entra né la suggestione per la paura del nucleare dopo Fukushima, né l'amore per l'acqua libera, l'acqua bene comune, che ha spinto milioni di italiani a tracciare un segno ben fermo sul sì della scheda. Qui il punto è la liberazione del Paese dalle vergognose leggi ad personam che hanno svergognato l'Italia agli occhi del mondo (vedi l'ultimo numero di The Economist). I votanti di quel respingimento-cancellazione sono, benché sia imbarazzante per tutti coloro che hanno fatto finta per tutti questi anni di essere la voce di “tutto il popolo italiano”, quasi il cento per cento dei partecipanti ai quattro referendum. La dichiarazione è drammatica e politicamente una vera svolta a U rispetto al passato.
Ma il quarto, straordinario ingrediente è questo: si poteva votare per o contro Berlusconi senza doversi porre l'altra domanda: “Chi, invece?”. Per la prima volta si poteva, anzi si doveva dire ciò che ciascuno pensa di Berlusconi: rispetto, stima, apprezzamento, fiducia.
LA RISPOSTA È STATA un vasto e netto rifiuto, un “no” risonante che chiude un intero periodo storico. Negare tutto ciò, come ha tentato di fare il ministro della Difesa La Russa al Tg3 subito dopo i risultati del voto, mentre mostrava di non sapere l'annuncio di Bossi sul ritiro delle truppe italiane nelle missioni del mondo, e ostentava un ciuffo di capelli del tutto nuovo (con cui evidentemente si appresta ad affrontare coraggiosamente la nuova epoca) appare infantile ma anche inutile. Di ciò che era il berlusconismo, dopo il perfetto uragano, non restano che rovine. Il resto, ovvero la Repubblica italiana, bisognerà ricostruirla da capo. Con un pensiero grato e solidale a quel buon cittadino che è il capo dello Stato. Ha detto chiaro, e lo ha detto subito: “Io vado a votare”. Ha irritato un po’ il giornalista Magdi C. Allam, dimostrando che, persino con l'ottanta per cento di gradimento, non si può piacere proprio a tutti. Gli altri cittadini, però, hanno apprezzato, hanno capito, hanno votato.

La Stampa 14.6.11
“E’ il terzo segnale” La voglia di partecipare ora è un’onda lunga
Il sociologo De Masi: dalle primarie in poi i cittadini “del web” battono i conservatori
di Fabio Martini


Professore Domenico De Masi insegna Sociologia del Lavoro alla Sapienza Ha inventato il concetto dell’«ozio creativo» e studiato l’impatto del telelavoro
Un, due e tre: tra Primarie, amministrative e referendum è come se da qualche mese gli italiani si fossero ripresi la voce e non si stancassero più di farsi sentire. In queste ore fa notizia la percentuale del 57% di affluenza ai referendum, ma c’è un rosario di numeri che - messi uno dietro l’altro - diventano ancora più eloquenti. Sono stati ventotto milioni e mezzo gli italiani che sono andati a votare per i referendum (equivalenti all’intero elettorato di centrosinistra alle Politiche 2008 più il 60% di quello di centrodestra), ma tantissimi avevano già partecipato al primo turno delle elezioni comunali di metà maggio e in qualche caso - a Milano per esempio - ai ballottaggi, anziché il consueto, drastico calo di partecipazione, si era registrata una presenza stabile. E, ancora prima, le Primarie del centrosinistra per la scelta dei candidati sindaco, avevano fatto registrare ovunque partecipazioni record, anche in città «fredde» come Torino.
Sono numeri in sequenza che propongono domande diverse da quelle che queste ore agitano le opposte fazioni politiche, impegnate a leggere il risultato secondo le proprie convenienze. C’è soltanto anti-berlusconismo, o l’impennata della partecipazione ai referendum segnala qualcosa di più profondo nella «pancia» del Paese? C’è un filo rosso che unisce Primarie di coalizioni, le elezioni amministrative e i referendum? Dopo tanto parlare di Internet, non sarà che stavolta la rete ha fatto boom? Il professor Domenico De Masi, sociologo sempre attento a quel che si muove nel mondo, non ha dubbi: «Attenzione, siamo davanti ad elezioni spartiacque, perché per la prima volta, davvero la prima volta, è stato determinante in Italia il ciclone Internet, che era stato decisivo per Obama e che sta iniziando a trasformare anche da noi la tv in un catorcio medievale. E poi sta arrivando la generazione dei digitali, che sono ottimisti, non hanno paura dei gay o degli islamici e che rendono sempre più marginali gli “elettori-digitali”, paurosi di tutto».
Certo, è essenziale capire se nell’universo della comunicazione sia iniziata per davvero una rivoluzione, ma intanto un primo effetto è un ritorno della partecipazione, un evento che rallegra Arturo Parisi, promotore dietro le quinte dei referendum Segni che terremotarono la Prima Repubblica e portarono al bipolarismo: «Primarie, elezione diretta dei sindaci e referendum sono sulla stessa traiettoria: c’è di nuovo una stagione di partecipazione diretta, la rivendicazione della gente di poter partecipare alla decisioni con efficacia immediata. Si sta chiudendo un ciclo ma come dimostrano i referendum epocali, anche stavolta non è detto che si apra una fase coerente col risultato della consultazione: dopo il referendum sul divorzio non ci fu un’alleanza laica vincente ma quella Dc-Pci e dopo i referendum 1991-93 arrivò Berlusconi. I processi bisogna saperli guidare: il premier deve fare i conti con un consenso che non c’è più, i suoi oppositori con un consenso che non è ancora venuto».
Ma la voglia di partecipazione è una vera novità anche per il sondaggista Luigi Crespi, che a suo tempo ha lavorato per Berlusconi: «Nell’ultimo mese gli italiani sono andati a votare per tre volte in massa. Sta arrivando anche da noi un movimento molto ampio di dissenso nei confronti di tutti i governi europei, dalla Germania alla Francia, dalla Grecia alla Spagna sino alla Gran Bretagna. Con una specificità italiana: Berlusconi ha chiuso il suo ciclo. Il centrodestra non è detto, ma dovrà riarticolare la sua offerta».
E naturalmente nell’affluenza di nuovo sopra il 50% ha giocato un effetto-Berlusconi, che il professor Alessandro Campi, intellettuale disorganico di centrodestra spiega così: «L’elettorato si sta in parte prendendo spazi di libertà e autonomia al di là delle appartenenze, ma due dati stupiscono: l’incapacità del grande semplificatore Berlusconi di cavalcare la democrazia dei quesiti elementari - sì o no - e la rinuncia del centrodestra a difendere le proprie scelte su questioni, come l’acqua, sulle quali si giocava la sua storia. Rifugiarsi, come hanno fatto in tanti, nella libertà di voto, che si dovrebbe riservare alle questioni di coscienza, dimostra una debolezza culturale e politica che poi si paga».

Corriere della Sera 14.6.11
L’energia positiva di un voto
di Michele Ainis


Saranno ormai tre lustri che i referendari vivono in una riserva indiana, circondati da forze sovrastanti; e dopo 24 referendum senza quorum ci avevamo fatto il callo, stavamo cominciando a rassegnarci. Tanto più in quest’occasione, con il voto trasformato in una gara d’alpinismo (terzo appuntamento elettorale in quattro settimane). Con un’informazione tardiva e insufficiente nelle Tv di Stato. Con mezzo governo che ci ammoniva a non sprecare tempo: quesiti inutili, inutili pure gli elettori. Infine con l’esperienza fresca fresca delle Amministrative, dove il partito del non voto è stato di gran lunga il più (non) votato. E allora com’è che l’onda d’astenuti alle elezioni provinciali (55%) è diventata uno tsunami di votanti (il 57%) sui 4 referendum? Risposta: perché gli italiani non ne possono più dei politici italiani. Non della politica, però. Non se esprime facce nuove, meno logore di quelle che frequentano il Palazzo da vent’anni. Non se interroga questioni di fondo del nostro vivere comune. Sicurezza, ambiente, eguaglianza, confine tra pubblico e privato: dopotutto erano queste le domande sollevate dai referendum. Gli elettori hanno risposto bocciando altrettante leggi del governo, e bocciando perciò il governo nel suo insieme.
Ma l’opposizione farebbe molto male a sfilare sotto l’Arco di Trionfo. C’è infatti un collante, c’è un denominatore comune fra le Amministrative e i referendum: il ritiro della delega. Perché adesso gli italiani hanno deciso di decidere, senza subire le scelte di partito, quale che sia il partito. Ne è prova il voto del 30 maggio a Napoli, dove metà degli elettori si è tenuta lontana dalle urne, mentre l’altra metà ha espresso un plebiscito per un uomo fuori dai partiti, persino il proprio. Ne è prova la manifestazione del 10 giugno che ha chiuso la campagna per i referendum, rigorosamente senza bandiere di partito: gli organizzatori sapevano quanto fossero indigeste. Da qui una duplice lezione, sempre che la politica abbia voglia d’ascoltarla. Primo: il testo del referendum dipende dal contesto. È infatti il clima del Paese che imprime forma e forza ai singoli quesiti, caricandoli di significati generali. Funzionò così per il divorzio e per l’aborto (un’iniezione di laicità nel nostro ordinamento), per i referendum elettorali dei primi anni Novanta (una domanda di ricambio nelle classi dirigenti), o altrimenti per le tante consultazioni andate a vuoto, senza un vento popolare a soffiare sulle vele. Perché ogni referendum ha questa valenza: serve a incanalare un’energia. Non a caso l’istituto fu battezzato in due Stati (Usa e Svizzera) che non contemplavano lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma il referendum non può creare un’energia politica, può solo intercettarla. Quando c’è, e adesso ce n’è a iosa. Il lungo sonno è terminato. Secondo: la nostra bistrattata Carta si è presa una rivincita. La «gemma della Costituzione» — come a suo tempo Bobbio aveva definito il referendum— è tornata a brillare. E forse questo sussulto di democrazia diretta convincerà la maggioranza a curare i mali della democrazia indiretta, a partire dalla legge elettorale. Forse ci convertirà un po’ tutti a un atteggiamento di maggiore lealtà verso le istituzioni. Ieri abbiamo letto editoriali che bacchettavano il capo dello Stato per essersi permesso di votare. La risposta più sonante l’ha offerta quel 5%di italiani che ha votato «no» ai quesiti, evitando le scorciatoie dell’astensione. Perché ogni referendum fallito nel vuoto delle urne rappresenta pur sempre una sconfitta della democrazia. E perché nessun principio di sovranità popolare può mai attecchire senza un popolo disposto a esercitarla. Votando in massa i referendum, il popolo italiano si è dunque riappropriato della sua Costituzione. Eravamo sudditi, stiamo tornando cittadini.

Corriere della Sera 14.6.11
Una lunga stagione al tramonto
di Antonio Polito


S e il voto delle Amministrative era stata una sberla, questo è un Ko per il centrodestra. Non solo per i numeri. I quali, però, sono imponenti. A Milano e a Napoli, vittoria e sconfitta si giocarono su poche decine di migliaia di voti. Qui si tratta di quasi ventisette milioni di italiani che sono andati alle urne o nel deliberato intento di colpire Berlusconi, oppure mettendo tranquillamente nel conto questo effetto politico (compresi Maroni e Zaia, Polverini e Alemanno). Ma c’è di più. Se alle Amministrative il centrodestra aveva perso per la diserzione di tanti suoi elettori che si erano astenuti, stavolta ha perso per la partecipazione attiva di milioni di suoi elettori in dissenso. Curiosamente, ancora una volta tocca a un referendum suonare la campana finale di un’era politica. Quello sul divorzio del ’ 74 chiuse l’epoca d’oro della Dc e ne avviò la lunga crisi; quello sulla preferenza unica nel ’ 91 annunciò l’esplosione del regno di Craxi; questo del 2011 sarà molto probabilmente ricordato come il punto più basso dell’epopea berlusconiana. Prima o poi, doveva accadere. Si compie oggi il decennio di governo del Cavaliere: se si esclude la breve parentesi del ’ 94, è dal 2001 che Berlusconi governa l’Italia, per otto anni su dieci.
La Thatcher ha retto undici anni. Tony Blair dieci. Gli elettorati democratici sono pazienti e tolleranti, ma ogni tanto si alzano in piedi come giganti e si scrollano dalle spalle il passato. Il verdetto elettorale della primavera italiana è così inaspettatamente netto che non vale neanche più la pena di discettare sulle cause di questa crisi di rigetto, se sia più etica o estetica, politica o economica. Fosse il Pdl un partito vero come i Tories o il Labour inglese, oggi inviterebbe il suo leader storico a sacrificare se stesso per salvare la ditta. Ma qui non sembra esserci in giro un Major che possa prendere in corsa il testimone e magari resistere un’altra legislatura. La transizione dunque non sarà né ordinata né rapida. Ci aspettano mesi convulsi. Berlusconi proverà di certo a succedere a se stesso, ma ormai la Lega ha fretta di slegarsi, e l’opposizione sente l’odore del sangue, penserà solo a sfruttare il magic moment elettorale. A differenza degli altri referendum «epocali» , che modernizzarono l’Italia, in questo caso però il gorgo del berlusconismo trascina con sé anche quelle poche velleità di riforma che avevano percorso il governo. La valanga travolge certamente una delle cose peggiori del centrodestra, la legge ad personam per antonomasia; ma cancella anche due decisioni lungimiranti, e cioè la riapertura dell’opzione nucleare e l’introduzione di un po’ di concorrenza nel settore dei servizi pubblici. Ogni volta che ci lamenteremo per la mancata crescita (0,25%di Pil all’anno per dieci anni, secondo l’impietoso calcolo dell’Economist) dovremo ricordarci che in Italia non solo non si possono abbassare le tasse, ma non si può nemmeno tagliare la bolletta dell’energia o ridurre i deficit delle municipalizzate. E così è davvero difficile crescere. Bisogna dunque ammettere che il vero trionfatore di questa tornata elettorale è Antonio Di Pietro. È stato lui che ha avuto l’ardire di raccogliere le firme sul legittimo impedimento alle feste dell’Unità, scommettendo sulla spallata elettorale a Berlusconi quando il Pd temeva le urne come i bambini temono l’uomo nero. È stato lui ad avere la furbizia di «spoliticizzare» l’iniziativa quando il disastro di Fukushima gli ha dato la spinta insperata verso il quorum. Ed è stato lui a trascinarsi così dietro Bersani, in rincorsa per far dimenticare il suo passato da liberalizzatore scritto sull’acqua. Così, se da una parte il referendum segna senza dubbio una sconfitta storica di Berlusconi, come Bossi apertamente schierato per l’astensione, rivelando una perdita di sintonia con il Paese che per un grande comunicatore è già una sentenza; dall’altra parte non si può davvero dire che la coalizione arcobaleno che lo ha stravinto rappresenti un’alternativa pronta e spendibile, gonfia com’è di sospetto anti mercato e di rifiuto del privato e della concorrenza. Come i radicali potrebbero testimoniare, una cosa è vincere i referendum e un’altra è vincere le elezioni per il governo del Paese.

Repubblica 14.6.11
Il flauto magico si è spezzato
di Ezio Mauro

Il flauto magico si è spezzato, gli italiani dopo vent´anni rifiutano di seguire la musica di Berlusconi. Quattro leggi volute dal premier – una addirittura costruita con le sue mani per procurarsi uno scudo che lo riparasse dai processi in corso – sono state bocciate da una valanga di "sì" nei referendum abrogativi che hanno portato quasi 27 milioni di italiani alle urne. E la partecipazione è il vero risultato politico di questo voto. Berlusconi, come Craxi, aveva invitato gli italiani a non votare, andando al mare, e gli italiani gli hanno risposto con una giornata di disobbedienza nazionale scegliendo in massa le urne, dopo quindici anni in cui i referendum non avevano mai raggiunto il quorum. Una ribellione diffusa e consapevole, che dopo la sconfitta della destra nelle grandi città accelera la fine del berlusconismo, ormai arenato e svuotato di ogni energia politica, e soprattutto cambia la forma della politica nel nostro Paese.
L´uomo che evocava il popolo contro le istituzioni, contro gli organismi di garanzia, contro la magistratura, è stato bocciato dal popolo nella forma più evidente e clamorosa, dopo aver provato a mandare a vuoto proprio la pronuncia popolare degli elettori, di cui aveva paura, cercando di far saltare il quorum fissato dalla legge.
Così facendo il premier non si è reso conto di denunciare tutta la sua angoscia per le libere scelte dei cittadini e la sua incapacità ogni giorno più evidente di indirizzare queste scelte politicamente, orientandole verso il "sì" o il "no". Legittimo formalmente, l´invito a non votare è in questa fase del berlusconismo una conferma di debolezza, quasi una dichiarazione di resa, soprattutto una prova politica d´impotenza, senza futuro.
Temeva le emozioni, il presidente del Consiglio, dopo il disastro di Fukushima: come se le emozioni non facessero parte semplicemente della vita, e come se lui stesso non fosse anche in politica un imprenditore di emozioni oltre che di risentimenti. Ma i risultati dimostrano che gli italiani non hanno votato per paura, bensì per una libera scelta, con serenità e coscienza, perfettamente consapevoli del merito dei singoli quesiti referendari - con l´abrogazione del legittimo impedimento che ha avuto praticamente gli stessi voti dei no al nucleare o alla privatizzazione dell´acqua - ma anche della portata politica generale di questo appuntamento elettorale.
Dunque la sconfitta è doppia, per il capo del governo. Nel merito di leggi che ha voluto e ha varato, e che (il nucleare) ha anche cercato di manipolare per ingannare gli elettori, scavallare il referendum e tornare a proporre le centrali subito dopo. Nel significato politico, perché il voto è anche contro il governo, contro Berlusconi e contro il proseguimento di un´avventura ormai completamente esaurita e rifiutata dagli italiani. E qui c´è la sconfitta più grande: il plebiscito dei cittadini che vanno a votare (anche quelli che scelgono il no) con percentuali sconosciute da decenni, nonostante il governo abbia deportato il referendum nel weekend più estivo possibile, lontanissimo dalle normali stagioni elettorali. È Berlusconi che non sa più parlare agli italiani, così come non li sa ascoltare, perché non li capisce più. E gli italiani gli hanno voltato le spalle.
Qui conviene fermarsi a riflettere, perché dove finisce Berlusconi comincia una nuova politica. Anzi, Berlusconi finisce proprio perché è nata una domanda di nuova politica, che sta cercandosi le risposte da sola, e in parte le ha già trovate. Se mettiamo in sequenza i tre voti ravvicinati del primo turno amministrativo, del ballottaggio e del referendum, troviamo una chiarissima affermazione di autonomia dei cittadini. Questo è il dato più importante. Il voto al referendum e il voto nelle città sono infatti prima di tutto disobbedienza al pensiero dominante. Di più: sono il rifiuto di una concezione verticale della politica, con il leader indiscusso ed eterno che parla al Paese indicando l´avvenire mentre il partito e il popolo possono solo seguire il carisma, che soffia dove il Capo vuole.
Vince una politica reticolare, a movimento, incentrata sui cittadini più che sulla adulazione del popolo. Cittadini consapevoli che aggirano l´invasione mediatica del Cavaliere sulle televisioni di Stato, mandano a vuoto l´informazione addomesticata dei telegiornali, si organizzano sulla rete, prendono dai giornali i contenuti che servono di volta in volta, fanno viaggiare in rete Benigni, Altan e l´Economist a una velocità e un´intensità che le veline del potere non riescono a raggiungere. Cittadini giovani, che fanno naturalmente rete e movimento, e in un sovvertimento generazionale e di abitudini diventano opinion leader nelle loro famiglie, portando genitori e amici a votare, chiarendo i quesiti, parlando dell´acqua e del nucleare, spiegando come il "legittimo" impedimento aggiri l´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
Dentro questo movimento orizzontale la leadership a bassa intensità (ma a forte convinzione) del Pd galleggia sorprendentemente meglio del Pdl, una specie di fortezza Bastiani che vede nemici dovunque, dipinge il Paese con colori cupi, nell´egotismo autosufficiente e chiuso in sé del suo leader è incapace di strategie, alleanze o anche soltanto di un normale scambio di relazioni politiche: che Bersani intesse invece ogni giorno alla luce del sole, con Vendola e di Pietro ma anche con Casini e Fini.
Questo spiega in buona parte perché i cittadini decidono oggi di indirizzare a sinistra la nuova domanda di autonomia politica: perché qui i partiti stanno imparando a stare dentro il movimento, giocando di volta in volta la parte della guida o della struttura di sostegno, al servizio di un obiettivo più grande. Ma c´è qualcosa di più. È la fine di un´egemonia culturale, perché come dice Giuseppe De Rita a Ida Dominijanni del Manifesto un ciclo finisce quando esplode la stanchezza per i suoi valori portanti: oggi si comincia a percepire «che la solitudine e l´individualismo non sono un´avventura di potenza ma di depressione e la sregolatezza personale è un prodotto dell´egocentrismo, in una fase in cui i riconoscimenti sociali scarseggiano, perché non fai più carriera, non riesci a fare impresa, non ti puoi gratificare con una vacanza». È il ciclo della "soggettività" che si spezza, anche per l´inconcludenza della politica che lo sostiene e ne ha beneficiato per anni. Torna, come ci avverte Ilvo Diamanti, il bisogno di aggregazione, di solidarietà, di regole, di normalità.
È un cambio di linguaggio, dopo vent´anni. Le manifestazioni delle donne, i post-it contro la legge bavaglio, il boom per Fazio e Saviano, l´allegria della piazza di Pisapia e Vecchioni a Milano contrapposta alla paura e alla cupezza stanno cambiando la cultura quotidiana dell´Italia, il modo di comunicare, l´immaginario che nasce finalmente fuori dalla televisione, la domanda stessa della politica. Davanti a questo cambio, le miserie dei burocrati spaventati che reggono la Rai per conto di Berlusconi sembrano ormai tardive e inutili: chiudono la stalla di viale Mazzini con l´unica preoccupazione di lasciar fuori Saviano e Santoro, per autolesionismo bulgaro, e non si accorgono che gli spettatori sono intanto scappati altrove.
Faceva impressione, ieri pomeriggio, vedere tanti politici e giornalisti pronti a celebrare il funerale politico di Berlusconi dopo che per anni si erano rifiutati di diagnosticare la malattia di questa destra, la sua anomalia. Stesso strabismo dei "nextisti" che invitano a preparare il domani pur di saltare il giudizio sull´oggi, il giudizio ineludibile - proprio per evitare opacità e confusione - sulla natura del berlusconismo. Questo spiega lo stupore italiano davanti ai giornali europei di establishment, che rivelano quella natura e denunciano quelle anomalie - come Repubblica fa da anni - giudicandole semplicemente estranee ad un normale canone europeo e occidentale. Ci voleva molto? Bisognava aspettare l´Economist? L´Italia della cultura, dei giornali, dell´establishment si è rifiutata di vedere e di capire, finché gli italiani non hanno visto e capito anche per lei. A quel punto, come sempre, si è adeguata in gran fretta.
Adesso, Berlusconi proseguirà con gli esorcismi e le sedute spiritiche cui lo consigliano i suoi fedeli, incapaci di imboccare la strada di un tea party italiano che ricrei un movimento anche a destra, riprenda la leggenda della "rivoluzione" conservatrice delle origini e spari su un quartier generale arroccato e spaventato, preoccupato solo di difendere rendite di posizione in conflitto tra loro. Sullo sfondo, Bossi continua a ballare da solo sulla musica di Berlusconi che il Paese non ascolta più, e intanto perde contatto con la sua gente, scopre che il Nord è autonomo anche dalla Lega, decide per sé e va a votare con percentuali dal 91 al 96 per cento, disubbidendo dalla Liguria al Trentino. Ancora una volta, come nel ´94, la sovrapposizione con Berlusconi soffoca la Lega: che alla fine staccherà la spina, portando anche il Parlamento - in ritardo - a sanzionare quel cambio di stagione che ieri hanno deciso i cittadini.

Repubblica 14.6.11
La primavera dei giovani
di Gabriele Romagnoli


C´è qualcosa di nuovo, anzi di scontato, nella politica italiana: il fattore giovanile. Gioventù nelle campagne elettorali, gioventù al voto, gioventù nelle piazze a festeggiare i risultati. Non era sempre stata una protagonista, il motore dei cambiamenti? E dov´era finita? Prima di cercare la risposta bisogna fare una premessa.
Non è che i giovani sono geniali quando vince la sinistra e rimbambiti quando vince la destra. C´è un pendolo dell´inevitabile, ma c´è anche qualcosa di inedito che va cercato nel qui e ora e aiuta a capire che cosa è successo.
Quel che è inevitabile è uno spostamento. A molti, al netto delle illusioni, è parso che soltanto il ricambio generazionale potesse favorire un diverso flusso delle opinioni e dei voti. Se dal ‘94 a oggi il blocco che fa capo a Silvio Berlusconi, variamente accompagnato, ha sempre sfiorato o superato la maggioranza, nonostante la palese incapacità di mantenere le promesse e lo spasmodico impegno nel martoriare il corpo delle leggi, la sola spiegazione è l´esistenza di un altrettanto solido blocco di elettori: anestetizzati, indifferenti, tuttalpiù interessati alla prospettiva dell´ampliamento della propria veranda.
Per scalfirlo non era pensabile mutare le opinioni. Occorreva mutare gli elettori. Averne di nuovi, diversamente pensanti. Pareva un´illusione anche quella: le generazioni entranti si presentavano già appiattite. A prima vista. L´errore è stato considerarli una massa in fila per entrare nella casa del "Grande Fratello" e nulla più. Dimenticare lo spirito se non di ribellione, di contraddizione. I giovani di vent´anni fa cercavano una propria espressione politica e come potevano adagiarsi su quella dei padri: sul resto della Dc (ricordate Martinazzoli?), sugli eredi del Pci (mica era sexy Occhetto)? Preferirono quella che allora era una novità, l´uomo che si era fatto da sé (Berlusconi), il tabù infranto della destra (Fini), il colorito e allora vigoroso mondo della Lega (Bossi e Maroni, ora sequel di se stessi).
Oggi la scena è cambiata. Ci sono nuovi attori e nuovi strumenti. Personaggi come Letizia Moratti sono invecchiati di un decennio in una settimana, relegati a foto color seppia nell´album degli zii. Dove la politica è una cosa noiosa, fatta di dibattiti e con personaggi calati dall´alto. Nei file dei nipoti è una cosa diversa. Coinvolge quanto più si occupa di temi specifici. L´acqua. Che cosa c´è di più semplice? Abbiamo diritto a scegliere chi regola i rubinetti? Sì, certo che sì. Coinvolge di più quando propone figure nuove, di cui rivendicare la scoperta e la valorizzazione. Non importa che condividano l´anagrafe, contano di più l´entusiasmo, il disinteresse, l´onestà intellettuale. Quanti anni ha Pisapia? Diceva Picasso: «Ce ne vogliono molti per diventare giovani». Quanti anni ha Celentano? E Grillo? È un ragazzino Nichi Vendola? A spostare prima ancora che voti, emozioni sono stati personaggi così, ai confini dello spettacolo, certo: perché gli altri non lo erano? Perché, che cosa non lo è?
E con quali mezzi? Qui c´è stata la sorpresa più grande, ma solo per chi ha vissuto questi anni al chiuso. Per chi (da ogni parte) ha creduto che controllare cinque tg su sette fosse decisivo. E pensare che il dato era davanti agli occhi di tutti: sotto i trent´anni non c´è praticamente più nessuno che guardi un notiziario. La verità, la strepitosa verità, è che Minzolini e Fede non generano consenso, ma parodie. Che la complessa rielaborazione della realtà a cui dedicano la loro vita professionale muore sul tavolo di un tinello mentre la mamma sparecchia e i figli sono già in camera, davanti al computer, a vedere sul web la sora Cesira che ne fa coriandoli. Eccoci qua, a fine percorso, vicini al lieto autoavverarsi della profezia: una risata vi seppellirà. Se una pagina sta davvero voltando non l´hanno sospinta l´ego dei tribuni da prima serata o i cartelloni del leader in maniche di camicia. È stato un soffio molto più potente: l´irrefrenabile ironia di chi non aveva niente da perdere, perché non aveva ancora cominciato a vincere.

l’Unità 14.6.11
Scontro di civiltà. Per il premier di Tel Aviv è tra «antico e moderno»
Il negoziato per B. «Nessuna pace imposta da risoluzioni Onu»
«Silvio, migliore amico» Così Netanyahu si scopre berlusconiano
C’è Bibi Netanyahu ora «alla destra» di Berlusconi, nel posto lasciato vuoto da Gheddafi. Nel vertice bilaterale a Villa Madama i due sembrano parlare la stessa lingua: «L’unica democrazia nell’area è Israele».
di Umberto De Giovannangeli


Rotta, con rimpianto, l’amicizia con il colonnello Gheddafi, fonte d’imbarazzo per i leader mondiali nei consessi internazionali, Silvio Berlusconi può consolarsi con la dichiarazione d’amore (politico) esternatagli da Benjamin “Bibi” Netanyahu. Palcoscenico dell’amoroso afflato è Roma; l’occasione: il vertice intergovernativo Italia-Israele. «Tu sei un grandissimo amico mio ma sei anche un grande amico del popolo ebraico nello Stato d’Israele, e lo dico con tutto il cuore e con la testa, perché la tua amicizia viene dal cuore», esterna il primo ministro israeliano nella conferenza stampa conclusiva del vertice a Villa Madama. E ancora: «Spero di continuare a lavorare con te in futuro...Ti ringrazio a nome del popolo israeliano: non esiste amico migliore di te».
L’amico Silvio, al riparo per qualche ora dalla mazzata referendaria, annuisce compiaciuto anche quando Netanyahu rivela di aver strappato al premier italiano la rassicurazione che l’Italia non sosterrà la mozione sul riconoscimento di uno Stato palestinese che, con ogni probabilità, verrà presentata all’Assemblea generale delle Nazioni Unite in programma il prossimo settembre: «Vorrei ringraziarti – dice Netanyahu rivolgendosi direttamente a Berlusconi per la posizione chiara assunta contro il tentativo di bypassare il negoziato di pace».
IN VISTA DI SETTEMBRE
«Una risoluzione dell'Onu» in settembre che imporrebbe la nascita di uno Stato palestinese così come previsto dal presidente dell’Anp Mahmud Abbas (Abu Mazen) «potrebbe solo far indietreggiare la pace e allontanare la prospettiva dei negoziati», sentenzia Netanyahu. Un tasto su cui “Bibi” batte con insistenza, godendo del pieno sostegno del suo interlocutore italiano: «La pace può essere solo il risultato di un negoziato, non può essere imposta dall'esterno, né da una risoluzione dell'Onu». «La pace in Medio Oriente non può arrivare da una soluzione unilaterale né da parte palestinese né da parte israeliana, ma è possibile solo con i negoziati», gli fa eco Berlusconi. E prosegue su questa lunghezza d’onda: «Siamo stati e saremo sempre al vostro fianco, perché Israele è l'unica vera democrazia di tutta la regione: negli altri Paesi tutto il popolo arabo vive in una situazione di non democrazia, mentre Israele è l'unico Paese in cui gli arabi hanno gli stessi diritti dei cittadini israeliani, il che dovrebbe essere un esempio per i Paesi arabi». E così, il Cavaliere liquida la “Primavera araba”, e visto che c’è sottolinea, con il plauso di Netanyahu, che «è prioritario che Hamas riconosca Israele». Silenzio, invece, sugli inse-
diamenti ebraici nei Territori. Il primo ministro d’Israele gioca in casa. E sapendo di non incontrare ostacoli nell’amico del cuore Silvio B. sciorina le sue «verità». La prima: la radice del conflitto israelo-palestinese «non sono gli insediamenti» nei Territori, quanto piuttosto «il rifiu-
to dei palestinesi a riconoscere l’esistenza di uno Stato ebraico». La seconda «verità» di “Bibi” : «Ho chiesto ad Abu Mazen di rivolgersi al suo popolo, per amore della pace, e dire: “accetterò lo Stato ebraico di Israele”. Se dice queste sei parole, cambieremo il mondo».
IL DOSSIER IRAN
In attesa che Abu Mazen gli dia «sei parole», Netanyahu spara la sua terza «verità». Una verità armata, indirizzata a Teheran. Un'opzione militare, dice, «servirebbe a far preoccupare l’Iran». Le sanzioni potrebbero essere efficaci ma a condizione che gli iraniani sappiano che nel caso non funzionassero, «ci potrebbe essere anche questa opzione». «Oggi è in atto uno scontro tra il mondo antico e moderno, tra la dittatura e la libertà», sostiene. «Non sappiamo dire come finirà», prosegue, «ma se l'Iran svilupperà l'arma nucleare, la Primavera araba potrebbe diventare un nuovo Inverno iraniano».
Per questo, insiste, le sanzioni economiche contro il Paese degli ayatollah «sono efficaci» solo se sostenute «da una credibile opzione militare». Su questo, Berlusconi ha qualcosa da eccepire, ma è un dettaglio. Netanyahu e il suo corposo seguito di ministri (nove, tra cui il super falco titolare degli Esteri, Avigdor Lieberman) possono dirsi soddisfatti: l’amico Silvio dà pieno affidamento. Nel mondo, sono rimasti i soli a pensarlo.

l’Unità 14.6.11
«Cina, le figlie uccise
e le madri suicide. Vi spiego perché succede»
Parla Xinran, autrice del primo studio sul femminicidio in corso da fine anni Settanta. Seguiamola in questo viaggio nel cuore di tenebra del suo Paese
di Maria Serena Palieri


120.000. Sono le bambine sottratte all’uccisione e approdate all’estero da quando il paese si è aperto all’adozione internazionale

I modi. L’esecuzione alla nascita con sistemi spesso spicci. Ma ci sono gli «oppositori» che abbandonano le neonate in stazioni e città

Xinran ci mostra la fotografia di un recipiente rosso e ci spiega che cos’è e a che cosa serve: è un vaso a due livelli che contiene in quello inferiore acqua in ebollizione e in quello superiore quella tiepida ottenuta dalla condensa dei vapori; si usa in Cina quando una donna partorisce e, spiega la scrittrice di Pechino, «se il neonato è maschio viene lavato nel vaso di sopra, se è femmina...». Non continui, per favore. Xinran, giornalista e conduttrice radiofonica cinquantatreenne, vissuta nel suo Paese tra l’epoca del Grande Balzo in Avanti e della Rivoluzione Culturale, Tian An Men, l’inizio del boom economico e la morte di Deng, ed emigrata a Londra nel 1997, ha speso anni indagando il «femminicidio» cioè la strage di neonate in corso da quando nella Repubblica Popolare vige la politica del «figlio unico». E nel libro ora tradotto da Longanesi Le figlie perdute della Cina (pp. 350, euro 17,50) ci restituisce questo fenomeno in dettagli sanguinari come in certi riti arcaici o foschi come nelle favole raccolte dai Grimm. La politica del figlio unico decolla a fine anni Settanta. Da allora sull’altare di essa, e del privilegio accordato ai maschi, quante neonate sono state sacrificate? L’Economist all’uscita del libro in Gran Bretagna ha titolato su cento milioni di bambine scomparse.
In dieci capitoli Xinran ci sfodera un campionario di modi in cui questo avviene, in un paese dove l’interruzione volontaria di gravidanza è illegale e dove, comunque, le ecografie sono strumenti a distanza siderale per le centinaia di milioni di cinesi che vivono in villaggi, campagne e monti: c’è il corpicino ancora fremente messo sotto i suoi occhi in un secchio di acqua sporca in una capanna di contadini, ci sono le decine di femmine strozzate durante il parto col cordone ombelicale di cui le racconta una levatrice e, diteci se è meno o più spaventoso, ci sono le bambine di pochi mesi abbandonate in una stazione deserta oppure in mezzo alla folla anonima di un mercato dai cosiddetti «guerriglieri delle nascite clandestine», genitori incapaci di uccidere le figlie e perciò in fuga nell’immenso Paese per anni, finché non arrivi il figlio voluto dagli anziani, il maschio che salverà onore ed economia della famiglia. Xinran, camicia tradizionale bianca e nera e gonna corta, oggi è sposata con Toby Eady, uno dei più affermati agenti letterari inglesi.
Lei ha indagato i modi di questa strage. Ma anche, per la prima volta, la ferita che essa provoca nell’anima delle madri. In Cina la causa del 30% delle morti delle contadine tra i 15 e i 34 anni è il suicidio. Nel suo libro l’impasto tra cultura tradizionale e dettami del Pcc appare evidente. Ma altrove lei racconta anche la violenza di cui lei stessa è stata vittima: privata di sua madre, perché durante la Rivoluzione Culturale l’affetto genitoriale era considerato una «deviazione». Sa spiegarci perché nella cultura cinese nel suo complesso la figura materna sia così vilipesa?
«Penso che nel 1949 alla nascita della Repubblica i nostri leader benché comunisti venissero da una cultura imperiale e patriarcale. Anche se Mao diceva che le donne reggono la metà del cielo. Fino agli anni Ottanta, poi, la Cina era chiusa e si confrontava solo con le proprie radici. Ma la mia esperienza mi dice che anche altre culture orientali sono rimaste bloccate nel passato. A Londra le mie studentesse giapponesi o coreane o di Singapore mi dicono che molte giovani donne, rimaste incinte, fuggono se il primo figlio non è un maschio, perché perdono valore, specie se il marito è un primogenito. Poi c’è il movente economico: da noi il sistema prevede tuttora che la famiglia si veda assegnato un pezzo di terra in più solo se il neonato è maschio. E c’è il conservatorismo culturale. La Cina se ne infischia del giudizio dell’Occidente, ma in Giappone, dove in teoria i tassi di criminalità sono bassi, sono alti quelli di scomparsa di bambine, e io mi chiedo: che fine fanno?».
La sua ricerca si ferma al 2007. Oggi il femminicidio nel suo Paese continua? E saprebbe darci delle cifre? «Non è facile. Una cifra nota è che da quando la Cina si è aperta alle adozioni internazionali 120.000 bambine hanno trovato genitori all’estero. In realtà il piano del Partito sull’unico figlio è diventato legge solo nel 2002. E da allora le autorità locali fanno pressione sul governo centrale, perché hanno capito che il tessuto familiare si sta disintegrando ed esso è il fondamento della società. L’anno scorso ho viaggiato da Nord a Sud in Cina e ho scoperto che nelle città il fenomeno è ignoto. Nei villaggi i più giovani non sanno. Ma chi ha più di trent’anni, quando vede la fotografia di questa vasca rossa per i neonati, trema»
Lei ha fondato la Mothers’ Bridge of Love, un’organizzazione che cerca di buttare un «ponte» tra le madri naturali e le loro figlie. Con quali obiettivi?
«Molte bambine adottate mi chiedono “Perché la mia madre cinese non mi ha voluto?”. E sono molte le giovani madri che vorrebbero sottrarsi a questo sacrificio. La Cina appare ricca e potente, ma i divari nella popolazione sono enormi. Noi proviamo a costruire scuole, orfanatrofi, biblioteche. E a far sapere alle donne che c’è chi pensa a loro». Ci permetta per chiudere una domanda personale. Lei non ha avuto una madre, rubatale con suo padre dalla Rivoluzione culturale. E ha un figlio, Pan pan. Come si diventa madri se non si è state figlie? La sua esperienza cosa può dire a quel buco nero che è, in Cina, la relazione tra madri e figlie?
«Mio figlio ha 23 anni. Da quando ne aveva 14 mi contesta dicendo “le altre madri fanno così”. Gli rispondo “Pan pan, è con te che imparo come si fa. Sei tu il mio insegnante”. Avessi cinque figli, sarei una madre diversa con ciascuno, perché dentro di me non ho un modello. Forse, se avessi una figlia femmina, sarebbe lei ad aiutarmi in questo compito».

Corriere della Sera 14.6.11
Cultura I patti con il diavolo da Monaco a Yalta

Come giudicare i «compromessi sordidi» della storia
di Paolo Mieli


Il compromesso è la cosa migliore che ci sia. Fu Albert Einstein a dire che gli unici compromessi inammissibili sono quelli «sordidi» . Per il resto i compromessi sono indispensabili. Indispensabili sì, nonostante alcuni di essi siano patogeni. Del resto anche i batteri sono patogeni, ma con cure adeguate possiamo limitare il danno. È sbagliato, dunque, dichiararsi ostili al compromesso. I compromessi loschi, sleali o sporchi sono sì riprovevoli, ma non al punto da dover essere evitati in tutti i casi. In particolare non devono esserlo quando la posta in gioco è la pace. Questa la tesi di un importante libro di Avishai Margalit, Sporchi compromessi, che sta per essere pubblicato dal Mulino. Il filosofo israeliano Avishai Margalit, assai conosciuto e apprezzato per aver scritto— assieme a Ian Buruma— Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici, pubblicato in Italia da Einaudi, cerca stavolta di tracciare il confine tra due generi di patto compromissorio: quello cosiddetto «dello scarafaggio nella minestra» e quello che potremmo definire «della mosca nell’unguento» ; il primo rovina irrimediabilmente la zuppa (e non va dunque accettato), mentre il secondo danneggia il balsamo solo in parte (e lo si può, anzi lo si deve prendere in considerazione). Facile? Relativamente. A complicare il tutto c’è il fatto che si tende a considerare pace e giustizia (per le quali in genere si cercano i compromessi) alla stregua di beni complementari, come latte e caffè. In realtà sono alternativi l’uno all’altro, come tè e caffè. A tale proposito Margalit ricorda il caso del primo ministro israeliano Levi Eshkol che, quando gli si chiedeva se voleva del tè o del caffè, rispondeva «metà e metà» , dimostrando che lo spirito del compromesso può rendere insensibili alla circostanza che spesso si debba scegliere. Nella maggior parte dei casi non possiamo cavarcela servendo una bevanda di tè e caffè ed è doveroso, appunto, operare una scelta. Come ci dobbiamo regolare? Il compromesso più celebre della storia moderna è quello del Connecticut che, nel 1787, grazie all’abilità di Roger Sherman, risolse, quantomeno provvisoriamente, la questione della schiavitù nell’atto di dare una Costituzione agli Stati Uniti d’America. La parola «schiavo» nel testo non compariva, ma la schiavitù era di fatto consentita e l’importazione dei neri sarebbe rimasta una pratica legale fino al 1808. Particolarmente imbarazzante era la sezione 2 dell’articolo IV, il quale disponeva che gli schiavi riusciti a scappare negli Stati liberi dovessero essere catturati e restituiti ai loro proprietari. In quello stesso anno il Congresso varò una legge che proibiva la schiavitù a nord del fiume Ohio. E quando si trattò di ammettere il Missouri, si discusse se farlo entrare come Stato libero o come Stato schiavista, dato che alcune zone del Missouri si estendono a nord dell’Ohio. La questione fu risolta con il «compromesso del Missouri» (1820), secondo il quale il Missouri era ammesso come Stato schiavista e il Maine entrava nell’Unione come Stato libero. Anni e anni— prima della Guerra di secessione (1861-1865) — di patteggiamenti sulla schiavitù. Osserva Margalit che, se pure parrebbe anacronistico e quasi ridicolo «biasimare» re Hammurabi di Mesopotamia per aver adottato la schiavitù circa quattromila anni fa, «non è affatto anacronistico ritenere Thomas Jefferson responsabile di aver accettato la schiavitù nel 1787, dato che abolirla era per lui una soluzione praticabile» . Ed è di conseguenza legittimo domandarci se gli Stati Uniti siano stati fondati su un «compromesso sordido» . Disse all’epoca l’abolizionista William Lloyd Garrison: «L’abolizionismo a cui aspiro è assoluto come le leggi di Dio e fermo come il suo trono: non ammette compromessi... l’intesa tra il Nord e il Sud è un patto d’alleanza con la morte e un accordo con l’inferno» . Ma, forse, si potrebbe obiettare che chi accettò il patto già prevedeva che di lì a qualche decennio la schiavitù sarebbe stata abolita. A fronte di questa considerazione, Margalit sostiene che il limite massimo dell’arco di tempo accettabile avrebbe dovuto essere quello di una generazione vivente e che vada dunque riconsiderata la nozione biblica di «generazione del deserto» . La «generazione del deserto» è quella errante dietro Mosè, il quale morì prima di vedere quella successiva che faceva il suo ingresso nella Terra promessa. Andrebbe scartata qualunque posizione morale rivoluzionaria, proiettata nel futuro, che propone il sacrificio della generazione della rivoluzione a beneficio di quelle successive. Mai si devono usare gli esseri umani per raggiungere un fine, per quanto esso sia moralmente encomiabile. «Nella vita morale» , scrive, «il lungo termine è l’arco della vita adulta» . Nessun regime è autorizzato a imporre un grave sacrificio a una generazione senza che essa accordi il proprio consenso. E nessuno chiese agli schiavi, nemmeno indirettamente, se approvavano la Costituzione. Perciò il «compromesso del Connecticut» è da ritenersi «sordido» non perché «abbia contribuito in generale a mantenere un regime disumano, cosa che probabilmente non fece, ma perché nei fatti contribuì a mantenere un regime disumano per tutta una generazione del deserto (in realtà per più di una)» . E le restrizioni poste all’importazione degli schiavi nel 1808 non furono di alcun sollievo a coloro che si trovavano già in condizioni di schiavitù. Un secondo caso di compromesso definito «sordido» è quello di Monaco. Il 29 settembre 1938 Adolf Hitler incontrò a Monaco i primi ministri di Francia, Edouard Daladier, e d’Inghilterra, Neville Chamberlain, per firmare un accordo che sanciva il passaggio— dalla Cecoslovacchia alla Germania — del territorio dei Sudeti, una striscia di terra di etnia tedesca. In cambio Hitler si impegnava a non avanzare ulteriori richieste territoriali in Europa. Ma nel marzo dell’anno successivo, il 1939, l’esercito tedesco occupò Praga. Da quel momento la parola appeasement, usata da Chamberlain a giustificare l’intesa in nome della pace, assunse il significato di resa alle richieste di chi è prepotente per il sol fatto che è, appunto, prepotente. Perché un compromesso sia giudicato tale, ciascuna delle due parti coinvolte dovrebbe fare concessioni all’altra. Hitler in quell’occasione, a parte qualche vaga promessa, non ne fece. Winston Churchill, che criticò quel patto, così lo derise in un discorso tenuto il 5 ottobre alla Camera dei Comuni: «Ci fu chiesta una sterlina con il fucile puntato; quando la si ottenne, furono chieste due sterline con il fucile puntato; alla fine il dittatore accettò di ricevere una sterlina, diciassette scellini e sei pence, e lasciò il resto come promessa di disponibilità futura» . Ma in sé quell’accordo non aveva niente di sordido. Supponiamo, scrive Margalit, che le pretese sui Sudeti fossero state avanzate, anziché dallo spregevole Hitler, dal rispettabile Walther Rathenau per conto della Repubblica di Weimar: le persone ragionevoli avrebbero osservato che la Cecoslovacchia, coerente al proprio nome, intendeva governare due soli popoli, sette milioni di cechi e due milioni di slovacchi, e che dunque era forse legittima la richiesta di autodeterminazione dei tre milioni di tedeschi dei Sudeti. Quanto a fidarsi del cancelliere tedesco che si impegnava a chiudere lì la questione, si trattava di un errore empirico, non di una trasgressione morale. Di sordido nel patto di Monaco c’era dunque solo l’interlocutore, non il documento che fu firmato. Anche se l’Hitler del 1938 non era lo stesso che avremmo conosciuto negli anni successivi, già allora «si sarebbe dovuto percepire con chiarezza che il nazismo rappresentava il male radicale» . Ne consegue che tutti gli accordi con il regime di Hitler furono sordidi per definizione? No, risponde Margalit. Se lo scambio detto «Blood for Trucks» , proposto il 25 aprile del 1944 agli Alleati da Adolf Eichmann per conto delle massime autorità delle SS, fosse stato accettato, questo consenso non avrebbe dovuto essere considerato immorale, dal momento che prevedeva di salvare la vita di un milione di ebrei ungheresi in cambio della consegna alla Germania di diecimila camion. Gli Alleati respinsero l’offerta adducendo molte buone ragioni, tra le quali però non c’era l’immoralità dell’opzione. Se lo avessero accettato, quel compromesso, che avrebbe salvato molte persone dall’umiliazione e dalla morte, in nessun caso lo avremmo potuto definire «sordido» . Uno «scarafaggio nella minestra» è invece, secondo Margalit, quello contenuto nell’accordo di Yalta del febbraio 1945. Scarafaggio che va sotto il nome di «operazione Keelhaul» . È il nome in codice di un’operazione iniziata dalle forze militari anglo-americane tra maggio e giugno 1945 che consisteva nella «restituzione» all’Urss dei rifugiati di guerra sovietici in Austria. Due milioni di persone consegnate al carnefice Stalin. Margalit osserva che il nome in codice, «Keelhaul» , è molto significativo: «Deriva dalla feroce punizione un tempo praticata dalla marina britannica e olandese, che prevedeva di gettare la vittima sotto la nave e trascinarla con una corda, riservandole poche probabilità di sopravvivenza» . Chiamare così quell’operazione, che Aleksandr Solzhenitsyn ha definito «l’ultimo segreto della Seconda guerra mondiale» , indica chiaramente che chi l’aveva progettata conosceva la sorte a cui erano destinati gli sventurati. Secondo i russi, il caso emblematico di quei prigionieri da restituire era quello del generale Andrej Andrejevic Vlasov, un ex ufficiale dell’Armata Rossa che si era distinto per meriti militari durante il primo anno di guerra, ma che, poi, caduto nelle mani dei tedeschi, si era messo al loro servizio, reclutando un esercito per combattere i suoi ex compagni. Solzhenitsyn ha rilevato che molti di quelli che furono rimandati a forza in patria non erano seguaci di Vlasov, né soldati sovietici e neanche cittadini dell’Urss. Si trattava di discendenti dei controrivoluzionari cosacchi sconfitti dopo la Prima guerra mondiale e fuggiti dall’Urss prima che divenisse tale. E anche tra coloro che erano stati a pieno titolo cittadini sovietici, si sarebbe dovuto operare delle distinzioni. C’è una relazione di John Galsworthy, un funzionario degli Esteri britannico coinvolto all’epoca nella vicenda, che già allora scrisse: «Sulla base delle conoscenze di cui dispongo, la nostra interpretazione (quella che consentiva la deportazione in Urss dei due milioni di rifugiati, ndr) è basata su un criterio di convenienza: sarebbe paradossale esporre le relazioni anglo-sovietiche a ulteriori tensioni per favorire persone che hanno attivamente combattuto il nostro alleato (l’Urss, ndr)» . Ma Galsworthy poi aggiungeva: «Naturalmente questa è solo una parte della storia, perché tra coloro che siamo obbligati a rimpatriare ci sono anche persone che sotto il regime sovietico hanno sofferto per colpe non proprie, non lo hanno combattuto e stanno soltanto cercando di evitarlo» . Quali rischi avrebbero corso gli Alleati occidentali, si domanda Margalit, se avessero rifiutato il rimpatrio forzato di quei poveretti? Non c’è la minima prova «che questa scelta avrebbe sciolto l’alleanza con l’Unione Sovietica; i sovietici erano estremamente preoccupati che l’Occidente stringesse un accordo separato con la Germania nazista, avevano una grande quantità di questioni ancora aperte ed è difficile pensare che avrebbero rischiato di contrapporsi agli Alleati su quella questione» . È vero che i nazisti cercavano ancora di seminare zizzania tra gli Alleati occidentali e l’Urss, nella speranza di firmare patti di pace separati. Ed è vero anche che entrambe le parti avevano buone ragioni per sospettare che l’altra stringesse un accordo con i nazisti, dato che ambedue l’avevano fatto in precedenza: la Gran Bretagna nel ’ 38 a Monaco, l’Unione Sovietica con il patto Molotov-Ribbentrop del ’ 39. «Tuttavia» , sostiene l’autore del libro, «la concessione del diritto d’asilo ai prigionieri di guerra non avrebbe rotto l’alleanza, ma l’avrebbe solo messa maggiormente alla prova» . Ad aggravare il tutto c’è che il ministro degli Esteri inglese Anthony Eden lasciò scritto che la sua «principale» preoccupazione era all’epoca quella di ottenere il ritorno dei «suoi» prigionieri di guerra dalla Prussia orientale e dalla Polonia e non si poteva perciò «dare dispiaceri a Stalin» . Per di più Eden quei prigionieri russi non se li voleva trovare «accollati per sempre» : «Non possiamo permetterci di fare i sentimentali su questo punto!» fu la sua sentenza. E a rendere ancor più imbarazzante il tutto fu che l’ «operazione Keelhaul» andò avanti ben oltre la conclusione della guerra. Fino al 1947. C’è poi la questione di un altro genere di compromesso: il «patto con il diavolo» . Margalit cita a proposito quello di Yisrael Kastner, capo dell’organizzazione ebraica nota come Comitato per la salvezza, nel corso dell’occupazione nazista dell’Ungheria. Kastner strinse un accordo con Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS responsabile della deportazione degli ebrei ungheresi nei campi di sterminio nazisti. In virtù di quell’accordo, si salvarono 1.685 persone, che fuggirono dall’Ungheria su quello che fu chiamato, appunto, il «treno di Kastner» . Ne parlò lo stesso Eichmann alla rivista «Life» , dicendo che Kastner, in cambio di quel treno, aveva accettato di collaborare con lui «per impedire che gli ebrei opponessero resistenza alla deportazione» . «Fu un buon affare» , disse Eichmann, intendendo che lo fu per i tedeschi. Dopo la guerra Kastner si trasferì in Israele, ma venne dato alle stampe un pamphlet che lo accusava di aver collaborato con i nazisti. Kastner denunciò l’autore del pamphlet e lo trascinò in giudizio. Il giudice Benjamin Halevi stabilì che l’operato di Kastner era stato parte del piano per sterminare gli ebrei. A suo parere il patto di Kastner fu sordido, in virtù del fatto che fu stipulato con il diavolo nazista. Ma, osserva Margalit, ci sono seri dubbi che l’accordo tra il «diavolo tedesco» e Kastner possa essere considerato un compromesso, data la natura coercitiva del patto. La Corte suprema di Israele respinse il verdetto di Halevi, rifiutandosi di considerare sordido l’accordo, anche in virtù del fatto che era coercitivo. «Credo» , scrive Margalit , «che la Corte suprema avesse ragione e che il giudice Halevi avesse torto» . C’è infine il «compromesso di Rimmon» , che compare all’epoca — giugno del 1941 — in cui Churchill sceglie di schierarsi con Stalin contro Hitler. Il suo segretario gli chiese se ciò non equivaleva a «inchinarsi alla casa di Rimmon» . Alludeva, il segretario, a un episodio dell’Antico Testamento, quello in cui Naaman, il comandante dell’esercito arameo ammalato di lebbra, aveva promesso di adorare soltanto Dio dopo essere stato guarito dal profeta Elia. Successivamente però aveva avuto un ripensamento e aveva chiesto di poter essere scusato nei casi in cui avrebbe dovuto seguire il suo re e prostrarsi all’idolo aramaico Rimmon. Il profeta accolse la sua richiesta e da quel passo si evince come la Bibbia riconosca nell’atto di inchinarsi alla casa di Rimmon la natura di un compromesso necessario, che non deve e non può essere rimproverato. Churchill così rispose al suo segretario: «Ho soltanto un obiettivo, distruggere Hitler, dopodiché la mia vita sarà più semplice. Se Hitler invadesse l’inferno, in Parlamento spenderei almeno qualche parola a favore del diavolo» . E siamo nuovamente al «patto con il diavolo» . Margalit fa osservare che Stalin aveva commesso i suoi crimini peggiori prima della guerra, mentre Hitler li commise durante la guerra. «Quando Churchill espresse quel giudizio, Stalin aveva già dato il peggio, mentre Hitler era ancora ben lungi dall’averlo espresso» . Tuttavia, prosegue, «credo che Churchill avesse ragione, non tanto perché il peggio di Stalin non fosse all’altezza del peggio di Hitler, quanto perché il male che Hitler perpetrava era il male radicale, il male che metteva a rischio la moralità stessa... Il male infernale commesso da Stalin era diverso e Churchill seppe percepirne la differenza» . Eppure, prosegue l’autore, Stalin all’epoca aveva già assassinato milioni e milioni di persone. E qui con un certo coraggio aggiunge: «Il principio che la vita di ogni essere umano conta uno, né più né meno, richiede che il male cardinale dello sterminio di massa sia misurato utilizzando soltanto i numeri cardinali. Una volta stabilito che si tratta di omicidio, esso va semplicemente sommato agli altri. Secondo questa prospettiva non dovremmo dare importanza ad altre considerazioni e ad altri numeri, poiché essi contribuiscono ad annebbiare il nostro giudizio morale. Per esempio non dovremmo trastullarci con le percentuali dei morti assassinati rispetto alla popolazione totale o con quella del numero delle donne, dei bambini o dei vecchi. La popolazione rilevante è l’umanità in generale e questo è quanto. Pertanto il rapporto tra il numero delle vittime e il totale della popolazione nel massacro di Pol Pot in Cambogia (un quarto del totale) pur essendo molto più alto di quello delle vittime nella Cina di Mao (circa un dodicesimo della popolazione), non mette Pol Pot nella stessa categoria di Mao. Il regime di Mao fu responsabile di 65 milioni di morti, rispetto ai modesti due milioni del regime di Pol Pot. In tribunale, in certi tribunali almeno, un serial killer riceve un numero di condanne all’ergastolo in proporzione al numero delle vittime di cui si è reso colpevole; è un provvedimento che vuole essere simbolo del principio che un omicidio è un omicidio, ogni vita ha lo stesso valore di un’altra e deve essere considerata individualmente» . E allora? «Assassinare il Quartetto di Budapest non rappresenta un male peggiore, in quanto omicidio, che assassinare quattro persone qualsiasi. Il genocidio degli ebrei e la distruzione della loro cultura non dovrebbe essere considerato un male peggiore dell’assassinio dei kulaki per il fatto che questi non appartenevano a un gruppo culturale, ma soltanto a una categoria burocratica che era stata precedentemente imposta dall’alto da Stolypin (1906)» . Per di più alla fine degli anni Trenta (all’epoca del «compromesso» di Monaco), Stalin aveva commesso un numero di crimini infinitamente superiore a quelli di Hitler. Non poteva affatto essere considerato come il male minore. Un discorso che ci conduce su un crinale poco frequentato. Margalit però precisa: «L’aspetto che rende il genocidio un crimine orribile, oltre a essere un’ignobile uccisione di massa indiscriminata, è lo smembramento dell’idea di umanità condivisa che essa manifesta. Etichettando una particolare categoria di esseri umani come creature che non meritano di vivere, il genocidio cancella questa categoria dall’umanità» . Il presupposto principale della moralità è l’umanità condivisa. Il nazismo fu «un attacco consapevole all’idea di umanità condivisa e quindi alla possibilità di affermazione della moralità stessa» . Il comunismo no. Perciò Churchill fece bene a preferire Stalin a Hitler o, come diceva lui, il Diavolo a Herr Hitler «non perché il primo fosse un male di grado minore, ma perché era un male di genere diverso» . Tuttavia «ciò non significa che dovrebbe lasciarci indifferenti il fatto che tra i nostri amici ci sono alcuni ex stalinisti ma nessun ex hitlerista e che verso di loro siamo indulgenti come non oseremmo mai essere verso gli ex hitleristi» . E che stona la circostanza per cui riteniamo il simpatizzante nazista Drieu La Rochelle «un personaggio degno della più severa condanna morale, mentre giudichiamo con benevolenza Louis Aragon... che scrisse l’ignobile poesia Prélude au temps des cerises (1931) dove si inneggiava "ossessivamente"alla polizia politica sovietica che all’epoca sottoponeva a tortura centinaia di migliaia di persone» . Porta lontano, molto lontano, il discorso sui compromessi.

Corriere della Sera 14.6.11
Da Pericle a Hitler: l’eternità è sempre affidata alla pietra
Quei segni architettonici che «incoronano» i Principi
di Francesca Bonazzoli


La guerra per conquistare l’eternità si è sempre combattuta fra due campioni: la poesia e l’architettura. È di Shakespeare una delle più celebri sfide lanciate dalla poesia che riecheggiava a sua volta l’orgoglio di Ovidio e di Orazio: «Né marmo, né gli aurei monumenti di Principi, vivran quanto i miei versi possenti, ma in questi brillerai di più vivo splendore che in un sasso sconciato dalle sozzure del Tempo» . I poeti non avevano dubbi: meglio le rime dei muri. Ma non tutti avevano le medesime certezze e soprattutto i Principi hanno preferito affidarsi alla concretezza degli edifici. Lo stesso Augusto non si accontentò della sua glorificazione attraverso l’Eneide e volle legare l’età dell’oro del suo governo, come già aveva fatto Pericle con Atene, a una imponente riedificazione di Roma: il nuovo corso del primo imperatore doveva passare per il nuovo volto architettonico della città. Allo stesso modo Giulio II, pur noto come il «papa guerriero» , capì però subito quanto le vittorie potessero essere effimere e quanto, al contrario, per un effettivo consolidamento del prestigio potere della Chiesa fosse più efficace dedicarsi a una radicale renovatio Urbis. Grazie all’infallibile fiuto artistico riuscì a legare indissolubilmente il suo nome a quello di Raffaello, Bramante e Michelangelo, gli architetti del simbolo della nuova Roma papale: la basilica di San Pietro. Aveva intuito che il potere temporale della Chiesa aveva bisogno di un segno architettonico, chiaro e visibile, con un’enorme cupola, imponente come era stato il Pantheon della Roma imperiale. Cent’anni dopo, anche Urbano VIII capì che il suo nome sarebbe passato alla storia solo attraverso quello di Bernini e affidò all’architetto la trasformazione della Roma rinascimentale nella Roma barocca. Gli era così chiaro che il suo ricordo dipendeva totalmente dall’arte del suo architetto che negò ostinatamente Bernini al re di Francia così come Giulio II aveva sfiorato la guerra con i Medici di Firenze pur di riavere a Roma Michelangelo. La stessa ragione per cui Cosimo I si legò a Vasari. Il giovane tiranno che aveva asservito Firenze provenendo da un ramo secondario della famiglia Medici, aveva bisogno di un simbolo architettonico da contrapporre a quello dell’orgoglio civico della Repubblica, l’immensa mole della cattedrale di Arnolfo e Brunelleschi. Collegando Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti, le due residenze del nuovo potere mediceo, gli Uffizi dovevano così diventare niente meno che il nuovo asse che scardinava il precedente centro urbano di Santa Maria del Fiore. E se Cosimo doveva essere prudente, un monarca assoluto come Pietro il Grande non si diede limiti: fondò addirittura una città, Pietroburgo, scegliendo i suoi architetti a Torino per darle un analogo aspetto di ordine militare. Del resto un altro sovrano potente come il Sole, Luigi XIV, aveva pensato di «creare» Versailles, la metafora per eccellenza del potere assoluto. Percorrendo la storia a passi veloci, vengono in mente i «monarchi» Georges Pompidou e François Mitterand, anch’essi desiderosi di lasciare attraverso l’architettura un segno più imperituro di quello concessogli da una democrazia parlamentare. Ma soprattutto Hitler che scelse un architetto, Albert Speer, per rifondare la sua Germania i cui edifici sarebbero stati costruiti in modo tale da lasciare nei secoli rovine grandiose, come quelle dell’antica Grecia e dell’Impero romano, a testimonianza perenne della grandezza del Terzo Reich.

Corriere della Sera 14.6.11
Quadri, musica, cibo Così il piacere accende il cervello Le reazioni sono utilizzabili in pubblicità
di Giuseppe Remuzzi e Armando Torno


Una donna che si emoziona davanti a un quadro, altri due che vivono la gioia di una serata d’amore, qualcun altro che si abbandona al piacere della buona cucina, uno che si droga, centomila ragazzi a un concerto. Cosa succede nel cervello di queste persone? Si attivano certe aree— corteccia orbitofrontale, corteccia mediale prefrontale, corteccia cingolata anteriore— dicono i medici, che dialogano fra loro. Nei momenti di maggior piacere lì arriva più sangue e si libera dopamina, una sostanza chimica che garantisce le comunicazioni fra cellula e cellula, ma anche encefaline, endorfine e altri ormoni oppioidi. Semir Zeki che lavora all’University College di Londra qualche giorno fa ne ha parlato in un’intervista al Daily Telegraph. Il lavoro non è ancora stato pubblicato, ma lui ha raccontato di aver studiato il cervello di volontari mentre guardavano 28 bellissimi quadri. Come? Con la risonanza magnetica funzionale, che non fotografa semplicemente il cervello in tutte le sue strutture, ma riesce a evidenziare l’attività delle diverse aree. Semir Zeki ha dimostrato che le aree del cervello che si attivano guardando la «Nascita di Venere» di Botticelli o «Bagni alla Grènouillére» di Monet sono le stesse che si accendono fra due innamorati che guardano un cielo pieno di stelle. Di mezzo ci sono encefaline, endorfine e soprattutto dopamina. Il dottor Zeki è in buona compagnia: prima di lui altri hanno voluto catturare l’eccitazione di chi assume alcol e certe droghe, per esempio, e perfino le emozioni di chi ascolta la musica. «Chissà che non sia ancora una questione di dopamina» , hanno pensato Robert Zatorre e i suoi colleghi che lavorano a Montreal, in Canada. Forse, ma bisognava dimostrarlo. E c’era una barriera da superare, il piacere estremo è una sensazione soggettiva, come renderla oggettiva al punto di poterla misurare? Gli studiosi hanno pensato di ricorrere a una particolare tomografia a emissione di positroni capace di rivelare la dopamina che si libera da una cellula nervosa e misurarla, prima che venga catturata dai recettori della cellula vicina. Hanno chiesto a un bel po’ di persone di scegliere la musica che dava loro maggior piacere e intanto misuravano, aggiungendo gli effetti sul cuore, sulla frequenza del respiro, sulla pressione e tanto altro ancora. Che cosa hanno visto? Che il piacere generato ascoltando la musica (il lavoro è pubblicato su Nature Neuroscience) dipende ancora dalla dopamina del nucleo striato. Non solo, ma che questo fenomeno varia da individuo a individuo in rapporto alle emozioni che una certa musica evoca in ciascuno di noi e alle aspettative che si creano nell’attesa. Quanto al piacere dell’attesa la tomografia ad emissione di positroni non bastava e allora i ricercatori hanno pensato di combinarla con una risonanza magnetica, cogliendo l’attivazione di diverse aree del cervello in tempi diversi. Hanno visto che le regioni dell’area mesolimbica coinvolte nel piacere, ascoltando le note sono vicine ma diverse da quelle che si attivano nei momenti dell’attesa. Gli scienziati di Montreal però, oltre ad aver smascherato la neurofisiologia del piacere, hanno anche stabilito che le regioni del cervello che mediano la risposta emotiva alla musica sono le stesse che si accendono in seguito all’eccitazione provata per molte delle sostanze che stimolano il sistema nervoso. Vuol dire che il piacere legato alla musica coinvolge uno dei meccanismi primordiali della risposta del cervello rivolta a sensazioni che gratificano. Così si spiega perché se uno vuol pubblicizzare un prodotto ricorre alla musica, e perché non c’è film senza colonna sonora, e perché i riti anche tribali sono tutti scanditi dalla musica. È un modo per manipolare (in senso buono) il nostro cervello e fare in modo che il messaggio che si vuol far arrivare si associ a una sensazione di piacere.

Corriere della Sera 14.6.11
Note e neuroni, un laboratorio aperto


 La musica sta alle nostre emozioni come l’aria al sistema respiratorio. Già nel mito di Orfeo si comprende che una frase cambia valore se viene proferita o se invece è cantata. Shakespeare, per quei sottili motivi che sapeva cogliere nell’anima, ricorda ne Il mercante di Venezia che bisogna diffidare da coloro che non amano la musica: il loro cuore è pronto al tradimento, alla rapina, alle bassezze. E nessuna altra arte o espressione umana sa rappresentare con più forza un’epoca. Non a caso il saggio di Harvey Sachs, La Nona di Beethoven (appena tradotto da Garzanti, pp. 288, e 22), mette in evidenza come questa sinfonia, capolavoro della musica occidentale, divenga una sorte di lente ottica privilegiata per l’occhio dello spirito e permetta, attraverso la sua costruzione armonica, di comprendere la politica, l’estetica e il clima complessivo di un’epoca. Va inoltre sottolineato che il rapporto tra cervello e musica resta un laboratorio aperto di ricerche. Mozart bambino studiato dagli psicologi del tardo Settecento diventa un mistero quanto il sommo musicista postumo: ancora oggi ci chiediamo come abbia fatto, a soli 14 anni, a ricordare il Miserere di Allegri, ascoltato a Roma, e a trascriverlo ore dopo. Di contro, sappiamo che i Rap Party senza la musica alienante che li caratterizza perderebbero la loro carica di eccitazione; e qualcosa di simile accade nelle discoteche dove si cerca lo «sballo» . Dalle urla di guerra alle note che permeano la pubblicità per promuovere la bontà dei prodotti, dagli accordi sacri indispensabili alla liturgia agli inni politici noi viviamo in un oceano di musica. Anche se soltanto qualcuno se ne accorge.

Corriere della Sera 14.6.11
Strega, un voto a Veladiano


La marcia di avvicinamento alla cinquina del premio Strega si sta per concludere secondo le previsioni senza grosse sorprese (la battaglia dovrebbe riguardare soltanto un posto). In attesa che arrivino i tanto invocati cambi nel regolamento che dovrebbero permettere una votazione più trasparente, meno legata al peso degli editori, domani, a casa Bellonci a Roma, verranno scelti dai quattrocento Amici della domenica i cinque finalisti (presiede Antonio Pennacchi, vincitore dello scorso anno, affiancato dal presidente Tullio De Mauro). Ieri, intanto, è stato assegnato uno dei voti collettivi, quello della Società Dante Alighieri che ha scelto La vita accanto (Einaudi Stile libero), romanzo d’esordio di Mariapia Veladiano (nella foto) vincitrice del premio Calvino 2010. La scrittrice vicentina è stata la più votata dai circoli di lettura dei circoli di lettura della società che dal 2009 è entrata ufficialmente nella giuria del premio. La consegna ufficiale della scheda sarà oggi nella Sala del Consiglio Centrale di Palazzo Firenze a Roma. Oggi, nella Sala della Protomoteca, in Campidoglio, ci sarà anche l’incontro conclusivo di «Un anno stregato» che ha coinvolto 300 ragazzi di 35 scuole secondarie di Roma e del Lazio, a cui si aggiungono gli studenti di Airola (Benevento) e Cagliari. Il libro prescelto dalla giuria riceverà un altro dei voti collettivi previsti. Ai 400 Amici della domenica si aggiungono anche quest’anno 30 lettori forti selezionati grazie alle segnalazioni di altrettante librerie indipendenti distribuite su tutto il territorio.

L’Osservatore Romano 14.6.11
Una nuova stagione di evangelizzazione per Roma
In un tempo in cui si tende a ridurre la persona di Gesù a un uomo sapiente e ad avere solo idee umane di Dio, Benedetto XVI ha invitato tutti i battezzati a impegnarsi per una nuova stagione di evangelizzazione
di Joseph Alois Ratzinger

    Cari fratelli e sorelle!

    Con animo grato al Signore ci ritroviamo in questa Basilica di San Giovanni in Laterano per l'apertura dell'annuale Convegno diocesano. Rendiamo grazie a Dio che ci consente questa sera di fare nostra l'esperienza della prima comunità cristiana, la quale "aveva un cuore solo e un'anima sola" (At 4, 32). Ringrazio il Cardinale Vicario per le parole che tanto cortesemente e cordialmente mi ha rivolto a nome di tutti e porgo a ciascuno il mio saluto più cordiale, assicurando la mia preghiera per voi e per coloro che non possono essere qui a condividere questa importante tappa della vita della nostra Diocesi, in particolare per coloro che vivono momenti di sofferenza fisica o spirituale.
    Ho appreso con piacere che in questo anno pastorale avete cominciato a dare attuazione alle indicazioni emerse nel Convegno dell'anno passato, e confido che anche in futuro ogni comunità, soprattutto parrocchiale, continui ad impegnarsi a curare sempre meglio, con l'aiuto offerto dalla Diocesi, la celebrazione dell'Eucaristia, particolarmente quella domenicale, preparando adeguatamente gli operatori pastorali e adoperandosi affinché il Mistero dell'altare sia vissuto sempre più quale sorgente da cui attingere la forza per una più incisiva testimonianza della carità, che rinnovi il tessuto sociale della nostra città. Il tema di questa nuova tappa della verifica pastorale, "La gioia di generare alla fede nella Chiesa di Roma - L'Iniziazione Cristiana", si collega con il cammino già compiuto. Infatti, ormai da parecchi anni la nostra Diocesi è impegnata a riflettere sulla trasmissione della fede. Mi torna alla memoria che, proprio in questa Basilica, in un intervento durante il Sinodo Romano, citai alcune parole che mi aveva scritto in una piccola lettera Hans Urs von Balthasar: "La fede non deve essere presupposta ma proposta". È proprio così. La fede non si conserva di per se stessa nel mondo, non si trasmette automaticamente nel cuore dell'uomo, ma deve essere sempre annunciata. E l'annuncio della fede, a sua volta, per essere efficace deve partire da un cuore che crede, che spera, che ama, un cuore che adora Cristo e crede nella forza dello Spirito Santo! Così avvenne fin dal principio, come ci ricorda l'episodio biblico scelto per illuminare la verifica pastorale. Esso è tratto dal 2° capitolo degli Atti degli Apostoli, nel quale san Luca, subito dopo aver narrato l'evento della discesa dello Spirito Santo a Pentecoste, riporta il primo discorso che san Pietro rivolse a tutti. La professione di fede posta alla conclusione del discorso - "Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso" (At 2, 36) - è il lieto annuncio che la Chiesa da secoli non cessa di ripetere ad ogni uomo. A quell'annuncio - leggiamo negli Atti degli Apostoli - tutti "si sentirono trafiggere il cuore" (2, 37). Questa reazione fu generata certamente dalla grazia di Dio: tutti compresero che quella proclamazione realizzava le promesse e faceva desiderare a ciascuno la conversione e il perdono dei propri peccati. Le parole di Pietro non si limitavano ad un semplice annuncio di fatti, ne mostravano il significato, ricollegando la vicenda di Gesù alle promesse di Dio, alle attese di Israele e, quindi, a quelle di ogni uomo. La gente di Gerusalemme comprese che la risurrezione di Gesù era in grado ed è in grado di illuminare l'esistenza umana. E in effetti da questo evento è nata una nuova comprensione della dignità dell'uomo e del suo destino eterno, della relazione fra uomo e donna, del significato ultimo del dolore, dell'impegno nella costruzione della società. La risposta della fede nasce quando l'uomo scopre, per grazia di Dio, che credere significa trovare la vita vera, la "vita piena". Uno dei grandi Padri della Chiesa, Sant'Ilario di Poitiers, ha scritto di essere diventato credente nel momento in cui ha compreso, ascoltando il Vangelo, che per una vita veramente felice erano insufficienti sia il possesso, sia il tranquillo godimento delle cose e che c'era qualcosa di più importante e prezioso: la conoscenza della verità e la pienezza dell'amore donati da Cristo (cfr. De Trinitate 1, 2).
    Cari amici, la Chiesa, ciascuno di noi, deve portare nel mondo questa lieta notizia che Gesù è il Signore, Colui nel quale la vicinanza e l'amore di Dio per ogni singolo uomo e donna, e per l'umanità intera si sono fatti carne. Questo annuncio deve risuonare nuovamente nelle regioni di antica tradizione cristiana. Il beato Giovanni Paolo II ha parlato della necessità di una nuova evangelizzazione rivolta a quanti, pur avendo già sentito parlare della fede, non apprezzano, non conoscono più la bellezza del Cristianesimo, anzi, talvolta lo ritengono addirittura un ostacolo per raggiungere la felicità. Perciò oggi desidero ripetere quanto dissi ai giovani nella Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia: "La felicità che cercate, la felicità che avete diritto di gustare ha un nome, un volto: quello di Gesù di Nazareth, nascosto nell'Eucaristia"! Se gli uomini dimenticano Dio è anche perché spesso si riduce la persona di Gesù a un uomo sapiente e ne viene affievolita se non negata la divinità. Questo modo di pensare impedisce di cogliere la novità radicale del Cristianesimo, perché se Gesù non è il Figlio unico del Padre, allora nemmeno Dio è venuto a visitare la storia dell'uomo, abbiamo solo idee umane di Dio. L'incarnazione, invece, appartiene al cuore del Vangelo! Cresca, dunque, l'impegno per una rinnovata stagione di evangelizzazione, che è compito non solo di alcuni, ma di tutti i membri della Chiesa. L'evangelizzazione ci fa sapere che Dio è vicino: Dio ci è mostrato. In quest'ora della storia, non è forse questa la missione che il Signore ci affida: annunciare la permanente novità del Vangelo, come Pietro e Paolo quando giunsero nella nostra città? Non dobbiamo anche noi oggi mostrare la bellezza e la ragionevolezza della fede, portare la luce di Dio all'uomo del nostro tempo, con coraggio, con convinzione, con gioia? Molte sono le persone che ancora non hanno incontrato il Signore: ad esse va rivolta una speciale cura pastorale. Accanto ai bambini e ai ragazzi di famiglie cristiane che chiedono di percorrere gli itinerari dell'iniziazione cristiana, ci sono adulti che non hanno ricevuto il Battesimo, o che si sono allontanati dalla fede e dalla Chiesa. È un'attenzione pastorale oggi più che mai urgente, che chiede di impegnarci con fiducia, sostenuti dalla certezza che la grazia di Dio sempre opera, anche oggi, nel cuore dell'uomo. Io stesso ho la gioia di battezzare ogni anno, durante la Veglia pasquale, alcuni giovani e adulti, e incorporarli nel Corpo di Cristo, nella comunione col Signore e così nella comunione con l'amore di Dio.
    Ma chi è il messaggero di questo lieto annuncio? Sicuramente lo è ogni battezzato. Soprattutto lo sono i genitori, ai quali spetta il compito di chiedere il Battesimo per i propri figli. Quanto grande è questo dono che la liturgia chiama "porta della nostra salvezza, inizio della vita in Cristo, fonte dell'umanità nuova" (Prefazio del Battesimo)! Tutti i papà e le mamme sono chiamati a cooperare con Dio nella trasmissione del dono inestimabile della vita, ma anche a far conoscere Colui che è la Vita e la vita non è realmente trasmessa se non si conosce anche il fondamento e la fonte perenne della vita. Cari genitori, la Chiesa, come madre premurosa, intende sostenervi in questo vostro fondamentale compito. Fin da piccoli, i bambini hanno bisogno di Dio, perché l'uomo dall'inizio ha bisogno di Dio, ed hanno la capacità di percepire la sua grandezza; sanno apprezzare il valore della preghiera - del parlare con questo Dio - e dei riti, così come intuire la differenza fra il bene ed il male. Sappiate, allora, accompagnarli nella fede, in questa conoscenza di Dio, in questa amicizia con Dio, in questa conoscenza della differenza tra il bene e il male. Accompagnateli nella fede sin dalla più tenera età.
    E come coltivare poi il germe della vita eterna a mano a mano che il bambino cresce? San Cipriano ci ricorda: "Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre". Ed è perciò che non diciamo Padre mio, ma Padre nostro, perché solo nel "noi" della Chiesa, dei fratelli e sorelle, siamo figli. Da sempre la comunità cristiana ha accompagnato la formazione dei bambini e dei ragazzi, aiutandoli non solo a comprendere con l'intelligenza le verità della fede, ma anche a vivere esperienze di preghiera, di carità e di fraternità. La parola della fede rischia di rimanere muta, se non trova una comunità che la mette in pratica, rendendola viva ed attraente, come esperienza della realtà della vera vita. Ancora oggi gli oratori, i campi estivi, le piccole e grandi esperienze di servizio sono un prezioso aiuto per gli adolescenti che compiono il cammino dell'iniziazione cristiana, a maturare un coerente impegno di vita. Incoraggio, quindi, a percorrere questa strada che fa scoprire il Vangelo non come un'utopia, ma come la forma piena e reale dell'esistenza. Tutto ciò va proposto in particolare a coloro che si preparano a ricevere il sacramento della Cresima, affinché il dono dello Spirito Santo confermi la gioia di essere stati generati figli di Dio. Vi invito dunque a dedicarvi con passione alla riscoperta di questo Sacramento, perché chi è già battezzato possa ricevere in dono da Dio il sigillo della fede e diventi pienamente testimone di Cristo.
    Perché tutto questo risulti efficace e porti frutto è necessario che la conoscenza di Gesù cresca e si prolunghi oltre la celebrazione dei Sacramenti. È questo il compito della catechesi, come ricordava il beato Giovanni Paolo II, che scrisse: "La specificità della catechesi, distinta dal primo annuncio del Vangelo, che ha suscitato la conversione, tende al duplice obiettivo di far maturare la fede iniziale e di educare il vero discepolo di Cristo mediante una conoscenza più approfondita e più sistematica della persona e del messaggio del nostro Signore Gesù Cristo" (Esort. ap. Catechesi tradendae, 19). La catechesi è azione ecclesiale e pertanto è necessario che i catechisti insegnino e testimonino la fede della Chiesa e non una loro interpretazione. Proprio per questo è stato realizzato il Catechismo della Chiesa Cattolica, che idealmente questa sera riconsegno a tutti voi, affinché la Chiesa di Roma possa impegnarsi con rinnovata gioia nell'educazione alla fede. La struttura del Catechismo deriva dall'esperienza del catecumenato della Chiesa dei primi secoli e riprende gli elementi fondamentali che fanno di una persona un cristiano: la fede, i Sacramenti, i comandamenti, il Padre nostro.
    Per tutto questo è necessario educare anche al silenzio e all'interiorità. Confido che nelle parrocchie di Roma gli itinerari di iniziazione cristiana educhino alla preghiera, perché essa permei la vita ed aiuti a trovare la Verità che abita il nostro cuore. E la troviamo realmente nel dialogo personale con Dio. La fedeltà alla fede della Chiesa, poi, deve coniugarsi con una "creatività catechetica" che tenga conto del contesto, della cultura e dell'età dei destinatari. Il patrimonio di storia e arte che Roma custodisce è una via ulteriore per avvicinare le persone alla fede: molto ci parla della realtà della fede qui a Roma. Invito tutti a fare tesoro nella catechesi di questa "via della bellezza" che conduce a Colui che è, secondo S. Agostino, la Bellezza tanto antica e sempre nuova.
    Cari fratelli e sorelle, desidero ringraziarvi per il vostro generoso e prezioso servizio in questa affascinante opera di evangelizzazione e di catechesi. Non abbiate paura di impegnarvi per il Vangelo! Nonostante le difficoltà che incontrate nel conciliare le esigenze familiari e del lavoro con quelle delle comunità in cui svolgete la vostra missione, confidate sempre nell'aiuto della Vergine Maria, Stella dell'Evangelizzazione. Anche il Beato Giovanni Paolo II, che fino all'ultimo si prodigò per annunciare il Vangelo nella nostra città ed amò con particolare affetto i giovani, intercede per noi presso il Padre. Mentre vi assicuro la mia costante preghiera, di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica. Grazie per la vostra attenzione.

Repubblica 14.6.11
Faeta: "Il sud di De Martino sembra un film di Rossellini”
di Michele Smargiassi


Nell´ultimo saggio dello studioso una critica all´etnografia italiana e al capostipite degli studi sui riti e le magie del Mezzogiorno
"All´estero hanno cercato orizzonti cosmopoliti Noi siamo rimasti in una nicchia"
"Le teorie sociali fornirono ai registi materiale per i film che poi divennero un archetipo"
Quei tarantolati, quelle vedove piangenti in bianco e nero fotografati nelle campagne meridionali e finiti tra le pagine dei saggi di etnografia dell´Italia del dopoguerra, quanto somigliavano in realtà agli sciuscià e ai ladri di biciclette in bianco e nero filmati da Rossellini o De Sica e proiettati sugli schermi dei cinema degli stessi anni... «Ernesto De Martino pensava di osservare il Sud con spirito realista, in realtà lo vedeva con animo neorealista». L´occhio dell´antropologo non è mai stato ingenuo, spesso è stato condizionato da occhiali ideologici e perfino estetici: è severo il giudizio di Francesco Faeta, docente di Antropologia culturale all´università di Messina, un´autorità nel campo della nostra antropologia visuale, ricercatore sul campo e anche fotografo in Nelle Indie di quaggiù, teorico in Strategie dell´occhio e decine di altri saggi, alcuni dei quali dedicati proprio allo sguardo di De Martino, capostipite degli studi sui riti e le magie del nostro Meridione, col quale è particolarmente severo nel suo appena uscito Le ragioni dello sguardo (Bollati Boringhieri, pagg. 285, 18,50 euro), come lo è con tutta la scuola italiana che definisce crudamente "un´antropologia senza antropologi".
Ernesto De Martino: nel suo libro lei sfida un mito.
«Una figura colossale della nostra cultura e non solo della nostra antropologia, vorrei che fosse chiaro: i suoi meriti non si toccano. Ma abbiamo ora la distanza giusta per valutare anche alcuni limiti della sua impostazione. Prima di tutto, il suo orizzonte scientifico restò strettamente domestico, come in tutta la tradizione italiana...».
Avrebbe dovuto occuparsi anche di tribù africane o polinesiane?
«L´antropologia internazionale aveva ampi orizzonti, ma per lui quel cosmopolitismo era rischioso. Preferì concentrarsi solo sulla sua "patria cercata", il Mezzogiorno italiano, spinto a questo dalla sua cultura a cavallo tra idealismo, storicismo e marxismo, e soprattutto da una precisa visione di riscatto ed emancipazione delle masse contadine meridionali».
Non ha una sua dignità anche l´etnografia domestica?
«Sì, a patto che non diventi esclusiva, una nicchia in cui rinchiudersi e da cui escludere chiunque altro. E questo fu il vizio di fondo dell´intera antropologia italiana, che ha una storia accidentata. Nacque con grandi premesse e finì per essere strozzata prima dalle politiche nazionaliste poi dall´autarchia fascista. In queste condizioni, già nell´Ottocento, con la complicità della storiografia, la nostra etnografia si ridusse a folclore. Il dopoguerra ne ribaltò ideologicamente le impostazioni, ma non rinnegò l´autosufficienza»
Ma anche l´Italia fu un paese colonialista: non serviva anche a noi un´antropologia "di conquista"?
«L´Italia arrivò tardi e miseramente al colonialismo, quando la spinta alla conoscenza dell´altro si era esaurita. I nostri antropologi finirono vittime della "sindrome di Colombo": per poter lavorare, dover servire altre nazioni, come capitò a Savorgnan di Brazzà, l´esploratore del Congo».
Tornando a De Martino: lei dunque sostiene che la sua impostazione culturale e politica influenzò il suo modo di vedere e far vedere il nostro Sud?
«Quando parte con un forte impostazione culturale preordinata, l´etnologo sente anche meno il bisogno di vedere. De Martino finì per guardare i suoi soggetti attraverso uno schema visuale anch´esso preordinato, già disponibile, e molto coerente con il suo schema culturale: lo sguardo del Neorealismo. Oggi ne parliamo come di uno stile, ma allora era un paradigma dominante, tanto da apparire realista e naturale, e poi faceva tendenza, non solo in Italia. Anche i fotografi con cui collaborò, come Franco Pinna, appartenevano alla stessa cultura».
Vuole dire che si avvicinò ai tarantolati o alle prefiche lucane come Rossellini o De Sica immaginavano i loro personaggi?
«Fu un rapporto biunivoco: le scienze sociali fornirono ai registi il materiale su cui elaborare trame e immagini, e i loro film servirono da archetipo visuale per le ricerche sul campo. Diciamo che entrambe le visioni, narrativa e scientifica, condivisero la medesima impostazione estetico-politica».
Saper vedere e saper far vedere non dovrebbero essere i primi strumenti del mestiere dell´antropologo?
«Lo sono sempre stati, ma sotto il segno del pregiudizio positivista per cui ciò che si vede è la realtà oggettiva, e quel che si fa vedere, con le fotografie e i film etnografici, è la riproduzione del reale oggettivo. Tranne pochi consapevoli dei limiti culturali del prelievo e della restituzione visuali, come Bateson, Mead e lo stesso Levi-Strauss, troppi studiosi non riuscirono a comprendere che l´occhio dell´antropologo non è vergine ma è educato dalla cultura visuale della sua epoca. Si è ancora riluttanti ad ammettere per esempio che la fotografia etnografica dell´Ottocento è parente della fotografia criminale e dei suoi schemi rappresentativi».
Non è inevitabile che la cultura visuale di un´epoca influenzi lo sguardo scientifico?
«Certo, ma è un limite di cui occorre essere consapevoli. Nel caso di De Martino, quello schema prevedeva la rappresentazione delle popolazioni meridionali come abbandonate a una miseria e a una arcaicità che dovevano in qualche modo essere assolutizzate, per poter essere riscattate dalla politica. Ma in quegli anni in Lucania non c´erano solo tarantolati e pianti rituali. Paradossalmente, il De Martino democratico e uomo di sinistra si guardò bene dall´analizzare il conflitto già esplosivo fra arcaicità e modernità. A un certo punto scelse addirittura di abbandonare la Tricarico di Scotellaro, straordinario laboratorio del riformismo lucano, perché gli parve troppo inquinata dalla modernità. Una modernità sicuramente pericolosa, democristiana e consumista, ma pur sempre reale».
Quello schema ha condizionato l´antropologia successiva?
«Ci sono stati e ci sono ancora epigoni, ma con gli anni Ottanta è cambiato tutto: merito dell´apertura internazionale dei nostri atenei, degli Erasmus, dei dottorati. I nostri giovani antropologi fanno esperienze all´estero e non mostrano più gelosie e tendenze all´isolamento».
Del resto i contadini, neorealisti o meno, non ci sono più. Cosa deve guardare un etnologo oggi? Lei è polemico anche con certe tendenze "modaiole e manieriste" dell´antropologia del quotidiano: teme troppi "etnologi nel metrò"?
«Non mi convince la tendenza dell´antropologia contemporanea ad occuparsi indiscriminatamente di tutto. Non tutti gli oggetti sociali sono egualmente "urgenti", alcuni sono troppo leggeri per dirci qualcosa di solido sulle relazioni umane. Certo si può fare etnografia anche bevendo cattiva birra nei bar di periferia, ma io penso che ci sia ancora bisogno di affrontare oggetti sociali duri e consistenti: i comportamenti politici, ad esempio, le strutture delle relazioni pubbliche, le istituzioni, sulla linea che fu di Pierre Bourdieu».