lunedì 13 giugno 2011

l’Unità 13.6.11
L’aria buona
di Giovanni Maria Bellu


Il quorum mentre scriviamo è lì, a portata di mano. Sì, c’è la questione del computo dei voti degli italiani all’estero e la possibilità teorica che la soglia del 50 per cento venga superata e subito messa in discussione dall’ennesimo cavillo. Non sarebbe strano. Il boicottaggio, o la negazione, della volontà popolare è una linea che la maggioranza di governo persegue in modo coerente da mesi e che ha trovato nei referendum il luogo della sua applicazione, prima col no all'election day, poi col tentativo di cancellare la consultazione sul nucleare, quindi attraverso l'informazione lacunosa, e in alcuni casi addirittura ingannevole, diffusa dalle sue televisioni pubbliche e private. D’altra parte, anche se il risultato finale fosse così netto da annullare in modo matematico l’estremo cavillo, la vittoria del sì “non avrebbe alcuna ripercussione sul governo”. Come nei giorni scorsi (con una formula pressoché identica a quella che utilizzò non appena cominciò ad annusare la batosta alle amministrative) ha tenuto a chiarire Silvio Berlusconi . Appare sempre più evidente che il premier non ha alcuna intenzione di porre fine, con un atto di responsabilità, alla sua parabola. E che se ciò avverrà in tempi rapidi sarà per la decisione di una parte dei suoi alleati di sottoporlo a un equivalente politico del trattamento sanitario obbligatorio. Già si vedono le prime avvisaglie: ripensamenti, riposizionamenti, balbettii di dissenso. Uno spettacolo penoso al quale, evidentemente, il Paese deve assistere in modo ciclico.
Il quorum è a portata di mano. Oggi conosceremo le cifre finali. Ma quelle di cui già si dispone raccontano un successo che, se non fosse così fresca la memoria delle vittorie di Pisapia, di De Magistris, di Zedda, sarebbe non solo straordinario ma anche sorprendente. Un risultato che sancisce il risveglio di un Paese attraverso la resurrezione di un istituto – il referendum abrogativo – che fino a poco tempo fa era considerato una reliquia dei rari momenti felici della prima Repubblica.
Il referendum è risorto ed è risorta la volontà dei cittadini di pensare al futuro, di fare politica, di chiudere definitivamente col berlusconismo. Ognuno di noi è testimone di questo nuovo clima, di questa ritrovata speranza. Dell’aria buona che si respirava ieri nelle file ai seggi, quel sorridersi tra sconosciuti, quel sentirsi – per il solo fatto di essere là, a esercitare un diritto di cittadinanza – protagonisti di un progetto di cambiamento. E’ un’aria buona di cui da anni si era perduto il profumo. Per ritrovarne la memoria bisognava tornare indietro di qualche anno: la notte della vittoria di Romano Prodi, i giorni delle “prime primarie” quando milioni di persone condividevano la speranza che col Partito democratico stesse nascendo il laboratorio di una nuova Italia.
Sono passati quasi tre anni da quanto questo giornale, l’Unità, cambiò formato è diventò il piccolo grande giornale che avete in questo momento tra le mani. Berlusconi pochi mesi prima aveva stravinto le elezioni e sembrava destinato a governare trionfalmente per l’intera legislatura, il popolo del centrosinistra era avvilito, diviso, stanco. Ne abbiamo seguito le lacerazioni, le fatiche, ne abbiamo registrato le rabbie, i malumori, i progetti di riscossa. La memoria di questo percorso illumina il risultato di oggi. E conferma la necessità non solo di assecondare ma anche di creare luoghi nuovi e diffusi dove ritrovarsi per ricostruire questo Paese. Il berlusconismo sta per finire anche formalmente. Dobbiamo, rapidamente e gioiosamente, sgomberarne le macerie. Come scriveva ieri il direttore Concita De Gregorio, ognuno dal suo posto. Il nostro posto.

Corriere della Sera 13.6.11
Segnali dal Paese
di Massimo Franco


P er capire se sarà raggiunto il quorum bisognerà aspettare qualche ora. Ma per la prima volta dopo sedici anni, l’istituto referendario ha dato un segnale di vitalità non scontato. Disubbidendo a Silvio Berlusconi e a Umberto Bossi che suggerivano l’astensione, un numero rilevante, sebbene non ancora decisivo, di italiane e di italiani è andato alle urne. A sentire il capo della Lega, che ieri continuava a parlare di inutilità del voto, il premier non saprebbe più comunicare. La sintonia fra il capo del governo e il suo elettorato non è più quella di una volta: le Amministrative insegnano. Ma la lezione vale altrettanto per il Carroccio, vista l’affluenza alta al Nord. Alcuni ministri confessano che non sanno se andranno ai seggi, aperti anche oggi: i referendum, dicono, hanno assunto contorni troppo antigovernativi. La loro titubanza, però, è un presagio di ulteriore delegittimazione per la maggioranza. Seguendo il ragionamento, la vittoria dei quesiti referendari sarebbe un altro «no» a chi governa, dopo anni di democrazia diretta usata male e naufragata nel non voto. Così, quorum sfiorato o raggiunto, c’è da chiedersi se già il risultato di ieri avrà qualche effetto. La tentazione di far finta di niente rimane la più prepotente; ma forse anche la più illusoria, perché una spinta alla partecipazione sembra venuta proprio dagli inviti a disertare le urne. Lo smarcamento di Bossi da Berlusconi vuole placare una Lega passata in poche settimane dall’illusione del trionfo alla sconfitta. Mattone dopo mattone, il Carroccio sta costruendo un muro di distinguo che vanno dalla missione in Libia all’immigrazione e alla riforma fiscale. È una parete al riparo della quale cerca di recuperare una diversità appannata dall’alleanza con il berlusconismo, col quale tuttavia pare destinato a convivere ancora un po’. La barriera sancisce una crepa nell’ «asse del Nord» perfino nei confronti del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. E annuncia un leghismo più rivendicativo di quanto sia mai stato negli ultimi tre anni. Eppure il referendum comunica un messaggio allarmante per l’intero centrodestra. Se quanto stanno rivelando le urne è la perdita di contatto con il Paese, il problema riguarda tutta l’alleanza. La bocciatura di alcune leggi del governo, che il quorum sancirebbe, assumerebbe un valore anche simbolico. Ma forse l’aspetto più eclatante sarebbe di sistema: quello della crisi di una Seconda Repubblica forgiata all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso anche per via referendaria; e vissuta per un quindicennio con una democrazia parlamentare legittimata, messa in mora adesso da referendum che sembrano essersi assunti un ruolo di supplenza: per quanto segnati dall’emotività e usati in modo strumentale.

Corriere della Sera 13.6.11
«Comunque vada è una vittoria politica. Sì alle elezioni, meglio con una nuova legge»
di  Monica Guerzoni


ROMA — La prudenza non è mai troppa, neanche per una pasionaria come Rosy Bindi. La presidente del Pd terrà le dita incrociate fino all’apertura delle urne, ma intanto definisce «incoraggiante» il dato dell’affluenza e si prepara a cantar vittoria. Quattro sì, presidente? «Certo, ho votato alle 11 e sono contenta che gli italiani abbiano ascoltato la nostra richiesta di recarsi ai seggi di buon mattino. Anche per scaramanzia tocca essere cauti, ma al di là del dato formale sul raggiungimento del quorum mi pare evidente che il vento del cambiamento non si è fermato. Ha pesato il merito delle questioni, perché si votava su temi cruciali per il nostro futuro. E credo abbia contato anche la posizione della Chiesa, con la mobilitazione delle associazioni e delle parrocchie, le parole delle gerarchie e le sottolineature del Papa» . Il Pd sogna la spallata? «Se pure per un soffio non si dovesse raggiungere il quorum, la vittoria politica è a favore dei referendari. Un’affluenza così forte contro tre leggi così importanti del governo Berlusconi conferma una inversione culturale e politica di cui il premier deve prendere atto. La partecipazione è un dato che obbliga a riflettere, anche nei confronti di Berlusconi, Bossi e degli altri massimi esponenti dell’esecutivo che hanno invitato a non votare» . Berlusconi ci ha messo la faccia. «E adesso si dovrà rendere conto che la sua faccia non funziona più, il che è valido a prescindere dal quorum. Una partecipazione così alta, con una legge sul referendum anomala, costringe a interrogarsi. "Volete che Berlusconi vada a casa?", è stata la propaganda dei giornali di destra. Ecco, mi sembra che gli elettori abbiano detto sì. In Italia c’è ancora una riserva etica e culturale molto forte» . Il governo può reggere l’onda d’urto del quorum? Il 22 giugno è in agenda la verifica... «Sempre mettendo le mani avanti per prudenza e scaramanzia, penso che questa maggioranza non potrà essere salvata ancora una volta dai "responsabili". Dopo una simile onda d’urto la verifica non potrà essere un passaggio formale. Visto il risultato delle amministrative, il referendum e la richiesta del capo dello Stato, in Aula può accadere di tutto» . In caso di vittoria al referendum chiederete al capo dello Stato di sciogliere le Camere? «Non credo si possa parlare di automatismo. Come il presidente, io mi attengo alla Costituzione. Il capo dello Stato può sciogliere le Camere se non c’è più la maggioranza che sostiene il governo» . E allora continuerete a tentare Bossi con l’esca della legge elettorale, perché si sganci da Berlusconi? «A me non risulta che il Pd abbia tentato di agganciare la Lega» . Avete rinunciato al governissimo, magari guidato da Tremonti? «Il tempo di andare a votare è maturo, certo ci piacerebbe farlo con una nuova legge elettorale. Ma la priorità, a questo punto, è restituire la parola agli italiani» . L’alta affluenza del Nord Est autorizza a pensare che la base leghista sia andata in massa a votare. «— è un altro dato che deve far riflettere. In questi anni il pluralismo che c’è nella Lega, anche tra i dirigenti, è stato mortificato per dire sempre di sì all’imperatore. Ma ora le cose sono cambiate e due come Zaia e Tosi, che non sono certo personaggi inventati, hanno dato il segnale» . Lei boccia il partito unico. Ma la battaglia per il quorum è stata condotta da Bersani, Di Pietro e Vendola. Non è il nocciolo di una nuova alleanza? «Sì, e ha funzionato anche alle amministrative. Possiamo usare con meno timidezza l’espressione Nuovo Ulivo, che vuol dire no al partito unico e sì a un nuovo soggetto capace di interloquire col terzo polo. Casini che dice "meglio dare un voto sbagliato che non darlo"conferma come i nostri elettori si siano mischiati» . E se il premier torna a corteggiarlo, cercherete di trattenerlo? «Casini non ha bisogno di essere trattenuto da me, perché penso non possa permettersi di interrompere anni di coerenza» . Non teme sorprese dal voto all’estero? «Spero che nessuno usi gli italiani all’estero per fermare un’onda civica come questa. Se un elettore non è messo in condizioni di votare, non può essere conteggiato nel quorum» .

La Stampa 13.6.11
Referendum, affluenza record. Quorum vicino
I cittadini vogliono contare
di Irene Tinagli


A giudicare dall’affluenza di ieri sembra altamente probabile che il quorum verrà raggiunto. In molti vi leggeranno una grande vittoria dell’opposizione, una nuova spallata al governo. Ma la vera vittoria è un’altra: una grande ritrovata voglia di partecipazione dei cittadini. Non si può infatti imputare una così alta affluenza solo a una vittoria dell’opposizione: se anche tutte le persone che alle ultime amministrative hanno votato per i partiti d’opposizione andassero a votare per il referendum, il quorum non verrebbe raggiunto. E’ quindi evidente che molte persone, anche tra quelle che continuano a supportare questo governo, hanno voluto dare un messaggio molto chiaro alla politica: ci siamo e vogliamo esserci. Vogliamo contare, vogliamo dire la nostra.
Questo è un segnale più profondo e importante dei singoli quesiti referendari.
Ed è evidentemente la reazione a una stagione politica che sistematicamente ha escluso i cittadini dalle proprie scelte e decisioni, una stagione in cui rappresentanti parlamentari hanno fatto e disfatto coalizioni, saltando con disinvoltura da uno schieramento all’altro, dichiarando e smentendo alleanze, lanciando proposte subito stravolte o rimesse nel cassetto a seconda della convenienza. Un comportamento che, come sottolineato da molti commentatori, è legato alla pessima legge elettorale che abbiamo, che non consente ai cittadini di scegliere i candidati che vogliono eleggere. Con questa legge, di fatto, deputati e senatori non rispondono più ai loro elettori, ma ai capi partito che decidono di candidarli (e se ricandidarli in futuro…).
Ma non ci scordiamo che la legge elettorale fornisce solo uno strumento: dà la facoltà ai partiti di scegliere i loro candidati, non li obbliga a sceglierli sulla base di clientelismi e vecchie logiche di fedeltà e interessi personali, né a «comprarli» e scambiarli come se fossero figurine. La degenerazione che ne è scaturita è colpa dell’irresponsabilità di tanti politici, un atteggiamento che ha infettato molti altri aspetti della nostra vita democratica anche al di là della legge elettorale. Basta pensare alla scelta delle priorità delle attività governative, che sistematicamente hanno privilegiato misure di tipo personalistico o propagandistico rimandando quanto più possibile misure urgenti per i cittadini e le imprese. O pensare a come il Parlamento sia stato spesso esautorato delle sue funzioni, il dibattito minimizzato, e molte decisioni importanti prese in fretta e furia nelle segrete stanze del potere, per poi essere magari cambiate in corso d’opera senza nemmeno prendersi la briga di dare spiegazioni plausibili. Tutta una serie di comportamenti che sembravano poggiare sull’inossidabile certezza, da parte di tanti politici, che tanto il «popolo bue» si accontenta di qualche chiacchiera generica, e magari non è nemmeno interessato. D’altronde è anche vero che negli anni scorsi svariate occasioni di partecipazione democratica sono state disertate da molti cittadini - incluso il referendum sulla legge elettorale del 2009 - così come numerosi casi di scandali tanto a destra quanto a sinistra non hanno provocato grosse rivolte nelle rispettive basi elettorali. E’ solo negli ultimi mesi che qualcosa è scattato negli italiani, forse stanati dal morso di una crisi che non accenna a passare. E’ scattata una voglia di riappropriarsi della vita democratica del Paese, ribellandosi all’attuale politica di entrambi gli schieramenti. Una ribellione che nel centrosinistra si è manifestata in modo più evidente negli esiti di molte primarie, mentre nel centrodestra la vediamo nei risultati delle ultime amministrative e nella decisione di molti elettori di partecipare al referendum nonostante la campagna astensionista di gran parte del governo.
Questo segnale è importante, e dovrebbe insegnare una lezione a tutti. Una lezione ai politici di entrambi gli schieramenti, che capiscano che non si può governare un Paese ignorando e snobbando i propri elettori. Ma anche una lezione per tutti i cittadini, soprattutto per quelli che per anni hanno seguito con noia e sonnolenza le vicende politiche italiane, disertando le urne quando decisioni importanti venivano prese, oppure fidandosi ciecamente dei politici che avevano votato, seguendoli come si fa con la squadra del cuore. La lezione che tutti quanti dovremmo imparare è che la soglia dell’attenzione dev’essere sempre alta, che la partecipazione democratica è qualcosa che va esercitato sempre, non solo quando stiamo per scivolare nel baratro o quando qualcosa comincia a toccarci personalmente. La partecipazione si coltiva ogni giorno: informandosi, ragionando, discutendo. E non solo nelle piazze, ma nelle case, nelle aziende, nelle scuole, nelle strade, mettendosi anche in gioco quando necessario e non solo facendo il tifo per o contro qualcun altro. Solo così una democrazia può mantenersi viva e rinnovarsi sempre, anche quando non siamo chiamati alle urne.

La Stampa 13.6.11
“La tendenza è chiara oggi la conferma”
I sondaggisti si sbilanciano: stavolta si va oltre la soglia
di Francesca Schianchi


A questo punto il referendum è passato». Già dopo il secondo dato di affluenza diffuso dal ministero dell’Interno alle 19, il sondaggista Nicola Piepoli abbandona la prudenza: il dato è così alto che le probabilità di centrare l’obiettivo del quorum, sempre fallito negli ultimi sedici anni, sono altissime. Addirittura di superare la soglia minima del 50% degli elettori più uno, per arrivare «a quel 55% che metterebbe il referendum al riparo da contestazioni legate al voto degli italiani all’estero».
Una previsione simile a quella del collega di Swg, Roberto Weber: «La sensazione è che il quorum sia stravicino e superiore alle attese: potrebbe viaggiare tra il 55 e il 60%». Più prudente Renato Mannheimer, «il quorum è possibile ma bisogna stare cauti», anche perché, fa notare, «bisognerà vedere se c’è stata una mobilitazione ad andare a votare presto come avevano suggerito i referendari»: da valutare insomma l’ipotesi che tutti quelli che volevano votare l’abbiano fatto subito ieri, con magari un vistoso calo di partecipazione oggi.
Fatto sta che la partecipazione nella giornata di ieri è stata alta: «Indipendentemente dal fatto che si raggiunga il quorum, comunque sia gli elettori stanno lanciando un segnale», analizza Antonio Noto, direttore di Ipr Marketing. «Come già alle amministrative, dove hanno fatto diventare vincenti candidati inizialmente considerati perdenti, anche con l’affluenza al referendum mi pare testimonino un desiderio di cambiamento. Hanno dato una risposta politica».
Noostante gli sforzi dei partiti, di maggioranza e d’opposizione, a «spogliare» di contenuto politico la chiamata alle urne, anche secondo Weber il voto ha invece una valenza di quel tipo: «Gli elettori hanno molto chiaro a chi devono inviare un messaggio: se il referendum passerà, non c’è dubbio che sarà una spallata a Berlusconi. Ma attenzione: come per le amministrative, questo non significa affatto che sia un voto per il centrosinistra». Se dovessero vincere i comitati referendari «non sarà un ko per il governo», aggiunge Noto, «ma, per dirla alla Maroni, una seconda sberla».
Tra le ragioni dell’alta affluenza secondo il sondaggista di Swg c’è «la crescita di partecipazione dell’elettorato leghista, in una logica di punizione a Berlusconi» e il ruolo dei giovani: «Sentono molto la tematica ambientale, e hanno una capacità di mobilitazione non da poco». Un voto, lo definisce, «sorprendentemente giovanile e fazioso».
Poi, certo c’è la questione del nucleare, talmente importante secondo Weber, soprattutto dopo il disastro giapponese di Fukushima, che «senza quesito sull’atomo il quorum sarebbe stato impossibile»; anche Mannheimer lo individua come un tema che ha colpito molto l’opinione pubblica, insieme alla mobilitazione politica contro Berlusconi già vista con i voti di Napoli e Milano di due settimane fa.
Ancora ieri il leader della Lega Umberto Bossi si augurava che la gente non andasse a votare; qualche giorno fa il premier definiva il voto sui quesiti «inutile»: ma «gli elettori sono sempre più autonomi e seguono sempre meno le indicazioni dei partiti», giudica Noto: «Se non fosse così, il dato delle 7 di sera sarebbe stato del 17-18%, non del 30». A proposito della dichiarazione di non voto del Senatùr, commenta Weber: «E’ forse la prima volta che lo vedo sbagliare: ha ancora un vizio di natura leninista, l’idea di indirizzare le masse, un’illusione che mantengono vari politici sia a destra che a sinistra: invece non funziona più così».
Allora, se oggi pomeriggio, a urne chiuse, l’affluenza sarà oltre il 50% e il famigerato quorum acquisito, resterà da interrogarsi, suggerisce il sondaggista triestino, su quanto «sono ragazzi sorprendenti gli italiani... Una parte delle élites non si è ancora resa conto di come ci siano movimenti nell’opinione pubblica, del senso di preoccupazione diffuso. In un Paese così vischioso, la risposta ha carattere di civismo».

Repubblica 13.6.11
Affluenza oltre il 41 per cento il quorum è sempre più vicino
Le proiezioni del Viminale: si arriverà al 60 per cento
di Liana Milella


Dalla mattina alla sera di domenica, una rilevazione dopo l´altra. Quando i seggi si chiudono alle 22, il Viminale comunica un dato - oltre il 41% - che fa fremere di entusiasmo il fronte del sì. Dati storici alla mano, i quattro quorum raggiunti dai due quesiti sull´acqua, la privatizzazione al 41,14% e le tariffe al 41,14%, sul nucleare al 41,11%, e sul legittimo impedimento al 41,11%, portano a stimare che oggi, quando alle 15 si chiuderanno i seggi aperti dalle 7, il successo potrebbe essere a portata di mano. Un dato da registrare: tra i primi a votare, come aveva promesso, il presidente Giorgio Napolitano. In una scuola del rione Monti, suo quartiere storico.
I quesiti potrebbero anche superare il 60 per cento. Era questa ieri sera, a quanto informalmente si poteva apprendere dal ministero dell´Interno, la proiezione fatta dai tecnici dell´Ufficio elettorale. I quali, elaborando i dati reali e non basandosi sulle precedenti tornate referendarie, hanno stimato che i quattro quesiti sono destinati a raggiungere, e forse superare oggi il 60 per cento. Resta il giallo dei 3.299.905 elettori che vivono all´estero, che hanno votato, e i cui voti devono essere aggiunti a quelli dei 47.118.784 cittadini che si sono recati alle urne in Italia. Un quorum del 50,1% che corrisponde a 25.209.345 elettori. Nei dati sulla percentuale dei votanti diffusi dal Viminale non era calcolata l´incidenza di chi ha votato fuori dei confini italiani e che abbassa il dato di circa il due per cento.
S´era capito dalla mattina, dalla prima rilevazione di mezzogiorno, confermata poi da quella delle 19, che la battaglia per impedire le centrali nucleari, per lasciar pubblica l´acqua, per garantire uguale per tutti l´obbligo di presentarsi ai processi, poteva risultare alla fine vincente. Eccolo il dato significativo delle 12. I due quesiti sull´acqua raggiungono l´11,64%; nucleare e legittimo impedimento si fermano all´11,63 per cento. Alle 19 l´andamento dimostra che chi è andato a votare ha espresso il suo parere su tutte e quattro le schede perché i quorum si mantengono omogenei. La privatizzazione tocca il 30,34%; le tariffe il 30,35%; il nucleare il 30,32%; il legittimo impedimento il 30,33 per cento.
Ma è sul dato delle 12, raffrontato con i precedenti referendum della storia italiana, che si allarga subito l´ottimismo. «È come la scalata del K2, ma già vedo la vetta» dice Antonio Di Pietro alle 12 e 19 minuti. Studiosi e sondaggisti, a qualsiasi scuola appartengano, sono convinti che se, per quell´ora, la percentuale di voto supera il 10% e quindi va oltre le fatidiche due cifre, allora il raggiungimento del quorum si può considerare ottenuto. Stima e calcoli fatti alla luce dei vecchi referendum. Ecco il divorzio, il 12 maggio del ´74. Consultazione storica. Alle 11 aveva votato il 17,9%, il giorno dopo alla chiusura dei seggi si toccò l´87,7 per cento. Andò lo stesso l´11 giugno del ´78, quando gli italiani si trovarono davanti i quesiti sull´ordine pubblico, la famosa legge Reale, e sul finanziamento pubblico dei partiti. Entrambi, alle 11, raggiunsero il 12,6%. E chiusero con l´81,2 per cento. Per questi tre quesiti l´alta percentuale registrata alle 12 coincise anche con il quorum finale più alto mai ottenuto da altri referendum.
La rilevazione di metà giornata è considerata talmente strategica che chi si slancia in possibili proiezioni, come il sito www.reset-Italia, valuta che se per le 12 un quesito ha raggiunto l´11% esso può toccare alla fine il 61%, o il 66% se ha toccato il 12. Con un´affluenza alle 19 del 28%, è prevedibile il 56%, e il 60% se alle 12 si è raggiunto il 30. Valutazioni che, se rispettate, consegnerebbero la vittoria a tutti e quattro i referendum. E comunque, quella percentuale dei votanti al 41%, secondo gli studiosi, invita gli indecisi a recarsi alle urne anche se in extremis.

Repubblica 13.6.11
"Senza garanzie il voto degli italiani all'estero"
Il costituzionalista Pace: ecco perché non possono essere conteggiati nel quorum
di Vladimiro Polchi


Sollevata per conto dell´Idv la legittimità costituzionale della legge Tremaglia

ROMA - «Il voto degli italiani all´estero non rispetta tutte le garanzie richieste dalla Costituzione, per questo non può concorrere al quorum». In attesa del risultato delle urne italiane, la battaglia referendaria rischia di spostarsi fuori dai confini nazionali. Sul tavolo, una pioggia di ricorsi: a deciderne l´esito ancora una volta sarà l´Ufficio centrale della Cassazione e in subordine la Consulta. In ballo ci sono i 3.299.905 voti degli elettori che vivono fuori dall´Italia.
In base alla legge Tremaglia (la 459 del 2001), infatti, «i cittadini italiani residenti all´estero votano per l´elezione delle Camere e per i referendum». Il punto è: il loro voto concorre o meno a definire il quorum? Se sì, il conto dei votanti a urne chiuse oggi dovrà raggiungere quota 25.209.345. La questione è però controversa: la decisione finale spetta all´Ufficio centrale per il referendum della Cassazione, che si riunirà il 16 giugno. A chiamarlo in causa sono i ricorsi dei comitati referendari, del Pd, dell´Idv, dei Verdi e dei Radicali: tutti uniti nel chiedere che gli italiani all´estero non vengano conteggiati ai fini del quorum.
«E´ evidente – scrive nell´istanza all´Ufficio centrale, Alessandro Pace, costituzionalista e rappresentate dell´Idv, quale promotore del referendum – che la disciplina del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all´estero è in contrasto con l´art. 3, 48 e 75 della Costituzione, essendo insufficiente a garantire la personalità, la libertà e la segretezza del voto e pertanto irrazionalmente include tra gli aventi diritto al voto referendario, rilevante per il conseguimento del quorum, i cittadini italiani residenti all´estero anche se non sia loro pienamente garantito il diritto di voto, né si ha certezza che i votanti abbiano tempestivamente riconsegnato la busta contenente la scheda alla competente sede consolare».
Secondo Pace, questo emerge innanzitutto, dall´articolo 19 della legge Tremaglia, «là dove è previsto che le rappresentanze diplomatiche italiane concludono intese in forma semplificata con i governi degli Stati esteri ove risiedono cittadini italiani e ciò allo scopo di garantire che l´esercizio del voto per corrispondenza si svolga "in condizioni di eguaglianza, di libertà e di segretezza". Non è un caso che l´articolo esplicitamente non si preoccupi di assicurare la personalità del voto. E ciò perché le forme nelle quali il voto è espresso e trasmesso ai vari consolati si prestano a tante e tali manipolazioni da rendere praticamente impossibile stabilire se il voto sia stato concretamente espresso dal cittadino elettore oppure da qualcun altro». Questo è il punto.
Non solo. «Proprio dai dati diffusi dal ministero degli Esteri emerge che, su circa 200 Stati, le rappresentanze diplomatiche italiane hanno concluso soltanto 144 intese. Ne deriva che l´elettorato residente in Paesi come Cuba, Giamaica, Taiwan, Libia, Iraq e altri con i quali non è stata stipulata alcuna intesa potrebbe influire inconsapevolmente sulle sorti delle consultazioni, dal momento che innalza comunque il quorum».
Per questo, Pace chiede alla Cassazione «di non considerare nel calcolo degli aventi diritto al voto i cittadini italiani residenti all´estero e in subordine, sospendere il giudizio e rimettere gli atti alla Consulta» sollevando la questione di legittimità costituzionale della legge Tremaglia.

l’Unità 13.6.11
Milano, una speranza anche per i rom
di Dijana Pavlovic


In vista del voto a Milano il centro destra aveva riaperto la questione rom con aspetti farseschi come la vicenda delle 25 case assegnate con accordo formale tra Regione, prefettura e as-sessore alle politiche sociali del Comune ai rom del campo di via Triboniano che doveva essere chiuso. In vista del voto, contraddicendo se stessi, Lega e Pdl insorgono: non una casa ai rom, presidi per le strade, benzina sul fuoco del disagio delle periferie e via così verso il voto.
Ilcalcoloelettoraledirecuperare voticoltivando il disagio, il sentimento xenofobo e la paura di fronte alla crisi economica e di valori ha avuto la gravissima conseguenza di legittimare le spinte razziste anziché contrastarle. Si pensa che il gioco vale la candele di un pugno di voti che consenta di vincere e che una volta al potere queste spinte si possano tenere sotto controllo. Ma non è così: questo calcolo di breve respiro fa finta di non accorgersi del veleno che diffonde nelle coscienze e nel senso comune.
Questo calcolo ha funzionato a lungo e non solo da noi.
In Francia, Sarkozy di fronte al declino della sua politica monarchica ha pensato bene di aprire la caccia al rom rumeno con una vera e propria espulsione su base etnica, sollevando le proteste del parlamento europeo e attirandosi persino le reprimenda degli Stati Uniti.
C’è in questo un utilizzo dell’ondata xenofoba che percorre l’Europa, un’ondata che ha lambito persino la civilissima Svezia, patria della tolleranza e dell’accoglienza, che è molto pericoloso perché la bestia razzista è più forte del padrone che crede di tenerla al guinzaglio e dimentica le tragiche esperienze del secolo scorso.
Ma da Milano è venuta una grande lezione: la campagna terroristica della destra, dai giudici brigatisti alla zingaropoli, non ha funzionato: un popolo civile e stanco di urla e intolleranza ha colorato di speranza la nostra città. Ora si tratta di rispondere a questa speranza. La giunta presentata dal sindaco Pisapia è segnata da una forte presenza dell’esperienza solidale, un’esperienza importante per una comunità divisa tra periferie desolate e centro ricco, tra fragilità sociali ed egoismo di caste.
Anche per i duemila rom di Milano questa è una grande occasione se la nuova amministrazione, chi la governa e chi porta nella nuova giunta la cultura solidale cattolica saprà per la prima volta interrompere la logica del ghetto e dell’assistenzialismo riconoscendo ai rom il diritto di cittadinanza e la dignità di chi è in grado di non delegare ad altri il proprio destino.

l’Unità 13.6.11
Ieri la giornata mondiale In Italia dal gennaio 2006 segnalati oltre 600 casi di sfruttamento
Il Telefono azzurro «Fenomeno particolarmente presente in situazioni di degrado familiare»
Lavoro minorile, una piaga che riguarda anche l’Italia
Si è celebrata ieri la giornata mondiale contro il lavoro minorile. In tutto il pianeta sono 215 milioni i bambini interessati: di questi 41 milioni sono femmine, 74 milioni maschi. Il servizio 114 del Telefono azzurro.
di Vincenzo Ricciarelli


Ancora oggi, nel 2011, il lavoro minorile è una piaga che colpisce bambini e adolescenti in tutto il mondo, Italia compresa. Molti di loro sono costretti a lavorare in condizioni disumane, pericolose non solo per il benessere psicologico, ma per la salute stessa. Secondo le stime dell'International labour organization (Ilo), dei 215 milioni di bambini coinvolti nel lavoro minorile, ben 115 milioni svolgono attività pericolose, soprattutto nell'agricoltura. Di questi 41 milioni sono femmine e 74 milioni maschi. Il dato è allarmante: ogni minuto un bambino nel mondo è vittima di un incidente, di una malattia o di un trauma psicologico causato dal lavoro. È puntando il dito su dati come questi che si concentra la campagna lanciata quest'anno dall'Ilo nella Giornata mondiale contro il lavoro minorile, che si è celebrata ieri, dal titolo “Attenzione! I bambini fanno lavori pericolosi-Fermiamo il lavoro minorile”.
Telefono Azzurro, che da anni realizza attività finalizzare a promuovere una maggiore conoscenza di questo fenomeno e ad assicurare che bambine e bambini siano protetti da qualsiasi forma di lavoro e sfruttamento, sollecita un piano di azione per il contrasto del avoro minorile e mette a disposizione della comunità gli strumenti di cui dispone. In particolare, invita a «segnalare ogni situazione di lavoro minorile al servizio 114-emergenza infanzia, gestito per conto del ministero per le Pari Opportunità, con il duplice obiettivo di tutelare bambini e adolescenti e rendere tempestiva l’azione delle direzioni provinciali del lavoro, sulla base delle segnalazioni pervenute». I dati del 114 emergenza infanzia evidenziano come il fenomeno sia significativamente presente anche in Italia. Dal gennaio 2006 ad aprile 2011, su un totale di circa 8700 casi il lavoro minorile ha riguardato il 7% della casistica (oltre 600 casi). La maggior parte delle situazioni riguardano l’accattonaggio, che spesso rasentano per le modalità e gli esiti concreti il lavoro schiavistico: si tratta per lo più di bambini di nazionalità straniera, cui nessuno provvede o che fin da piccoli sono costretti a lavorare per sostenere la famiglia. «Sebbene la rilevazione di questo fenomeno nel nostro Paese sia incompleta e poco aggiornata spiega il Telefono Azzurro è evidente come il lavoro e lo sfruttamento minorile si concentrino soprattutto nel Mezzogiorno e nel Nord-est. Il fenomeno è particolarmente presente nelle situazioni di degrado familiare e sociale, ove vi siano carenze infrastrutturali, maggiore criminalità organizzata, alti tassi di disoccupazione e povertà». «La povertà aumenta il rischio che i bambini siano coinvolti nel lavoro denuncia Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro La crisi economica, infatti, determina un aumento della dispersione scolastica e del lavoro minorile. Non dimentichiamo, poi, il fenomeno dei minori stranieri
non accompagnati, che negli ultimi mesi è aumentato in maniera esponenziale a causa della situazione del Nord Africa: questi minori sono quelli più esposti ad un alto rischio di sottrazione da parte di adulti per sfruttamento lavorativo e della prostituzione. Va, infine, citata la situazione dei tanti minori rom che fra il 2010 e 2011 hanno conosciuto un periodo di grave difficoltà, a causa di sgomberi realizzati senza predisporre misure alternative di accoglienza».
«Date le gravi conseguenze che queste situazioni possono avere sulla crescita di un bambino continua Caffo è essenziale dare maggiore visibilità a questo fenomeno, troppo spesso sottovalutato, ricordando alle istituzioni e a tutta la società civile le proprie responsabilità. Le azioni più urgenti riguardano il monitoraggio della dispersione scolastica e l'accesso all'istruzione, che deve essere garantito a tutti i bambini, italiani e stranieri. Ciò significa investire di più nella prevenzione di questi fenomeni, destinando maggiori risorse economiche. Dobbiamo però constatare come nell'ultimo anno le risorse destinate all'infanzia siano calate».

Repubblica 13.6.11
Se la Cina ha ancora bisogno di Mao
di Giampaolo Visetti


Folla di pellegrini nella casa di Shanghai dove il primo luglio 1921 nacque il Pcc
Banditi i film hollywoodiani per far posto nelle sale a "La fondazione di un partito"
Boom dei gadget rivoluzionari e nelle università gli iscritti salgono a 4,5 milioni

SHANGHAI. Il libro dell´anno in Cina si intitola «Storia del partito comunista cinese, volume II». In 1.074 pagine, per la prima volta e dopo dodici anni di correzioni, offre alle masse, gentilmente sollecitate ad acquistarlo nei posti di lavoro e nelle scuole, la visione ufficiale del loro passato tra il 1949 e il 1978. Il Grande Balzo in Avanti e la Rivoluzione culturale sono ridotti a un infortunio necessario, liquidati in poche righe tra le montagne di trionfi della patria. Il film dell´anno, nelle sale dal 15 giugno, si intitola invece «La fondazione di un partito». È costato otto milioni di euro e ben cento star del cinema cinese mettono in scena gli eventi straordinari che tra il 10 ottobre 1911 e l´1 luglio 1921 hanno portato dalla fine dell´Impero e della dinastia Qing alla nascita del Partito comunista cinese.
Sponsorizzato dall´americana General Motors, si annuncia come il kolossal più visto della storia. Venti dipartimenti di propaganda ogni giorno suggeriscono caldamente al popolo cinese l´opportunità di non perderlo. Da settimane, e per tre mesi, i blockbuster hollywodiani sono banditi dalla nazione e in tivù si possono presentare solo fiction rosse e show patriottici «che riflettano una vita positiva». Il brivido consisteva nella riabilitazione di Stato dell´attrice Tang Wei, epurata per tre anni dopo le scene di sesso in «Lussuria», vincitore del Leone d´Oro a Venezia. Fino a qualche giorno fa interpretava Tao Yi, il primo amore di Mao. È infine intervenuta la censura, svegliata dal nipote del Grande Timoniere, il generale Mao Xinyu, e dalle sempre più influenti «famiglie rosse».
Mentre il nuovo monumento a Confucio nottetempo veniva rimosso da piazza Tiananmen, Tang Wei è stata cancellata dal cast e le sue scene tagliate perché «il primo amore di Mao non può essere rappresentato da una sgualdrina». Il film, secondo i funzionari della propaganda, «deve spiegare che Mao e i suoi compagni, come gli attuali leader del partito, hanno sempre sacrificato tutto per il Paese». Distrarsi sarebbe un peccato.
Due anni fa l´evento dell´anno, assieme all´oceanico raduno militare dell´1 ottobre davanti alla Città Proibita, era stato il film «La fondazione di una Repubblica», uscito per festeggiare i sessant´anni della «Nuova Cina». Una vecchia barzelletta ricorda che i comunisti cinesi sono formidabili nel pianificare il futuro, ma è con il passato che hanno qualche problema. Deve essere per superare anche questa difficoltà che, di anniversario in anniversario e di successo in successo, un nuovo vento rosso soffia impetuoso su Pechino. Si celebrano i cent´anni dalla rivoluzione di Sun Yat-sen, da cui nasce la Repubblica, ma soprattutto i novant´anni del Partito comunista cinese. È il solo ad essere sopravvissuto al Novecento per prosperare in questo secolo e nell´ex Impero di Mezzo incarna il mistero politico da cui tutto discende. Le ricorrenze, per gli autoritarismi fondati sul proprio mito, sostituiscono le elezioni. Sono il solo rito della legittimazione e il mantra cinese da mesi organizza per il Partito un compleanno memorabile.
Il messaggio essenziale è che l´inarrestabile crescita della Cina, prossima prima potenza economica del pianeta, è il frutto del governo ininterrotto di un solo Partito, contro cui sono sconsigliate anche modeste perplessità. L´hardware del Paese più capitalista del mondo resta sovietico, ma a differenza dell´Urss il potere qui ha mantenuto la presa sui tre centri chiave del governo: i media, l´esercito e l´organizzazione sociale. Il capolavoro del Partito, più forte dell´icona ideologica di Mao Zedong e del miracolo finanziario di Deng Xiaoping, sono i funzionari: corrotti, assetati di lusso e di Occidente, ma depositari unici del know-how per dirigere un´immensa nazione che fuori dalle megalopoli resta in via di sviluppo. La classe media e i milioni di esclusi dalla crescita, oggi li odia. Nessun altro però sa fare il loro mestiere, garantire il potere dinastico ai discendenti delle famiglie rivoluzionarie per assicurare decenni di Pil al più 10%, e se il Partito cadesse sarebbe indispensabile rimetterlo subito in piedi.
È per evitare questa sciagura globale che la Cina mette in scena l´impressionante spettacolo del novantesimo anniversario del proprio Dio-Partito. Gli stranieri, preoccupati per la sicurezza di investimenti privati, delocalizzazioni ed espansione dei consumi, sintetizzano la liturgia comunista in un folcloristico «ritorno di Mao», o in una rassicurante «nostalgia di Mao». Nessun cinese in realtà, a partire dai famigliari sopravvissuti e dai rampanti eredi dei compagni epurati, vagheggia un recupero dell´eroe della Lunga Marcia, famoso perfino in patria per repressioni, stragi e carestie. Proiettare l´ombra del suo fantasma, come perpetuare la mummia esposta in piazza Tiananmen, resta piuttosto necessario per giustificare un regime che può regnare perché ha saputo rinnegare e riabilitare in tempo il suo profeta, evitando di chiarirne i crimini e di riflettere con spirito di verità sulla propria storia. Finezze dell´Oriente: mentre il politburo da ottobre ha segretamente deciso di «abbandonare per sempre il pensiero di Mao», la proganda ha ricevuto l´ordine di «trasformare il 90º del Partito nella sua estrema celebrazione». Senza Mao non c´è il Partito e senza il Partito non c´è la Cina ai piedi dei suoi sacerdoti discendenti.
Poco importa che alla prima riunione clandestina, nel 1921, il giovane delegato dello Hunan, partito senza un soldo dal villaggio contadino di Shaoshan, non ci fosse nemmeno perché smarrito per la strade della Shanghai coloniale. La casa dove un russo e un olandese hanno spiegato ai compagni cinesi come si fonda un partito comunista, prima di essere sgomberata da Chiang Kai-shek, per decenni è stata semiabbandonata nella vecchia Concessione francese. Dal 1976 non c´era mai nessuno, la stanza sacra cadeva a pezzi, mentre oggi la musica è cambiata. Una colonna di pellegrini, lunga mezzo chilometro, occupa i vicoli eleganti di Xintiandi in attesa di centrare uno dei sette obiettivi del nuovo turismo rosso 2011 organizzato dal governo. La culla politica di Mao e del Pcc affondano tra grattacieli e centri commerciali di lusso. La folla tocca i sacri seggioloni dei tredici fondatori del comunismo cinese e poi si tuffa nello shopping delle griffe in cui si specchia il capitalismo dell´Occidente. È l´ultima tappa del viaggio patriottico attraverso i nuovi musei del nazionalismo maoista: dalle grotte di Yan´an alla casa natale di Shaoshan, dalla montagna rivoluzionaria di Jinggang alla città di Zunyi, dove Mao fu eletto leader nel 1935, dai luoghi della resistenza di Nanchang al mausoleo e al nuovo museo nazionale di Pechino.
Milioni di cinesi, sospesi tra la scoperta del business turistico e il dovere della venerazione ideologica, celebrano la nascita del loro Partito-Stato-Vate vagando ordinatamente con i cappellini rossi in testa, guidati dai megafoni tra i sacrari della dittatura e i prodotti della propaganda. È una rieducazione collettiva che, nella comicità dei suoi paradossi, ricorda certi eccessi della Rivoluzione culturale. L´epicentro è a Chongqing, nuova metropoli industriale dell´Ovest. La stella nascente della sinistra restauratrice, il sindaco Bo Xilai, ha lanciato da qui la corsa per i sette posti di comando nel prossimo Comitato centrale del Partito, liberi dall´autunno 2012. Figlio del veterano Bo Yibo, vittima di Mao, il giovane Xilai ha diffuso una inarrestabile febbre neo-maoista: obbligo di cantare vecchie canzoni rosse, lezioni settimanali di comunismo, weekend nei campi per tutti i funzionari, sconti pena ai detenuti disposti a farsi rieducare, olimpiadi rosse con gare rivoluzionarie di assalto al fortino e soccorso al moribondo, arresti di internauti dissidenti, messa all´indice e processo pubblico per intellettuali critici, come l´economista Mao Yushi e lo scrittore Xin Ziling. Nei ristoranti del Paese pochi osano più rifiutare l´indigeribile maiale alla Mao e i ragazzi che sognano gli Usa svuotano i negozi di berretti, divise, borse e gavette rivoluzionarie, verdi e con la stella rossa al centro. Il Partito, 82 milioni di iscritti ufficiali, dal 2009 vive così una tardiva primavera: da 3 milioni, le nuove adesioni nelle università l´anno scorso sono schizzate a 3,8 milioni, per superare i 4,5 nel 2011. Ascensore sociale e ufficio di collocamento per neolaureati senza lavoro, ma non solo.
Dietro l´anniversario di una delle sue molte «Fondazioni», la Cina sa che sul «ritorno di Mao» i suoi nuovi leader si giocano potere e futuro. L´ennesimo paradosso: dall´anno prossimo, usciti di scena il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao, presentati come riformatori denghiani, andranno al governo i «principini rossi» maoisti, prima generazione di figli degli epurati di Mao: Xi Jinping, figlio di Xi Zhongxun, Li Keqiang, Bo Xilai, i generali Liu Yuan, figlio di Liu Shaoqi, e lo stesso Mao Xiniyu, riemerso dalla disgrazia. I cinesi sono costretti a fingere di esaltarsi per antiche ricorrenze proletarie, altrimenti ormai ignorate, mentre i loro capi riesumano lo spettro di Mao per contendersi i dividendi del capitale. Moderati riformatori contro falchi conservatori, avversari nel metodo ma inseparabili compagni nell´obiettivo di consolidare la presa sul Partito e sulla società. La Cina non è la Corea del Nord, l´eccentricità del comunismo ereditario, complice il successo economico, si trasforma in esportazione di autoritarismo. Per questo il mondo assiste allo spettacolare show del 90º del Partito, semplificato nella narrazione pubblica della «nostalgia di Mao», trattenendo il fiato. Dalla sua conclusione e dal suo successo, tra pochi mesi, dipende il destino dei mercati e delle democrazie dell´Occidente.
Ma ognuno sente che il ritorno del fantasma di Mao, come un moribondo esposto in un asilo, può sostenere Pechino al massimo ancora per poco. Consuma in realtà il tramonto di un modello vecchio viziato dall´ingiustizia, nei fatti fino ad oggi incapace di generare, in ogni campo, una proposta contemporanea autenticamente innovativa. Sarà per tale speranza che i cinesi, mentre a casa aggirano clandestinamente la censura di internet per seguire le retate contro i dissidenti, nelle piazze si prestano a cantare «l´Oriente è rosso, il Sole sorge, urrà al Grande salvatore del popolo». Sanno che ogni compleanno, storicamente problematico, serve ad avvicinare, armoniosamente, un funerale.

La Stampa 13.6.11
Cina, rivolta contro la diga dei record
Siccità, terremoti, frane: lo sbarramento delle Tre Gole sotto accusa E anche il Comitato centrale fa autocritica: il gigantismo è rischioso
di Ilaria Maria Sala


a diga delle Tre Gole, il più grande progetto idroelettrico del mondo che ha sbarrato il corso dell’imponente Yangtze, è stato uno dei più controversi fin dalla sua progettazione. Tutto ciò che riguarda la diga, infatti, è enorme ed eccessivo: 1.4 milioni le persone spostate per lasciare spazio Lall’imponente bacino che contiene in media 22 miliardi di metri cubi d’acqua (39 miliardi di metri cubi la capienza massima) e che ha seppellito più di mille villaggi e piccole città, nonché campagne, siti archeologici e foreste. Un muro di 181 metri, 16 milioni di tonnellate di cemento, 26 gigantesche turbine, e una lunghezza di 2309 metri. E un costo (contestato) di 26 miliardi di dollari.
Gli oppositori del progetto faraonico, tanto in Cina che altrove, hanno cercato per decenni di mostrare che sia la sofferenza e le difficoltà imposte agli sfollati, che le incognite ecologiche e geologiche che comportava lo sbarrare un fiume così poderoso e creare un bacino di queste dimensioni erano eccessive, ma non hanno mai ricevuto ascolto. Per le autorità centrali, era in gioco l’intera credibilità tecnologica della Cina, e le Cassandre delle Tre Gole erano considerate dei guastafeste catrastofisti e ignoranti. Dai Qing, una delle più note intellettuali cinesi, che per anni si è battuta affinché la diga non venisse completata, ha pagato con l’imprigionamento e la sorveglianza poliziesca la sua opposizione al progetto.
Nulla è servito, e nel 2009 l’intero complesso legato alla diga è stato completato, e la Cina ha potuto vantarsi di aver saputo portare a termine un progetto ingegneristico di dimensioni davvero uniche al mondo.
Ora, per la prima volta, ecco che i più alti livelli politici del Paese si sono ritrovati ad ammettere in un documento che non lascia spazio ad ambiguità che la diga delle Tre Gole presenta dei «problemi urgenti» di natura ecologica, geologica, umana e finanziaria, ai quali vanno trovate al più presto delle soluzioni – per quanto il Consiglio di Stato cinese abbia anche specificato che il progetto «apporta enormi benefici complessivi», fra cui quello di aver generato 84 miliardi di kilowatt di elettricità lo scorso anno, e quello di aver (probabilmente) aiutato a ridurre le periodiche, catastrofiche inondazioni estive nel delta dello Yangtze.
Fra i rischi riconosciuti dal governo in precedenza c’era già quello che il peso della massa d’acqua nel bacino delle Tre Gole sia tale da aver aumentato il rischio di frane e terremoti: malgrado quest’ammissione, però, le autorità cinesi hanno dichiarato lo scorso anno che la diga non avrebbe nulla a che vedere con il terremoto del Sichuan del 2008, che ha portato alla morte di più di 87.000 persone.
Il rapporto prodotto ora dal Consiglio di Stato, e approvato dallo stesso Primo Ministro cinese Wen Jiabao, per la prima volta riconosce che la diga ha anche avuto un impatto negativo sui trasporti fluviali e sull’approvvigionamento d’acqua per le regioni che si trovano nella seconda metà del fiume, e ha promesso che verrà istituito un sistema di allarme per le catastrofi, e che verranno aumentati i fondi per la protezione ambientale, al fine di mitigare i problemi dati dall’inquinamento «di qui al 2020».
Il documento fornito dal Consiglio di Stato non si sofferma però sui dettagli. Ma è noto che uno dei problemi maggiori è quello dell’inquinamento che si concentra nelle acque del bacino, delle frane e dell’accumularsi di sedimenti che stanno portando a far prendere in considerazione che un numero ancora maggiore di persone (si parla di altre centinaia di migliaia) dovranno essere spostate per poter costruire barriere ancora più imponenti, e sottrarre gli abitanti alle aree più a rischio di smottamenti e terremoti.
Il documento presentato dal Consiglio di Stato non è stato un fulmine a ciel sereno: le critiche, sotterranee, circolano da almeno quattro anni. Chi volesse capire in che direzione si muovono le inquietudini ufficiali, però, rimarrebbe deluso. Un comunicato dell’agenzia di stampa cinese Xinhua, diffuso ieri, per esempio, cita Sha Xianhua, vice-manager dell’azienda che gestisce le Tre Gole, che comunica come i problemi finanziari individuati da un audit governativo sarebbero trentuno, dieci dei quali già risolti. Quali fossero, e quali siano, però, non è stato rivelato.
Nel frattempo, molti cambiamenti climatici e legati alla quantità delle precipitazioni nell’area dello Yangtze sono stati attribuiti da molti esperti critici della diga proprio all’enormità di tutto quello che riguarda le Tre Gole. Le ammissioni governative, del resto, sono state rese pubbliche in un momento in cui la regione dell’Hubei, dove si trovano le Tre Gole, è affetta da una siccità talmente forte da aver già compromesso l’approvvigionamento di acqua potabile per ben trecentomila persone, e lasciato i campi privi di irrigazione, con profonde crepe in un terreno assetato. Lunghi segmenti del fiume sono stati chiusi alla navigazione, per la scarsità d’acqua, e il livello dell’acqua nella diga è sceso al di sotto dei 156 metri ottimali per la produzione di energia elettrica.
Dai Qing, in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa Reuters, ha dichiarato che l’ammissione da parte del governo è «probabilmente solo un tentativo di evadere la responsabilità», e che «ormai il problema non può più essere risolto, nessun quantitativo di denaro potrà modificare le cose: i problemi legati alla diga sono della massima gravità».

Repubblica 13.6.11
Parla María Kodama, vedova del grande scrittore "Amava questa città anche quando non poteva vederla"
A spasso col Minotauro il labirinto del poeta ora rinasce a Venezia
di Guido Andruetto


Da domani alla Fondazione Cini il giardino composto da 3000 piante di bosso

VENEZIA. Perdersi e ritrovarsi cambiati. Ci si muove con passo lieve e incerto nel nuovo "Giardino-Labirinto" della Fondazione Cini, sull´Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, dove domani si inaugura un insolito e spiazzante percorso di visita ispirato da Jorge Luís Borges e dal suo racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano, nel venticinquennale della sua morte. Secondo al mondo dopo quello creato nel 2003 in Argentina a Los Alamos, nella provincia di Mendoza, da un progetto risalente ai primi anni Ottanta dell´architetto inglese Randoll Coate, il quale si avvalse anche del contributo creativo dello stesso romanziere, il "Labirinto Borges" è stato pensato come uno spazio contemplativo in cui il visitatore può immergersi e smarrirsi tra le siepi di tremila piante di bosso, che visivamente riproducono le pagine di un libro aperto, rievocando non solo alcuni fra i temi più ricorrenti nelle opere borgesiane, come il labirinto o l´infinito spaziale e temporale, ma anche tutti i simboli più cari al poeta di Buenos Aires, dal bastone agli specchi, dalla clessidra fino alle tigri. E tutto questo si materializza magicamente sotto le finestre della biblioteca che la Fondazione Cini ospita con i suoi duemila volumi nella manica lunga restaurata da De Lucchi, tra i chiostri storici di Palladio e dei Buora. Proprio qui, nell´unico posto dove potrebbe davvero vivere Il guardiano dei libri raccontato da Borges, la vedova dello scrittore María Kodama, direttrice della Fundación Internacional Jorge Luis Borges, interverrà domani nella serata che precede l´apertura del giardino segreto al pubblico.
Nei giorni bui della cecità del marito, è stata lei la luce dei suoi occhi. Una moglie amorevole e una figura di donna dall´intelligenza vorace, con cui Borges, che si spense a Ginevra il 14 giugno di venticinque anni fa, ha condiviso momenti di rara intensità viaggiando molto alla ricerca del bello. L´onda emozionale che cavalcarono insieme li portò più volte a Venezia, complice anche la viscerale passione di Borges per il tema enigmatico del labirinto, onnipresente nelle sue opere, e quel groviglio di canali e calli deve essersi rivelato al suo cuore come una città straordinariamente onirica. E proprio su un´assolata terrazza che si affaccia sulla Riva degli Schiavoni, si emoziona nuovamente la Kodama, parlando del nuovo Giardino: «Ci sono voluti molti anni di paziente lavoro per riuscire a creare questo "Labirinto Borges" a Venezia - racconta entusiasta - finalmente vedo coronato il mio sogno di fondarne uno in Europa. E il fatto che questo accada a Venezia mi riempie ancora di più il cuore di gioia, perché Jorge l´ha sempre amata profondamente, anche quando non aveva più il dono della vista. Era ipnotizzato dal silenzio delle calli, dal senso di pace che gli procuravano».
La sua morte lasciò in lei un vuoto divorante che ancora non si è colmato, ma la ferma tranquillità con cui affronta oggi l´argomento, lascia trasparire una grande forza interiore. Si irrigidisce, quasi a difendersi, quando le chiediamo quale direzione abbia preso la sua vita dopo quella perdita. «È una questione dolorosa - risponde la Kodama - sento che lui non è mai morto. Non c´è il ricordo, perché c´è ancora la sua presenza che mi sostiene. In questi venticinque anni la mia vita ha seguito una sola direzione: Borges. È stato l´amore a guidarmi».
La voce della vedova di Borges riecheggerà anche domani sera, al chiaro di luna nel Giardino nella Fondazione Cini, contornata dagli ambienti musicali "disegnati" da Pedro Memmelsdorf: «Reciterò una delle ultime poesie che Jorge mi ha dedicato, La luna. È probabile che mi considerasse lunatica di carattere, ma quel paragone nasceva credo dalla calma e dal silenzio che trovava con me». Anche il Giardino-Labirinto di San Giorgio, non a caso, invita il visitatore a cercare risposte in profondità, dentro di sé, attraverso un percorso che ognuno può compiere nella più totale libertà, provando l´ebbrezza di perdersi, o l´ansia di uscirne. Per volere della Kodama, poi, un corrimano in alabastro su cui sarà interamente trascritto in braille El jardín de senderos que se bifurcan, consentirà ai non vedenti di trovare facilmente la via verso l´uscita, risolvendo per primi il mistero.

La Stampa 13.6.11
L’Homo Sapiens era più robusto e aveva un cervello del 10% più grande
Con l’evoluzione l’uomo si è ristretto
di Andrea Malaguti


E’ diminuita la massa corporea, ma anche il cervello si è ristretto
10 per cento in meno
In 10 mila anni le dimensioni del cervello umano si sono notevolmente ridotte, passando dai 1500 centimetri cubici a 1350 cc
75 l’attuale peso medio
Nello stesso arco temporale la massa fisica si è ridotta passando da una media di 80-90 chili ad una di 70-80

Involuzione. La specie umana ha camminato all’indietro trasformando il corpo in un involucro più piccolo e minuto. L’uomo di Cro-Magnon, 35 mila anni fa, era più possente di qualunque decatleta moderno. E così più in generale l’Homo Sapiens. Poi ci siamo ristretti. È successo tutto negli ultimi 10 mila anni. Anche il cervello si è ridotto del 10%. La stessa percentuale dello scheletro e dei muscoli. Fine di un mito popolare. Non è vero che di secolo in secolo siamo migliorati. Eravamo più forti e resistenti nel paleolitico.
La professoressa Marta Lahr, condirettore del Cambridge University’s Leverhulme Centre for Human Evolutionary Studies, si rigira tra le mani i resti di un teschio. Ha una voce metallica, che sembra arrivare da un’altra persona.
Biologa e antropologa, si tocca inconsciamente i capelli mentre spiega con la stessa distanza di un orologiaio svedese il senso della ricerca presentata alla Royal Society. «Gli esseri umani erano più alti e muscolosi. Lo studio dei fossili non è omogeneo, ma dimostra qual è stato il nostro cammino nel corso di oltre 190 mila anni. Il cambiamento è stato notevole. Non siamo cresciuti, ci siamo rimpiccioliti».
Le indagini sistematiche compiute sui resti umani ritrovati in Africa, Europa e Asia rivelano il percorso di restringimento, come se a un certo punto la natura avesse deciso che per sopravvivere era necessaria una struttura più agile e leggera. «I nostri antenati hanno crani con caratteristiche precise». I fossili africani coincidono con quelli israeliani o asiatici. La struttura di fondo è analoga, anche se alcune caratteristiche possono cambiare. «Ci sono etiopi con la bocca molto grande, per esempio, e popolazioni con la fronte decisamente larga e increspature dovute forse a un atteggiamento facciale perennemente accigliato - continua la studiosa -. Ma tutti erano più grandi noi, lo testimoniano anche le armi, gli strumenti musicali, gli oggetti di uso comune. Il cambiamento sostanziale è avvenuto negli ultimi 10 mila anni. La domanda banale da porsi è: perché? C’è anche una risposta abbastanza semplice, ma forse non definitiva: l’arrivo dell’agricoltura».
Basta caccia. L’uomo cambia strada. Scopre i campi e nuove forme di produzione. Una vera rivoluzione culturale. Che però non risolve completamente il quesito. Perché, avendo organizzato un sistema che consente di trovare il cibo con maggiore facilità, la specie si riduce fisicamente e psichicamente? Non è il cibo a renderci più forti e più grossi?
Amanda Mummert, antropologa della Emory University di Atlanta, ha appena pubblicato uno studio, riportato dal «Sunday Times», in cui sottolinea come le ricerche condotte su 21 organizzazioni sociali che hanno abbandonato la caccia per l’agricoltura dimostrano che l’altezza media è diminuita col cambiamento di stile di vita. Mentre sono aumentate le patologie. «L’impatto dell’agricoltura, accompagnato da un aumento della densità della popolazione, ha prodotto una maggiore diffusione delle malattie infettive e una diminuzione della statura - spiega l’antropologa -. Dal Medioriente all’Asia, dall’Africa all’Europa». Secondo la Mummert il fenomeno è legato a una mancanza di micronutrienti presenti nella cacciagione e assenti in agricoltura. «Anche se le calorie sono state abbondanti, vitamine e minerali decisivi per la crescita sono diventati insufficienti».
Problema risolto? In verità no. Chris Stringer, professore del Natural History Museum di Londra, ritiene che la risposta non sia completa. «Molte popolazioni hanno dovuto sviluppare una maggiore muscolatura laterale proprio per esigenze legate alla caccia. L’agricoltura non spiega tutto. Magari la vita sedentaria».
Resta poi la questione del cervello. La professoressa Lahr si lega i capelli neri dietro la nuca. «Abbiamo perso una porzione di materia cerebrale pari a una pallina da tennis. Forse dipende dal fatto che il cervello assorbe circa un quarto dell’energia prodotta dal corpo. Calando le dimensioni fisiche calano anche quelle cerebrali». Forse. Il collega Robert Foyer le appoggia una mano sulla spalla. «Siamo pezzi di pongo. La nostra forma e la nostra dimensione cambiano continuamente. Non è meraviglioso?».

Repubblica 13.6.11
Dalla casa al primo lavoro guida per fare fortuna all´estero
Si scelgono i Paesi con una buona qualità di vita, ma l´importante è cosa si ha da offrire
Le istruzioni per adeguare patente e codice fiscale I consigli i colloqui di lavoro
di Marina Cavallieri


Il visto, la lingua, l´ufficio di collocamento. La casa da trovare e il curriculum da tradurre. Il nuovo codice fiscale e altre bollette da pagare. È lunga la lista degli ostacoli da affrontare ma cambiare si può. Ci vuole grinta e capacità di adattamento. Non solo fortuna ma pianificazione. Lo spiega il manuale per cervelli in fuga, la guida per tutti quelli che vogliono costruirsi un futuro sì, ma altrove.
È in libreria in questi giorni "È facile cambiare vita se sai come farlo - Guida pratica alla fuga per sognatori e squattrinati", di Aldo Mencaraglia, edito dalla Bur, un prontuario per l´emigrazione ai tempi del web, consigli per la sopravvivenza in caso di trasferimento all´estero. Ogni anno 60 mila giovani lasciano l´Italia, il 70% è laureato e i laureati sono aumentati del 40% in sette anni. Nei primi dieci mesi del 2010 si sono trasferiti 65 mila ragazzi under 30. Sono gli emigranti del Terzo Millennio, istruiti ma senza lavoro, abbastanza giovani ma già delusi. Vanno in Olanda, Francia e Germania, sbarcano in Australia, si spingono ai confini estremi di nuovi mondi, ultima tendenza la Nuova Zelanda. Armati di un titolo di studio e di curiosità, reduci da un corso d´inglese e da uno stage, non sono disposti a tutto ma vogliono voltare pagina.
«Ci sono sempre più italiani che vogliono partire, in genere hanno tra i 25 e i 35 anni. Il motivo è quasi sempre lo stesso: trovare un lavoro che sia retribuito il giusto. L´emigrazione di oggi è diversa da quella del dopoguerra, chi parte adesso è più istruito ma la sua istruzione non dà frutti», spiega Aldo Mencaraglia. «I Paesi più ricercati sono quelli del Nord Europa, il Canada, l´Australia, sono in caduta la Spagna e l´Irlanda dopo la crisi economica. Si scelgono i Paesi che nelle classifiche internazionali risultano con una buona qualità della vita. Le nazioni migliori sono quelle dove hai qualcosa da offrire dal punto di vista lavorativo».
Ma come si programma la fuga perfetta? «La prima cosa è analizzare il mercato del lavoro per sapere quali sono le competenze più richieste nel paese dove si andrà. Poi bisogna valutare la facilità o meno ad ottenere il visto, meglio l´Australia degli Stati Uniti, più facile il nord Europa». Altro scoglio da superare è la lingua: «Indispensabile saperne una, soprattutto l´inglese. Ci sono corsi molto low cost, su YouTube ce ne sono gratis, sul sito livemocha. com si può scegliere tra 35 lingue con lezioni on line, la Bbc carica sui podcast cicli di lezioni completi». Emigrare è un´impresa anche rischiosa, che va affrontata con entusiasmo ma senza buttarsi alla cieca nella mischia. «Bisogna pensare quando si arriva ad adeguare la licenza di guida e ad avere la versione locale del codice fiscale. Ci sono Stati con siti governativi che danno istruzioni su come affrontare le pratiche burocratiche, dal cambio d´indirizzo al pagamento delle multe: è così in Australia, Canada, Gran Bretagna, Nuova Zelanda».
È necessario valutare i costi economici. Non solo il viaggio ma anche il primo periodo di permanenza quando manca tutto, dalle lenzuola al ferro da stiro, per l´autore uno strumento di sopravvivenza indispensabile per presentarsi sempre in ordine. L´autore consiglia anche di usare con intelligenza i social network, quindi grande attenzione alle foto che escono su Facebook perché potrebbero capitare sotto lo sguardo dei futuri datori di lavoro. È bene anche creare un profilo in inglese su LinkedIn.
Sarà perché il 44% dei giovani in Italia è precario, sarà perché gli stipendi italiani dei neolaureati sono tra i più bassi in Europa, ma le fughe all´estero continuano. Secondo un´indagine Bachelor del 2011, l´80% dei neolaureati andrebbe via almeno per un anno, il 57% per tre anni. Molte partenze più che una decisione definitiva sono un tentativo. Magari si comincia a conoscere un altro paese da studenti con Erasmus. Poi si compra un biglietto di solo andata. E gli emigranti del nuovo secolo non sempre tornano. «Ci vogliono un paio d´anni per scoprire se si ha voglia di restare oppure o no. Difficilmente chi supera questa fase torna indietro».

Repubblica 13.6.11
Gli studiosi sono divisi sull´autenticità del "Sant´Agostino"
Caravaggio, è giallo sul quadro ritrovato
di Dario Pappalardo


C´è chi l´ha visto solo in foto, è scettico, preferisce non sbilanciarsi. C´è chi è possibilista e c´è chi dice no. Insomma, il Sant´Agostino inedito, presentato ieri da Silvia Danesi Squarzina come un Caravaggio autentico, divide gli storici dell´arte. Mina Gregori, presidente della Fondazione Longhi e massima esperta di Michelangelo Merisi, è cauta: «Non ho studiato abbastanza l´opera. Le foto non mi bastano, devo guardare com´è il dipinto. Per ora è a Ottawa, quando tornerà magari... I documenti presentati però sono molto interessanti».
Veniamo ai documenti, allora: un´etichetta certifica che il quadro, prima di essere venduto in Spagna, era, come altri Caravaggio certi, nella collezione Giustiniani. Un inventario del 1638 cita infatti un Sant´Agostino del maestro. È troppo poco per Tomaso Montanari, professore di storia dell´arte alla Federico II di Napoli e autore del pamphlet A cosa serve Michelangelo? (Einaudi): «Se è un Caravaggio, questo...», dice. «La pennellata e i colori non ne hanno la forza, la cattiveria. Bisogna essere cauti. Longhi diceva che nessuno storcimento documentario potrà mettere in discussione il primo documento, che è l´opera stessa. Insomma, non si attribuisce senza leggere lo stile. E poi, in quello stesso inventario del 1638, ci sono quadri di altri, come Ribera, erroneamente attribuiti a Caravaggio, la cui figura già a trent´anni dalla morte risultava sfocata».
Francesca Cappelletti ha collaborato al catalogo della mostra di Ottawa dove il Sant´Agostino verrà esposto da giovedì 16 e ha pubblicato per Electa una delle ultime monografie dedicate a Caravaggio: «Ho visto il quadro a Londra: certo non è all´altezza di opere come la Giuditta o il San Matteo, ma può essere inserito nella fase classicista del pittore, quando le sue figure erano meno tormentate. Va detto che è stato molto rovinato dai restauri e che, certo, non stravolge il catalogo del pittore che ha fatto di meglio altrove». Perché su una cosa sola sembrano tutti d´accordo: Caravaggio o no, non si tratta di un capolavoro.

Eugenio Scalfari questa sera ospite di "Otto e mezzo" su La7