L’inedito di Franco Volpi censurato dal figliastro
E alla fine dico: «Good-bye Heidegger»
di Franco Volpi
Riportiamo qui di seguito parte di una lettera di Franco Volpi, morto prematuramente martedì scorso, ad Armando Massarenti - nel quadro di uno scambio in occasione della pubblicazione del volume di scritti heideggeriani che Massarenti aveva curato per il Sole 24 Ore - in cui lamentava la censura degli eredi sulla introduzione ai Beiträge di Heidegger (Contributi alla filosofia, traduzione di Franco Volpi e Alessandro Iadicicco, Adelphi 2007):
«Caro Massarenti, (...) Al mio ritorno [da Santiago del Cile] ho parecchie cose da raccontarti: la mia introduzione ai Beiträge (che stanno uscendo da Adelphi) è stata considerata troppo critica dal figliastro di Heidegger e censurata. È ancora in corso una trattativa per tentare di salvare capra e cavoli (dunque ti pregherei di mantenere ancora assoluto riserbo sulla questione), ma davvero mi viene voglia di seguire l'esempio di Maurizio Ferraris e scrivere un libello: Good-bye Heidegger. A Santiago del Cile, dove vado per una conferenza di chiusura al congresso di fenomenologia ed ermeneutica, volevo parlare di Heidegger e Wittgenstein, ma ho deciso cambiare tema e ho dato come nuovo titolo proprio questo: "Good-bye Heidegger. La mia introduzione censurata ai Beiträge"».
Era l’11 ottobre 2007. Qualche tempo più tardi, il 18 novembre, dopo ulteriori scambi, Franco Volpi spedì a Massarenti il brano più significativo che era stato censurato, rimasto finora inedito. Lo proponiamo qui per la prima volta. È un paragrafo dell’introduzione ai Contributi alla filosofia intitolato «Naufrago nel mare dell'Essere».
I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell'Essere, il suo pensiero va a fondo»
L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall'Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell'ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell'esaurimento, l'Essere - quest'ospite solitamente fugace dei nostri pensieri - rimane per il grande Heidegger l'ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest'unica meta, l'Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose - l'Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo - soffiando sul mito greco-germanico dell'originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l'aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell'etimologia si rivela un abuso (...). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l'uomo funge da pastore dell'Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell'ultimo Heidegger, bensì l'ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell'Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.
il manifesto 1.4.11
Mario Trevi interprete di Jung. Nel simbolo l’unica logica della psiche
di Paulo Barone
Con la scomparsa di Mario Trevi il tempo inghiotte uno degli ultimi rappresentanti della cultura psicoanalitica ancora in grado di lasciarne trasparire il pensiero dei personaggi fondatori, di illustrarne con dovizia i temi senza alcun tecnicismo, di seguirne le peripezie dottrinarie con crescente autorevolezza, sino a tratteggiarne - soprattutto negli anni della maturità - una versione originale (una sorta di scabro ologramma) dalle molte punte problematiche. Trevi raggiunse questo risultato lavorando ai fianchi l'immenso giacimento degli scritti di Jung - della cui corrente qui in Italia divenne presto un caposcuola riconosciuto. Con pazienza e costanza lo tradusse, lo introdusse, lo scompose, lo ritagliò, ne mise in risalto le stratificazioni e le contraddizioni, ne espunse le parti giudicate ormai sterili e incartapecorite, al fine di estrarne un concentrato che potesse essere ancora elettrico e vitale ( operazione che gli attirò molte critiche). E tuttavia questo metodico lavoro di riduzione non deve trarre in inganno: non sfociò mai nell'angusto recinto di un sapere specialistico dove riservarsi il ruolo di esperto - cosa possibile - perché fu molto più di ciò che sembra. In quel setaccio a imbuto, infatti, Trevi fece confluire, oltre all'opera di Jung, gran parte della sua ricca e variegata esperienza. Così facendo è evidente che, da un lato, il distillato ottenuto sia stato di una densità speciale - poche «gocce» del quale sprigionano una molteplicità di passaggi e connessioni. Ma è altrettanto chiaro, d'altro canto, che Trevi applicò questa arte del sottrarre e del ridurre innanzitutto a se stesso, trovandovi la propria, più congeniale dimensione. Chi lo ha conosciuto di persona ricorderà la sua fondamentale ritrosìa caratteriale, per nulla mitigata, ma addirittura esaltata dalla sua, altrettanto proverbiale, cerimoniosità. La sua immagine di Bernhard. Nato ad Ancona nel 1924 da una famiglia per metà ebrea che, dopo la morte del padre ingegnere, divenne povera anche in seguito alle leggi razziali, Trevi si laureò a Bologna in filosofia con una tesi su Berdjaev. Si era iscritto al partito comunista, ma ne fuoriuscì nel 1948, insofferente alla coercizione ideologica che vi regnava. Colto quant'altri mai, era un lettore vorace, curioso, tanto da studiare, almeno per due anni, anche la matematica. Nel frattempo si trasferì a Roma, dove, tra lavori vari e l'insegnamento nei licei, entrò in analisi con Ernst Bernhard, il pediatra ebreo berlinese amico-allievo di Jung (ma in precedenza anche dei freudiani Fenichel e Rado) in fuga dalla persecuzione nazista, che proprio a Roma diede origine al primo nucleo di analisti junghiani. Bernhard era una personalità complessa, indipendente, eterodossa, piuttosto misteriosa e non priva di elementi contraddittori (era, tra l'altro, un esperto di chiromanzia e di astrologia, dell'I Ching ). Si dice che nessuno l'abbia conosciuto per intero, poiché ogni allievo, a seconda della sua inclinazione, ne ricavava una particolare, determinata immagine. Quella che se ne fece Trevi era emblematica per il modo con cui arrivò a metterla a punto, in un gioco di avvicinamento e di scarto, di «adesione e distanza» (come recita il titolo di un suo libro). Dal blocco ricco e composito della figura di Bernhard, Trevi sfilò e valorizzò il lato irrazionalistico (la cultura religiosa, biblica e chassidica, la mistica cristiana, Scheler e Buber, Lutero e Luria, per esempio), ma solo per farlo 'chimicamente' reagire contro l'asfittico storicismo accademico dell'Italia di allora. Di quello stesso blocco, però, seppe valorizzare allo stesso tempo anche un lato freudiano, 'materialista', immanente che pure era presente in lui. Un lato che risentiva della lezione di Spinoza e di Goethe, di Nietzsche e di Jaspers, ma anche di un certo Marx, per mostrare innanzitutto i limiti dell'antropologia, ancora celatamente e ingenuamente naturalistica, di Jung, certi suoi orizzonti metafisici 'ristretti' a dispetto delle dichiarazioni di intenti. Il procedimento seguito da Trevi sfruttava insomma il contesto implicito, ma non come semplice sfondo. Utilizzava elementi precedentemente 'disaggregati' e (apparentemente) contrastanti di Bernhard per 'disaggregare' - ora con l'uno, ora con l'altro - altrettanti blocchi, quello della cultura dominante e quello di Jung, che altrimenti avrebbero conservato una funzione puramente decorativa o celebrativa. L'immagine di Bernhard che alla fine emerge dalla ricomposizione dei pezzi selezionati è vibrante, liberatoria, senza essere né del tutto fedele, né esaustiva. Al tempo stesso è un'immagine conturbante, perché non permette accasamenti, identificazioni, rispecchiamenti. I punti che la tengono assieme non sono definitivi, ma transitori. Sono «nodi che non legano» - per usare un'espressione di Simone Weil. È questo, del resto, lo stile di Trevi: fatto di una attenzione certosina, di un periodare terso e sorvegliato, di una scrittura sempre volutamente piana e intellegibile con cui dà conto del reperimento dei singoli pezzi, che nascondono a stento lo smottamento sistematico cui il blocco di partenza è sottoposto, la precarietà dell'equilibrio raggiunto. Anche da questo si intuisce lo junghiano davvero sui generis che Trevi è stato. Certamente ha seguito Jung nel suo dissidio con Freud riguardo alla pretesa di quest'ultimo di ricondurre l'insieme multiforme dei fenomeni psichici a un unico significato nascosto sotto l'ombrello di una teoria esclusiva. Ma non perché di significati ce ne siano invece molti e 'originari' - come riteneva lo Jung degli archetipi e dell'inconscio collettivo (in questo più freudiano di Freud). Muovendo, piuttosto, contro Jung un altro Jung, minoritario e meno appariscente, (in un modo analogo al Lacan contro Lacan di Miller) e portandone alle estreme conseguenze l'idea secondo cui ogni verità psicologica non può prescindere dal - ed è sempre relativa e limitata al - soggetto che la esprime, Trevi svuota l'inconscio di qualunque residuo sostanzialistico. La vita psichica è senza «contenuti» di sorta e, come tale, letteralmente «inspiegabile». Ciò che la organizza - allusivamente, elusivamente, al massimo ipoteticamente - è la logica componente del simbolo, che riunisce gli opposti polari (a cominciare da coscienza e inconscio), avvolgendo, complicando, alimentando i percorsi necessariamente uni-direzionali del pensiero razionale e i comportamenti unilaterali dell'Io. Ciò che la regola è pertanto un solo e unico «universale»: l'incertezza costitutiva del dialogo, la tensione costante di una «dialettica» aperta e inesauribile, un lavoro di integrazione e differenziazione (detto processo di
individuazione) in linea di principio infinito. I rischi di un dispotico monologo. Naturalmente ci sarebbe da chiedersi fino a che punto una simile impostazione possa sostenersi della semplice quota viva di Jung, senza mai porsi il problema di come stoccare i residui che provengono dalla sua gigantesca frazione morta (e in quanto tale, da «morta», dotata persino di un fascino supplementare, inaspettato). Oppure se la singolarità di un individuo psichico sia davvero garantita da nozioni come «infinità» o «inesauribilità» e non piuttosto dalla loro versione fallita di «finitezza» e «esaurimento». Se «dialogo» non sia un termine logorato e fuorviante. A Trevi obiezioni del genere parevano rinviabili, non urgenti. Lui paventava soprattutto il rischio secolare del mono-logo dogmatico e dispotico. Il suo autentico luogo d'elezione fu così quello del «tra» (del metaxù, termine non a caso scelto per la rivista che fondò nel 1986). Da quella minima, esitante, ma anche micidiale postazione si augurò che alla scuola e all'epoca del sospetto potessero finalmente far seguito quelle più miti e davvero innovative della diffidenza, se è vero che, come Trevi - seguendo Tommaseo - amava ripetere, si sospetta di una donna che ci tradisce, mentre si diffida di una che potrebbe tradirci. Per quanto infinitesima, sarà difficile per chiunque, d'ora in poi, pensare di ignorare quella piccola postazione incandescente, che soltanto il suo inquilino naturale - tra i più squisiti - ha potuto abitare senza bruciarsi.
Un filosofo eterodosso impegnato a indagare il policentrismo dell'Io
Stefano Catucci
Con la consueta levità Mario Trevi amava definire le sue ricerche come esercizi pratici, puramente empirici, privi di ambizione filosofica e da valutare solo in rapporto alla loro eventuale efficacia operativa. Difficilmente, però, una filosofia che volesse studiare oggi i percorsi dell'individuazione, della costituzione del sé e della relazione intersoggettiva potrebbe evitare il confronto con il lavoro compiuto da Trevi. È probabile che la sua ritrosìa nascondesse, da questo punto di vista, un'esigenza di libertà e di affrancamento dai lacci tipici della cultura d'accademia: non lo si poteva inquadrare in una corrente o in un indirizzo di pensiero, così come non lo si poteva rinchiudere nell'appartenenza a una scuola, neppure a quella junghiana. Mario Trevi è stato un filosofo eterodosso, autonomo, capace di attingere a una varietà di fonti che corrispondevano, per lui, allo spontaneo policentrismo dell'Io. Trovavano spazio nel suo bagaglio autori di ogni orientamento che allontanassero dall'immagine razionalista di una coscienza vigile, trasparente, sicura di sé e del proprio essere al punto da potersi proporre come fondazione dell'unità del sapere. Guardava a un panorama composito nel quale l'«idea russa» di Nikolaj Berdjaev compariva accanto al Lévinas di Totalità e infinito, lo Spinoza dell'Etica veniva posto in dialogo con il concetto di Rizoma nelle opere di Deleuze e Guattari, il soggetto debole delle filosofie del postmoderno veniva esposto al ritorno di Seneca e dello stoicismo nei lavori dell'ultimo Foucault. La composizione di tutti questi stimoli non si è mai tradotta, però, in una professione di eclettismo. Trevi, al contrario, ha impiegato ogni frammento concettuale come uno strumento utile a vedere meglio nell'orizzonte dell'individualità, ovvero in ciò che per lui rappresentava il motivo di interesse principale tanto negli studi teorici quanto nel quotidiano ascolto dei suoi pazienti. Il «riconoscimento del valore irriducibile dell'esistenza», ha scritto, è l'elemento «più tipicamente occidentale dell'anima umana» ed è ciò che scava la maggiore differenza con la cultura orientale, la cui volontà di trascendere l'individuo nello «spirito universale» ci sgomenta e ci attrae proprio per la sua carica di estraneità fondamentale. L'attenzione che ha dedicato all'Ombra, concetto chiave ma sommamente ambivalente del pensiero junghiano, rivela d'altra parte come Trevi abbia scelto di percorrere proprio una via rimasta ai margini dell'anima occidentale per estendere il contributo della psicologia analitica ben al di là dei suoi confini disciplinari e dargli la forma di un'intuizione filosofica. Questa, per Trevi, non rinuncia a universalizzarsi e non rinuncia al compito della comprensione, ma non si lascia neppure stilizzare nella cornice chiusa di una teoria. Il problema dell'«origine dell'Ombra» coincideva, per lui, con quello della «configurazione generale della psiche», per cui avanzare ipotesi sul senso di quel lato scuro significa passare per un sentiero di rovi ma in direzione, pur sempre, di ciò che da secoli rappresenta l'ossessione principale, e forse nevrotica, del pensiero occidentale. Lungo una linea che permetteva di tesaurizzare tanto il pensiero Lévinas quanto La grammatologia di Derrida, Trevi ha tematizzato l'apertura al contingente, all'accidentalità dell'esistenza e alla sua incontrollabile eventualità. Il concetto di Ombra arricchiva questa apertura di quelle componenti «inferiori» della personalità, relegate nell'inconscio o formativamente trasformate dall'attività simbolica, dalle quali derivava un'immagine della psiche complessa, stratificata. Bachelard ne aveva tentato una volta la descrizione ricorrendo a una pagina nella quale Jung paragona la struttura dell'anima a quella di un edificio storico. «Il piano superiore è stato costruito nel XIX secolo - scriveva Jung - il pianterreno è del XVI e un esame più minuzioso della costruzione mostra che essa è stata innalzata su una torre del II secolo», mentre «nella cantina scopriamo fondazioni romane» e sotto ancora «una grotta colmata, sul cui suolo si scoprono utensili di selce e, nello strato inferiore, resti di fauna glaciale». Trevi ha cercato di depurare immagini come queste dai loro residui di storicismo, nei quali poteva ancora scorgersi all'opera una logica della causa e dell'effetto, ma non ha mai perso di vista la «configurazione generale» della psiche facendola emergere dalla composizione dei dettagli in un disegno che, come i mosaici più preziosi, può essere visto nel suo insieme solo collocandosi a una giusta distanza. È in fondo l'unica consolazione che abbiamo, oggi, nel momento in cui è stato tracciato il punto da cui Mario Trevi comincia ad allontanarsi da noi.
Manifesto del 1/4/2011
Un testo dell'autore di "Come un uomo sulla terra"
il Fatto 7.4.11
Li avete uccisi voi Ecco il “fora dai ball”
Sparati come proiettili dall’ex amico Gheddafi
di Andrea Segre
Provo ad ascoltare il silenzio. Cerco un perché, un dove, un come. Sento il vibrare doloroso del non poter dire. Non oso più credere al senso delle parole. Il rumore del mare è più forte. È immenso, infinito, non lascia più alcuna via di scampo all’evidenza del tragico. Che senso ha oggi, di fronte a questa nuova annunciata tragedia, ricordare di averlo previsto? Tutto. In tanti avevamo detto tutto. Raccontato, mostrato , ricordato. Centinaia di volte. Ma perché? Perché, dico io, abbiamo voluto credere che il potere disumano dei “fora dai ball” davvero potesse ascoltare? Perché abbiamo avuto fiducia nella loro assenza di umanità? Non dovevamo: abbiamo solo alimentato illusioni. E oggi il silenzio profondo del mare è più forte. Immenso.
Ma in questo silenzio rimane ancora un’ultima parola da alzare alta, vibrante e quasi immobile, come la morte: li avete uccisi voi. Non c’è alcun dubbio. I profughi eritrei, etiopi, sudanesi, ivoriani partiti da Zuwhara e morti affondati nel più grande cimitero della post-modernità, il Mediterraneo, sono esattamente quelli che il governo italiano ha respinto dal maggio 2009, impedendo loro di avere protezione umanitaria e consegnandoli alle carceri e alle violenze del regime libico.
ERA DAL 2006 che l’Italia aveva notizie chiare e provate di violenze disumane perpetrate dalla polizia libica ai danni dei migranti: deportati in container, detenuti, violentati, privati di qualsiasi diritto e identità. Ma a nulla sono servite quelle notizie per fermare gli accordi con Gheddafi. Lo scopo era uno solo: “Fora dai ball”. In centinaia continuavano a cercare la fuga via mare, incontrando spesso la libertà, ma molte volte anche la morte. Rischiavano la morte pur di fuggire: e l’Italia invece di salvarli, li ha definitivamente consegnati al destino libico. In quello stesso mare-cimitero sono iniziati i respingimenti: “State fuggendo dall’inferno rischiando la vita? Noi vi rispediamo all’inferno: fora dai ball”. Dal maggio 2009 al febbraio 2011 il loro calvario in Libia è diventato assoluto e senza via di scampo. Come corpi di animali in un Paese governato da un regime. Poi nel febbraio 2011 quel regime è stato finalmente attaccato dal suo popolo ed è diventato improvvisamente nemico dell’Italia; in questa nuova situazione quei corpi animali si sono trovati in completa balia di una situazione di confusione bellica, minacciati come “mercenari” e privi di alcuna via di fuga. Gli altri stranieri (i lavoratori egiziani, tunisini, cinesi e altri) sono fuggiti dalle frontiere via terra: molti di loro non potevano o perché non ne avevano i mezzi o perché rischiavano la vita ad uscire allo scoperto. Poche settimane fa al telefono dalla Libia una donna eritrea ce l’aveva raccontato chiaramente : “Qui rischiamo la vita; dobbiamo stare in casa e non abbiamo nemmeno il latte per i nostri bambini. Aiutateci”. L’Italia doveva farlo: la sua responsabilità storica e politica era evidente. Ha cominciato a farlo portando con due voli c130 poco più di 100 eritrei. Ma l’ha fatto in silenzio, per non contrastare le voci potenti dei “fora dai ball”. E presto ha smesso di farlo. Li ha lasciati lì. E ha iniziato a bombardare.
SOTTO i bombardamenti il regime di Gheddafi ha iniziato a sfaldarsi e ha deciso di contrattaccare. Usando anche i corpi dei profughi come proiettili umani. Ha deciso di lasciarli passare. Via mare. Piccole, vecchie barche hanno iniziato a partire dalle spiagge libiche. E in mezzo al Mediterraneo hanno incontrato il loro destino: il mare, l’immenso silenzioso mare. Li ha uccisi il mare? No. Li hanno uccisi i signori “fora dai ball” e il loro ex amico dittatore. Li hanno uccisi loro. Ma con loro, purtroppo, anche la più tragica condizione umana a cui è ridotta la nostra civiltà: esser convinti che la protezione del nostro privilegio sia più importante della vita umana. A qualsiasi costo, “fora dai ball” e dentro al mare. Sia chiaro una volta per tutte: se la nostra civiltà non sarà capace di liberarsi da questa condizione e di riscattare la sua dignità, non potrà che continuare a produrre poteri xenofobi e tragedie umane. E ora per favore, silenzio. Proviamo ad ascoltarlo. Cerchiamo almeno in questo silenzio la forza di ricominciare a essere civili.
La Stampa 7.4.11
Immigrazione tragedia senza fine
Quella fossa comune sotto il Canale di Sicilia
L’ultimo tratto della traversata è il cimitero per migliaia di migranti
16.000 Dal 1988, secondo l’osservatorio «Fortress Europe», quasi 16mila tra uomini, donne e bambini sono morti cercando nel Mediterraneo di raggiungere l’Europa
di Francesco La Licata
Chi arriva dal mare aggrappato ad una delle carrette incredibilmente galleggianti, intravede la sagoma di Lampedusa e si illude di averla sfangata. Anche ingannato dalla «fortuna» di essere riuscito a vincere la fame, la sete, le ustioni inflitte dal sole del Sahara e la lunga permanenza nelle «stazioni di sosta» del Nord Africa, in attesa dell’improbabile «comandante» che ha promesso il biglietto di sola andata verso l’Europa. Una promessa che spesso costa al passeggero quanto tutto ciò che possiede.
E invece è proprio quel tratto di mare, l’ultimo prima della terraferma, che ingoia il sogno dei migranti disperati. Un gorgo scuro che da più di quindici anni si nutre, come il mostro delle favole crudeli, di corpi già debilitati da una vita infame. Il Canale di Sicilia: cimitero comune di anonime vittime sacrificate sull’altare delle «diversità incolmabili» generate dalle sperequazioni economiche, politiche e sociali. Ogni volta assistiamo alla rappresentazione della morte collettiva e alla conseguente indignazione.
A Lampedusa nessuno crede più che il naufragio del giorno prima possa essere considerato «l’ultima tragedia». Ormai tutti sanno che ce ne saranno ancora altri, che i commercianti di uomini non esiteranno a caricare barche destinate al macero, all’ultimo viaggio, con una «merce» umana esposta a un incertissimo destino. E’ accaduto pure di mettere in mare barconi senza marinai, una bussola a qualcuno dei passeggeri e il consiglio fugace: «Questa è la rotta, seguitela».
C’è stato un momento - un decennio fa - che l’Isola riusciva ancora a inorridire. Il racconto dei pescatori, che tornavano con le reti piene di pesci pescati insieme coi resti di una umanità condannata alla morte anonima, si snodava quasi sottovoce. Per non creare psicosi collettive, come una certa riluttanza a consumare pesce locale. Eppure c’è chi ricorda ancora la descrizione di corpi mutilati e gettati nuovamente in mare per sfuggire all’ottusa burocrazia poliziesca, capace di infliggere un supplemento di «costo» ai pescatori/ soccorritori che - fedeli alla legge della solidarietà del mare - raccoglievano morti e vivi.
Secondo un calcolo di «Fortress Europe», sarebbero 4249, uomini, donne, bambini, giovani e anziani, i corpi inghiottiti dal Canale di Sicilia, lungo la rotta fra Tunisia, Libia, Egitto e Malta, che quasi mai interviene per soccorrere. Solo una sparuto numero di questi ha trovato ospitalità nel «cimitero degli sconosciuti»: una manciata di terra, una cassa di legno grezzo, un numero impresso su un foglio bianco e - quando va bene - un fiore di plastica che presto sarà divorato dalla salsedine.
E il resto? Quelli partiti dalla Somalia nel 2003 e mai arrivati? E la barca partita da Chott Meriem, in Tunisia? Eppure col telefonino in tanti avevano chiamato i parenti più fortunati per dire che «ce l’avevano fatta», cioè si erano imbarcati. E tutti quelli avventuratisi tra febbraio e marzo? Ne mancano più di 600 all’appello e per lenire l’enorme ferita vengono destinati nellimbo dei dispersi. Cioè non sono né vivi né morti. Aiuta la statistica rifugiarsi nell’ambiguità del termine. E’ dalla fine degli Anni Novanta che si accumulano dispersi su dispersi e ogni volta si ricorre al rito del lavaggio della coscienza con l’ammissione collettiva che «La tragedia poteva essere evitata».
Lampedusa si sta abituando a tutto, divisa tra la paura dell’esodo biblico che potrebbe invaderla completamente e il senso di pietà verso uomini, donne e bambini che si sottopongono ad una prova estrema nella speranza di farcela. C’è esperienza più crudele di dover gettare in mare i corpi di compagni di viaggio uccisi dalla fame e dalla sete? Tutti ricordano ancora lo scempio del 2003, a Lampedusa. Un barcone recuperato miracolosamente consegna quindici migranti ridotti allo stremo da una traversata durata 18 giorni. Ma nel fondo dello scafo i reperti di una strage lenta: una borsa, una falsa griffe, foto di bambini sorridenti, documenti senza più i titolari, una boccetta di profumo. Più di sessanta mancano all’appello, altri 13 sono a bordo, morti. «Li abbiamo tenuti sopra di noi, per proteggerci dal freddo», ammettono i superstiti. Ma, fra tanto orrore, uno squarcio di luce quando qualcosa si muove in mezzo al mucchio di cadaveri. Come Lazzaro, emerge Fatima che sembra un fantasma. Ce la farà miracolosamente e oggi vive a Palermo. Oggi c’è pocospazio per il lieto fine: le ha provate tutte, questa umanità dolente. Persino le donne e i bambini si sono aggrappati alle reti delle tonnare per essere soccorsi. Sono arrivati genitori senza figli e bambini senza genitori, affidati al mare e alla umana pietà. Ma è veramente salvo chi sfugge alla fossa comune del Canale?
La Stampa 7.4.11
La legge della disperazione
di Ferdinando Camon
Ora sappiamo la «verità» sull’immigrazione. Credevamo di saperla anche prima, ma era una bugia.
Finora la verità erano le migliaia di immigrati che s’accumulavano a Lampedusa, tanti da superare gli abitanti dell’isola, il loro bisogno di tutto («sono miserabili»), le loro pretese («sono intrattabili»), le loro rampicate su per le reti di recinzione, fino a scavalcarle e scappare per i campi, vanamente inseguiti dalla polizia a piedi o a cavallo, come nei film tra California e Messico.
Quella non era la verità, era un’apparenza. Perché faceva credere a noi e a tutta l’Europa che arrivasse un’umanità pericolosa e non integrabile, una minaccia per il decoro del nostro benessere. Scattava l’istinto di tenerli alla larga. Era l’istinto di conservazione, tanto più forte quanto più alto è il benessere da conservare. Questa strage di circa duecento uomini, donne e bambini, annegati in un crudele gioco di su e giù sulle onde di tre metri, ci butta in faccia una verità brutale che i nostri cervelli e i nostri nervi, intorpiditi dalla civiltà borghese nella quale siamo nati e nella quale moriremo, non ci permette più di cogliere. Ci metteremo giorni a capirla un po’, a ogni tg capiremo qualcosa di più. Non capiremo mai tutto, perché i tg evitano di spaventarci, di farci del male. E la strage fa male. Solo sapere che è avvenuta e che può ripetersi turba la nostra vita, non ci permette più di vivere come prima. Ora sappiamo che non scappano da una vita misera. Scappano dalla morte, e attraversano la morte pur di scappare.
Se la vis a tergo fosse un miglioramento della vita, non potrebbe spingerli per giorni e notti, farli navigare senza direzione, mal guidati da qualche rudimentale strumento che fa della loro navigazione un lungo tuffo nel buio fra acqua e cielo. Spesso il motore si rompe, manca l’acqua, e loro si mettono a pregare, singolarmente o in coro. È la «morte lenta», che può durare anche giorni e giorni. Fino a diventare indefinibile: in qualche salvataggio si scopriva che a bordo c’era qualcuno già morto da tempo, che i vivi non avevano le forze per sollevarlo oltre la sponda. Altre volte dai racconti si poteva dedurre che qualcuno era stato buttato fuori della barca senza la certezza che fosse morto.
La strage di ieri entra invece nella «morte rapida», resa più crudele dal fatto che è avvenuta in prossimità della salvezza. Han visto arrivare nel buio, ombra nell’ombra, la nave che li soccorreva, si sono spaventati, nel panico si sono spostati in massa dentro l’imbarcazione capovolgendola. Era la salvezza, è diventata la morte. Ci sono transiti dalla vita alla morte che sono governati senza pietà. La «morte rapida» è sempre uno scontro con la natura, gli uomini usano le loro forze e la natura le sue: gli uomini perdono tutti, ma per primi perdono i più deboli, i bambini e le donne. Così qui è successo che alcuni salvati han visto morire la moglie e i figli. Dobbiamo fare ancora un altro passo, se vogliamo capire fino in fondo cos’è la migrazione: le disgrazie come questa (annegare in massa) tutti i migranti sperano che non avvengano, ma un pezzettino del loro cervello, un pezzettino inascoltato e nascosto, sa sempre che non sono impossibili. Si parte con quella spia accesa nel cervello. Con quei barconi stravecchi, tra quelle masse umane vaneggianti e inesperte, noi pensavamo che le loro partenze notturne, via una barca sotto l’altra, fossero una sfida a noi, alla polizia, alla finanza, una questione di ordine pubblico.
Per loro sono una sfida al destino, una lotta tra la vita e la morte. Se uno ce la fa, salva se stesso e coloro che da lui verranno. Abbiamo visto in passato barconi sfracellarsi sugli scogli, otto-dieci fortunati scendevano, e raccontavano dei compagni morti nella traversata: ma quelli che scendevano alzavano due dita in segno di vittoria. L’Italia e l’Europa ci mettono tutta la forza delle leggi e dei trattati per impedirgli di venire qui. Ma loro ci mettono la forza della disperazione per venire. Lo scontro è fra queste due forze. Ora lo sappiamo.
l’Unità 7.4.11
ANPI NAZIONALE
Sull’apologia del fascismo
A proposito del Disegno di Legge costituzionale, depositato alla Segreteria di Palazzo Madama da cinque senatori della destra, volto ad abolire la XII Disposizione transitoria della Costituzione Repubblicana che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del partito fascista”, l’ANPI (Associazione nazionale Partigiani d’Italia) denuncia questo proposito odioso e provocatorio.
Si tratta dell’ennesima aggressione alla Costituzione, la più dissennata tentata dalla destra e dal suo governo. Sul fascismo e sui suoi misfatti di dittatura, miseria, guerra, occupazione straniera del Paese, torture, crimini e stragi, pende implacabile e incancellabile da ogni revisionismo il giudizio della storia. Sull’Antifascismo, sulla Resistenza e sulla Liberazione fondano la Costituzione, la Repubblica e la Democrazia riconquistata! Contro l’esecrabile tentativo di riaprire la porta alla costituzione del partito fascista e di abolire il reato di apologia del fascismo, l’ANPI chiede la mobilitazione unitaria in tutto il Paese dei partigiani, degli antifascisti e delle loro associazioni insieme alle forze della politica, della cultura, dei sindacati e dell’associazionismo democratico.
il Fatto 7.4.11
Nostalgia nera in Parlamento
Fascisti sì, e non per caso
Chi rimpiange davvero il partito del Duce
di Chiara Paolin
L’hanno fatta grossa, e adesso tentano di riderci su. "Ma scusate un attimo: è stato Fini a proporre tante volte di abolire il reato di apologia del fascismo. Lo so bene, perché c'ero anch'io con lui. E almeno fino al 1994 se ne parlava tranquillamente: il fascismo è storia passata, possiamo metterla da parte". Parola di Achille Totaro, senatore Pdl di area An, cofirmatario del disegno di legge per la “Abrogazione della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione" presentato lo scorso 29 marzo e subito diventato un caso politico. Ma perché metter mano alla norma sul fascismo proprio ora? "Mah, era una proposta tra le tante, una di quelle che capita di firmare quando un collega prepara un documento e ti chiede di condividerlo spiega ancora Totaro pigiando forte sulle aspirate da toscanaccio -. Nessuno immaginava si scatenasse tutto 'sto putiferio, dico la verità".
EPPURE un po' d'attenzione ci voleva nel maneggiare la materia ideata da Cristiano de Eccher, primo firmatario della norma revisionista e personaggio su cui si sono allungate pesanti le ombre del passato più tragico della destra italiana. Nota la sua vicinanza al terrorista nero Franco Freda, inquietante l'ipotesi formulata dal giudice Guido Salvini su un suo ruolo d'appoggio nella strage di Piazza Fontana, certa la condanna a due anni di carcere per attività eversive. Storie vecchie, e ora il senatore De Eccher non ha voglia di parlare con nessuno.
DOPO UNA NOTA con-giunta con i colleghi di firma, in cui spiega che nessuno di loro “ha mai pensato di avviare una battaglia di tipo ideologico fuori dal tempo e dalla storia”, ha deciso di tacere. Come mai? “Io ci ho parlato, ma non mi faccia dire nulla” ridacchia Francesco Bevilacqua, altro senatore che non vuole più sentir parlare di apologia del fascismo nella Costituzione italiana. “Siamo di fronte a una sceneggiata bella e buona insiste Bevilacqua -, ma forse un errore l’abbiamo fatto: siamo tutti ex An ad aver firmato, e allora può sembrare che il tema interessi solo a noi. Garantisco che non è così, potevamo sicuramente raccogliere adesioni tra altri colleghi di provenienza diversa dalla nostra. E precisiamo: a firmare siamo stati ex An, ma sia di area Alemanno che Gasparri. Quindi non era un fatto politico, ecco”. Ma lo è diventato. Perché i firmatari si sono divisi in due gruppetti distinti: da una parte i cinque del Pdl e dall’altra un Fli, ovvero il lucano Egidio Digilio che subito dopo le prime accese reazioni ha deciso di ritirare la sua firma. “Lo hanno costretto, o comunque gli hanno fatto capire che era meglio cambiare idea infilza Totaro -. Questo sì che è un atteggiamento fascista, e per questo io preferisco stare nel Pdl”. Partito che però non ha gradito particolarmente l’iniziativa: il presidente del Senato Schifani si è dichiarato esterrefatto dopo aver letto il testo della proposta, e anche a livello locale i guai non mancano. Giorgio Bornacin, coordinatore del Pdl a Genova, è stato duramente attaccato. “Deve dimettersi immediatamente” ha detto la consigliera regionale Raffaella Della Bianca. “No, il tema è attuale e importante” ha replicato Gianni Plinio, altro collega Pdl. La verità è che il senatore Bornacin è un uomo dai grandi slanci emotivi. Due anni fa, quando il ministro della Difesa La Russa era in visita tra i vicoli della sua città e un giovane contestatore gli si era avvicinato un po’ troppo, il Bornacin è scattato di destro: “Mi scuso per il pugno, forse ho esagerato disse allora -, ma ho avuto paura per il ministro e per i poliziotti. Ero stato avvertito che c’era un pazzo in giro con un coltello, il pugno l’ho dato perché ho visto quell’uomo rovistare tra le gambe dei poliziotti. E comunque, non mi dimetto”.
COERENZA vuole che nemmeno stavolta voglia farsi da parte, anche perché il periodo è fecondo: Bornacin ha appena lanciato l’Apired, l’Associazione Parlamentare di Amicizia Italia – Repubblica Dominicana cui hanno già aderito “una trentina di parlamentari di varie formazioni politiche”, come ha informato un puntuale comunicato stampa. E certo occuparsi dei rapporti italo-domenicani sarà un buon modo per lenire le urticanti polemiche di questi giorni. Perché, a dir la verità, ora i prodi sostenitori del disegno in questione sarebbero pronti a ritirarlo pur di calmare gli animi. Ma proprio adesso che il responsabile Scilipoti fa tornare d’attualità il manifesto dei valori fascisti? “Bisogna coinvolgere Di Pietro a questo punto chiude il cerchio Bevilacqua -. Perché qui ormai è tutto da ridere. Ma se qualcuno pensa di isolare noi ex An dentro Il Pdl ha sbagliato i conti”. In Abruzzo, dove è stato eletto il quinto firmatario Fabrizio Di Stefano, non c’è molta voglia di scherzare. Maurizio Acerbo, consigliere regionale Prc, torna alla storia ed è preoccupato: “Il fatto che il senatore Di Stefano si dichiari “né antifascista, né fascista” non è una dichiarazione di agnosticismo ma di istintiva distanza dai valori democratici della Resistenza e dell’antifascismo. La XII disposizione non è una norma anacronistica e il fascismo non è un “fenomeno storico circoscritto” visto che vi sono in tutta Europa gruppi e movimenti neonazisti dentro un contesto di crisi economica che alimenta violenze xenofobe e razzismo”.
La Stampa 7.4.11
Scilicopia e Scilincolla
di Massimo Gramellini
Il programma dei Responsabili è copiato di sana pianta dal manifesto degli intellettuali fascisti del 1925. Incredibile. Non tanto per il riferimento ai fascisti, ma agli intellettuali. Uno non fatica a immaginarsi la scena: Scilipoti alla scrivania con la matita in bocca e gli occhi al soffitto. Responsabilità nazionale è… è… è… Ah, saperlo. All’improvviso, la luce: perché non inserire una parola-chiave su Internet, come uno studente in cerca di ispirazione? «Manifesto», per esempio. Orrore! Sullo schermo è comparso il barbone di Marx. Un momento… più in basso affiora il filosofo Gentile col manifesto degli intellettuali fascisti da lui ispirato. Leggiamo un po’… «Il fascismo è il movimento recente e antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della nazione». Scilipoti ha un sussulto: parla di me! Chi è più recente e antico della nostra simpatica combriccola di voltagabbana? Chi più intimamente connesso alla storia della nazione? Il leader recente e antico pigia il tasto «copia e incolla» e il più è fatto. Giusto un paio di ritocchi. «Responsabilità Nazionale» al posto di «Fascismo», che come soggetto è un po’ datato. Anche «intimamente» va sostituito perché fa venire in mente il bunga bunga. Meglio «internamente»: orribile e casto.
Tra una scopiazzata e un’incollata si approda al gran finale. Gentile aveva scritto: «La patria è concezione austera della vita». Scilipoti lo personalizza con la sua griffe inimitabile: «Responsabilità è concezione austera della vita». Ci piace sperare che a quel punto gli sia almeno venuto da ridere.
il Fatto 7.4.11
1° Maggio. La Cgil festeggia senza Cisl e Uil
di Salvatore Cannavò
La Cgil di Bologna "strappa" con Cisl e Uil e decide di tenere la manifestazione del 1° maggio da sola. Allo stesso tempo il suo segretario nazionale, Susanna Camusso, propone a quegli stessi sindacati di riprendere un rapporto unitario e viene gelata dal segretario Cisl, Raffaele Bonanni che risponde con un "no comment". Le relazioni sindacali non sono mai state così in crisi: divise su Pomigliano e Mirafiori, Cgil, Cisl e Uil alternano tentativi di riappacificazione a veri e propri scontri. A Bologna la decisione è giunta a sorpresa. “Non ci sono le condizioni per una gestione tradizionale del primo maggio” ha spiegato il segretario della Camera del Lavoro, Danilo Gruppi. A pesare sui rapporti unitari, la firma dell'accordo con la Fiera di Bologna da parte di Filcams-Cgil e Usb senza Cisl e Uil che a loro volta hanno siglato il contratto nazionale del Commercio escludendo la Cgil. Dal canto suo, Bonanni, pur bollando come "estremistica" la decisione bolognese l'ha voluta circoscrivere a livello locale confermando che la manifestazione nazionale – prevista a Marsala in onore del 150° dell'unità d'Italia – sarà unitaria e non sarà inficiata da fatti come quello consumato sotto le Due Torri. Ma, se l'esponente della sinistra Cgil, Giorgio Cremaschi, chiede “un 1° maggio separato ovunque”, Enrico Panini, segretario organizzativo della Cgil, specifica che la volontà unitaria di Corso Italia non impedirà di "celebrare la festa del lavoro in modo autonomo dove non dovessero verificarsi le condizioni". Toni particolarmente duri che però non evitano uno strano paradosso : proprio dove le distanze sono maggiori, alla Fiat e quindi a Torino, il 1° maggio sarà unitario. In Piemonte, poi, le distanze sono accentuate dalla vicenda ex Bertone: la Fiat, nuova proprietaria, propone agli oltre 600 dipendenti di firmare un contratto stile “Fabbrica Italia”. Ieri, in rappresentanza di 400 lavoratori, una delegazione ha consegnato alla Fiat una lettera che chiede a Marchionne di andare in fabbrica e discutere con gli operai ma l'azienda ha ribadito che andrà avanti sulla propria linea. La Fiom si fa forte del suo 63% mentre Uilm e Fismic raccolgono le firme su una proposta in sintonia con il Lingotto. La Cisl sta nel mezzo. Di unità sindacale non si vede traccia.
l’Unità 7.4.11Alla fine si è votato in Giunta con una sorpresa: non c’è di mezzo Berlusconi, e i lumbard disertano
L’opposizione compatta non “salva” il senatore indagato. Che dice: «Non scappo dai processi»
Pdl e Lega si spaccano
Sì all’arresto per Tedesco
Due no che diventano un sì. La giunta del Senato boccia la relazione Pdl che diceva no all’arresto di Alberto Tedesco. Il Pd marcia compatto. Decisiva l’assenza dei due leghisti. Ora il passaggio chiave in Aula
di Andrea Carugati
Due no che somigliano a un sì. Il Senato boccia la relazione Pdl che diceva no all’arresto dell’ex assessore alla Sanità della giunta pugliese. La giunta per le Immunità, presieduta da Marco Follini (Pd), ha votato a sorpresa ieri in tarda serata. Decisiva la non partecipazione al voto dei due commissari della Lega Nord, che hanno preso le distanze dagli 8 colleghi del Pdl (più un finiano), che hanno votato a favore della relazione del berlusconiano Alberto Balboni. Pd, Idv e Udv hanno votato compattamente per il no alla relazione (10 voti in tutto), astenuto il presidente Follini. Che succede ora? Decisivo sarà il passaggio in Aula, che dovrebbe tenersi, salvo slittamenti, prima di Pasqua. Su Tedesco pende una richiesta di arresto da parte del gip di Bari per corruzione, concussione e abuso d’ufficio, nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità pugliese. La relazione Balboni prevedeva il no al carcere non per il fumus persecutionis, che non viene ravvisato, ma per la minore gravità del reato e soprattutto per impedire la mutilazione dell’assemblea di palazzo Madama.
Il Pd ha votato compatto, riuscendo così a neutralizzare il conflitto tra le due linee che si erano manifestate nei giorni scorsi: quella di chi, come l’ex magistrato Felice Casson, ha annunciato il suo sì all’arresto. E chi, al contrario, ritiene le motivazioni giuridiche esposte da Balboni troppo fragili ma propende comunque per una posizione garantista. «Nonostante le tante profezie, il Pd ha retto benissimo e non si è diviso mentre la maggioranza si è spaccata», commenta a caldo Casson.
Il segretario del Pd Bersani aveva lasciato ai senatori libertà di coscienza, così come la capogruppo Anna Finocchiaro, che ieri ha dichiarato: «I componenti della Giunta appartenenti al Pd non intendono in nessun modo sostituirsi ai giudici e hanno un grande rispetto per il lavoro della magistratura».
Tedesco ieri è stato nuovamente audito dalla giunta, a cui ha presentato nuove carte: «Documenti che servono a dimostrare che questa inchiesta è stata condotta in maniera oggettivamente persecutoria nei miei confronti», ha spiegato il senatore. Che ha aggiunto: «Io non scappo dal processo, anzi lo invoco. Per questo chiederò all'Aula di votare a favore del mio arresto». Una nuova audizione chiesta dal Pd, che aveva tutto l’interesse a rinviare la decisione della giunta, in attesa del pronunciamento del Tribunale del Riesame previsto per il 14 aprile.
L’ex assessore, a margine dell’audizione in giunta, ha parlato delle due inchieste che l’hanno coinvolto: «Una si è conclusa con l'archiviazione, l'altra con la richiesta di custodia cautelare ai miei danni. Stessi pm e stessi fatti, ma che hanno portato a valutazioni ed esiti diametralmente opposti». Le inchieste a cui si riferisce Tedesco sono quella in cui era coindagato insieme a Nichi Vendola, l'altra invece quella sfociata con la richiesta di arresto firmata dal Gip di Bari. «Io dico che hanno fatto bene ad archiviare la posizione di Vendola ha spiegato ma penso che i magistrati avrebbero dovuto essere conseguenti anche con me». «Il Pd ha detto prima del voto in Giuntafa bene a non voler votare la relazione di Balboni, perché se si esclude il fumus persecutionis e si entra nel merito della questione, non tocca al Senato giudicare, ma alla magistratura».
l’Unità 7.4.11
Tendenze Uno studio della rivista Usa «Pediatrics» sui rischi per gli adolescenti da Facebook & co
Gli esperti Dietro l’angolo depressione, dipendenza, «sexting»: eppure non bisogna demonizzare
Tuo figlio è un cyberbullo? Ultimissime dai social network
Facebook, YouTube, MySpace... i pediatri americani lanciano l’allarme: i social network possono essere utili alla crescita dei ragazzi, ma rappresentano anche dei rischi su cui oggi non c’è alcun controllo.
di Cristiana Pulcinelli
A 10-11 anni già passano il loro tempo libero davanti a uno schermo a cercare gli amici su Facebook. E chi più ne ha, più è fico. Poco importa che il social network richieda di avere almeno 13 anni per iscriversi, tan-
to basta falsificare la data di nascita. Navigare sui social media è probabilmente l’attività più comune tra i bambini e gli adolescenti di oggi. Un fenomeno che è cresciuto a dismisura. In Italia, una ricerca condotta da Eurispes e Telefono Azzurro alla fine del 2009 stima che il 71,1% degli adolescenti abbia un profilo su Facebook. Secondo un recente sondaggio negli Stati Uniti, il 22% dei teenager entra nel suo social media preferito almeno 10 volte al giorno e oltre il 50% almeno una volta al giorno. E il New York Times riportava qualche giorno fa i risultati di un’indagine condotta da ComScore, una ditta americana che si
occupa di traffico Internet, secondo cui 3,6 milioni di visitatori di Facebook negli Usa hanno meno di 12 anni.
Qualcuno comincia a preoccuparsi. Pediatrics, la rivista dell’associazione dei pediatri americani, pubblica sul numero del 3 aprile un articolo sull’impatto dei social media sui bambini e gli adolescenti. Per «social media» si intende ogni sito web che permetta interazioni sociali: da Facebook e MySpace ai siti per giocare on line, dai mondi virtuali come i Sims e Second Life a siti di video come Youtube, fino ai blog.
I pediatri americani non demonizzano: usare i social media può avere effetti positivi sui ragazzi. Si può rimanere in contatto con gli amici e trovarne di nuovi, scambiare idee, musica, informazioni utili. Si può partecipare a progetti comuni sia scolastici che di altra natura. Ma, avvertono, ci sono anche diversi rischi. Il cyberbullismo, per cominciare, ovvero l’uso deliberato dei media digitali per comunicare notizie false, imbarazzanti o ostili su qualcun’altro. Il cyberbullismo è più diffuso delle molestie, è un fenomeno che avviene tra persone della stessa età, ma può portare a conseguenze psicologiche gravi come depressione, ansia, isolamento e, a volte, suicidio. Un altro fenomeno rischioso è il sexting, ovvero mandare o ricevere messaggi sessualmente espliciti, immagini o fotografie tramite computer o cellulare. Secondo uno studio citato dall’articolo, il 20% dei teenager americani ha mandato in giro foto o video in cui viene ripreso nudo o seminudo, con il rischio di entrare in un giro di pornografia. C’è poi un nuovo fenomeno da tenere sotto controllo per bambini e adolescenti che passano molto tempo sui social network: la depressione da Facebook. Gli psicologi ritengono che l’intensità del mondo online possa creare una vera e propria dipendenza. «Anche questa, come qualsiasi forma di dipendenza – spiega Stefano Vicari, primario di neuropsichiatria infantile al Bambin Gesù di Roma – può scatenare una depressione». La conseguenza può essere, paradossalmente, l’isolamento sociale, oppure, se il ragazzo cerca un aiuto in Internet, il rischio di imbattersi in siti che promuovono l’uso di sostanze stupefacenti o di com-
portamenti autodistruttivi. Un altro pericolo da non sottovalutare è la pubblicità che ormai viene inviata in modo mirato, a seconda dei comportamenti di chi naviga in rete. In questo modo il messaggio ha una forza di penetrazione molto più alta e può influenzare non solo la tendenza all’acquisto, ma anche la visione del mondo degli adolescenti e, soprattutto, dei bambini.
DATE FALSE
Negli Stati Uniti c’è una legge, il Children’s Online Privacy Protection Act del 1998, che obbliga i siti web che prendono informazioni dai bambini al di sotto dei 13 anni a ottenere il consenso dei genitori. Ottenere questo consenso, tuttavia, è cosa complessa e costosa, così compagnie come Facebook e Google, che possiede YouTube, hanno deciso di non accettare tra gli iscritti chi ha meno di 13 anni. Ma c’è l’escamotage di falsificare la data di nascita, a volte con l’aiuto di mamma e papà. Che i ragazzi mentano sulla propria età non è strano, ma il fatto che i genitori diano il loro consenso può generare una certa confusione su quali siano le regole da seguire, dicono i pediatri, oltre ad esporli ai rischi dovuti al fatto che sono bambini e quindi hanno scarsa capacità di autoregolazione e sono molto suscettibili alla pressione dei loro coetanei. «I bambini devono imparare un uso equilibrato di questi strumenti – dice Vicari per questo bisogna che quando girano sui social media abbiano un genitore vicino. A volte pensiamo che i nostri figli debbano essere lasciati liberi perché troveranno la strada da soli, ma i bambini non sanno cosa sia giusto e cosa no, glielo dobbiamo insegnare noi».
L’associazione dei pediatri americani si raccomanda che i genitori tengano sotto osservazione l’uso che i propri figli fanno dei mezzi informatici, magari imparando a navigare se non lo sanno già fare. E i pediatri potrebbero avere un ruolo importante: «L’Italia – ricorda Vicari è uno dei pochi paesi ad avere i pediatri di famiglia: se fossero sensibili a questa nuova forma di dipendenza, riuscirebbero a individuare prima un eventuale problema e quindi intervenire per tempo».
il Riformista 7.4.11
In Cina ora i dissidenti spariscono nel nulla
di Nello Del Gatto
qui
il Fatto 7.4.11
Il burocrate dell’orrore che portava gli ebrei nei lager
Dopo 50 anni, Berlino ricorda il processo al nazista Eichmann
di Laura Lucchini
I numeri dei deportati erano indicati su un grafico dietro alla sua scrivania. “Ne è certo?” chiede il pubblico ministero israeliano Gideon Hausner. “Sì”, risponde Adolf Eichmann. “Quindi intende dire che la sua sezione sapeva con assoluta esattezza quante persone stavate deportando e quale era la loro destinazione?”. “Sì, lo sapeva. Era mio compito informare al riguardo i miei superiori”.
La condanna a Gerusalemme
QUESTO STRALCIO dell’interrogatorio di Adolf Eichmann è un momento fondamentale del processo contro uno dei principali responsabili dell’Olocausto celebrato a Gerusalemme nell’aprile del 1961, cioè 50 anni fa. La registrazione completa dell’interrogatorio fa parte della mostra Il processo: Adolf Eichmann davanti al tribunale inaugurata l’altro ieri a Berlino per ricordare questo giudizio-chiave nella ricostruzione dell’orrore nazista e della persecuzione d icui furono oggetto gli ebrei da parte del Terzo Reich. Eichmann, che dopo essere stato condannato alla pena capitale dal tribunaledi Gerusalemme fu impiccato nel 1962,fu un ingranaggio decisivo della macchina che rese possibile l’eliminazione sistematica di sei milioni di ebrei.
Nato a Solingen nel 1906 era stato, in particolare, il responsabile del traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei nei campi di sterminio. Prese parte a tutte le fasi della cosiddetta soluzione finale con la quale Hitler e i suoi accoliti pianificarono l’annientamento definitivo e totale degli ebrei in Germania e poi nei paesi occupati. Dalla Conferenza di Wannsee del gennaio 1942 fino alla organizzazione dei treni diretti ad Auschwitz, tutta la parte burocratica dello sterminio passò per le mani di questo uomo che finì per diventare l’esempio perfetto ed emblematico del funzionario nazista che si limitava ad eseguire gli ordini. Il suo ruolo e la sua psicologia furono analizzati in un celebre libro della filosofa Hannah Arendt, La banalità del male. Qui la Arendt sostiene la tesi secondo cui il male può anche non avere radici, non avere memoria e proprio per questo – cioè per l’assenza di un dialogo “morale” – uomini apparentemente banali possono trasformarsi in autentici agenti del male.
Gabriel Bach, il pubblico ministero israeliano che nel 1961, insieme a Gideon Hausner, sostenne l’accusa contro il criminale nazista, l’altro ieri era presente all’inaugurazione della mostra presso il centro di documentazione berlinese Topografia del Terrore. Gabriel Bach, oggi ottantaquattrenne, seduto in prima fila durante la conferenza stampa, aveva con sè una cartella. Alla fine della conferenza stampa ne ha svelato il contenuto: foto, stampe originali dell’aula del tribunale, immagini che lo ritraggono in prima fila con Adolf Eichmann a pochi metri di distanza, seduto dietro un vetro con due poliziotti a fianco. “Cosa ricordo di più di quel processo? Forse il mio primo incontro con Eichmann. Avevo appena terminato di leggere un libro nel quale si descriveva con quanta crudeltà assassinava i bambini nei campi di concentramento. Gliene parlai. Mi rispose che se ci si è posti l’obiettivo di eliminare una razza, allora bisogna eliminare tutte le generazioni, bambini compresi. Da un punto di vista logico il suo ragionamento non faceva una piega”. Il processo fu possibile grazie a un’azione oggetto di molte polemiche e controversie. Il burocrate nazista nel 1950 era riuscito a fuggire in Argentina: lavorava in una fabbrica della Mercedes Benz nelle provincia di Buenos Aires quando fu sequestrato dal Mossad, trasferito clandestinamente in Israele e processato.
Fu il primo processo contro un criminale nazista celebrato in Israele e si concluse con la condanna a morte di Adolf Eichmann. Al processo potè assistere tutto il mondo in quanto fu filmato e trasmesso per televisione (la relativa documentazione fa parte della mostra di Berlino). Molti, tra i quali la stessa Hannah Arendt, cittadina americana ma di origine tedesca e di religione ebraica, condannarono il tribunale per la sua mancanza di imparzialità.
Assassinare bambini senza provare nulla
“È UN’ACCUSA ridicola”, ha detto l’altro ieri Gabriel Bach. “La sentenza poggiava su prove incontestabili e in nessun momento del procedimento si ebbe la sensazione che la sentenza fosse già stata scritta e che già si sapeva come sarebbe andata a finire”. Quanto ad Hannah Arendt, Gabriel Bach ha ricordato che “prima del processo mi avevano avvertito che dagli Stati Uniti sarebbe arrivata una filosofa per scrivere un libro contro il processo. Come a dire che si sapeva già da prima quale era la sua posizione”.
La mostra di Berlino,che rimarrà aperta fino a settembre, raccoglie tutta una serie di testimonianze dei protagonisti del processo e i filmati degli interrogatori più significativi oltre al materiale messo a disposizione dai mass media di tutto il mondo che all’epoca seguirono il dibattimento. La mostra organizzerà fino a settembre diversi incontri con esperti e testimoni diretti dell’Olocausto.
Copyright El Paìs; traduzione Carlo Antonio Biscotto
Repubblica 7.4.11
A spasso tra i sogni degli altri
di Paolo Mauri
Ormai lo sappiamo e qualcuno lo aveva anche affermato in modo esplicito, la vita è sogno, o almeno il sogno è qualcosa di essenziale alla nostra vita, perché ci permette di andare dove forse non saremmo arrivati mai. Dico questo perché è proprio il sogno (un altrove spesso molto struggente o perturbante) la chiave che unisce parecchi dei Racconti con figure di Antonio Tabucchi (Sellerio, pagg. 355, euro 15, a cura di Thea Rimini), ossia quei racconti in cui, attraverso il tempo e le occasioni, Tabucchi ha catturato le figure (le suggestioni) che un certo numero di artisti gli offrivano.
«L´ultima volta che ho visto Antonio Dacosta è stato in sogno, alle Azzorre. Lui stava facendo il suo sogno e io vi entrai da visitatore». La storia è complicata: entrare nel sogno significa anche entrare in un quadro e dividere con il pittore, inquieto, le vicende dei personaggi raffigurati. La lettura che Tabucchi fa di un´opera d´arte ci porta dunque in un´altra dimensione. I ritratti di Pericoli lo inducono ad allestire il set di un film dove gli attori interpretano i personaggi celebri colti nel momento in cui stanno per essere ritratti, da Joyce a Croce a Pessoa. Una mostra di Valerio e Camilla Adami suggerisce questo incipit: «Fra le apparizioni del sogno che Valerio Adami trasforma nella geometria del reale, e la geometria del reale che Camilla Adami trasforma in figure che sembrano provenire dal mondo del sogno, a chi dobbiamo credere?».
Ho trovato molto gustoso e insolitamente allegro il racconto nato per una mostra etnologica di copricapi tradizionali dell´Asia, La Signora-col-Cappello, dove Tabucchi, con quella sua magistrale disinvoltura nell´inventare dialoghi, sceneggia un incontro quasi impossibile tra due donne, mediato da un autista, che ha per oggetto due cappelli, o meglio tre. Mi rendo conto che detto così non vuol dire niente: d´altra parte nei racconti, come nei quadri, bisogna andarci dentro di persona. Tabucchi confessa che se non avesse fatto così con Las Meninas nel lontano 1970, non sarebbe nato Il gioco del rovescio, dove davvero «l´immaginazione va oltre l´immagine».
Ancora per Pericoli e le sue cartoline è il racconto Tanti saluti, la storia di un uomo, Taddeo, che si prepara a partire per il Perù. È un viaggio che avrebbe voluto fare con la moglie Isabel, ma lei non c´è più. Prima di andare alla stazione ha preso con sé un po´ di cartoline, anche italiane. Le spedirà dal Sudamerica con i saluti suoi e di Isabel. Un´incongruenza? Non è l´unica. Fa caldo. Alla stazione, deserta, incontra un bambino che vende gelati e gli rivela di chiamarsi Taddeo anche lui... Il finale potrebbe essere quello di un sogno. Ma dov´è, ci si chiede, la linea di confine?
Nel Diario cretese con sinopie (ancora per Adami) l´autore racconta di una taverna povera con camere povere, dove si fanno «dei sogni frusti, come una giacca che hai indossato per tutta la vita». Spesso l´altrove è qui, solo che non ce ne accorgiamo.
Repubblica 7.4.11
Vent´anni di lavoro e centinaia di studiosi per un´opera monumentale
Scoprite il catalogo dei commenti a Dante
Si tratta di un censimento di circa 500 manoscritti che riguardano parti del poema
di Massimo Cacciari
Un´impresa scientifico-culturale di straordinaria portata è giunta in questi giorni ad una svolta decisiva del suo cammino. Grazie ad un lavoro ormai ventennale e all´impegno di un centinaio di studiosi provenienti dai più importanti centri di ricerca italiani e stranieri, coordinati dall´infaticabile Enrico Malato, il Censimento dei Commenti danteschi. I Commenti di tradizione manoscritta (fino al 1480), edito dalla Salerno, a cura del Centro per gli Studi Danteschi intitolato ad uno dei caposcuola della filologia romanza, Pio Rajna, vede finalmente la luce. Si tratta della catalogazione di circa 500 manoscritti, tra i quali molti anonimi, la maggior parte riguardanti solo alcuni canti o passaggi del poema; per tutti sono indicati i luoghi che ne custodiscono i testimoni. Di estremo interesse sono i medaglioni biografici dei diversi autori, specie dei più rappresentativi, infinite volte citati anche nei commenti moderni e contemporanei e rimasti spesso fin qui nient´altro che un nome. Eppure è proprio grazie ad essi, ai più antichi, che ci è possibile dipanare l´immensa "selva" dantesca, fatta di figure, vicende storiche, personaggi, luoghi: dal grande commento del della Lana, primo integrale in volgare, all´Ottimo (così chiamato per la purezza del suo volgare toscano), al Buti, al Rambaldi. Ma occorre ricordare anche le prove dei figli stessi di Dante, Pietro e Jacopo, e quella del Boccaccio, che lesse i primi 17 canti dell´Inferno a Santo Stefano in Badia, alla fine della sua vita, quasi estremo omaggio a colui che era stato il suo Autore. Qualsiasi Paese civile sosterrebbe un´opera collettiva di questo livello, riguardante in grande misura, il fondatore del proprio stesso idioma, con entusiasmo e con tutti i mezzi necessari affinché possa completarsi con ragionevole rapidità. Da noi, invece, si corre il fondato pericolo che debba "chiudere", forse in onore delle celebrazioni del 150°. E non sarebbe certo la prima Edizione Nazionale a fare questa fine.
Ma risparmiamoci ora le patrie miserie, per sottolineare l´importanza storico-culturale di questa ricerca. I commenti alla Commedia delineano, nel loro spesso confuso intrecciarsi, la storia ininterrotta dell´affermarsi di Dante, fino al ‘500, come "stella fissa" della cultura umanistica. Il poeta è insieme sempre l´esule politico, l´agonista indomito, che tale rimane fino all´Empireo, e insieme il teologo, il vate-profeta, l´uomo di scienza. Proprio in questi commenti, si può già vedere in atto ciò che sarà compreso dai grandi studiosi contemporanei di Dante, per così dire post-crociani: l´indissolubilità di tutte queste dimensioni del genio dantesco. Nella modestia con cui essi "servono" il poema, senza pretendere di giudicarlo secondo una prospettiva, "tacendo" quasi dei propri convincimenti, questi commenti illustrano e spiegano indirettamente la inesauribile polifonia della Commedia. La passione per l´Autore e il suo canto si lega così alla più positiva istanza di volerlo comprendere in ogni suo dettaglio. E´ come fosse qui già avvertita la coscienza che la forma dell´intero si rivela in ogni particolare, allorché questo venga realmente analizzato e compreso. E´ lo stesso accordo di amore e scienza che informa di sé, io ritengo, il lavoro filologico e scientifico dei curatori di questo Catalogo.
Repubblica 7.4.11
Quando la scrittura diventa una terapia
di Marc Augé
Il racconto di sé ha però un senso solo tramite l´accoglienza degli altri
L´avere una concezione romanzesca dell’esistenza può essere utile
L´antropologo spiega come la narrazione possa avere un ruolo liberatorio. Non solo in letteratura ma anche nelle scienze sociali
Pubblichiamo un brano tratto dall’intervento che terrà domani al festival “L’arte della felicità" in programma a Napoli
Il ruolo liberatorio della letteratura è stato sottolineato da Walter Benjamin che ha visto nelle fiabe una delle "prime precauzioni prese dall´uomo per dissipare l´incubo mitico" (Il Narratore. Riflessioni sull´opera di Nicola Leskov) facendo notare che i personaggi della fiaba, lo sciocco, il fratello minore, il viaggiatore, mettono in scacco le violenze della natura e ne fanno una loro complice.
È il movimento inverso a quello della risalita verso «l´incubo mitico», verso «l´orrore», ultima parola pronunciata da Kurtz prima di morire, di cui parla Joseph Conrad in Cuore di tenebra, inseparabile libro di Malinowski (celebre antropologo polacco, ndt) sul campo. Potremmo, quindi, affermare che è proprio "il loro destino narrativo" ad aver sovvertito le religioni dall´interno e che il compimento di questo destino libera l´uomo dal mito.
Questa frase è particolarmente provocante per l´etnologo e, in generale, per tutti coloro che si interrogano sulle ragioni che li spingono a scrivere. Perché colloca l´asse del cambiamento dalla parte del futuro. La letteratura sarebbe meno determinata dalle sue origini religiose o mitiche e più da qualcosa che sorge, un rischio, una lotta e un´invenzione: una fuga dal terreno del mito, se si vuole e, eventualmente, un dietrofront per tornarvi a combatterlo. Il contrario di una conseguenza, dunque, e la poesia di un inizio assoluto (...).
Ogni scrittura affronta il vuoto del futuro affrancandosi dal passato. Il tema dell´uscita dal mito concerne tanto la dimensione individuale quanto la dimensione collettiva. Bisogna indubbiamente considerare, da un punto di vista ontogenetico, che l´individuo, per crescere, deve liberarsi attraverso la parola del proprio fondo mitico, e non soltanto dei miti che condivide con altri. Non potremmo allora vedere nel tema dell´uscita dal mito una giustificazione della psicanalisi?
Non proprio, o non soltanto. Qui dobbiamo piuttosto insistere sulla dimensione propriamente narrativa dell´esistenza individuale. La prima ambizione di Freud era, senza dubbio, quella di insegnare agli individui a liberarsi dai loro demoni interiori, ma prendere la via narrativa (e non semplicemente la parola e la rimemorazione) per arrivarci, è scegliere per sfidarli un terreno diverso dal loro, un terreno dove si trasformano in personaggi; è avere, in qualche modo, una concezione romanzesca della propria esistenza. Non si può chiedere a tutti di inventare dei racconti, si dirà. Ma a torto: passiamo il nostro tempo a raccontarci delle storie di cui siamo gli eroi o, più esattamente, passiamo tutto il nostro tempo a inventare il racconto della nostra vita per sottoporne, "in tempo reale", i diversi episodi all´apprezzamento e ai commenti di alcuni amici, o fedeli compagni o collaboratori occasionali. Paul Ricœur si è interessato alle "strutture prenarrative dell´esperienza temporale" e, in Tempo e racconto, ha fatto notare che la letteratura sarebbe incomprensibile se non configurasse ciò che, nell´azione umana "già figura". Narrare la propria vita, inoltre, non è sfuggire alla solitudine, ma all´isolamento; è una terapia spontanea, sensibile al passaggio del tempo che sdoppia e proietta verso il futuro nel raccontarlo. Non ci si salva da niente e da nessuno senza la presenza degli altri, sotto qualsiasi forma: presenza effettiva di interlocutori, presenza scontata di futuri lettori, ma che dà già tutto il suo senso all´attesa di colui che scrive. L´isolamento e il silenzio, quando sopraggiungono, sono ad un tempo, in quanto a loro, il segno e la causa della sconfitta e di un´invasione tanto lenta quanto inesorabile da parte delle forze oscure del passato.
Lo scrittore fa dunque un´esperienza particolare della solitudine, e l´etnologo ancora di più, perché esce da se stesso senza tuttavia raggiungere completamente gli altri. Solo, si sforza di uscire dalla sua cultura, dalla sua lingua, e dalle sue abitudini per mettersi a una certa distanza dagli altri. Rispetto agli altri, la sua situazione è ambigua: la difficoltà dell´etnologo comincia con il primo incontro, con il primo testimone. Conosciamo mai qualcuno? O, se non lo conosciamo, riusciamo mai a capirlo? Ciò che crediamo di poter scrivere di una collettività non perde la propria pertinenza dal momento in cui ci avviciniamo a uno degli individui che ne fanno parte? E la constatazione di questo limite non relativizza in anticipo tutto ciò che potrà scrivere l´etnologo? È così che va inteso il titolo di Leiris, L´Afrique fantôme, se è vero, come egli scrive, che ogni diario è "l´ombra di uno scritto fantasma". L´etnologo sarebbe addirittura sempre tormentato, scrive in Brisées, dal "fantasma dell´altro libro, quello che non ha scritto". Il doppio dell´etnologo è doppiamente fantomatico, perché viene dal passato e nasce da un´esperienza che non si potrà rifare. Il doppio dell´etnologo non è soltanto questo essere astratto che si distacca da sé per osservare o teorizzare meglio, è la figura concreta del tempo, dell´assenza e dell´alterità (...).
La scrittura non ha passato. Essa non esiste che per trasmettere ciò che crea. La scrittura è rituale: qualunque sia la sua materia prima, non ha senso se non tramite l´accoglienza degli altri. Con essa, comincia una storia.
Ma la scrittura antropologica non è una scrittura qualsiasi: essa tratta di altri ai quali l´etnologo non ha avuto accesso se non nei termini di un viaggio doppio a sua volta, un viaggio interiore e al tempo stesso uno spostamento nello spazio. Essa nasce da un´esperienza empirica nella quale l´antropologo è implicato e della quale deve rendere conto nella sua totalità per essere onesta, vale a dire il più vicina possibile al reale. Essa fa capire un paradosso, il paradosso dello specialista in scienze sociali, scienze della relazione e del simbolico: il percorso dell´etnologo, così come può renderne conto attraverso la scrittura, è anche, e forse prima di tutto, una variazione su delle forme diverse di solitudine: quella della partenza, quella dell´arrivo e, ancor più definitiva o più irreversibile, quella del ritorno.
(Traduzione di Luis E. Moriones)
Repubblica 7.4.11
La scoperta in un laboratorio americano "Una materia sconosciuta, è un mistero"
L´ultimo giallo nella fisica "È la nuova particella di Dio?"
Dagli anni ´70 gli scienziati cercano il bosone di Higgs ma non ha queste caratteristiche
di Elena Dusi
«Cosa abbiamo di fronte a noi è un mistero. Si tratta di qualcosa al di là della fisica nota. Potrebbe essere un nuovo ingrediente della materia, o una nuova forza». Giovanni Punzi è a capo di un gruppo di fisici in buona parte italiani al laboratorio Fermilab di Chicago. «Abbiamo misurato un fenomeno nuovo nel nostro acceleratore di protoni e antiprotoni. I dati sono in attesa di conferma, ma dalle collisioni è nato un evento che non riusciamo a spiegarci se non con la presenza di una particella totalmente nuova».
Tra i frammenti delle collisioni che avvengono a energie estreme e velocità prossime alla luce, i fisici si aspettano di "catturare" lo sfuggente bosone di Higgs: la cosiddetta particella di Dio, prevista alla fine degli anni ´70 dai fisici teorici (in particolare dall´inglese Peter Higgs) e inseguita in vari esperimenti nel mondo. La sua presenza è fondamentale per spiegare come mai la materia attorno a noi abbia una massa. Ma nonostante le aspettative, la novità del Fermilab non ha le caratteristiche dell´Higgs. «È qualcosa di diverso, su cui ormai lavoriamo da un anno e che i fisici teorici stanno tentando di interpretare» prosegue Punzi. «La caccia all´Higgs è destinata a proseguire».
Facendo scontrare protoni e antiprotoni (protoni con carica negativa), nell´anello di oltre 6 chilometri del Fermilab compaiono "fuochi d´artificio" di frammenti, sotto forma di varie famiglie di particelle subatomiche (fra cui i bosoni) e "fontane" di energia. «A colpirci sono state le collisioni che generano un bosone W e due getti di energia pari a 140 volte la massa del protone. Questi eventi sono avvenuti molto più spesso delle attese. E sospettiamo che all´origine ci sia la presenza della nuova particella» prosegue Punzi. Il fenomeno misterioso è avvenuto 250 volte in più rispetto alle aspettative, su un totale di 10mila collisioni.
Ma non è la sola sorpresa recente di Tevatron, l´acceleratore del Fermilab. Come una palla che non rimbalza simmetricamente contro un muro, così i quark top (un´altra componente subatomica della materia) prodotti nelle collisioni tendono a schizzare molto più spesso della norma in una delle direzioni possibili. E non è detto che le due osservazioni non siano legate. «Anche questo fenomeno - spiega Fabrizio Margaroli del Fermilab - potrebbe indicare un nuovo meccanismo di formazione dei quark top, e quindi un nuovo genere di particelle, troppo pesanti per essere rilevate ma in grado di influenzare la direzione di quelle osservate».
Il laboratorio intitolato a Fermi non riuscirà a restare aperto oltre settembre per il mancato rinnovo dei fondi. Lascerà in pista solo il più potente acceleratore Lhc al Cern. E da Ginevra raccolgono la sfida, come dice il fisico Michelangelo Mangano: «La loro misura è interessante. L´analisi sperimentale è solida, ma i dati raccolti sono ancora insufficienti a escludere che si tratti di una fluttuazione statistica. Lhc sarà in grado di dare un´eventuale conferma entro la fine dell´anno». E se non di bosone di Higgs si tratterà, nessuno potrà stupirsi: dai grandi esperimenti di fisica degli ultimi 50 anni sono sempre uscite scoperte importanti e inattese.
La Stampa 7.4.11
Dalle staminali la fabbrica degli occhi
Esperimento in Giappone sui topi: “L’obiettivo è creare in laboratorio nuove retine”
di Valentina Arcovio
LE CELLULE Sanno organizzarsi da sole senza impalcature biologiche
IL «MIRACOLO» E’ come se avessero al loro interno un libretto di istruzioni
Per la prima volta è stato realizzato in laboratorio un occhio a partire dalle cellule staminali embrionali prelevate da un topolino. L’annuncio arriva dal Giappone e, considerate le potenziali implicazioni dello studio, si è guadagnato la copertina della prestigiosa rivista Nature. Lo studio infatti apre interessanti prospettive nella cura di gravi patologie degenerative dell’occhio: se l’esperimento dovesse essere ripetuto con successo anche partendo da staminali umane – cosa tutt’altro che scontata - si potrebbero creare in laboratorio retine «di scorta» da sostituire alle vecchie. Ma più che il proto-occhio di topo o l’ipotesi di creare «fabbriche» di retine, la cosa che più ha colpito gli scienziati è stata la straordinaria capacità delle staminali embrionali di lavorare autonomamente. Le cellule prelevate dal topo infatti sono riuscite a coordinarsi e a ricomporsi in strutture diverse per dare vita a un organo complesso. L’unica cosa che ha fatto la squadra di biologi dello sviluppo, bioingegneri e biochimici dell’Istituto Riken, a Kobe, guidati da Yoshiki Sasai, è quella di prelevare le staminali dal topo e immergerle in una soluzione di coltura, ricca di sostanze nutritive, che le ha spinte a organizzarsi in maniera spontanea. Come tanti piccoli pezzi di un puzzle sono riuscite a formare una struttura tridimensionale chiamata «calice ottico» dalla quale si sviluppa la retina. Si tratta di un elemento complesso, costituito da due fogli di tessuto ripiegati in modo simile a una tasca, che si sviluppa negli strati interno ed esterno della retina durante lo sviluppo embrionale. L’eccezionalità dello studio è l’aver scoperto che le cellule staminali primordiali lavorano da sole senza quindi la necessità di utilizzare «impalcature» biocompatibili, strutture indispensabili agli scienziati che stanno cercando di realizzare organi ex novo in laboratorio. Almeno fino ad oggi nessuno era infatti riuscito a creare da un pugno di staminali, anche se embrionali, un organo complesso senza l’aiuto di una matrice di coltura.
Ora i ricercatori giapponesi sono riusciti a dimostrare che per l’occhio non serve alcun supporto perché le cellule staminali embrionali sono in grado di organizzarsi da sole come se avessero al proprio interno un «libretto di istruzioni» da seguire alla lettera.
«Questa riorganizzazione autonoma ci ha stupito – hanno spiegato i ricercatori - perché la struttura parte come un aggregato omogeneo di cellule a cui non abbiamo dato alcun segnale specifico. Lo studio dimostra come la formazione dell’occhio sia dipendente solo da un programma intrinseco delle cellule che dirige posizione e differenziazione di ogni elemento».
Una scoperta destinata ad aprire un nuovo capitolo della medicina rigenerativa, anche se la scienza ci insegna che le staminali animali si comportano in maniera diversa rispetto a quelle umane. Il prossimo passo infatti è capire il come. «È tuttora poco chiaro - scrivono - come singole parti si coordinino fra loro fino a costruire un organo». Ci vorranno ancora moltissimi anni prima di arrivare a realizzare un occhio in provetta pronto per gli esseri umani. Ciò non toglie che è stato fatto un importante passo in avanti. «È eccitante pensare che siamo sulla buona strada per poter generare non solo i tipi di cellule differenziate – ha concluso Sasai - ma anche i tessuti, a partire da cellule staminali e cellule iPs, cioè cellule staminali pluripotenti indotte».
La Stampa 7.4.11
Speranze e cautele per l’occhio in provetta
di Piero Bianucci
Costruire occhi. Questa volta anche «Nature» si è lasciata tentare dal titolo sensazionale. «Costruire occhi» si legge a caratteri cubitali sulla copertina del numero oggi in edicola della più prestigiosa rivista scientifica. Accanto c’è la foto di un sacchetto verde ripiegato su se stesso. Quel sacchetto è una retina, la parte dell’occhio sensibile alla luce. Non ancora la retina di un occhio umano, ma quella di un topo. Dal punto di vista scientifico però il risultato è clamoroso. Il gruppo di biologi dell’Istituto giapponese Riken guidato da Yoshiki Sasai partendo da cellule staminali di un embrione di topo è riuscito a farle specializzare in cellule della retina, e, cosa ancora più straordinaria (tanto che lo stesso Sasai ne è sorpreso), queste cellule si sono autoorganizzate e hanno formato il sacchetto retinico come sotto la guida di una misteriosa ma perfetta regia biologica.
Le cellule staminali embrionali sono totipotenti: cioè capaci di trasformarsi in qualsiasi tipo di tessuto: pelle, ossa, cellule nervose o muscolari, del fegato, del pancreas e di qualsiasi altro organo. Il problema è avviare in esse il processo di specializzazione in un tessuto o nell’altro, cosa che i biologi fanno stimolandole con speciali fattori biologici che inducono nei loro geni le trasformazioni desiderate. E’ ciò che il gruppo giapponese è riuscito a fare. Non solo: sono anche riusciti a ottenere, nel caso specifico, un tessuto che ha assunto la struttura dell’organo che nell’individuo sviluppato quelle cellule vanno a formare: in questo caso la retina. È la promessa della «medicina rigenerativa», il sogno alla Blade Runner degli «organi in provetta» che si realizza.
La retina è in pratica una parte del cervello che si è adattata per trasformare le onde luminose in segnali elettrici. Le sue cellule nell’occhio umano sono di due tipi: i bastoncelli, molto sensibili e numerosi (100 milioni) ma capaci solo di vedere in bianco e nero, e i coni, poco sensibili e in numero ridotto (7 milioni) ma in grado di darci la visione a colori. I segnali elettrici generati da queste cellule come reazione alla luce vengono poi convogliati nel milione di fibre del nervo ottico fino alla zona occipitale del cervello, dove l’immagine viene ricostruita. La retina è dunque la parte più delicata e importante dell’occhio: corrisponde alla pellicola fotografica o, nelle camere attuali, al sensore elettronico.
Bisogna però aggiungere due precisazioni. La prima è che ciò che funziona su topi di laboratorio è lontano dal funzionare nell’uomo: il progresso annunciato da «Nature» è scientificamente di prim’ordine, ma non deve illudere i non vedenti: la soluzione del loro problema non è affatto a portata di mano. Dalle staminali dell’embrione di topo non si ricava una retina umana. Ci vorranno anni, forse alcuni decenni, perché un processo del genere si possa realizzare nell’uomo.
La seconda precisazione riguarda in particolare il nostro paese. In Italia, diversamente da quanto accade in quasi tutti i paesi avanzati del mondo, dal Giappone agli Stati Uniti al Regno Unito fino alla Corea, se anche si riuscisse tecnicamente a fare ciò che per ora è di là da venire, dal punto di vista legale sarebbe impossibile perché la legge italiana impedisce la ricerca sulle cellule staminali umane, e ciò in quanto il ricorso a queste cellule comporterebbe la distruzione dell’embrione, cioè di una creatura umana potenziale. Cosa che il cardinale Elio Sgreccia, bioeticista del Vaticano, ha subito ricordato commentando la notizia di «Nature» in contrapposizione con l’entusiasmo del premio Nobel per la medicina Renato Dulbecco e dell’on. Ignazio Marino. In Italia si incoraggia invece la ricerca sulle cellule staminali adulte, che in questo caso dovrebbero essere estratte dalla retina dello stesso paziente. Per la cornea lo si fa già con successo, ma nel caso della retina si aggiungerebbe difficoltà a difficoltà. Il messaggio che viene dal Giappone è comunque chiaro e importante: le cellule staminali embrionali aprono opportunità eccezionali e non comparabili con le opportunità delle staminali adulte.
chi si ricorda di Luigi Lombardi Vallauri?
Corriere della Sera 7.4.11
Troppi iscritti, il prof fa lezione solo ai vegetariani
di Marco Gasperetti
FIRENZE — Al seminario di Filosofia del diritto, quattro giorni intensivi nella casa per ferie Villa Gregoriana di San Marco di Cadore (150 euro a testa) luogo sotto le Dolomiti, quest’anno si sono iscritti 245 studenti. Numero insostenibile da gestire anche per un professore di valore quale è Luigi Lombardi Vallauri, 75 anni, ordinario alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze, vegetariano. Così il prof ha deciso di mettere qualche «valutazione motivazionale» per sfoltire un po’ l’esercito dei seminaristi. E ha scelto il metodo più atipico per limitare gli accessi: trasformarsi in vegetariani anche se solo nei quattro giorni di lezioni. L’idea è stata discussa democraticamente con gli studenti. «Che l’hanno accettata e condivisa— spiega Lombardi Vallauri —. Non è una limitazione alla loro libertà ma solo un modo di valutare un accesso a un seminario non obbligatorio partendo dalle motivazioni. Un piccolo sacrificio che dimostra la voglia e la volontà di partecipare al seminario. Se saranno tutti a favore, sfoltiremo il gruppo partendo dalla data di iscrizione» . La notizia, anticipata ieri dal Corriere Fiorentino, ha creato un dibattito anche all’interno dell’ateneo fiorentino. «Il seminario è proposto come attività facoltativa — ha precisato ieri in una nota il preside della facoltà Paolo Cappellini— e non è quindi collegato a un obbligo specifico per chi segue il corso di Filosofia del diritto» . E gli studenti come la pensano? Riccardo Betti, laureando: «È una decisione intelligente, democratica ed ha una valenza pedagogica. Bravo professore» . Altri ragazzi preferiscono non parlare, la sensazione e che la maggioranza sia con il docente. Luigi Lombardi Vallauri nel 1997 è stato al centro di un caso accademico che ha avuto un’eco alla Corte di Strasburgo. «Fui espulso dall’università Cattolica perché avevo sostenuto l’anticostituzionalità della pena infernale e del peccato originale e messo in dubbio il dogma inferno. La Corte di Strasburgo mi ha dato ragione per lesioni dei diritti fondamentali» .
Liberazione Lettere 7.4.11
Una festa laica per favore!
di Paolo Izzo
Una festa laica per favore!
di Paolo Izzo
Gentile direttore, quest'anno un calendario beffardo impone la pasqua cattolica il 24 aprile e così il cosiddetto lunedì dell'angelo andrà a coincidere con la festa nazionale della Liberazione dal nazifascismo. Quest'anno un papa malizioso ha deciso di beatificare un altro papa proprio nella Giornata dei lavoratori, il 1° maggio. Ogni anno gli innamorati si baciano all'ombra di un martire torturato e decapitato di nome Valentino, sull'agognato ferragosto grava l'assunzione (cioè la morte) della madonna e il peccaminoso carnevale subisce l'incombenza del mercoledì delle ceneri. Viene da chiedersi come mai sua santità l'Ingerenza cattolica non abbia ancora pensato a un natale mobile, che vada a coincidere di volta in volta con qualche altra festività nazionale e laica. Così da essere sempre presente nel Parlamento, nelle leggi, nei luoghi pubblici, nella cultura e soprattutto nelle menti di tutti gli italiani.