venerdì 8 aprile 2011



Corriere della Sera 8.4.11
Quando i naufraghi eravamo noi
Gli incidenti marittimi che costarono la vita a migliaia di emigranti italiani
di Gian Antonio Stella


La sera del 4 agosto 1906 il mare depositò sulla spiaggia di Cartagena, in Spagna, un lattante tutto fasciato. Era vivo. Miracolosamente vivo. Dissero i parrocchiani della vicina chiesa, recitando un pateravegloria, che solo il buon Dio poteva aver salvato quella creatura. Lo dissero mentre allineavano sulla sabbia, a decine e decine, i corpi restituiti dalle onde dei poveretti annegati nel tragico naufragio del vapore Sirio, partito due giorni prima da Genova e diretto a Gibilterra per poi affrontare l’Atlantico verso il Brasile. Furono 292 i morti, secondo il Lloyd, che voleva ridimensionare il più possibile la catastrofe dati i torti degli armatori (il Sirio non aveva le doppie eliche né «paratie stagne e doppiofondo continuo» né le scialuppe sufficienti per tutti i passeggeri, come imponeva la legge impantanata alla Camera dalla potente lobby della marina mercantile) e i torti dell’equipaggio, partito senza carte nautiche (!) e piombato a tutta velocità sugli scogli di capo Palos. Ma stime più serie dissero: almeno quattrocento. Forse cinquecento. E mai come oggi, dopo la catastrofe della nave affondata sulla rotta per Lampedusa, vale la pena di rileggere le cronache della tragedia sul «Corriere» di allora: «Il primo senso di stupore degenerò in un batter d’occhio in un folle panico, producendo una confusione indescrivibile. I passeggeri, correndo all’impazzata e gridando disperatamente, rendevano impossibile l’opera di salvataggio. (...) A uno degli alberi del Sirio si erano avvinghiati sei ragazzi le cui madri si trovavano troppo lontano per poterli soccorrere. Le grida delle madri erano strazianti. Le ondate staccarono ad uno ad uno quei ragazzi dall’albero gettandoli in mare sotto gli sguardi delle povere madri impotenti a salvare le loro creature» . Felice Serafini, che prima della partenza era passato dal fotografo Recalchi di Arzignano, Vicenza, per lasciare ai parenti una foto a ricordo (lui al centro in giacca, panciotto e camicia candida, una mano sulla spalla della moglie, i figlioletti intorno) vide sparire tra i flutti l’intera famiglia. Raccolto da una scialuppa, fu portato a Cartagena: «Venimmo tosto aiutati da quella buona gente che ci diede da mangiare ciò che aveva lì per lì e cioè pane, sardine, frutta e un po’ di vino. Rifocillati alquanto ci si condusse ad un teatro e quivi passammo la notte. E Dio mio, che notte! (...) Il cuore ci scoppiava in petto dallo strazio che provammo al pensare ai nostri cari scomparsi nel naufragio in modo così brutale. Mia moglie, i miei figli, gridavo io dal mio giaciglio giungendo le mani al cielo...» . La mattina dopo, girando disperato tra i sopravvissuti, ne trovò due, dei suoi bambini. Gli altri sei e la moglie Amalia che era incinta del nono, erano stati ingoiati dal mare. Quello del Sirio fu solo uno dei tanti naufragi della nostra emigrazione. Bisognerebbe ricordarle nelle scuole, quelle tragedie. Almeno le più spaventose. Come l’affondamento dell’Utopia (pensate che nome, per un vapore che portava i nostri nonni verso il sogno...), un bastimento inglese che, partito da Trieste e fatta tappa a Napoli, portava 3 passeggeri di prima classe, 3 clandestini, 59 membri dell’equipaggio e 813 emigranti, quasi tutti italiani e che la sera del 17 marzo 1891, con un tempo pessimo e visibilità ridotta, davanti al porto di Gibilterra, sbagliò manovra, andò a sbattere contro il rostro di una corazzata alla fonda e colò a picco in pochi minuti inghiottendo 576 poveretti. Poco meno, 549, furono le vittime in gran parte italiane (erano molti, quelli che preferivano raggiungere in treno Le Havre per accorciare il viaggio in mare) del Bourgogne, un piroscafo francese che affondò il 4 luglio 1898 dopo una collisione con il veliero inglese Cromartyshire al largo della Nuova Scozia. Un’ecatombe che fermò il respiro a tutti con la pubblicazione sulla prima pagina del «Petit Journal» di Parigi di un’agghiacciante illustrazione dei corpi buttati sulla spiaggia. E come dimenticare il Principessa Mafalda? Era stata a lungo la nave ammiraglia della flotta commerciale italiana, ma il giorno in cui salpò per il suo ultimo viaggio fatale, l’ 11 ottobre 1927, era così vecchia e sgangherata che al ritorno avrebbe dovuto essere smantellata. Per otto volte i motori si fermarono nel Mediterraneo. Per otto volte li fecero ripartire. Il segnale era inequivocabile: fermatevi! Macché: il capitano Simone Gulì, di cui resta una foto con Pirandello, s’avventurò nell’oceano. Si fermò per riparazioni a Dakar e poi anche a São Vicente di Capo Verde. Ma la vecchia tinozza era ormai alla fine. Avrebbe raccontato mezzo secolo dopo al «Clarín» la signora Flora Forciniti, che con la mamma e due fratelli doveva raggiungere a Buenos Aires il padre e i fratelli, che la Mafalda navigava così storta «che la mattina non potevamo appoggiare la tazza con il caffelatte perché si sarebbe rovesciata» . Finché, al largo del Brasile perse l’asse di un’elica e «l’acqua si lanciò all’assalto come un nemico avido di preda» . L’orchestra di bordo, che stava suonando un black bottom, smise di colpo. Il violinista posò il violino, il trombettiere la tromba. E scoppiò il panico. Quando arrivarono in soccorso le navi richiamate dall’Sos, centinaia di naufraghi tentavano di restare a galla attaccati a salvagenti, tavole, botti, casse... Le acque erano infestate di squali. Un marinaio poco più che ragazzino cedette il suo salvagente a un vecchio che implorava aiuto, e si buttò in acqua con lui per trascinarlo alla scialuppa più vicina. Un pescecane l’attaccò, lui lanciò un urlo straziante. Si chiamava Anacleto Bernardi, era figlio di immigrati italiani. Il Duce, deciso ad abolire le cattive notizie, ordinò di esaltare l’eroismo del comandante e minimizzare la tragedia. Il «Clarín» avrebbe contato 657 morti. Il «Corriere» , sotto il bastone del regime, titolò: «Poche decine le vittime» . La linea fu dettata dal Minculpop: «Delle cause del sinistro poco si sa; si parla di scogli, si parla di un’esplosione. Comunque — si può asserirlo con riverente amore per la nostra ardita e potente Marina mercantile — la sventura non è da attribuirsi né a imperizia né a negligenza dell’equipaggio, ma a una tremenda fatalità» .

Repubblica 8.4.11
L´internazionale del cinismo
di Chiara Saraceno


Nulla più degli ultimi morti, inghiottiti dal mare in burrasca nella zona di ricerca contesa tra Malta e l´Italia, testimonia il tragico scarto tra l´urgenza del bisogno di chi per sua sventura abita Paesi poveri o segnati da guerre e dittature e la capacità a farvi fronte dei Paesi tra i più ricchi e sviluppati e più orgogliosi della propria democrazia e rispetto dei diritti umani.
Il fatto che questi ultimi morti fossero in fuga da zone di guerra civile - Eritrea, Somalia - quindi potessero aspirare allo status di rifugiati, rende ancora più evidente la sproporzione tra il bisogno di aiuto di chi, non potendo più stare nel proprio Paese pena la vita, rischia la vita propria e dei propri figli per andarsene, e il modo impacciato, spesso conflittuale, ancor più spesso controvoglia, con cui i Paesi ricchi e democratici vi rispondono. Non mi riferisco solo all´Italia, anche se lo spettacolo dato a Lampedusa nelle settimane scorse ha ben esemplificato l´impasto di impreparazione e cinismo con cui il nostro governo si è mosso. C´è il comportamento di Malta, che da un lato rivendica il controllo di un´ampia zona di mare, salvo respingere con fermezza le imbarcazioni che accostano e non essere in grado di prestare soccorso, chiamando ogni volta i mezzi italiani. Ottenendo così per sé un doppio risultato: nessuna spesa di salvataggio e nessuna responsabilità di accoglimento dei disperati del mare, una volta che questi si trovano su una nave italiana. Soprattutto c´è il comportamento della Francia, in prima fila quando si trattava di bombardare la Libia, anche al di là del mandato dell´Onu, ma altrettanto in prima fila a pattugliare i confini, perché nessuno di coloro di cui "difende la lotta per la libertà" bombardando più o meno indiscriminatamente il loro Paese, eserciti questa libertà duramente conquistata anche a rischio di vita cercando di entrare in territorio francese. È una bella gara internazionale di cinismo e di scaricabarile, ove l´Europa come entità politica si mostra in tutta la sua inconsistenza, incapace di far valere le proprie stesse norme a fronte dell´autarchia egoistica dei singoli Paesi. Se non muoiono prima, i migranti e il loro disagio divengono uno strumento di ricatto, interno (nella lotta politica) ed esterno (verso gli altri paesi). Corpi da spostare, da controllare, alternativamente da contenere e da esibire per evocare paura, da mandare via, da non fare arrivare, da far sparire. Totalmente depersonalizzati, anche nel linguaggio con cui si parla di loro.
Ogni Paese ha diritto a controllare i propri confini e a regolare gli accessi. E le migrazioni di massa improvvise producono tensioni che non devono essere sottovalutate. Ma le tensioni non devono, non dovrebbero, neppure essere sollecitate da una gestione tanto improvvisata quanto cinicamente strumentale, dimentica del più elementare rispetto dei diritti umani. Purtroppo, la condizione a cui il governo italiano sembra abbia deciso di concedere i permessi temporanei - solo a coloro che promettono di andarsene altrove, sapendo che altrove saranno ricacciati indietro - e la contromossa francese di un ulteriore irrigidimento del diritto di ingresso sembrano essere solo un´ulteriore passaggio di questa indecente gara a chi è più bravo a disfarsi degli immigrati. L´esito principale sarà l´aumento dei clandestini tra qualche mese, quando scadranno i permessi e molti non saranno riusciti ad entrare in nessun altro Paese europeo.

l’Unità  8.4.11
Senti come ruggisce il coniglio
di Umberto De Giovannangeli


Londra silente. Berlino imbarazzata. Parigi stizzita. C’è chi ricorda che ai tempi della guerra nella ex Jugoslavia, la Germania si fece carico di 400mila profughi senza alzare la voce contro il resto dell’Europa «ingrata». L’italietta del signor B. la pensa diversamente. E sulla «non emergenza» di un «esodo biblico» che non esiste, dichiara «guerra» alla Francia dell’odiato Sarkò-Rambo. Siamo a chi la spara più grossa. Nessuno ci prende sul serio. E come potrebbe essere altrimenti quando la diplomazia italiana è guidata (si fa per dire) da un «non» ministro che un giorno dice una cosa e il giorno dopo contraddice se stesso: il «non» ministro degli Esteri, Franco Frattini. Quello che prima loda Gheddafi e poi vorrebbe guidare le forze alleate contro il bunker del Colonnello. Quello che sulla Libia s’inventa un (inesistente) asse italo-tedesco contro il duo franco-britannico, salvo poi rincorrere Sarkozy e Cameron a chi riarma (a parole) di più gli insorti di Bengasi. Quello che nei giorni caldi della crisi libica passa il suo tempo a Montecitorio per salvare il suo datore di lavoro dai tanti guai giudiziari. Sui dossier che contano, a fare la parte del ministro degli Esteri sono sempre altri: ultimo, in ordine di tempo, Roberto Maroni, il ministro leghista che ha scambiato il Viminale con la Farnesina. Per non parlare dei «ministri ombra» che contano più di Franco F.: l’ad di Eni, Paolo Scaroni, il sodale in affari del Cavaliere, il finanziere-produttore Tarak Ben Ammar... Proviamo a fare la voce grossa. Ma resta il «ruggito del coniglio». E poi c’è ancora chi si chiede perché l’Europa ci ride alle spalle.

l’Unità  8.4.11
Precari di tutta Italia in piazza sabato 9 aprile

Sabato 9 aprile giovani nelle piazze e nelle strade per manifestare e chiedere maggiore attenzione e più diritti. Appuntamenti in tutta Italia. A Roma si annuncia una manifestazione domani pomeriggio che andrà da piazza della Repubblica fino al Colosseo. A Napoli un corteo da piazza Mancini fino a piazza del Gesù. A Milano l'evento si terrà nel primo pomeriggio alle Colonne di San Lorenzo vicino Porta Ticinese. A Torino a piazza Vittorio alle 15. A Genova alle cinque del pomeriggio a via San Lorenzo. Ma non solo. Manifestazioni sono annunciate anche a Parma, Modena, Lecce, Catanzaro, Siracusa e Cosenza. E anche Bari, Lodi e Bergamo.

l’Unità  8.4.11
Per non diventare la generazione perduta
Domani dobbiamo esserci per dire la nostra a chi ci sta spingendo ai margini di questo Paese. Anche gli eroi del Risorgimento erano giovani
di Giuseppe Provenzano

Sabato di molte città, 9 aprile. Il nostro tempo è adesso. E tempo non ce n’è più. La nazione infranta, piegata da profonde disuguaglianze sociali, nella condizione dei suoi giovani ritrova uno specchio e si vede in tutta la figura, sul crinale tra rilancio e declino. Giovani di larghe vedute e competenze, risorse reali e attuali per intraprendere vie “nuove” (avanzate, sostenibili) allo sviluppo, che invece vivono le pene della ricerca di un lavoro o che alla fine “disertano”, verso marginalità sociali e civili, oppure fuggono dall’Italia immobile.
L’istantanea di una generazione è nei dati che misurano i pesanti effetti della crisi sull’occupazione: un calo tutto concentrato sulle fasce d’età giovanili, e aggravato da un sistema di protezione sociale inadeguato e incompleto, squilibrato tra
soggetti colpiti e tutele. Precari, certo – di una precarietà che assume valenza esistenziale e caratterizza l’epoca (insomma, il tempo amaro) che viviamo – ma non solo: giovani sofisticatamente sfruttati; giovani a cui la crisi ha inesorabilmente sbarrato le porte d’accesso a un lavoro all’altezza di sé, delle proprie ambizioni e di quelle del Paese – se solo questo Paese ambisse ancora a qualcosa... L’opinione pubblica è povera persino di strumenti conoscitivi per cogliere questa stato delle cose, e insegue decimi di percentuali ad ogni bollettino Istat sul tasso di disoccupazione giovanile, per poi sprecare commenti e ammonire (rinfacciando al governo più gravi responsabilità o, dal governo, per cavarsi dall’impaccio di cuori rubati, corpi venduti): “un giovane su tre è disoccupato”, “questi sono i giovani di cui dobbiamo parlare”! Dato allarmante, che però riguarda una fascia ridotta (15-24 anni, in larga parte a scuola o all’università) e ne nasconde altri più drammatici e eloquenti: come il tasso di occupazione. Per la Svimez, nel 2010, menodiungiovanesutre,trai15ei34 anni (fascia che comprende l’intera
fase di ingresso sul mercato del lavoro anche dei giovani laureati e altamente qualificati), al Sud, ha un’occupazione. E nel caso delle donne, meno di una su quattro.
Una generazione che rischia di essere “perduta” in patria. Come “perduti”, per la patria, sono tanti eccellenti “fuorusciti”. Patria che non arriva a Lampedusa.
Ecco perché non è più tempo di ascoltare giaculatorie e frasi – come “il futuro è vostro”, “poveri ragazzi, vivrete peggio di noi”, “andatevene, questo Paese non vi merita” – di un inaccettabile paternalismo (che si perverte sempre nell’Italia familista e nepotista) e gravemente irresponsabili se pronunciate da una classe dirigente che, nella condizione dei giovani (e quindi dell’Italia tutta), dovrebbe misurare tutto il suo fallimento. “Abbiamo fallito”, riconoscono pure alcuni, con gran sospiro e molto vezzo. Ma sbagliano i tempi: il fallimento non è l’essere stati non all’altezza delle aspirazioni di gioventù (qui si fallisce, per definizione), ma è l’incapacità di incidere sul presente, di preparare un avvenire, pur detenendo le leve del “comando”. Il nostro tempo è adesso, e bisognerà pur dire: “a cose nuove, uomini nuovi”. Da questo gran ripasso del Risorgimento, abbiamo imparato che “erano tutti ragazzi”... Ora, nel difficile risveglio dal sonno e dalla sbornia berlusconiani, le generazioni penalizzate – quelli che avevano diciott’anni quando è “sceso in campo” e quelli che hanno diciott’anni adesso – non possono più giocare alla truffa del domani. Troppo lunga la stagione in cui tempo s’è fermato, rimandando il futuro sempre un po’ più in là.
E sarà bene vedersi in faccia, domani, nelle molte piazze italiane. Per vedere su chi si può contare, più che per contarci. Se saremo trecento, parremo tremila. Esserci per i ragazzi che in questi anni si ribellavano a Palermo e Locri (o a Castelvolturno) o che soccombevano a Rosarno; per quelli che dieci anni fa erano a Genova e un altro mondo gli pare ora impossibile; per quelli che sono andati via e che vorrebbero tornare; per gli ingegneri a mille euro e gli umanisti a rimborso spese; per quelli che nel migliore dei casi faranno il mestiere del padre (o il cui padre operaio il mestiere non ce l’ha più); per quelli che hanno sfilato coi libri perché tagliano su classi e biblioteche; per quelli che hanno protestato dalle gru e dai monumenti; per quelli che sono saliti sui tetti o che dai tetti sono caduti giù; per la vita di Norman Zarcone e per le vite degli altri; per quelli che potrebbero trovarsi a piazza Tahir e per quelli che hanno gli occhi che piangono il Canale di Sicilia; per il ragazzo a cui a current under sea, picked his bones in whispers...

Corriere della Sera 8.4.11
Troppe assenze, nel Pd rimpianti e sospetti Tra mercoledì e ieri il governo poteva andare «sotto» , ma i deputati non sono stati precettati
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il lavoro di "filibustering"del segretario del gruppo del Pd Roberto Giachetti è stato senz’altro encomiabile. Grazie alla vecchia scuola d’origine, quella radicale, il deputato del Partito Democratico è riuscito a mandare per le lunghe l’esame del processo breve, nonostante il contingentamento dei tempi. Non solo. Giachetti ha ottenuto anche un altro risultato: quello di far saltare i nervi alla maggioranza di centrodestra, costretta in aula per ore e ore, con i leghisti sul piede di partenza, che smaniavano per raggiungere i loro trolley depositati all’ingresso di Montecitorio. Ma la guerriglia parlamentare non è bastata. Né, probabilmente, basterà neanche la settimana prossima. Certo, sarebbe andata diversamente se non fossero mancati all’appello alcuni deputati delle opposizioni. Già, perché Tra mercoledì notte e la giornata di ieri non sempre la maggioranza era a ranghi completi. In diverse votazioni ci sarebbe voluto poco, giusto una manciata di parlamentari in più, per mandare sotto il centrodestra e bloccare il processo breve. Così non è stato. E qualcuno nel Pd si domanda perché. Domanda retorica, perché nelle file del Partito Democratico germina il sospetto che quelle assenze non siano state casuali. Dopo tanto tuonare contro il provvedimento voluto da Berlusconi, com’è possibile che i deputati delle opposizioni non siano stati tutti precettati? Avrebbero potuto vincere se non la guerra almeno qualche battaglia, e mettere in difficoltà il presidente del Consiglio che è da due giorni che raccomanda ai suoi calma e gesso (oltre che la partecipazione alle votazioni, naturalmente) per non creare incidenti e intoppi che facciano slittare i tempi del processo breve. E’ andata diversamente. «Il massimo risultato ottenuto— commenta amaro più d’uno nel Pd— è stato quello di far slittare di qualche giorno un provvedimento che servirà a Berlusconi tra qualche mese...» . E ora la parola ai numeri di questa due giorni alla Camera. Ma prima è necessaria una premessa: nell’ultima votazione a Montecitorio, quella sul conflitto d’attribuzione per il "caso Ruby", i deputati delle opposizioni che si sono espressi in aula contro la richiesta della maggioranza sono stati 302. A questa cifra bisogna sottrarre un assente giustificato, il pd Walter Verini, che ha avuto un lutto familiare mercoledì sera. Altro latitante con alibi, almeno per quel che riguarda la giornata di ieri, è stato l’Idv Pierfelice Zazzera. Ebbene, ciò nonostante, i conti non tornano lo stesso. Mercoledì notte, per esempio, durante la votazione di un emendamento i deputati della maggioranza erano soltanto 298. Ma quelli delle opposizioni erano appena 274. Anche il giorno dopo le maglie del centrodestra si sono allargate. Qualche minuto dopo le dodici e mezzo è stato messo in votazione un emendamento del Pd: 298 i deputati della maggioranza (ne mancavano diversi) e 289 quelli delle opposizioni. C’erano assenze sui banchi di Fli e su quelli dell’Udc (non c’era Pier Ferdinando Casini), mancava una deputata dell’Idv e Maurizio Migliavacca (che ha partecipato agli altri scrutini) in quel momento era in "missione". Una decina di assenti che hanno fatto la differenza. Più tardi, nel pomeriggio, su un emendamento dell’Idv, i parlamentari di Pdl, Lega e Responsabili vari erano 297. Però pure stavolta, alla votazione che si è svolta verso le 16 quelli delle opposizioni non si sono presentati tutti in massa: erano soltanto 289. Ne mancavano due del Partito Democratico (Luciano Pizzetti e Livia Turco), erano assenti un deputato dell’Italia dei Valori, due dell’Udc e una manciata di quelli di Futuro e libertà. Insomma, per farla breve, almeno cinque o sei volte le opposizioni avrebbero potuto battere la maggioranza. «Già — ironizza il leghista Gianluca Buonanno — avrebbero potuto metterci sotto, però non lo hanno voluto fare» . Persino alla votazione dell’articolo 1 del provvedimento, quella che ieri ha fatto registrare le maggiori presenze, vi erano assenti, anche eccellenti, come il capogruppo di Fli Italo Bocchino, ma questa volta, almeno, non sono stati decisivi.

il Fatto 8.4.11
Morti nei penitenziari: 1700 in dieci anni Un terzo si è tolto la vita


In 10 anni nelle carceri italiane sono morti oltre 1.700 detenuti, di cui 1/3 per suicidio. La vicenda di Stefano Cucchi, il trentenne romano arrestato per droga e deceduto in circostanze non ancora chiarite, ha riacceso l’attenzione su molti casi sospetti. Quello di Marcello Lonzi, per esempio, morto nel penitenziario delle Sughere nel 2003, a 29 anni. La madre è convinta che suo figlio non morì per cause naturali, come stabilito da una prima indagine della procura di Livorno, ma in seguito a un pestaggio avvenuto in cella. La procura ha aperto una nuova indagine nella quale risultano indagati un detenuto e tre agenti della polizia penitenziaria con l'accusa di omicidio colposo. Un caso analogo a quello di Aldo Bianzino, il falegname di 44 anni morto il 14 ottobre 2007: tuttora non si sa niente sulle cause del decesso, quel che è certo è che al momento dell'ingresso in carcere, due giorni prima, godeva di perfette condizioni di salute. E ancora Giuseppe Uva, trattenuto per due ore in caserma a Varese e morto in ospedale. Le fotografie scattate dalla sorella lo mostrano pieno di lividi e macchie rossastre.

Le frasi contestate L’impero romano crollò per volontà di Dio che lo volle punire attraverso i barbari per l’abominevole presenza di pochi invertiti Commento a Radio Maria
Le catastrofi rappresentano una voce terribile ma paterna della bontà di Dio e sono talora giusti castighi Commento al terremoto e allo tsunami in Giappone

La Stampa 8.4.11
De Mattei “travolto” dalla sua Storia
Dopo il terremoto, Roma e l’omosessualità: ricercatori e associazioni contro il vicepresidente Cnr
di Mattia Feltri


Il piccolo mistero del vicepresidente del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), Roberto De Mattei, gira attorno a una notizia e a un dilemma malizioso. La notizia è che, entro un paio di mesi, il Cnr rinnoverà il consiglio di amministrazione. Il malizioso dilemma è conseguente: De Mattei sa che non ne farà parte e cerca il martirio oppure lo martirizzano perché non ne faccia parte? Manca soltanto la premessa: gli ultimi convincimenti teologici espressi da De Mattei (a Radio Maria) hanno a che fare con la punizione divina inflitta attraverso i terremoti e col crollo dell’Impero romano provocato da una profusione di omosessualità; e si ritira fuori la storia di un convegno pubblicato a spese del Cnr nel 2009, nel quale si giunse alla conclusione che il darwinismo era morto e il creazionismo resuscitato.
La biografia di De Mattei ha il pregio della coerenza. E’ romano, sessantaduenne, cattolico ultratradizionalista, quattro figli, allievo di Augusto Del Noce, storico, docente all’Università Europea di Roma, soprattutto presidente da quasi trent’anni della fondazione Lepanto, una specie di bastione dell’antiecumenismo e della teoria cristiana dello scontro, per esempio con l’Islam. De Mattei non spunta dal nulla. Nel 1993 è contro la candidatura di Francesco Rutelli a sindaco di Roma e l’avversario di Rutelli, Gianfranco Fini, si porta De Mattei in un curioso convegno (una cosa sulla cyber-destra dei neo-futuristi, già allora...). E’ il 1995 e Fini, reduce dalla svolta di Fiuggi, si lancia nel pionierismo delle «autostrade informatiche»; De Mattei interviene sul passaggio dall’era delle ideologie a quella delle tecnologie.
Più programmatica è la faccenda del Gay Pride a Roma nel 2000, anno del Giubileo. Per Fini si tratta di «un’impuntatura della lobby omosessuale». De Mattei organizza una fiaccolata riparatrice cui prendono parte alcuni parlamentari finiani. Nel 2004 entra al Cnr in quota An e nonostante dai Ds arrivino domande sull’opportunità della nomina nel massimo ente scientifico di uno studioso che scrive libri dal titolo «Chiesa e omosessualità, le ragioni di una immutabile condanna». Insomma, la polemica non è poi così fresca. Tuttavia, nonostante De Mattei sia un fiero antieuropeista, Fini lo nomina suo consigliere istituzionale, politico e culturale quando (novembre 2004) diventa ministro degli Esteri: non c’è missione cui De Mattei non prenda parte. Ora, come tutti sanno, Fini ha platealmente abbandonato i fondamenti teologici e filosofici di De Mattei. L’ultima nomina al Cnr (2008) è stata più che altro avallata dalla titolare alla Pubblica Istruzione, Mariastella Gelmini. E non è per nulla scontato che la cosa si ripeta.
In ogni caso anche dentro il Cnr c’è chi vorrebbe che De Mattei lasciasse subito. Ha qualche nemico nel cda (per esempio Andrea Di Porto, nonostante militino entrambi in Magna Carta, la fondazione passata da Marcello Pera a Gaetano Quagliariello). Molti ricercatori mandano mail di sdegno. Sul sito petizioni.it sono oltre diecimila le richieste di dimissioni, avanzate anche dalla Cgil per «delirio reazionario». Dal giro del presidente, Luciano Maiani, non si nasconde imbarazzo per le opinioni a dir poco intrepide di De Mattei. Ma prevale l’idea che siano appunto opinioni e che De Mattei nel ruolo di vicepresidente (con delega non cruciale alle materie umanistiche) si sia limitato, in giornate di studio, a dare dignità scientifica a posizioni straminoritarie. Insomma, la sua inconciliabilità con la cattedrale della scienza dentro al Cnr non è ancora stata sentenziata. Però, intanto, la disputa monta. I dipietristi minacciano di portare la questione in Parlamento e l’ex ministro Fabio Mussi ricorda di aver cacciato De Mattei per eccesso di superstizione, e ne definisce vergognoso il ritorno. Chissà, forse sarà la politica a metterci una toppa, ora che la dottrina di De Mattei ha perduto i padrini.

La Stampa 8.4.11
Quei cattolici con la sindrome del Concilio
L’offensiva dell’ala tradizionalista
di Andrea Tornielli


Il vicepresidente del Cnr Roberto De Mattei, al centro delle polemiche per aver riproposto le parole di un vescovo dopo il terremoto di Messina del 1908, e per aver presentato la diffusione dell’omosessualità come causa della fine dell’impero romano, è diventato negli ultimi tempi un punto di riferimento importante per il variegato mondo tradizionalista, quel mondo vissuto per decenni borderline, in modo quasi clandestino, che oggi conosce una stagione di grande visibilità mediatica.
Ma non sono queste affermazioni ad effetto ad averlo reso popolarissimo nell’ambiente tradizionalista, quanto piuttosto la sua critica serrata, da destra, al Concilio. Con il suo recente volume Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta , lo storico del Cnr ha infatti dato voce e argomenti a quella sparuta minoranza che ritiene l’assise convocata da Giovanni XXIII la causa della secolarizzazione e dell’annacquamento dell’identità cristiana. Fino a poco tempo fa, questa tesi era stata sostenuta solo dal gruppo dell’arcivescovo francese Marcel Lefebvre, il Che Guevara del tradizionalismo, strenuo oppositore delle riforme conciliari fino alla rottura con Roma, avvenuta nel 1988.
Sulla sponda più teologica, insieme a De Mattei, c’è un altro grande ispiratore di questo neonato movimento anticonciliare tradizionalista: è monsignor Brunero Gherardini, decano della facoltà teologica della Lateranense, canonico di San Pietro e autore di una critica serrata al Vaticano II che spopola tra i cattolici del dissenso da destra. Mentre vanno per la maggiore nell’ambiente, e non solo Oltralpe, i volumi dello storico francese Jean Madiran.
Il tentativo messo in atto da Benedetto XVI fin dall’inizio del suo pontificato per recuperare l’ala lefebvriana e ridare cittadinanza alle istanze di chi ha continuato a chiedere maggiore sacralità nella liturgia cattolica ha fatto sì che quest’area – molto differenziata al suo interno, dove si incrociano simpatie ancien régime e nostalgie per le messe antiche – uscisse dal ghetto. Ma con esiti imprevisti. Ratzinger nel 2007 ha liberalizzato la messa preconciliare e due anni dopo ha tolto le scomuniche ai quattro vescovi lefebvriani, vivendo momenti davvero difficili a motivo delle tristemente note dichiarazioni negazioniste sulle camere a gas sostenute da uno di questi, Richard Williamson. L’intento di Benedetto XVI era e rimane quello di favorire la riconciliazione in ogni direzione. Anche per questo il Papa ha proposto una lettura dei documenti del Vaticano II che li interpreta non come rottura con la tradizione precedente, ma come necessaria riforma nella continuità.
Questa lettura però non è stata affatto assunta da una parte considerevole del movimento tradizionalista, che invece, insistendo a presentare il Concilio come una frattura, ne vorrebbe di fatto la cancellazione. E così, proprio da questo mondo sono venute critiche a Ratzinger. Ad esempio per la sua decisione di convocare ad Assisi il prossimo ottobre un incontro di preghiera per la pace con i rappresentanti delle religioni mondiali, in occasione del venticinquesimo anniversario di quello voluto da Giovanni Paolo II. De Mattei, insieme ad altri intellettuali e giornalisti, ha firmato su Il Foglio un appello a Benedetto XVI perché cancelli l’incontro, considerato come un cedimento al sincretismo. È interessante notare che questo dissenso da destra viene sostenuto con motivazioni teologiche: in pratica si dice al Papa che andando a pregare ad Assisi con i leader delle altre religioni non sarebbe in linea con il suo stesso pontificato.
Un’altra battaglia in corso riguarda la beatificazione di Giovanni Paolo II. Un gruppo di tradizionalisti americani ha spiegato in un articolato documento tutti i motivi che dovrebbero spingere Benedetto XVI a fare marcia indietro (e la riunione di Assisi 1986 è uno degli argomenti a cui viene dato più spazio), mentre in Italia il blog pontifex ha lanciato una campagna contro l’«eretico» Wojtyla, reo di aver baciato una volta una copia del Corano.
Anche se minoritario, il nuovo movimento tradizionalista e antimoderno mostra di saper usare benissimo gli strumenti più moderni: sono infatti blog e siti di quell’area – come ad esempio l’italiano messainlatino.it – a risultare tra i più cliccati. Ipad e smartphone tra incenso e vecchi merletti.

Repubblica 8.4.11
Quel clic della genetica che accende l´intelligenza
Esperimenti sui topi hanno dimostrato che si possono incrementare facoltà cognitive e di orientamento Si chiama Bax il regolatore dei neuroni nel cervello adulto. Se si spegne le capacità aumentano
di Elena Dusi


L´eterno tentativo dell´uomo di aumentare la propria intelligenza passa oggi attraverso l´ingegneria genetica. Facendo scattare un gene come fosse un interruttore, i ricercatori della Columbia University di New York hanno aumentato il numero di neuroni in alcuni topolini, rendendoli più scaltri in una serie di test che nei laboratori si usano per misurare le capacità cognitive e di orientamento degli animali.
«Siamo intervenuti - scrivono i ricercatori guidati da René Hen su Nature - su un gene che regola il numero di neuroni del cervello adulto, causando la scomparsa del 50-80% delle cellule di nuova formazione». È ormai assodato infatti che i neuroni non diminuiscano inesorabilmente con l´avanzare dell´età, ma che nuove cellule si formano continuamente per rimpiazzare quelle che muoiono. La genesi dei nuovi neuroni viene tenuta sotto controllo appunto dal gene Bax, che ne sfronda oltre la metà.
Bloccando Bax con un intervento di ingegneria genetica nei topolini, prosegue Hen, «abbiamo riscontrato un netto aumento del numero dei neuroni». A seconda del tipo di cellule considerate, l´amplificazione è stata misurata in 2-4 volte rispetto alle cavie con l´"interruttore" del gene acceso. E al momento dei test di orientamento nello spazio, i topolini col cervello "arricchito" hanno tradotto il loro bagaglio di neuroni nella capacità di riconoscere con più sicurezza le diverse stanze in cui erano stati condotti, e nelle quali avevano ricevuto una leggera scossa elettrica a una zampa. Questa capacità è considerata l´equivalente del concetto di intelligenza nei roditori.
L´aumento dei neuroni nello studio della Columbia era concentrato nell´ippocampo, area del cervello legata a formazione dei ricordi e memoria spaziale. Un famoso studio inglese di 10 anni fa sui tassisti londinesi (mai riprodotto, e quindi guardato oggi con un po´ di scetticismo) dimostrò che trascorrere le giornate fra strade e vicoli ha come effetto un aumento delle dimensioni dell´ippocampo. «Oltretutto - proseguono i ricercatori - i topolini senza Bax avevano voglia di muoversi ed esplorare e mostravano molta meno ansia anche quando si trovavano in ambienti aperti, esposti ai pericoli».
Accanto a questa scoperta, aggiunge Piergiorgio Strata, presidente dell´Istituto italiano di neuroscienze a Torino, «ce ne sono altre in arrivo. Riguardano la scoperta di geni che aumentano la plasticità del cervello, che portano cioè a un aumento delle connessioni fra i neuroni. Un cervello plastico è come una stazione ferroviaria con molti binari, scambi e una circolazione intensa di convogli». Altri tentativi di migliorare l´intelligenza hanno seguito la via farmacologica, attraverso l´uso - considerato rischioso - di medicine contro l´Alzheimer o per combattere la narcolessia. «Ma la strada più efficace - conclude Strata - resta l´esercizio fisico e mentale, l´abitudine a imparare a memoria e una dieta con poca carne e molto pesce».

Repubblica 8.4.11PROCESSO A FREUD
 L´accusa di Onfray: "un impostore" la difesa degli allievi: "Solo gossip"
Le repliche: "La nostra disciplina non avrà cambiato il mondo ma può aiutare le persone"
Esce il libro scritto dal filosofo contro il padre della psicanalisi. Ecco le sue parole e le risposte degli studiosi italiani
L´attacco: "Era un inventore di casi clinici, un depressivo e un antisemita"
di Luciana Sica


Con vena iconoclasta il filosofo francese Michel Onfray ha scritto un libro di seicento pagine per dire che Freud è stato un borghese reazionario, bugiardo, falsario, omofobo, fallocrate e ammiratore di Mussolini. Crepuscolo di un idolo s´intitola: in Francia è uscito un anno fa da Grasset, e - tra invettive e anatemi, accuse e controaccuse - è stato al centro di una violentissima polemica in bella mostra sulle prime pagine di Le Monde e Libération, sulle copertine di riviste come Le Point, L´Express, Nouvel Observateur.
Nelle librerie italiane, il saggio di Onfray contro «l´affabulazione freudiana» arriva mercoledì prossimo (tradotto da Ponte alle Grazie), ma è improbabile che qui da noi possa avere l´effetto di un ciclone, scatenando la stessa ira furente dell´élite intellettuale parigina, decisamente incline a escludere ogni equivalenza tra il fondatore della psicoanalisi e il più volgare degli impostori. Aldilà delle reazioni più o meno composte, Crepuscolo di un idolo è un meticolosissimo quaderno delle doglianze, una dissacrazione che non risparmia nessun dettaglio. Per dirla con Onfray la tesi di fondo della sua «opera» sarebbe nietzschiana: «La filosofia - così si è espresso - è sempre la confessione dell´autore, la sua autobiografia, e ciò vale anche per Freud».
Sarà, ma alcuni capi d´imputazione risultano sconcertanti. Qualche esempio del furibondo j´accuse contro il maestro viennese: Freud intanto è stato un cocainomane depressivo, onanista, incestuoso, tanto ossessionato dal sesso della madre d´allargare all´universo mondo la sua personale patologia edipica. E poi: un adepto di occultismo, un inventore di casi clinici, un antisemita perché il suo Mosè non era ebreo, e in più un sostenitore dei fascismi per quella nota dedica a Mussolini in Perché la guerra? - il carteggio con Einstein. Addirittura sarebbe stato il teorico dell´«attenzione fluttuante», per potersi appisolare durante le sedute! E ancora, imperdonabile, era un mascalzone che andava a letto con la cognata, «subito dopo aver fissato, come cardine della sua dottrina, la rinuncia alla sessualità al fine di sublimare la libido nella creazione della psicoanalisi».
«Che Freud andasse a letto con Minna Bernays, a me lo rende anche più simpatico. Questa storia l´ho già letta quattro anni fa, sul New York Times. C´era anche la «prova»: la registrazione dei due fedifraghi in un albergo lussuoso delle Alpi svizzere, dove si presentarono come marito e moglie e occuparono una stanza matrimoniale... Dunque Freud tradiva Martha, e allora? Questo toglie qualcosa alle sue scoperte?»: i gossip sulla vita privata di Freud divertono Nino Ferro, che rappresenterà l´Europa al congresso dell´International Psychoanalytical Association, in programma il prossimo agosto a Città del Messico. Un po´ difficile farlo parlare «seriamente», per la sua ilarità e anche perché se c´è un analista che non considera Freud un idolo, è proprio lui. Infatti dice: «Questo libro magari sarà una reazione a quel clima di sacralità che c´è in Francia intorno a Freud, una vera idolatria, una sorta di feticizzazione del suo pensiero che fa dell´opera freudiana un Corano... La mia invece è una visione minimalista della psicoanalisi, che considero quanto di meglio sia stato trovato come rimedio alla sofferenza psichica. E sono radicalmente freudiano, ma nel metodo, mettendo continuamente da parte ciò che so a favore di quanto devo scoprire».
Da sempre la psicoanalisi è oggetto di critiche feroci, alcune molto serie firmate Popper o Grünbaum, e negli ultimi anni - sulla scia del Libro nero della psicoanalisi (Fazi, 2006) - di volta in volta ai più lugubri de profundis («Freud è morto») hanno fatto seguito sorprendenti resurrezioni («Il ritorno di Freud»). «È un fenomeno ricorrente. Ogni tanto libri e giornali, con tono apocalittico, intonano il requiem per la psicoanalisi e smitizzano il suo fondatore»: a dirlo con un filo d´insofferenza è Simona Argentieri, che tra l´altro figura nel Comitato scientifico di un dizionario appena uscito della Treccani (Cervello Mente Psiche). «Capita che alcuni si aggrappano a una grande figura come quella di Freud, idealizzata sia pure in negativo, per sviluppare qualche esile ideuzza. Non credo ci si debba affannare troppo per le critiche, in genere di modesto spessore, tanto più che la nostra disciplina è in sé una teoria della crisi permanente. Il problema è la confusione che generano, senza distinguere tra scuole e percorsi formativi. Ormai ogni cura basata sull´ascolto viene disinvoltamente definita «psicanalisi», accomunando tutti in un costume di eccessiva presenza mediatica. Compresi quelli che - per dirla con Freud - pur denigrandoci, scaldano la loro minestrina al nostro fuoco... La psicoanalisi non avrà cambiato il mondo, tuttavia talvolta un analista - con lento, anonimo, laborioso miracolo - può cambiare la vita di una persona».
Si avventura in un paradosso Antonio Di Ciaccia, nome legato alla cura dell´opera di Lacan (in settembre uscirà da Einaudi il seminario del ‘72-73, quello sul godimento femminile, intitolato Ancora). È lui, che ha firmato la prefazione dell´Antilibro nero della psicoanalisi (Quodlibet, 2007), a dire qui: «Mica male mettere in discussione Freud. Il pericolo è piuttosto la calma piatta, il conformismo degli analisti, l´eccessivo adeguamento alle attese sociali, culturali... Che poi ci sia una profonda ambivalenza nei confronti della psicoanalisi non può sorprendere, perché c´è un «qualcosa» che vuole ignorare il nostro mondo ossessionato dalla razionalità. E questo «qualcosa» - spaventoso, eppure attraente e così assolutamente condizionante - è l´inconscio che Freud ha fatto parlare».

Repubblica 8.4.11
E negli Usa trionfa lo spettacolo che mette in scena il vecchio Sigmund

di Angelo Aquaro

Metti un campione dell´ateismo e un ateo poco devoto, ma convertito, nella stessa stanza. E metti che l´ateo è nientemeno che il vecchio Sigmund Freud, tre settimane prima di morire, e il convertito è invece il giovane C. S. Lewis oggi famosissimo, anche grazie a Hollywood, per le sue Cronache di Narnia - grazie a Hollywood. Un incontro così sembrerebbe inventato. E infatti Freud´s Last Session è una pièce teatrale: però verosimilissima.
L´autore Mark St. Germain, teatrante di lungo corso che ha fatto di tutto, dal «Cosby Show» in tv a Broadway, per immaginare questa «Battaglia delle Menti» (come recita lo slogan della pubblicità») si è ispirato per la verità a un libro, The Question of God di Armand Nicholi, che ricostruisce gli ultimi giorni del padre della psicanalisi nell´esilio di Londra ipotizzando l´incontro con quel professore di Oxford che aveva appena ironizzato sul vecchio ateo in un suo scritto. Ma un conto è un libro, un conto è vedere i due duellanti in carne e ossa, nello studio minuziosamente ricostruito dalle foto d´epoca.
Anche la giornata scelta per il match è di quelle da cortocircuito emozionale: 3 settembre 1939, il giorno in cui Inghilterra e Francia hanno appena dichiarato guerra alla Germania a 48 ore dall´invasione della Polonia. E vedere il vecchio e il giovane che duellano su Dio, sesso e l´ultimo fine dell´uomo, tra gli allarmi della contraerea e le luci dello studio che si spengono all´improvviso, riporta ogni intellettualistica discussione al nocciolo: parole parole parole - e intanto alla finestra bussa la fine dell´uomo.
Lo spettacolo è un successone nel suo genere, la critica usa le parole del caso, «gemma» e «sorpresa». Presentato l´estate scorsa nel circuito alternativo, quell´off Broadway che si presume meno ricco e spettacoloso, lo show è tornato quest´anno per un nuovo ciclo che doveva durare poche settimane e viene continuamente prorogato.
Si ragiona e si sorride. «Il divieto del sesso prima del matrimonio? Ma è crudeltà mentale!» dice Freud, che non si dà ragione del fatto che un ateo brillante come Lewis sia diventato così devoto. L´attrazione delle reciproche intelligenze non porta da nessuna parte: non può essere uno show a rispondere alle domande ultime. Ma lo stoicismo con cui il Dottore reagisce agli attacchi di tosse - quel maledetto cancro alla gola lo sta uccidendo - è già una risposta. Lewis, premuroso e imbarazzato, lo aiuta a riprendersi: ma per distendersi e riposare, in quello studio assediato dalla guerra, a Sigmund Freud non resta che un lettino.

il Fatto Saturno 8.4.11
Psiche & business
La fabbrica dell’infelicità
Siamo destinati a diventare un popolo di depressi. Anche grazie ai medici e alle industrie farmaceutiche. Un libro di Gary Greenberg sulla storia del male oscuro
di Giorgio Cosmacini


QUANDO Giuseppe Berto ottenne nel 1964 il Premio Viareggio con il romanzo Il male oscuro furono in molti a chiedersi che cosa fosse mai questo male. C’era, al riguardo, il precedente autorevole di Carlo Emilio Gadda, che in una pagina della Cognizione del dolore, scritta alla fine degli anni Trenta, scolpiva questa frase: «Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle grandi cattedre persistono a dover ignorare le cause, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il folgorato scoscendere d’una vita, più greve di ogni giorno, immedicato». Un male oscuro veniva assunto a metafora letteraria di una situazione umana a volte innominabile, da chi si rifiuta di accettarla , ed etichettata irrazionale, da chi esita a riconoscersi in preda a uno stato emotivo irresistibile.
Questi pensieri si rincorrono avendo fra le mani il libro Storia segreta del male oscuro (appena uscito da Bollati Boringhieri) dello psicoterapeuta Gary Greenberg, studioso dei nessi tra medicina, etica e politica. Il sottotiolo chiarifica il male “oscuro”: «siamo infelici perché affetti dalla malattia chiamata depressione?». L’interrogativo sottintende l’intenzione critica: non è la depressione a negarti la felicità e a condurti dai medici, ma sono questi che «vogliono che ti accorga che la tua infelicità ti sta dicendo che hai bisogno di loro».
Perché mai, si chiede l’autore, la scienza medica ha inquadrato in una entità chiamata “depressione” l’inspiegabile e persistente calo di umore, la vertigine da svuotamento dell’io, la contrazione allo stomaco che toglie ogni vitalità, l’angoscia di non riuscire ad affrontare il giorno successivo mentre l’orizzonte man mano si contrae? Greenberg risponde a se stesso: «La depressione coglie le ansie e i dispiaceri di chi vive in tempi di grandi rivolgimenti culturali», quali «lo scontro tra la visione di un orizzonte infinito davanti a noi e i limiti inevitabili della vita sulla terra, la situazione economica, geopolitica ed ecologica che peggiora di giorno in giorno, la difficoltà sempre maggiore nel cercare la felicità».
Aggiunge l’autore: «Ma allora perché chiamarla malattia?»; e a questo punto «perché non sbarazzarsi anche dell’intermediario, nel nostro caso il medico, con la sua lista di diagnosi e i suoi ricettari?». Può essere mai «il Lexapo, per dirne uno, piuttosto che il Prozac», il farmaco che può cambiare la nostra vita, la pillola della felicità (come Peter Kramer ha intitolato nel 1994 un suo libro di successo), il medicinale che funziona come «una spruzzata di lubrificante su di una macchina cui permette di fare quel che deve fare»?
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la depressione come «la più umana delle affezioni». Dalla medesima fonte apprendiamo che dal 2002 essa «già occupa il quarto posto tra le cause di morbilità» e che «entro due anni si insedierà al secondo». Viene riconosciuta come malattia sociale, come epidemia nei paesi a evoluzione tecnologica e culturale avanzata. Siamo dunque destinati a essere un popolo di depressi, al modo descritto da Marcel Proust ne I Guermantes, per il quale l’affezione «era un profumo irrespirabile», diffuso come l’ammorbante “mal’aria” d’antico regime? La sua causa è un «agente patogeno più virulento di tutti i microbi?».
Già Pierre Fédida , psicopatologo nell’Università di Parigi, richiamava l’attenzione su Il buon uso della depressione (Einaudi 2002), inteso come scelta da parte della persona afflitta d’intrattenere il rapporto di cura con chi è capace di condividere la sua biografia. I farmaci sono utili alla biologia del processo psicopatologico, però non guariscono. Per questo bisogna essere in due.
A commento del libro di Gary Greenberg, si può pienamente sottoscrivere l’idea che la riduzione dell’infelicità a difetto biochimico in grado di esser riequilibrato da una pillola (ma anche a vizio cognitivo che lo psicoterapeuta può sicuramente correggere) è solo funzionale a fabbricare nuova depressione medicalizzata. La medicalizzazione può giungere a dire che la depressione è dovuta a “deficit di Prozac”. Dice Greenberg: «Non lasciamo che i medici della depressione ci facciano ammalare».

l’Unità 8.4.11
Dimissioni dagli Ospedali Giudiziari
risponde Luigi Cancrini


Se la denuncia della Commissione di inchiesta, legittima e condivisibile, corredata dai «fotogrammi indecenti» fosse stata affiancata anche da una corretta informazione (coinvolgendo semmai gli operatori che ci lavorano e gli specialisti della salute mentale) avremmo avuto una occasione unica, credo, per avviare un dibattito davvero scientifico.
Antonella Lettieri

RISPOSTA    I pazienti chiusi ancora oggi negli Opg sono pazienti estremamente gravi. Giusto indignarsi per le condizioni disumane in cui molti di loro vengono tenuti e doveroso, sicuramente, intervenire per liberarli. Superficiale e sbagliato, tuttavia, pensare che il loro bisogno di essere curati si esaurisca con la liberazione. Il peso dei delitti che hanno commesso (in Opg finiscono i delitti più efferati e gli omicidi in famiglia) e la incapacità di difendersi di quelli che stanno lì per reati minori rendono sempre molto difficile da gestire all’esterno la loro patologia di base. Quello di cui c’è bisogno per aiutarli davvero è un insieme di strutture intermedie in grado di accoglierli ed una task force di persone competenti, appassionate, capaci di collaborare con gli operatori già attivi in alcuni di questi ospedali con i pazienti, con le loro famiglie e con i servizi del territorio per preparare progetti personalizzati di dimissione. Il problema dei reclusi in Opg è un problema politico di diritti civili ma è anche un problema di persone assediate dalle loro angosce e dai loro fantasmi interni. Che hanno bisogno e diritto di essere finalmente curate.

il Fatto 8.4.11
Tre giorni di incontri
Laicità un tabù tutto italiano
A Reggio Emilia filosofi, religiosi e scienziati si confronteranno sul relativismo. Ma l’iniziativa di Flores d’Arcais provoca già polemiche
di Mattia Carzaniga


Le Giornate della Laicità non sono ancora cominciate ed è già polemica. La rassegna – nata per iniziativa di Paolo Flores d’Arcais, direttore di “MicroMega” e firma anche di questo giornale – ospitata a Reggio Emilia dal 15 al 17 aprile- già si scontra con il dietrofront delle istituzioni. Quelle della vicina Parma, che prima concede e poi nega il patrocinio a una rassegna di cinema collegata alla tre giorni. La motivazione? «Possono essere oggetto di Patrocinio eventi […], ad esclusione di quelli a carattere politico promossi da partiti o movimenti politici». La rassegna in realtà si compone non di comizi ma di incontri e dialoghi filosofici attorno al tema quantomai caldo del “relativismo” etico, che vedono schierati nomi come Gianni Vattimo, Piergiorgio Odi-freddi, Margherita Hack, Roberta De Monticelli, Sergio Luzzatto (il programma completo su www.micromega.net  ).
Dunque Flores d’Arcais, come spiega la negazione del patrocinio da parte del Comune di Parma?
È un episodio marginale ma molto significativo. Si trattava di una rassegna di film per accompagnare le tre giornate di Reggio Emilia. Malgrado il riconosciuto valore artistico dei film in programma, il Comune ha voluto togliere il patrocinio con motivazioni grottesche, ma chiaramente costituisce la “solidarietà” di un’amministrazione berlusconiana alla Curia della vicina Reggio, che malgrado i suoi anatemi non era riuscita a far venire meno il sostegno del Comune e dell’Università alle Giornate.
Lei stesso ha dichiarato che un’iniziativa come questa «in un paese democratico dovrebbe risultare talmente scontata da non costituire oggetto di dibattito».
La laicità dovrebbe essere in tutte le democrazie terreno comune tra credenti, scettici, miscredenti, atei. L’Italia invece è il Bel Paese dove nei luoghi pubblici si garantisce uguale dignità a tutti i cittadini imponendo a tutti un solo simbolo religioso. E i presunti monopolisti di quel simbolo vogliono imporre per legge a ciascuno di noi le modalità con cui dovremmo anche morire. Basta questo per far capire la distanza abissale rispetto al fondamento liberale enunciato da Thomas Jefferson due secoli e passa fa sulla necessità di innalzare un invalicabile “muro di separazione” tra Stato e sedi religiose.
A chi fa comodo oggi non innalzarlo? È sempre colpa del Vaticano? O sono questioni di lobby?
La radice è nell’unico articolo della Costituzione che andrebbe cambiato: il 7, che legittimava i Patti Lateranensi. Oggi la commistione tra politica e religione, dove la politica è subalterna, fa parte dello scambio indecente tra Berlusconi e la Conferenza Episcopale Italiana, per cui la Chiesa gerarchica contestualizza e santifica parole e pratiche ferocemente anticristiane del regime e dei suoi gerarchi (il riferimento è anche alla barzelletta con bestemmia del premier, ndr) per il piatto di lenticchie di sontuose elargizioni alla scuole confessionale.
La provoco: le Giornate della Laicità sono una risposta alla crescente domanda di senso di molti o una mossa principalmente politica?
Sicuramente vogliono essere la dimostrazione di come il monopolio della “risposta di senso” non sia affatto delle religioni ma possa venire dal mondo laico anche nel senso di mondo ateo.
Perché il relativismo come tema unificante?
Perché della crociata contro il relativismo si è fatto banditore lo stesso papa Ratzinger, Eppure, la pluralità delle morali è il principio stesso da cui prende origine la modernità.
Quali appuntamenti e nomi ha scelto per reccontare tutto questo?
Avremmo voluto un dialogo molto ampio tra diverse posizioni: se quelle della Chiesa gerarchica non ci saranno è perché almeno quindici cardinali hanno rifiutato come un sol uomo. Ciò nonostante, c’è una presenza cattolica significativa, da Don Carlo Molari, uno dei massimi teologi morali, a Dom. Franzoni. Ma soprattutto il terreno della laicità unirà credenti e non credenti. Ad esempio io, oltre che una discussione con Don Molari, ne farò altre con due credenti molto invisi alla gerarchia ecclesiastica: Roberta De Monticelli, sul tema della legge naturale, e Gianni Vattimo, sul tema della possibilità filosofica del credere in Dio.
Qual è la sua disposizione in questi dialoghi?
L’idea è sempre quella di cercare di discutere apertamente su ciò che divide: questo è considerato da qualcuno un modo non dialogante, ma è il vero dia-lògos, la controversia tra punti di vista autentica e senza diplomazia.
A quale il risultato punta, con questa tre giorni?
Credo che questo sia il festival più povero in rapporto 10 a 1 rispetto ai tantissimi e interessanti festival che ci sono in Italia, ma devo ringraziare l’organizzatore Giorgio Salsi per il suo straordinario impegno. La speranza è possa diventare un appuntamento nazionale permanente, magari biennale. Almeno finché la questione laica resterà, ahimè, aperta.

l’Unità 8.4.11
Cambiare se stessi per cambiare il mondo
Il convegno A un anno dalla scomparsa di Pierre Hadot resta sorprendente e pregnante la sua «lezione» che riscopre nell’antichità greca una filosofia che è prima di tutto un modo di vivere e formare esseri umani e cittadini
di Romano Màdera, psicoanalista

Un anno fa, in aprile, moriva Pierre Hadot, l’uomo che ha cambiato per molte persone e per molti studiosi, in Francia e nel mondo, il significato della parola filosofia, riscoprendo nell’antichità greca e romana le tracce di una filosofia che è innanzitutto un modo di vivere, prima ancora di essere un discorso, un insieme di teorie. Una visione
sorprendente anche per chi ha studiato filosofia a scuola o all’università e ne ha tratto, quasi sempre, l’impressione che si tratti di una raccolta a volte interessante, a volte noiosa di pensieri ben argomentati, ma raramente capaci di incidere nella vita quotidiana. Per Hadot i testi antichi non si possono comprendere a fondo, né si possono spiegare le frequenti contraddizioni, le ripetizioni, le variazioni di uno stesso concetto, se non si collocano gli scritti che ci sono rimasti dentro il contesto nel quale sono stati concepiti. Non si tratta di
sistemi di pensiero: la loro finalità non è principalmente quella di informare, di trasmettere saperi, ma, invece, quella di formare uomini diversi, capaci di migliorare se stessi, di raggiungere pienezza di vita, di contribuire alla costruzione di una città, di una polis e quindi di una politica orientata al bene e alla giustizia.
Dal suo lavoro scrupolosissimo di filologo e di storico (ha curato, fra le tante altre, la riedizione dell’opera di Marco Aurelio e di Plotino, ha insegnato al Collège de France), Hadot è arrivato alla convinzione che la filosofia è qualcosa di molto diverso dallo studio dei testi e dalla vita dei professori di filosofia: la filosofia è l’esistenza stessa, l’esistenza di tutti giorni, trasformata in un tentativo, sempre rinnovato e mai acritico, di praticare ciò che si ritiene bene per sé e per gli altri, di esercitarsi ogni giorno per avvicinarsi alla verità su se stessi e sul mondo che ci circonda, di svincolarsi dalla prigione del proprio particolaristico, egoistico interesse, dalla morsa delle passioni che non si acquietano mai in una stabile capacità di apprezzare l’esistenza.
Hadot è stato uno studioso di prima grandezza, è certo, ma ciò a cui più teneva era di riuscire ad essere un filosofo praticante. In un libro-intervista (La filosofia come modo di vivere, pubblicato da Einaudi ) nel quale ripercorre le tappe della sua biografia e ricostruisce le linee fondamentali del suo pensiero dice con la sua abituale semplicità e franchezza: «Personalmente, pur cercando di portare a buon fine il mio compito di storico e di esegeta, mi sforzo soprattutto di condurre una vita filosofica, cioè, semplicemente... consapevole, coerente e razionale. I risultati non sono sempre di livello molto alto, bisogna riconoscerlo. Durante i miei soggiorni all’ospedale, per esempio, non sempre ho conservato la serenità d’animo che avrei voluto mantenere. Comunque sia, cerco però di pormi in determinati atteggiamenti interiori, come la concentrazione sull’istante presente, la meraviglia di fronte alla presenza del mondo, lo sguardo rivolto alle cose dall’alto ... la presa di coscienza del mistero dell’esistenza». Questi sono alcuni degli Esercizi spirituali nella filosofia antica alla cui riscoperta Hadot ha dedicato la vita e il suo lavoro di studioso (il suo libro più famoso porta lo stesso titolo). Si tratta innanzitutto di una «conversione», parola che Hadot ritrova nella filosofia antica e che dunque non è esclusiva della religione, poi di una disciplina quotidiana fatta appunto di esercizi, come parte dei quali troviamo il dialogo, la lettura, lo studio, perché filosofico è un modo di vivere che continuamente si interroga su se stesso cercando di esaminare idee e comportamenti alla luce della ragione. Lo scopo è quello di cambiare se stessi perché serenità e felicità non si trovano inseguendo forsennatamente le illusioni delle passioni egoistiche, ma nel riconoscerci nella realtà e nella verità del nostro essere parte del cosmo, in relazione di interdipendenza con gli altri.
Di fronte alla vertigine della crisi di ogni riferimento all’universale che attanaglia la nostra epoca, Hadot, con semplicità e fermezza, guida il nostro sguardo nella direzione di una sempre riemergente tensione verso la verità, verso la ragione universale, verso gli altri come cuore e mente di una vita ricca di senso. Cambiare la vita, cambiare almeno una vita sapendo che questa è la condizione prima perché la vita associata sia degna di un’umanità consapevole del legame di destino che ci vincola gli uni agli altri. Questo è il compito di una filosofia che per essere modo di vita riconosce di portare in se stessa la sua vocazione alla vera politica.
All'indomani della scomparsa, il quotidiano    francese Le Monde ricordava così Pierre Hadot: «Coerentemente al suo modo di ragionare, questa sobrietà si ritrova con grande evidenza nella sua vita quotidiana, costellata di gioie intense, perché semplici. Malgrado questo, Pierre Hadot non amava essere definito un saggio. E questo è il solo punto su cui aveva torto».

l’Unità 8.4.11
Dimissioni dagli Ospedali Giudiziari
risponde Luigi Cancrini

Se la denuncia della Commissione di inchiesta, legittima e condivisibile, corredata dai «fotogrammi indecenti» fosse stata affiancata anche da una corretta informazione (coinvolgendo semmai gli operatori che ci lavorano e gli specialisti della salute mentale) avremmo avuto una occasione unica, credo, per avviare un dibattito davvero scientifico.
Antonella Lettieri

RISPOSTA    I pazienti chiusi ancora oggi negli Opg sono pazienti estremamente gravi. Giusto indignarsi per le condizioni disumane in cui molti di loro vengono tenuti e doveroso, sicuramente, intervenire per liberarli. Superficiale e sbagliato, tuttavia, pensare che il loro bisogno di essere curati si esaurisca con la liberazione. Il peso dei delitti che hanno commesso (in Opg finiscono i delitti più efferati e gli omicidi in famiglia) e la incapacità di difendersi di quelli che stanno lì per reati minori rendono sempre molto difficile da gestire all’esterno la loro patologia di base. Quello di cui c’è bisogno per aiutarli davvero è un insieme di strutture intermedie in grado di accoglierli ed una task force di persone competenti, appassionate, capaci di collaborare con gli operatori già attivi in alcuni di questi ospedali con i pazienti, con le loro famiglie e con i servizi del territorio per preparare progetti personalizzati di dimissione. Il problema dei reclusi in Opg è un problema politico di diritti civili ma è anche un problema di persone assediate dalle loro angosce e dai loro fantasmi interni. Che hanno bisogno e diritto di essere finalmente curate.

Corriere della Sera 8.4.11
Pechino accusa di frode il genio ribelle Ai Weiwei
Stretta contro i dissidenti: «L’Occidente stia fuori»
di Marco Del Corona

I versi che scrisse il padre adesso parlano di lui: «... Lo imparano anche gli idioti:/senza movimento/non esiste la vita./Se si vive occorre combattere/andare avanti nella lotta./Prima che arrivi la morte/si esaurisca l’energia!» . Ai Weiwei è ufficialmente detenuto, ufficialmente indagato. Ed è ufficiosamente diventato una questione di Stato. L’artista e attivista fermato domenica all’aeroporto di Pechino, figlio dell’insigne poeta Ai Qing, «è sospettato di crimini economici» , ha dichiarato ieri un portavoce del governo, e il suo arresto «non ha nulla a che vedere con i diritti umani e la libertà di espressione» . La vicenda di Ai apre un nuovo fronte di attrito fra Cina e Occidente, sommandosi all’affaire Liu Xiaobo, il dissidente condannato a 11 anni per sovversione e premiato l’anno scorso con il Nobel per la Pace fra le ire della Cina. Se nei giorni scorsi Usa, Unione Europea, Gran Bretagna, Germania e altri avevano protestato per il fermo di Ai, ieri Pechino ha replicato: l’Occidente «non deve interferire» . Anche l’Europarlamento ieri s’è mosso chiedendo la liberazione del coprogettista del Nido d’Uccello, lo stadio olimpico. L’ambasciatore statunitense Jon Huntsman, che a fine mese lascerà l’incarico ed è interessato alle primarie repubblicane per le presidenziali del 2012, ha colorato di tinte preelettorali il tema, avvertendo che gli Usa non cesseranno mai di occuparsi di diritti umani e che questo avviene «perché noi americani teniamo davvero alla relazione con la Cina» . L’annuncio dei «crimini economici» è un elemento di chiarezza in una vicenda che da domenica, giorno in cui gli agenti avevano anche perquisito la casa-studio dell’artista e interrogato i suoi collaboratori, era invece rimasta opaca. Che dietro i possibili misfatti fiscali o contabili si celino motivazioni politiche è reso plausibile da alcuni precedenti, tra cui i tre anni di carcere inflitti a un interprete del New York Times, Zhao Yan, tre anni in carcere per irregolarità fiscali (2007). E lo dimostra, soprattutto, il Global Times di mercoledì, che definiva Ai «un fenomeno» che forza i limiti delle leggi, fin dove il cinese medio non si spinge, e oltre. Ieri, sullo stesso giornale, un secondo editoriale, ferocemente cerchiobottista: «Da una prospettiva storica, la società cinese ha bisogno di persone come Ai. Ma allo stesso tempo, i limiti a comportamenti di sfida come i suoi sono più importanti. Questo perché l’obiettivo della critica ai diritti umani in Cina è di demolire politicamente la Cina stessa» . Un punto fermo: «Mantenere la stabilità sociale in un Paese popoloso come la Cina è molto più complicato» . E così via. Oltre alla folla di sostenitori affacciatisi sul Web, intorno ad Ai si è mosso un piccolo esercito femminile, così come sul dissidente Hu Jia veglia la moglie Zen Jinyan e come Liu Xiaobo, Nobel per la Pace 2010, è indissolubilmente legato a Liu Xia, di fatto ai domiciliari. Di Ai Weiwei hanno parlato la sorella, la madre («Alla storia dei reati economici non credo» ), la moglie Lu Qing («Vediamo cosa succede ora» ). Domenica, poi, le perquisizioni hanno riguardato pure la casa di un’altra donna legata ad Ai. Tutte ne conoscono la forza, sanno quanto l’artista 53enne sia consapevole del potere dei media, dell’attenzione che generano. Eppure adesso anche Ai entra in una terra incognita, il potere ha perso la pazienza, le antiche protezioni— la fama del padre, la fama d’artista— non tengono più. Scriveva Ai Qing, il padre poeta: «Perché nei miei occhi ho sempre lacrime?/Perché amo questa terra profondamente...» .

Repubblica 8.4.11
Famoso nel mondo come artista e dissidente È stato incriminato per "crimini finanziari"
L’architetto che fa tremare il regime cinese
di Renata Pisu

L´autore dello stadio "Nido d´uccello" è stato arrestato con 8 collaboratori
L´archistar è una delle voci più critiche verso il sistema del partito unico

Ai Weiwei, il più famoso e geniale artista cinese, è stato arrestato e da tre giorni non si avevano più sue notizie, cioè da quando era uscito dal suo studio abitazione di Pechino per recarsi all´aeroporto e prendere un volo per Hong Kong. Lì era stato fermato da due agenti in borghese e la notizia allarmante si era sparsa per passaparola e via Internet senza che si avesse nessuna notizia ufficiale della sua sorte. Ieri le autorità hanno rotto il silenzio: Ai Weiwei è stato arrestato perché colpevole di "crimini finanziari" non meglio specificati e guai ai paesi stranieri che oseranno interferire negli affari interni della Cina, sottinteso "visto che non si tratta di diritti umani e di libertà di espressione". Contemporaneamente il Global Times, un quotidiano allineato al regime, ha accennato alla vicenda in termini tali da far temere il peggio perché quando la stampa ufficiale cade nel ridicolo è segno che la situazione è davvero pericolosa, che si sta compiendo un "Grande Balzo all´Indietro": si legge infatti sul Global Times che l´artista è "un anticonformista che ama assumere atteggiamenti originali" ma "verrà giudicato dalla storia e pagherà il prezzo per le sue scelte speciali che è lo stesso in ogni società".
L´incriminazione per reati economici deve essere sembrata, nelle alte sfere, una mossa furba, sostengono molti sostenitori di Ai Weiwei: già, scrive uno su Twitter, «lo FBI riuscì a mettere le mani su potenti mafiosi accusandoli di evasione fiscale. Ne avevano combinate ben di altre…». E ben di altre, ma di altra specie, ne ha combinate Ai Weiwei, soprattutto negli ultimi tempi. Nel 2008 ha firmato la Carta O8 che è costata l´arresto a Liu Xiaobo, ma lui se l´è cavata, forse perché il mondo intero, in attesa delle Olimpiadi, sapeva che era stata sua l´ideazione del tanto celebrato stadio di Pechino a Nido di uccello. Ma, disgustato per quello che secondo lui era stato da parte del governo un uso propagandistico dei Giochi, Ai si era fatto fotografare con lo stadio alle spalle e con il dito medio alzato, in c… a chi lo si capiva bene. Ma non basta: dopo il terremoto del Sichuan sempre nel 2008, aveva mobilitato tutti i suoi fan (il suo sito conta più di diecimila contatti al giorno) per andare a trovare tra le macerie di quelle case e scuole costruite con la sabbia, memorie e documenti di migliaia di bambini scomparsi senza che si sapesse quanti fossero e si conoscessero i loro nomi. Ha ricostruito così le storie di cinquemilacentoquaranta piccole vittime e ha esposto in una mostra quelle che potremmo chiamare le loro tavole commemorative, come quelle che in Cina un tempo si dedicavano agli antenati e che, per la corruzione e l´insipienza degli attuali governanti, oggi sono state da lui dedicate alle generazioni a venire .
Per questo è stato picchiato dalla polizia e ha dovuto farsi operare alla testa per emorragia cerebrale, causata dai manganelli. Tante e tante altre ne ha fatte perché pur essendo artista non crede all´arte per l´arte, non scende a compromessi. Gli avevano dato l´autorizzazione per aprire un suo grande studio a Shanghai, appena ultimato glielo hanno distrutto sostenendo che non aveva rispettato i parametri urbanistici. Voleva fare una festa per l´inaugurazione, ma l´hanno arrestato a Pechino per impedirgli di raggiungere Shanghai.
Questo succedeva a novembre. Poi , quando si sono create in Cina forti tensioni a causa dei Gelsomini cinesi che si pensava potessero essere un riverbero delle rivolte pro-democrazia del Nord Africa, è arrivata la grande stretta. Ai Weiwei non taceva, non ha mai taciuto, perché si è innamorato di Internet, anche se il suo nome è stato "proibito". Ma le vie di Internet e di Twitter sono infinite, sono più dei quindici milioni di semi di girasole, fatti a mano uno per uno, e dipinti a mano, dai ceramisti ingaggiati da Ai Weiwei per la sua esposizione alla Tate Modern di Londra L´artigianato contro la produzione di massa.
Ora che Ai Weiwei è in carcere, i suoi semi di girasole sono a Londra, ognuno parla di Cina a modo suo e per Ai Weiwei che i detrattori della Pechino bene definiscono un clown. Peggior sorte toccò a Ai Qing, suo padre, un poeta, sedici anni nel freddo Nord-est del paese a pulire cessi pubblici, definito "elemento di destra puzzolente". Per questo i cessi. Ai Qing ha scritto: "tra qualche migliaio di anni, tra rovine un tempo gloriose, l´archeologo troverà un osso…un osso che fu mio. Ma come potrà sapere che quell´osso si bruciò alla fiamma del XX secolo?" Ai Weiwei conosce bene questi versi.