Repubblica 23.4.11
I paradossi della fede
di Antonio Gnoli
Qualche tempo fa, in un confronto con il teologo John Milbank (poi edito nel libro La mostruosità di Cristo, ed. Transeuropa), Slavoj Zizek si interrogava sul senso della frase che Cristo pronuncia sulla Croce: «Padre, perché mi hai abbandonato». Non è un paradosso che la fede del figlio di Dio vacilli? Altrettanto assurdo può apparirci che il sacrificio sulla Croce salvi il mondo. «Credo perché è assurdo» afferma Tertulliano, sulla scorta di San Paolo. Assurdo è quanto di più distante ci sia dalla logica rassicurante della ragione. Ma è su questo abisso che si fonda la fede. Wittgenstein affrontò il significato del credere, precisando che la religione nulla aggiungeva alle nostre conoscenze, ma scopriva aspetti dell´umano cui la scienza non dava risposta. Anche John Wisdom – che gli successe alla cattedra di Cambridge – si interroga ne La logica di Dio (Quodlibet) sul paradosso della fede. Accoglierla o rifiutarla cade nel dominio dell´inesprimibile. Essa può divenire dogma o sofferenza. E la Chiesa percorse entrambe le strade. Ha praticato la fine del dubbio e al tempo stesso ha colto la grandezza salvifica del dolore. Gran parte dell´iconografia della Croce – da Holbain a Grünewald, da Bruegel a Juan de la Cruz – ha ritratto i volti della sofferenza del Cristo e di quell´abbandono gridato. Alla vigilia di Pasqua è giusto ricordarlo.
l’Unità 23.4.11
«Il premier ha paura di tutto, sa di avere perso i consensi»
Il vicepresidente dei senatori pd: così trasforma la democrazia parlamentare in un regime camuffato
di Claudia Fusani
Senatore Zanda, l’ultima è che il governo presenta un decreto per sminare anche il referendum sull’acqua. Il premier teme anche questo?
«Berlusconi è in una fase in cui ha paura di tutto: del referendum perchè può diventare un sondaggio a favore o contro la sua persona; del voto a Milano; di Tremonti e di Galan; di Scilipoti tanto che scrive le prefazioni al suo libro; dei giudici di Milano, di Ruby e delle ragazze che la sera andavano a Arcore».
Paura di cosa?
«Di non trovare più il consenso che racconta ancora di avere». Come definire i tentativi di levare di mezzo i quesiti referendari, strumento di controllo fondamentale del cittadino elettore?
«Sono pezzi di una tecnica collaudata per trasformare una democrazia parlamentare in un regime camuffato». E gli altri pezzi della strategia?
«La fine del Parlamento che come ha giustamente osservato il presidente uscente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo non fa più le leggi ma converte e vota solo quello che gli mette sul tavolo il governo. Il continuo accerchiamento della magistratura e della Corte Costituzionale, il dominio dell’informazione». Nel merito, che dire di questa idea di decreto per far nascere l’authority per l’acqua?
«In linea di principio potrei anche essere d’accordo. Il problema è che questo governo considera le varie Autorità quasi fossero dependances. In un paese dove non esiste una norma che regola il conflitto di interessi, il rischio è che mi ritrovo Berlusconi o chi per lui a gestire l’acqua. Quindi non possiamo che chiedere che l’acqua resti pubblica. E andare a votare». Sembra quasi che il populista per eccellenza, Berlusconi, abbia in realtà paura proprio del suo popolo. «E’ così. Quello che è grave è che riduce il quorum degli elettori a strumento per boicottare il referendum. Uno strumento di bocciatura o approvazione. Questo è contrario allo spirito costituzionale del referendum. Il fatto è che la maggioranza di centrodestra ci ha abituato a manipolazioni grossolane del nostro ordinamento. Il condizionamento del quorum è solo l’ultimo e, tra l’altro, è sfacciatamente contraddittorio del populismo berlusconiano. Siamo in un paese in cui da una parte c’è l’indecente proposta di Ceroni di costituzionalizzare il populismo e dall’altra il governo che mette il bavaglio agli elettori».
Lei era in aula nei giorni scorsi quando il ministro Romani ha cancellato con un emendamento la sua politica energetica. Crede che il quesito referendario sul nucleare sarà cancellato dalla Cassazione?
«Non credo e aspetterei con fiducia la decisione della Cassazione quando mai e se mai dovrà pronunciarsi. Il governo in realtà ha introdotto una sospensione e non una bocciatura. Lo stesso giorno dell’annuncio di Romani Idv e Pd avevano portato in aula un emendamento (alla moratoria al nucleare contenuta nel decreto omnibus, ndr) che prevedeva la rinuncia definitiva dell’Italia al nucleare. Il governo l’ha bocciata. Questo significa che il governo non vuole la bocciatura ma solo la sospensione».
Boicottare nucleare e acqua per far fuori anche il quesito sul legittimo impedimento? «E’ chiaro. E torniamo sempre al gioco sporco sul quorum. È implicito in quel voto un giudizio sulla sua condotta morale».
Sotto attacco anche l’istituto dei referendum? «Non me l’aspettavo. Devo dire che in quanto a spregiuticatezza Berlusconi ne inventa una più del diavolo».
Quale il limite?
«Non lo conosciamo. E a questo punto lo possono definire solo gli italiani cacciandolo via».
il Fatto 23.4.11
“Afascisti” e antifascisti
di Maurizio Viroli
Non ricordo un 25 aprile così carico di preoccupazioni come questo che ci prepariamo a celebrare. É ormai evidente a tutti che l'attuale scontro politico in Italia è fra il signore con la sua corte da una parte e la Costituzione repubblicana dall'altra. La nostra Costituzione, ricordiamocelo, è antifascista, non afascista. I Costituenti avevano quale loro ideale guida, pur con le grandi differenze politiche e ideologiche che li dividevano, la volontà di mettere per sempre al riparo l'Italia da una ricaduta nell'orrore del fascismo. Per questa ragione, che era in sintesi un'esigenza di libertà, vollero inserire nella nostra carta fondamentale tutti i principi che il fascismo aveva deriso e calpestato: i diritti individuali, il valore supremo della persona umana, l'idea che il potere sovrano deve procedere dal basso all'alto, il concetto dei limiti imposti all'esercizio del potere sovrano da parte della Costituzione, la centralità del Parlamento, l'indipendenza della magistratura, il puntiglioso elenco delle libertà individuali, il rifiuto di qualsiasi discriminazione di razza e religione.
E PER TOGLIERE ogni dubbio in merito allo spirito che sostiene ed ispira la nostra Costituzione deliberarono, pur fra contrasti e preoccupazioni serie, di collocare fra le disposizioni transitorie e finali la norma che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. Non si può dunque difendere la Costituzione senza difenderne in modo intransigente il carattere antifascista.
E invece, in questa povera patria in cui si stanno perdendo anche le più elementari cognizioni di rigore intellettuale e di serietà politica e morale, l'attacco alla Costituzione tocca già l'antifascismo, e quel che più avvilisce è che si vuol distruggere l'antifascismo in nome della libertà.
È infatti in nome della libertà di esprimere le proprie idee che il senatore Cristiano De Eccher e i suoi sodali vogliono abolire la norma FINALE non transitoria (proprio non ci arrivano a capire la differenza!) XII che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. Come si fa a non essere d’accordo? Il fascismo è un’idea politica come le altre e dunque chi vuole professarla, in uno Stato democratico e liberale, deve essere libero di farlo.
Il problema è che lo scopo di ogni partito politico non è dibattere idee ma governare. Un partito democratico vorrà governare secondo i principi della democrazia; un partito liberale secondo i principi liberali; un partito socialista secondo i principi socialisti; un partito fascista secondo i principi del fascismo. Il che vuol dire, per essere precisi, assassinare, mettere in carcere o inviare al confino di polizia gli oppositori politici; abolire la libertà di stampa; dichiarare illegali gli altri partiti; trasformare le elezioni in ratifiche di nomine dall’alto; perseguitare gli ebrei; scatenare guerre di conquista. La riorganizzazione di un partito fascista sarebbe dunque un vero e proprio atto di guerra contro la libertà. Favorirla o non ostacolarla, vuol dire aiutare la libertà a morire, altro che difenderla.
E NON TIRIAMO fuori i soliti argomenti: ‘lasciamoli fare tanto non sono un pericolo’; ‘ma il fascismo non può tornare’ e altre cretinate del genere. Nel 1922, 1923, 1924, nessuno, o pochissimi, pensavano che Mussolini avrebbe instaurato un regime come il fascismo. Quando l’élite politica si rese conto del pericolo, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti , era troppo tardi. Per questo bisogna agire ora, con assoluta intransigenza.
La mentalità comune italiana è intrisa di anticomunismo, di razzismo, di disprezzo per il parlamento e per i metodi della democrazia, per non parlare della spaventosa ignoranza storica. Ci sono parlamentari che copiano senza batter ciglio frasi intere del ‘Manifesto degli intellettuali fascisti’ redatto da Giovanni Gentile nel 1925 per dare base ideologica al nuovo regime. In un contesto simile un partito fascista troverebbe facilmente proseliti.
E quando ciò avverrà, cosa faremo? Lo lasceremo prosperare fino a quando conquisterà il potere? O dichiareremo uno stato d’emergenza con leggi eccezionali che metteranno a repentaglio la libertà di tutti? Non trascuriamo poi il fatto che appena abolita la norma, i fascisti sfileranno liberi ed esultati nelle piazze inneggiando al duce e ai campi di sterminio. Chi sarà allora in grado di impedire gravi disordini e inevitabili tragedie?
QUANDO SI tratta di libertà e di fascismo ciascuno deve fare la sua parte, subito, senza aspettare. Anche la Chiesa deve fare sentire la sua voce. Dica la verità, dica che il fascismo è incompatibile con la fede cristiana perché questa si fonda sul carità e quello la derideva e disprezzava come segno della mentalità dei deboli, e predicò e praticò una dottrina delle razze superiori e delle razze inferiori che ripugna alla fratellanza in Cristo.
Facciano sentire, una buona volta, una voce indignata e unanime le forze politiche, le associazioni che si riconoscono nell’antifascismo e gli intellettuali. Si schierino apertamente contro l’abolizione della norma XII tutte le persone che amano davvero la libertà e non voglio metterla in pericolo per la colpevole irresponsabilità di senatori che hanno studiato il liberalismo alla corte del signore.
Repubblica 23.4.11
Il vilipendio al potere
di Mario Pirani
Quanto più esplode con voluta sfrenatezza l´odio berlusconiano per le garanzie costituzionali, tanto più un nutrito gruppo di opinion makers si prodiga in deprecazioni per le reazioni risentite dell´opposizione.
bbandonasse ad una altrettanto rabbiosa e biasimevole violazione del galateo politico. Non è neutrale questa raffigurazione. Anche quando è delineata in buona fede essa presuppone la rimozione delle caratteristiche devastanti della situazione italiana. Si ignorano le degenerazioni tipiche del berlusconismo e si finge di assimilarle a quelle sussistenti nei normali contenziosi politici d´oltre frontiera.
Il panorama preferito da questi pittori della domenica nel dipingere i loro affreschi fintamente ingenui è quello che rappresenta gli italiani nella loro essenza fisognomica come tutti eguali, berlusconiani e avversari del premier, distinti solo dal secolare spirito di parte che dai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini li ha sempre spinti ad azzannarsi fra loro con quella esasperazione partigiana che sopravanza un pacato esame delle ragioni altrui. Se, invece, analizzassero con fredda oggettività le linee del contendere si accorgerebbero presto che esse passano, come in tutte le altre democrazie occidentali, per attaccamento a valori compatibili, se pur dialetticamente contrapposti, con la destra che predilige la libertà rispetto all´eguaglianza e la sinistra l´eguaglianza rispetto alla libertà. Insomma, saremmo degli inglesi, fieri della loro Westminister, se non fosse per le caldane iraconde da curva sud che ci fan scambiare i mulini a vento del Cavaliere per draghi e guerrieri vogliosi di distruggerci. Se poi a qualcuno sorge il dubbio che le cose non stiano proprio così e che Berlusconi abbia sdoganato e reso più accettabili comportamenti incivili tra il plauso dei suoi fan, basta lasciar da parte con noncuranza il fastidioso problema e rifarsi al solito vizio caratteriale, quella specificità negativa italiana della partigianeria che i politici eccitano, anziché moderare. In ogni caso, insomma, quale chi sia l´interprete, il dramma italiano sarebbe destinato a una eterna replica della disfida tra Capuleti e Montecchi. Tutti si somigliano e tutti si odiano perché tale è il loro destino caratteriale. Dopo di che non resta che acquistare il biglietto, sedersi in poltrona, applaudire o fischiare i commedianti nei quali ci rispecchiamo.
Debbo dire che il copione non mi soddisfa e il racconto mi sembra ingannevole. Eppure, data la diffusione che queste idee tendono ad assumere, credo utile contestarne la validità senza veruna indignazione di maniera. Ora, se è una banalità antropologica ricordare che gli italiani dell´una e dell´altra sponda sono tutti italiani e, in quanto tali, hanno molti tratti che li accomunano, va anche ribadito che la scissione che oggi ne divide le azioni e i pensieri non scaturisce da una tara caratteriale che li renderebbe naturalmente impenetrabili alle ragioni comuni ma da una ben individuabile fase della loro storia. Solo analizzando questo aspetto potremmo forse capire le odierne avversioni come le specificità di una situazione non paragonabile a quella delle altre nazioni democratiche e tale da far temere il nostro progressivo scivolamento verso un regime plebiscitario. Per contro, se poniamo al centro la Storia e la Politica, capiremmo assai meglio le cose e ricorderemmo meglio anche un passato non troppo lontano. Mi riferisco al periodo conclusivo del secondo conflitto mondiale, quando con il disastro bellico venne meno il consenso di massa al regime fascista. E poi al cinquantennio che ne seguì, quello della ricostruzione, della Repubblica, della Costituzione, del miracolo economico, dell´adesione all´Alleanza atlantica e al Mercato comune. Infine, il terrorismo. Il periodo si concluse con la caduta del Muro di Berlino e con Tangentopoli. Non si può dire, peraltro, che antropologicamente gli italiani fossero diversi da quelli di oggi né che le avversioni non avessero spazio per esplicitarsi nelle lotte e manifestazioni di piazza, negli scioperi, nelle elezioni, negli scontri parlamentari. Eventi che, per di più, si collocavano in un retroterra internazionale segnato dalla guerra fredda e da schieramenti di campo che vedevano gli uni sodali con l´universo sovietico, gli altri con gli Stati Uniti e il Vaticano. Tutto poteva scoppiare da un momento all´altro, ma non scoppiò mai. Il senso del reciproco limite e la valenza delle leggi e delle istituzioni che avevano assieme costruito fece sì che non solo i capi e i gruppi dirigenti, ma le masse che li seguivano, metabolizzarono un codice non scritto di tolleranza e di civiltà pur nelle fasi di asperrimi contrasti. "Don Camillo e Peppone" fu assai più di una felice serie filmica, quanto un quadro realistico della società nazionale. La proporzionale, i cui difetti si aggravarono nel periodo ultimo della degenerazione partitocratica, permise, peraltro, una rappresentanza anche alle forze minori, laiche, liberali e socialiste che assicurava elasticità e potenziali capacità di mediazione al sistema nel suo assieme.
Con l´Ottantanove, con Berlino e Tangentopoli, i partiti storici, fiaccati dal mancato rinnovamento, illusi di poter sopravvivere sulle fortune di un passato stravolto da una svolta radicale della Storia, crollano su loro stessi. Alcuni tentano di riprendere il mare raccogliendosi in una sola scialuppa (il Pd, post cattolico e post comunista). Altri sperimentano strade diverse. Non si può qui analizzare l´evolversi di ognuno. Prendono il potere e vi rimarranno due forze eversive, in quanto mai partecipi alla Storia della nazione, mai attori delle sue fortune e sfortune. L´una, Forza Italia, è un partito-azienda che si identifica col suo padrone e fondatore, l´altra, la Lega, una formazione che si richiama alla Penisola preunitaria e divisa in Stati e staterelli. Un tempo, prima del compiersi del Risorgimento, erano soprannominati austriacanti, papalini o borbonici, a seconda delle origini regionali; oggi si dicon tutti padani. La mancanza di ogni retroterra storico culturale a far da remora, permette a Berlusconi, unico in Europa, di raggiungere la maggioranza unendo tutti, dal Centro all´estrema destra. S´inventa un collante per aggregare il consenso, mai usato da nessun governo. Tutti quelli che lo hanno preceduto, dal liberalismo cavouriano alla destra crispina, dal riformismo giolittiano all´autoritarismo fascista, dalla duplicità costituzional-stalinista togliattiana al cattolicesimo interclassista dc, tutti trasmettevano una pedagogia di valori etici (il patriottismo, il nazionalismo, l´internazionalismo, la solidarietà di classe, i doveri del cittadino o del cattolico e così via). Non sempre, a volta raramente, questi venivano coerentemente applicati ma rappresentavano una tavola dei comportamenti, cui tutti cercavano di apparire adeguati e se la violavano si sforzavano di non farsene accorgere. Per la prima, e speriamo l´ultima volta, nella Storia, il consenso è incassato esaltando ogni tipo di offesa alle virtù civiche, dal vilipendio quotidiano della Giustizia e di chi è chiamato ad esercitarla al dileggio per chi paga le tasse nel paese della massima evasione fiscale («volete vivere sotto la dittatura della polizia tributaria?»), dal vilipendio delle Istituzioni alla proclamata oscenità sessuale e machista. Da ultimo, con l´attacco all´Europa e la minaccia di uscire dall´Unione, le basi tradizionali della nostra politica estera sono messe in forse. I difetti storici – non antropologici - degli italiani, il basso tasso di civismo, il mancato senso dello Stato, il familismo amorale, il sotterfugio delle leggi vengono esaltati come virtù di governo e richiamo fortissimo al consenso. Berlusconi li impersona nella sua personale biografia. Per questo tanti italiani ci si ritrovano e circa altrettanti no.
l’Unità 23.4.11
Esplode la protesta nel primo giorno dopo il decreto che cancella lo stato d’emergenza
Manifestazioni e violenze in molte città. Versioni discordanti sul numero delle vittime
Siria in rivolta, 60 morti Scontri alle porte di Damasco
Da nord a sud, da est a ovest. Nel «Venerdì santo», la Siria si scopre unita nel rivendicare diritti e libertà. La risposta del regime è una brutale repressione. Cecchini in azione. Ma la protesta non si ferma...
di Umberto De Giovannangeli
Hanno sparato ad altezza d’uomo, trasformando il «Venerdì santo» nel «Giorno della mattanza». Una mattanza «targata» Bashar al Assad. Oltre 60 persone sono state uccise ieri dalle forze di sicurezza durante le proteste anti-regime che
hanno scosso quasi tutte le città siriane, stabilendo il triste record del giorno più sanguinoso dall'inizio della mobilitazione cinque settimane fa. A decine di migliaia hanno sfidato il divieto, imposto nei giorni scorsi dal ministero degli Interni, di non manifestare, e hanno risposto «presente» agli appelli circolati da giorni sui social network per «raggiungere la libertà».
BAGNO DI SANGUE
Nel «Venerdì Santo» di preghiera comunitaria per i musulmani e di raccoglimento per tutti i cristiani è apparsa, per la prima volta dall'inizio della mobilitazione a metà del marzo scorso (oltre 260 vittime), una piattaforma comune degli organizzatori delle proteste. In un comunicato firmato dai «Comitati locali per il coordinamento» si afferma che «tutti i prigionieri politici devono essere liberati, l'attuale apparato di sicurezza deve essere smantellato e sostituito con uno che sia regolato da una legislazione precisa e che operi nel rispetto delle leggi». Nel testo, preparato nei giorni scorsi via email, Facebook e Twitter da giovani attivisti, oppositori in Siria e intellettuali all'estero, si invoca «libertà e dignità per il popolo siriano», ma si afferma che quest'ultimo rischia di rimanere «un semplice slogan senza un cambiamento pacifico del regime e l'instaurazione di un sistema politico democratico».
All'ennesimo giorno di mobilitazione anti-regime, le autorità avevano risposto preparando un massiccio schieramento a Damasco e nelle altre principali città del Paese, sin dalle prime ore della mattina, di agenti in borghese delle forze di sicurezza, di militari dell'esercito, di squadre di lealisti armati di bastoni, di check-point. Quando i fedeli cristiani, membri della minoranza confessionale più protetta dal regime dominato da una minoranza di un' altra minoranza (gli Assad e gli altri clan alawiti), erano già rientrati nei loro quartieri dopo aver assistito alle messe del Venerdì Santo celebrate in sordina e a porte chiuse, sono cominciati ad affluire nelle moschee decine di migliaia di fedeli-manifestanti. Damasco è stata percorsa da un'inedito corteo all'interno della cintura di protezione eretta dalle forze dell'ordine nel quartiere di Midan, roccaforte del conservatorismo sunnita. Un centinaio di persone sono uscite dalla moschea locale gridando «Il popolo vuole la caduta del regime».
In quelle stesse ore si sono radunati a migliaia i curdi a Qamishli, Amuda, Ayn al-Arab, località nella regione del nord-est al confine con Turchia e Iraq, sfilando in corteo con striscioni in arabo e curdo che ribadivano «l'unità del popolo siriano». Un migliaio di giovani sono tornati in piazza anche a Latakia, nel nord-ovest, seconda città, dopo Daraa, a esser presidiata dall'esercito.
Mentre in 10mila hanno occupato le strade di Salamiya, località a maggioranza ismailita nei pressi di Hama. Col passare delle ore sono giunte le prime notizie di feriti, quindi di morti, uccisi anche da cecchini appostati sui tetti dei palazzi: ad Azraa, località nei pressi di Daraa, a Homs a nord di Damasco, a Duma, Jawbar, Zamalka e Daraya (sobborghi della capitale). Nel pomeriggio si era manifestato anche a Banias e Jabla, cittadine costiere della regione a maggioranza alawita da cui proviene la famiglia presidenziale, e a Daraa, Raqqa, Idlib, Maarrat an-Numan, la remota Albukamal al confine orientale con l'Iraq e Dayr az-Zor, capoluogo della regione dell'Eufrate. E persino ad Aleppo, roccaforte assieme a Damasco, della borghesia commerciale cooptata dal regime.
CONTO ALLA ROVESCIA
«Dopo la carneficina di oggi (ieri, ndr), Bashar ha firmato la sua condanna politica e quella dell'intero sistema da lui rappresentato», dice Wissam Tarif, attivista di spicco per la difesa dei diritti umani in Siria. «Gran parte della Siria prosegue non ha più paura ormai di invocare la fine del dominio del Baath ( partito al potere da quasi cinquant'anni, ndr.), di chiedere il rilascio di tutti i prigionieri politici, di esigere che i responsabili delle uccisioni siano arrestati e rispondano dei loro crimini».
l’Unità 23.4.11
I diritti dei nati qui
Quei «cittadini» che aspettano da troppo tempo
di Khalid Chaouki
Basta parole. Vogliamo vedere i fatti. Le seconde generazioni figli di immigrati scendono in piazza insieme al Forum Immigrazione del Partito Democratico il prossimo mercoledì 27 aprile alle ore 11 davanti a Montecitorio per protestare contro la sparizione della proposta di riforma della legge sulla cittadinanza dal dibattito parlamentare. Circa un milione di ragazzi e ragazze, figli di immigrati nati o cresciuti in Italia, non possono più sopportare una grave ingiustizia che fa di loro dei perenni stranieri in attesa di cittadinanza nell’unico paese che effettivamente essi riconoscono ormai come la loro prima patria. Per lunghi diciotto anni una ragazza nata a Roma e colpevole di essere figlia di genitori filippini deve fare la fila in Questura e chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno nel Paese in cui è nata. Questa è la condizione di umiliazione a cui sono sottoposti i figli della cosiddetta seconda generazione, esclusi dal diritto di essere cittadini italiani a causa di un arcaico concetto di cittadinanza basato sul legame di sangue. L’Italia non può più permettersi una legge così arretrata e gravemente lesiva dei diritti dei tantissimi bambini e ragazzi che popolano le nostre scuole e di fatto sono il volto nuovo di questa Italia che compie i suoi 150 anni e che deve inevitabilmente guardare al futuro. Negare il diritto di appartenere a un Paese in cui si nasce, si cresce, si studia e via dicendo è una intollerabile ingiustizia che di fatto preclude a chi nasce e cresce in Italia di sentirsi effettivamente riconosciuto alla pari dei suoi coetanei italiani. Egli durante tutta la fase fondamentale di crescita non potrà essere libero di immaginarsi medico, giudice, poliziotto, avvocato, giornalista, ambasciatore e tanto altro. Tutte professioni che richiedono come primo requisito l’essere cittadini italiani. Ma ancora di più, sarà compromessa la sua libertà di movimento, perché relegata all’ottenimento del permesso di soggiorno e alle condizioni di regolarità dei propri genitori.
Un grave ritardo legislativo di cui è stato ed è complice una destra populista e a tratti con gravi derive xenofobe e razziste, che fanno di tutto per confondere le carte mischiando scientemente l’ultimo barcone arrivato a Lampedusa, l’operaio che lavora a Treviso da almeno vent’anni e la studentessa universitaria nata a Bologna da genitori immigrati.
Chiediamo a tutti voi, italiani e immigrati, giovani italiani e figli di immigrati di portare avanti tutti insieme questa battaglia di civiltà e di diritto che deve riguardare tutti i cittadini aldilà degli schieramenti politici. Perché i figli di immigrati non sono altro che i figli di questa nostra nuova Italia. Chi nasce e cresce in Italia è italiano!
l’Unità 23.4.11
Discriminate le minoranze non magiare. Evacuati nomadi per un campo paramilitare dell’ultradestra
Ungheria, villaggio rom in fuga Amnesty denuncia la Costituzione
Amnesty denuncia la nuova Costituzione ungherese: «Viola i diritti umani». L’opposizione chiede al presidente di non firmare il testo e prepara il referendum. E intanto i rom, minacciati dall’ultradestra, fuggono.
di Marina Mastroluca
Dopo aver visto le ronde per le strade di Gyongyospata e un campo d’addestramento di tre giorni alle porte del loro villaggio, hanno deciso di andarsene. Ieri la Croce rossa ha caricato 277 tra donne e bambini rom su cinque pullman, portandoli in un posto più sicuro, dove non ci fossero milizie armate determinate a «ristabilire l’ordine» contro «la criminalità tzigana». Vederoe, Forza di difesa, si chiama così l’organizzazione paramilitare che di esercita nell’uso delle armi ed è diventata il braccio armato del partito dell’ultra destra xenofoba d’Ungheria, Jobbik.
«NAZIONE ETNICA»
La polizia ha lasciato fare, come già in passato. E stavolta con qualche ragione in più. Da pochi giorni il parlamento con i voti della sola forza di maggioranza Fidesz ha approvato una nuova Costituzione che ha messo in allarme anche il segretario dell’Onu Ban Ki-moon. Oltre a indicare Dio e cristianesimo come «elementi unificanti» del Paese, a discriminare i gay, ad aprire la strada al divieto di abortire, la nuova Carta firmata dal premier Viktor Orban identifica la «nazione politica» con la nazione etnica, estendendo il diritto di voto agli ungheresi oltre confine: un pessimo segnale per le minoranze non magiare, a partire dai rom che già sono stati messi all’indice per statuto da partiti come Jobbik. Altro pessimo segnale, l’inclusione nella nuova Costituzione del cosiddetto diritto all’autodifesa, che poi non è altro che il diritto di possedere armi anche senza licenza. I rom di Gyongyospata hanno tirato le somme, anche se Jobbik non ha votato a favore della nuova Carta. Per quel che li riguarda potrebbe essere benissimo l’inizio di un’era di pogrom.
Amnesty international denuncia la Costituzione ungherese perché «viola gli standard internazionali ed europei sui diritti umani» e cita in particolare i princìpi anti-aborto, la definizione del matrimonio come unione di uomo e donna, la mancanza di tutela contro le discriminazioni sessuali. Non sono solo questi in realtà i punti controversi. Il testo limita l’autonomia della magistratura e vincola il parlamento ad un Consiglio di bilancio legato alla Banca centrale, che avrà il potere di sciogliere le camere. Un «golpe», così la nuova Carta è stato definita dall’opposizione. «Siamo sulla strada per
diventare una seconda Bielorussia», ha detto il leader socialista Ferenc Gyurcsany. Insieme ad altre organizzazioni il partito socialista ha chiesto al presidente Pal Schmitt di non firmare il testo, che dovrebbe entrare in vigore il prossimo 1 ̊ gennaio. Gruppi della società civile si stanno organizzando per chiedere un referendum contro la nuova Costituzione.
Il Consiglio d’Europa ha sollecitato l’invio di una missione in Ungheria per preparare un rapporto, esperti andranno a Budapest il prossimo 18 maggio. Ma in Europa è la sola Germania ad aver manifestato apertamente la sua preoccupazione, per il varo di un testo lontano dai valori Ue. Budapest ha respinto le critiche come «inaccettabili» interferenze. E i rom cambiano aria.
Corriere della Sera 23.4.11
Pogrom anti-rom in Ungheria Donne e bambini messi in fuga L’esodo dei civili minacciati dalle milizie di ultradestra
di Maria Serena Natale
Gli uomini restano, donne e bambini salgono sui pullman diretti al «campo estivo» : 277 rom in fuga da miliziani dell’estrema destra, in un’Ungheria che sembra aver riportato indietro le lancette di un secolo. È la prima volta dalla Seconda guerra mondiale che la Croce rossa evacua civili ungheresi minacciati da un’organizzazione paramilitare. Durante il weekend pasquale la c i t t a d i n a d i Gyöngyöspata, 2.800 abitanti ottanta chilometri a nord-est di Budapest, ospita un «campo di addestramento» del gruppo Vedero («Forza di difesa » ), che intende «migliorare la salute dei giovani magiari instillando in loro la disciplina militare» e dal suo sito Web invita i simpatizzanti a presentarsi in uniforme per lezioni di tiro al bersaglio e uso delle armi. Il tutto a un centinaio di metri dal quartiere che ospita i 450 membri della comunità rom. È da oltre un mese che a Gyöngyöspata e in altre località delle zone rurali Vedero e organizzazioni come la Guardia civile per un futuro migliore conducono pattugliamenti «per ristabilire l’ordine e difendere la maggioranza ungherese terrorizzata dalla criminalità zingara» — espressione ancora diffusa nelle aree dell’Europa centro-orientale dove un persistente pregiudizio anti-rom si salda all’avanzata di movimenti di estrema destra dichiaratamente razzisti. Fenomeno aggravato in Ungheria dalla recente approvazione di una Costituzione di prossima promulgazione, fiore all’occhiello del governo di centro-destra di Viktor Orbán, che cita l’ «etnicità» tra i valori fondanti dello Stato ed è accusata da Amnesty International di violare i diritti umani. Vedero è una delle organizzazioni paramilitari che gravitano nell’orbita del partito nazionalista Jobbik, entrato in Parlamento nel 2010 come terza forza. «Gyöngyöspata è un campo di battaglia, subiamo continue intimidazioni e abbiamo paura — denuncia il vice presidente del consiglio locale rom Janos Farkas —. Abbiamo mandato via i nostri figli perché qui non avrebbero preso sonno» . «Allarmismo — ribatte il capo di Vedero, Tamas Eszes— la criminalità rom è un problema ma il campo non si occuperà di questo. Ci accusano di razzismo, noi perpetuiamo l’antica tradizione ungherese dell’addestramento militare» . Ieri pomeriggio la polizia ha fermato alcuni miliziani e lo stesso Eszes: portato via in manette, ha urlato ai suoi di andare avanti. Il governo di Budapest, che ha fatto dell’integrazione dei rom uno dei temi principali dell’attuale presidenza di turno Ue e che ieri ha definito l’esodo una «provocazione politica» slegata dalle esercitazioni, ha annunciato multe di 100 mila fiorini (400 euro, un salario medio) per chiunque partecipi alle ronde. «Il mantenimento dell’ordine è monopolio dello Stato» , ha dichiarato il portavoce di Orbán annunciando un decreto anti-pattugliamenti. In Ungheria vivono 800 mila rom: una serie di attacchi ai campi nel 2008-2009 fece sei vittime. Solo poche aggressioni, denunciano gli attivisti, furono classificate come «crimini dell’odio» .
il Fatto 23.4.11
Ruspe e polizia: i Rom fuggono dal sindaco e si rifugiano in basilica
A Roma occupata San Paolo, ma Alemanno non si ferma
di Silvia D’Onghia
Carne da macello. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, non indietreggia di un millimetro: dopo aver deciso che la Capitale deve essere liberata dall’emergenza rom (settemila persone su una popolazione di oltre tre milioni), ogni giorno distrugge le baracche, e la vita, di centinaia di loro. Ieri è stata la volta di via dei Cluniacensi: le ruspe sono arrivate di mattina e hanno costretto 300 rom a recuperare in fretta e furia i propri bagagli e a mettersi in cerca di un’altra soluzione. Provvisoria, s’intende, considerato che il Comune offre come unica alternativa l’alloggiamento nei Cara (Centri per i richiedenti asilo), dove le famiglie vengono divise, donne e bambini da una parte, uomini dall’altra.
E così ieri i rom hanno dato vita ad una protesta pacifica: circa 200 di loro hanno occupato la basilica di San Paolo. “Ci appelliamo alla Chiesa – hanno spiegato – perchè ci aiuti ad affrontare questa situazione. Oggi le nostre baracche sono state distrutte, ieri quelle di altri rom a via del Flauto, e prima quelle della Miralanza, di via Severini e Lungotevere San Paolo. È questa la nostra settimana santa”. Con loro, oltre alle associazioni che si occupano di integrazione, c’era anche don Pietro, parroco della chiesa della Natività di via Gallia: “Io so’ prete – ha detto in romanesco – e sto in chiesa e faccio come mi pare. Mica mi faccio cacciare da un gendarme”. Un presidio che ha consentito ai fedeli di assistere alle celebrazioni per il Venerdì Santo.
I ROM non ne possono più e ne hanno tutte le ragioni: quasi ogni giorno, dall’approvazione del Piano nomadi, polizia e vigili urbani buttano giù i campi abusivi sparsi per la capitale. Dall’inizio dell’anno, fa sapere la Prefettura, sono stati effettuati 33 sgomberi di piccoli e grandi insediamenti. Oltre 400 persone, forse molte di più, la Prefettura non sa essere precisa. Nessuno dei rom lasciati per strada ha accettato l’assistenza nei Cara. “Abbiamo scoperto che si tratta di stagionali – si giustificano dal Palazzo del governo –. Vengono a Roma in primavera per andare a lavorare nei campi, per esempio a Fondi”. Come se un lavoratore stagionale costruisse una baracca sotto i ponti romani per fare ogni giorno 200 chilometri e raggiungere il posto di lavoro.
Ma dove sono finite le soluzioni alternative promesse da Alemanno? “L’undicesimo campo di transito previsto dal Piano – raccontano ancora dalla Prefettura – non è ancora stato allestito. La tendopoli non si è fatta (come invece aveva annunciato il sindaco, ndr) perchè ha dei costi altissimi. Si va passo passo. Prima dobbiamo pensare a risolvere l’emergenza”.
In realtà, Alemanno ha il terrore che nei campi abusivi possa scoppiare un nuovo incendio, come quello che a febbraio è costato la vita a quattro bambini sulla via Appia. Ma ha anche la speranza (e con lui il delegato alla Sicurezza , Giorgio Ciardi) che, continuando ad abbattere baracche, alle famiglie passi la voglia di costruirle. Qualcuno in Campidoglio già parla di vittoria, soltanto perchè nei giorni di Pasqua alcuni rom di origine romena sono tornati (temporaneamente) a casa. Alemanno ha le idee chiare: “Vengono qui perchè pensano di guadagnare di più”, ha sostenuto in risposta alle critiche della Comunità di Sant’Egidio.
Il sistema creato da sindaco e Prefetto è un cane che si morde la coda. E ne sa qualcosa la Questura: una volante che partecipa ad uno sgombero, il giorno successivo è costretta a tornare sulla stessa area, perchè l’insediamento si è già ricreato. Un dispendio di risorse e di energia, oltre che un disprezzo per la vita umana.
MA, DEL RESTO, Alemanno va a braccetto con Berlusconi, che ieri ha trovato il coraggio di scrivere - in una lettera al Papa - che l’Italia è “impegnata nell’assistenza alle migliaia di persone in fuga dai Paesi del nord Africa. In ossequio al rispetto della dignità e del valore della persona umana sancito - come ha affermato il Santo Padre - dai Popoli della terra nella carta dell'organizzazione delle Nazioni Unite, si sta adoperando al meglio per rispondere con generosità a tanta sofferenza”.
il Fatto 23.4.11
I ragazzi del Muro d’Israele e le colpe dei leader palestinesi
A Bil’in nella manifestazione attaccata dall’esercito di Gerusalemme. Molte critiche anche ad Hamas e Fatah
di Giampiero Calapà
Bil’in (Cisgiordania). Il corteo procede verso il Muro. La punta più avanzata è appena arrivata là sotto quando si sente il primo boato. Lacrimogeni seguiti da proiettili di gomma. La manifestazione dei palestinesi del villaggio di Bil’in non ha fatto neppure in tempo a vederlo da vicino questo maledetto muro che subito è stata spezzata. La gente retrocede, gli occhi lacrimano, non si vede più nulla, pare che manchi il respiro. Folate di vento portano anche più indietro i gas dei lacrimogeni atterrati altrove. I più sfortunati restano vittime di questi lanci dei soldati israeliani. Due ambulanze della Mezzaluna rossa fanno avanti e indietro nella piccola stradina che dal promontorio scende fino al muro. Per dare assistenza immediata. Un manifestante palestinese viene colpito alla gamba, un altro alla testa. Solo pochi minuti per la medicazione sull'ambulanza per loro, poi per terra, seduti sui sassi a cercare di riprendersi.
E i gas lacrimogeni sparati dall'esercito israeliano possono uccidere. È successo lo scorso dicembre a Jawaher Abu Rahma, 36 anni. Aveva inalato troppi gas sotto il Muro, nel corteo del 31 dicembre. È stata portata all'ospedale di Ramallah, ma niente da fare: morta per avvelenamento il giorno in cui il mondo ha festeggiato l'anno nuovo. Suo fratello Bassem era stato ucciso nel 2009, sempre durante una protesta del movimento di resistenza popolare di Bil’in.
IERI LA SENSAZIONE è stata quella di una gabbia in cui il corteo finisce per cacciarsi. Dall'altra parte c'è l'insediamento dei coloni israeliani di Modi’in Ilit, e il Muro è servito qui per dare terra alla colonia privando gli abitanti del villaggio di appezzamenti che fino a 5 anni fa erano loro. L'esercito ha ordine di respingere. Basta il primo sasso tirato da un bambino palestinese di solito, ieri la reazione è stata addirittura preventiva. Mentre altri militari salivano dalla destra nel corridoio così detto No man's land , usato come zona cuscinetto, accerchiando i manifestanti, partivano i primi getti degli idranti. Un liquido puzzolente che infierisce sulla testa di un corteo di trecento persone al quale hanno preso parte anche cittadini europei, soprattutto francesi e italiani. La manifestazione è ripetuta dagli abitanti del villaggio ogni venerdì. Ma una volta l'anno, in concomitanza con la chiusura della Conferenza internazionale di resistenza popolare, registra la partecipazione di un maggior numero di persone, provenienti anche dall'estero . Non mancano gruppi di giovani anarchici israeliani, pronti a manifestare in solidarietà e protezione dei coetanei palestinesi. Alcuni di questi, insieme a altri palestinesi, hanno provato a forzare la No man's land, scavalcando la recinzione. Subito le camionette dell'esercito li hanno fermati, un ragazzo investito in pieno si rialza per miracolo aiutato dai compagni. Poco più in là agenti con divise diverse, scure. È la temibile polizia di frontiera, armata di tutto punto. Se intervenissero loro sarebbe una carneficina. Fortunatamente l'occasione non si presenta. Qualche bambino continua il lancio di pietre, ma il corteo arretra, sconfitto per l'ennesima volta, fino a disperdersi.
Quale futuro per una resistenza palestinese che pare non avere sbocco, proprio come nella gabbia disegnata attorno a Bil'in dal Muro? Provano a dare una risposta i giovani, tra cui molte ragazze, vent'anni o poco più, del Movimento 15 marzo. Nato per chiedere l'unità tra Cisgiordania e Gaza, separate oltre che dall'occupazione anche dalla faida tra Fatah e Hamas: “Questa classe dirigente palestinese non ci rappresenta minimamente, chiediamo che il Consiglio nazionale venga riformato”. Sentono parlare di dichiarazione di settembre, quando l'Anp (Autorità nazionale palestinese) dovrebbe annunciare la nascita dello Stato di Palestina, ma non ci credono: “Che cosa vorrebbe dire? Una gabbia un po' più bella. La soluzione dei due Stati non ci convince. Vogliamo libertà, giustizia e uguaglianza”. Propongono un rilancio della resistenza: “Non parliamo di violenza o di armi, i nostri modelli sono Gandhi, Mandela e il movimento per i diritti civili degli Usa. La comunità internazionale deve sanzionare Israele per i suoi crimini. Mentre noi dobbiamo farci forza e scendere in strada a manifestare: cosa succederebbe se 50 mila persone si ritrovassero davanti al check point di Kalandia (l'accesso a Gerusalemme, ndr)?”. Le voci di Syheir, Ashira, Hurriyah, Saradat, universitari che sognano di portare anche in Palestina la primavera araba, per oggi si spengono sotto il lancio dei lacrimogeni.
l’Unità 23.4.11
Negozi aperti il 1 ̊ maggio Camusso a Renzi: provochi
Nel botta e risposta sulla festa dei lavoratori un altro capitolo dello scontro tra il sindaco e il segretario Cgil. Sindacati contro il «rottamatore»: sciopero
di Osvaldo Sabato
Non perdono occasione per pungolarsi. Era già successo nel pieno della polemica sui lavoratori del Maggio fiorentino bloccati a Tokyo per il terremoto. Ora il duello a colpi di dichiarazioni si rinnova sull’apertura dei negozi per il Primo Maggio. I protagonisti di questo duello sono il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, e la segretaria della Cgil, Susanna Camusso. Uno scontro che rischia di avere dei riflessi anche dentro lo stesso Partito Democratico. Il sindaco “rottamatore” da tempo sta pensando di mandare definitivamente in pensione la Festa dei lavoratori a differenza del sindacato, che da tempo ha lanciato una sua campagna contro il lavoro domenicale. L’argomento è di quelli caldi, e gli stessi sindacati sembrano compatti contro Renzi tanto da dichiarare uno sciopero regionale, bollato dal sindaco «ad personam». Il miracolo renziano di aver unito la Cgil con la Cisl e Uil nello sciopero del commercio è la sintesi di questo dibattito. E la Cgil, quasi come una sfida, decide di convocare per il 29 aprile a Firenze l’assemblea nazionale dei lavoratori della grande distribuzione con le conclusioni della segretaria Susanna Camusso. In Toscana la questione fa discutere e lo stesso presidente regionale, Enrico Rossi, annuncia una legge sulla chiusura dei negozi nelle feste principali, fra cui anche il Primo Maggio, per evitare che ogni città faccia come le pare.
Anche il segretario del Pd della Toscana, Andrea Manciulli, è contro Renzi («È giusto fare festa) e il sindaco si è trovato contro i giovani democratici che per protesta hanno organizzato anche un flash mob. «È una polemica che divide inutilmente» osserva l’europarlamentare Debora Serracchiani. Da sottolineare che anche lo stesso Rossi prenderà parte all’assemblea nazionale della Cgil, un segnale chiaro di presa di distanza da Renzi, che accusa i sindacati di svegliarsi su questo argomento ogni volta che si avvicina il Primo Maggio «sono tutto l’anno in tutt’altre faccende affacendati» aveva detto il sindaco «e colgono l’occasione per aprire una polemica con il Comune». Il sindaco chiama in causa la deregulation della legge Bersani. Dalla sua parte si è schierata la leader di Confindustria Emma Marcegaglia. Ma la polemica scompiglia il centro sinistra fiorentino, l’Idv è con la Cgil, e mette d’accordo il sindacato definito da Renzi «una casta» con la metà dei sindacalisti che «dovrebbe tornare a lavorare».
«Le mie opinioni sui sindacati, sui loro bilanci e sull'eccessivo numero di permessi sindacali rimando a ciò che ho scritto nel libro FUORI!: se vogliamo cambiare il Paese, non basta ridurre i costi della politica, ma bisogna dimezzare i costi e i posti di chi vive di politica, ma anche di chi si occupa di sindacato» dice il sindaco di Firenze. «Nell' idea di Renzi di aprire i negozi del centro storico il Primo Maggio» spiega la Camusso, a Trieste,per un attivo sindacale ci sono degli elementi di provocazione e ricerca della visibilità, ma al fondo aggiunge c'è davvero un'idea sbagliata che continua a evidenziarsi spesso nelle politiche delle amministrazioni». «Si pensa che siccome c'è la caduta dei consumi allora si aprono di più i negozi e i consumi risalgono, ma non è vero. La ragione della caduta dei consumi continua Camusso è che sono diminuiti i redditi e c'è la crisi».
Il segretario generale della Cgil sottolinea che «in qualche occasione nei toni del sindaco di Firenze abbiamo notato una volontà dissacratoria che devo dire sarebbe bene che usasse per altro, perché di dissacratori del lavoro conclude ne abbiamo fin troppi». «Stupisce che in questo momento della vita del Paese il problema principale della Cgil possa essere il Comune di Firenze» replica Renzi, prima dell’affondo finale «la dottoressa Camusso dicesi avventura poi in una lettura delle nostre scelte che suona semplicistica e banale».
Repubblica 23.4.11
Manna e miele ferro e fuoco
Natura e sentimento l´epica popolare delle donne selvatiche
Il nuovo libro di Giuseppina Torregrossa cerca la complicità del lettore Con una scrittura tutta al femminile rappresenta un´eroina coraggiosa
di Leonetta Bentivoglio
Giuseppina Torregrossa è una scrittrice tutta "al femminile", senza esitazioni di genere: non s´immagina una sua sola riga scritta da un uomo. Nelle sue storie miscela pancia e cuore. In più è siciliana, e come la maggior parte dei suoi conterranei percepisce quest´origine come "la" radice esistenziale. Ogni sua pagina esprime sicilianità, intesa come sentimento della natura poderosa dell´isola e come istinto irrinunciabile del proprio territorio; e quest´aspetto è una linfa che addensa ulteriormente la sua scrittura grondante di femminilità. Il che equivale a una spiccata devozione per il materico, a una complicità materna con il lettore (c´è una sorta di melodia cantabile e cullante nel suo narrare speziato da zone dialettali) e a un incedere pervaso da odori, sapori, giochi tattili e flussi di emozioni interne. Quasi ossessivo il suo affondo nella sensualità, con persistenti accensioni veristiche.
Quest´amabile signora, che ha lavorato a lungo come ginecologa curando tumori al seno (notizia utile per capire il rapporto con il corporeo che impregna la sua scrittura), ottenne un bel successo un paio d´anni fa con Il conto delle minne: un tenero quadro di famiglia (sicula, ovviamente) guidato dal filo conduttore di un´esaltazione del seno femminile, che conquistò notevoli cifre di vendite e dieci traduzioni all´estero. Ora, con Manna e miele, ferro e fuoco, in uscita per Mondadori, l´autrice palermitana, senza rinunciare alla sua impronta, si è posta obiettivi più ambiziosi.
Se il libro precedente era un´affettuosa fiaba mediterranea, con venature di biografismo e tratti esilaranti, l´attuale storia non solo si lancia nell´invenzione pura, senza appigli documentari o soggettivi, ma sembra volersi misurare con l´impianto "classico" del romanzone popolare femminile. Perciò è sospinto da un´eroina coraggiosa, oppressa dai soprusi di un contesto maschilista e a poco a poco in grado, dopo un gran succedersi di sofferenze, di ricostituire la sua dignità e il suo libero arbitrio: una rivendicazione che deve molto a un contatto intenso con le forze naturali, come in certe figure di donne selvatiche e possenti create da Isabel Allende.
Mira in alto anche lo sfondo scelto per Manna e miele, ferro e fuoco, la cui vicenda, ambientata tra i boschi delle Madonie, si sviluppa nel momento-chiave della transizione verso l´Unità d´Italia, col crollo del regno borbonico, l´impresa di Garibaldi al Sud e l´instaurarsi del governo sabaudo nel Meridione. Gli accenti amari e disillusi sui destini della Sicilia, osservati durante l´arduo passaggio, sembrano cogliere spunti da I Viceré, non a caso il libro prediletto dalla Torregrossa. E pure l´arco di tempo attraversato, da metà Ottocento agli anni Ottanta dello stesso secolo, è il medesimo del capolavoro di De Roberto.
Ma gli accadimenti storici sono solo una cornice: il motore della trama è il personaggio di Romilda, seguita dalla nascita alla maturità. La madre Maricchia sognava una figlia femmina, e quando arriva, ultima dopo tre maschi, se ne innamora alla follia, trasmettendole molte certezze su se stessa. Il padre Alfonso, quasi uno stregone, è "u mannaluoro": il suo mestiere è estrarre dai frassini la manna, una sostanza rara e preziosa usata come dolcificante e prodotta nel triangolo compreso tra Castelbuono, Cefalù e Gangi. Romilda cresce all´aria aperta e ha una bellezza fuori dall´ordinario. E´ una fata in sintonia con le più solide e inconoscibili correnti della terra, una regina che fiorisce nel verde e tra gli alveari: le api diventano le sue migliori amiche e le sue ancelle. Dal padre impara il segreto magico della manna, da raccogliere scortecciando i tronchi: arte chirurgica riservata ai maschi, esige destrezza e sapienza. Romilda se ne appropria così bene - meglio dei suoi fratelli - che diventerà la prima mannaluora femmina delle Madonie.
Spezza l´incanto il barone di Ventimiglia, un orco vecchio e incattivito dal brutale esercizio del potere, che la vuole in sposa quando è poco più di una bambina. Comprata e schiavizzata, Romilda patisce ogni notte gli assalti del marito come stupri. La sua energia si sgretola, il suo corpo è un tempio profanato. E quando partorisce due gemelli non riesce ad accettarli. Poi però, dopo un succedersi di morti e varie disavventure, ritrova la strada delle sue montagne e si riconcilia con il battito profondo della vita.
Lungo il romanzo abbondano gli amplessi, ora goduti ora subiti, e sempre esplorati con malizioso gusto anti-censorio del dettaglio. Il sesso incombe al positivo e al negativo: tanto è turpe quello del barone ai danni della sua moglie-bambina, quanto è armonico e ricco di risonanze quello che unisce fino alla vecchiaia i due umili e appassionati genitori della ragazza. Ed è la sponda più felice dell´eros a vincere nell´epilogo, quando Romilda, splendida e rigogliosa tra i suoi frassini come una dea della fertilità, si fa possedere, finalmente consapevole e partecipe, dal giovane Lorenzo.
Tra manierismi e squilibri strutturali, l´affresco serba comunque la gradevolezza di un abbraccio, e sa ancorarsi con abilità a un´intera mappa di perni seduttivi: trionfo della superiorità "naturale" della donna; fervido culto ambientalista; femminismo addolcito fino alla stucchevolezza (manna e miele ci inondano a ogni passo); il tema intramontabile del fascino del selvaggio.
Corriere della Sera 23.4.11
L’adolescenza delle bambine comincia alle scuole elementari
di Stefano Montefiori
O voi genitori fieri della piccola Lucille che a tre anni sa già leggere e scrivere le prime parole, papà ossessionati dal mito di Mozart che a cinque compose il primo concerto, mamme attente ad accompagnare la bambina al corso di danza, inglese, nuoto, violino prima ancora delle elementari, tecnofili orgogliosi dei figli «nativi digitali» che a quattro anni già sfiorano i touchscreen, non abbiate troppa fretta: la precocità potrebbe esigere presto il suo prezzo. I bambini sono sempre più sollecitati, stimolati, incoraggiati a bruciare le tappe per accumulare esperienze che faranno di loro — questa è la speranza— adulti realizzati, colti, competenti ed esperti. Solo che poi, a sette-otto anni, le bambine cominciano a preoccuparsi della peluria sulle gambe e a chiedere la depilazione, a esibire jeans attillati a vita bassa, e talvolta a mostrare i segni anche fisici di una pubertà precoce. L’orgoglio di mamma e papà per una bambina «avanti per la sua età» , alla prima maglietta striminzita, si trasforma in sconcerto. L’adolescenza anticipata è un fenomeno in crescita e le cause sono ancora poco chiare: si evocano inquinamento da Pcb ed estrogeni nella carne, una dieta troppo ricca di grassi, l’ansia da prestazione e l’iper-stimolazione indotta da genitori troppo attenti alla performance dei figli, il bombardamento di immagini e messaggi erotizzati tipico delle nostre società, fino all’ipotesi più probabile. Cioè l’insieme di tutti questi fattori, genetici, ambientali e culturali. Per il sociologo francese Michel Fize, autore di «Les Nouvelles Adolescentes» (Armand Colin), «l’adolescenza è culturale e psicologica prima di essere biologica, e comincia ormai ben prima della scuola media. Le bambine sviluppano atteggiamenti dell’adolescenza prima di svilupparne le caratteristiche fisiche. L’adolescenza non coincide più con la pubertà. Il desiderio di uscire dall’infanzia è molto più forte oggi, e questo deriva da un ambiente sociale che induce la frenesia di una crescita rapida e di un accesso immediato alla fascia di età superiore, bruciando le tappe» . I pediatri ricordano anche la cause biologiche, genetiche e fisiologiche di questo sviluppo anticipato: l’obesità, per esempio, può accelerare la pubertà. Negli Stati Uniti, una bambina bianca su 10 mostra segni di sviluppo sessuale già a sette anni, cioè il doppio di dieci anni fa. Tra le bambine afro-americane, per motivi genetici, la frequenza aumenta a una su quattro. In Francia, secondo lo studio dell’endocrinologo Charles Sultan, l’età media dello sviluppo del seno si colloca ormai a nove anni e tre mesi. E sono i fattori culturali, quelli che dipendono direttamente dal mondo degli adulti, a inquietare di più. Il fotografo francese Alain Delorme ha voluto denunciare lo stravolgimento dell’infanzia nella serie «Little Dolls» . «Riprendo sempre una bambina, un dolce, uno sfondo colorato, i genitori. Poi comincia la trasformazione, con un software per il fotoritocco— spiega Delorme—. Trucco il viso, rimodello il naso, alleggerisco i tratti e modifico carnagione, colore degli occhi, pettinatura. Questa chirurgia estetica del pixel fa sparire il reale a favore di un’immagine interamente artificiale» . Che però esprime perfettamente una tendenza che si afferma negli Stati Uniti e sempre di più anche in Europa. I concorsi di bellezza per bambine, a lungo criticati e portati spesso ad esempio della barbarie culturale americana, erano in realtà l’avanguardia di un processo ormai attuale anche in Francia e in Italia. I sogni delle bambine si incrociano con le ambizioni dei genitori producendo «donne bambine» di otto anni, ben più precoci del mito letterario della «Lolita» nabokoviana, la dodicenne Dolores Haze. E la società ipersessualizzata, che associa in modo più o meno subliminale qualsiasi oggetto— da una bibita ai pneumatici alla colla— al corpo femminile, non manca di fare sentire i suoi effetti su bambine che colgono inconsciamente segnali continui: un «effetto Barbie» moltiplicato per mille. Dopo il servizio su Vogue francese con bambine su tacchi a spillo, che costò il posto alla direttrice Carine Roitfeld, duecento pediatri francesi hanno firmato una petizione per denunciare «l’erotizzazione dei bambini nella pubblicità e nelle immagini di moda» . «Ma dipende anche dalle mamme — ricorda al Nouvel Observateur lo psichiatra Didier Lauru —: esibiscono ed erotizzano le figlie per valorizzare se stesse» . Non sono solo le bambine, purtroppo, a giocare alle Barbie.
Corriere della Sera 23.4.11
Come fare per aiutarle a «rallentare»
di Silvia Vegetti Finzi
Un mutamento epocale vuole che l’infanzia sia sempre più breve mentre l’adolescenza tende a non finire mai. Già a nove anni molte bambine rivelano i prodromi della pubertà, fisica e psichica, una anticipazione che si registra in molti paesi europei, anche nordici. La prematurità psichica è preoccupante in quanto inaridisce i processi immaginativi, riduce il tempo del gioco, depotenzia i sogni ad occhi aperti, separa i due sessi e favorisce un’acritica adesione alla identità stereotipa proposta dai mass-media. A lungo termine ne consegue un depauperamento del potenziale creativo proprio dell’infanzia. Chi esce troppo presto dagli «anni magici» rischia un’identità emotivamente arida, un pensiero conformista, una eccessiva ricerca del consenso sociale. Certo la fretta di crescere si afferma in un contesto di generale accelerazione della vita quotidiana. Sin da piccoli i bambini vengono incentivati all’autonomia e soprattutto le bambine ricevono particolari apprezzamenti per la loro «adultità» . Ma, visti gli esiti, è forse è il caso di rallentare la corsa. Ecco una serie di consigli che mi sento di dare ai genitori: 1) meglio adottare abitini sobri senza cedere alle lusinghe del «lolitismo» ; 2) non regalare cosmetici e gioielli; 3) sdrammatizzare l’eventuale sovrappeso e non colpevolizzare il cibo; 4) evitare libri e spettacoli eroticamente stimolanti; 5) rinviare l’acquisto del cellulare e controllarne l’abuso; 6) proibire i «viaggi» in chat dove sono sempre possibili incontri pericolosi; 7) non mostrarsi lusingati per i primi corteggiamenti o alludere divertiti al «fidanzatino» ; 8) favorire le amicizie di gruppo rinviando a più tardi l’esclusività dell’amica del cuore; 9) non incentivare le esibizioni (cast di baby modelle, spettacoli, book fotografici); 10) preferire sport di squadra non competitivi; 11) accordarsi con le mamme delle compagne di classe per adottare atteggiamenti coerenti. E, infine, convincersi che la pubertà è un’età di passaggio, intermedia tra un «non più» e un «non ancora» , che va rispettata e protetta.
Corriere della Sera 23.4.11
«Il chirurgo era il principe delle truffe»
La sentenza su tre medici: pazienti considerati come pozzi di denaro
di Giuseppe Guastella
MILANO — Hanno «violato» il giuramento di Ippocrate, «con incredibile cinismo hanno tradito il rapporto fiduciario medico paziente» considerando i malati «soltanto come serbatoi» di denaro senza fermarsi «neppure davanti a pazienti particolarmente fragili e indifesi trasformati senza un barlume di pietà in strumenti per la produzione del fatturato» . I giudici di Milano spiegano perché ad ottobre hanno condannato i tre chirurghi «insensibili e spietati» della «Clinica degli orrori» Santa Rita accusati di lesioni volontarie e truffa per 79 interventi toracici dannosi e fatti solo per ottenere i lucrosi rimborsi del servizio sanitario. Sonomonumentali e destinate a fare giurisprudenza le motivazioni (1.187 pagine) con le quali la presidente della 4a sezione penale Maria Luisa Balzarotti e i giudici Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro analizzano il processo, chiusosi accogliendo pressoché tutte le richieste dei pm Grazia Pradella e Tiziana Siciliano con la condanna a 15 anni e mezzo del primario Pier Paolo Brega Massone, a 10 anni del suo braccio destro Pietro Fabio Presicci e a 6 anni e 9 mesi dell’aiuto Marco Pansera. Brega Massone è ancora in carcere accusato con Presicci e Pansera anche di quattro omicidi per la morte di altrettanti pazienti e di altri 46 casi di lesioni volontarie. Ripercorsi passo per passo gli interventi sui quali ha indagato il pm Pradella e che impegnano più di mille pagine e che descrivono «una serialità di fatti, un’intensità di dolo» da parte di tre medici: ad «elevata propensione a delinquere» e alla «continua ricerca di un pretesto per operare» . «Chissà se il chirurgo Pier Paolo Brega Massone ricorda ancora il momento in cui ebbe a prestare il giuramento di Ippocrate; chissà se lo ricordano i suoi due assistenti» si chiedono i giudici secondo i quali, sin da quando i malati venivano in contatto con il primario, si pensava di operarli, anche quando erano così malati e anziani che l’intervento era inutile. Altrimenti li si convinceva con «informazioni largamente incomplete» , terrorizzandoli con il rischio inesistente di un tumore maligno. Ma perché tanto cinismo, tanta «aggressività chirurgica» ? Brega, «principe delle condotte truffaldine» , ha «rivendicato con orgoglio» la correttezza di tutte le operazioni. «Personalità assai forte e strutturata» , «incrollabilmente convinto dell’eccellenza delle proprie qualità» , si muove per consolidare la propria posizione nella clinica e nella chirurgia nazionale e internazionale anche, è l’agghiacciante spiegazione, «grazie alla pubblicazione di lavori scientifici basati sulle casistiche operatorie» ; Presicci e Pansera «non hanno esitato ad allinearsi alle direttive» del capo condividendone gli «intenti e la spregiudicatezza» . Severo il giudizio sui consulenti della difesa Brega Massone, Ludwig Lampl e Franco Giampaglia. Le loro «imbarazzati osservazioni» vengono fatte a pezzi sottolineando come si siano contraddetti tra loro e con lo stesso Brega. Nei loro confronti i giudici esprimono «rilevantissime perplessità di metodo, così radicali da determinare un giudizio aspramente negativo sulla attendibilità delle loro conclusioni» . Ritengono che abbiano voluto «giustificare il comportamento» di Brega Massone a tutti i costi in un tentativo, «decisamente non riuscito, di trasformare il processo in una disputa accademica, una sorta di confronto tra scuole di pensiero, che il giudice dovrebbe limitarsi a registrare» . Alle critiche per «l’assenza di controlli davvero incisivi e pregnanti da parte degli enti pubblici» perché «avrebbero potuto prevenire» queste condotte, la Regione risponde: «Il sistema di verifiche lombardo è il più avanzato in Italia» .
Corriere della Sera 23.4.11
I crimini di Stalin? Spiegati (in parte) dal cervello malato
di Fabrizio Dragosei
MOSCA — Si sa da tempo che il cervello di Stalin era malato e che almeno negli ultimi tempi non funzionava a dovere. Il diario di uno dei suoi medici pubblicato in questi giorni ci dice ora che l’arteriosclerosi non solo lo portò alla morte ma lo rese anche particolarmente crudele e sospettoso. Il Piccolo Padre dunque perseguitò e fece uccidere milioni di persone solo perché malato? No, visto che la sua crudeltà e mancanza di scrupoli era evidente già in gioventù, quando prima della rivoluzione era noto come Koba il sanguinario. Certamente però nell’ultimo periodo, quando il leader sovietico aveva raggiunto i settant’anni, gli effetti del male si fecero più acuti ed evidenti. Se non fosse morto a seguito di un ictus quel 5 marzo del 1953, avrebbe scatenato una nuova campagna di epurazioni. Questa volta contro i medici ebrei che accusava di tramare per assassinare lui e tutta la classe dirigente sovietica. Il dottor Aleksandr Myasnikov, vicino al grande dittatore per anni, aveva tenuto un diario che alla sua morte venne sequestrato dal Kgb. Ora è stato restituito agli eredi che hanno deciso di pubblicarlo. Dopo la morte, l’autopsia rivelò l’estensione dei danni subiti dal cervello del dittatore. «Stalin— scrive ilmedico — può aver perso il senso del buono e del cattivo, del giusto e di ciò che era sbagliato, di ciò che era permesso e di quello che non lo era» . Myasnikov aggiunge che la malattia tende a esasperare i tratti del carattere, «così che una persona sospettosa diventa paranoica» . Le memorie del dottore hanno suscitato perplessità fra coloro che conoscevano Stalin e lo stesso Myasnikov il quale era certamente nelle grazie del dittatore. Anche se in vecchiaia l’arteriosclerosi potrebbe aver peggiorato il suo carattere, è certo che Stalin si comportò per tutta la vita in maniera abbastanza «coerente» : quando operava a Bakù per conto di Lenin e non era ancora quarantenne; quando ordinava deportazioni ed esecuzioni di massa negli anni Trenta ed era quasi sessantenne. Sempre in questi giorni stanno uscendo anche gli estratti di un altro diario «segreto» , quello di Lavrentij Beria, capo dell’Nkvd e braccio armato di Stalin. Non è certo che i diari siano autentici, ma anche queste pagine sembrano scritte per rendere più umano il sanguinario dittatore. Ci raccontano, ad esempio, di come Koba si commosse dopo la fine della guerra e scoppiò in lacrime davanti al suo collaboratore.
La Stampa Tuttolibri 23.4.11
Intorno a Bacco si degusta la vita
di Claudio Franzoni
Simposio Un rito stabile per secoli: bere vino puro, conversare, amare, divertirsi
Scena di banchetto su un cratere a figure rosse del IV sec. a. C.
Non è accaduto a caso che a volte, in passato, il termine greco symposion sia stato tradotto con «banchetto», come, ad esempio, nel film che Marco Ferreri trasse dal Simposio di Platone nel 1988; il fatto è che ci viene naturale ricondurre alla nostra esperienza ciò che incontriamo nel mondo antico, e dunque anche le occasioni conviviali, quasi che le forme del mangiare e del bere siano le stesse sempre e dappertutto.
Negli ultimi vent’anni la saggistica di ambito anglosassone e francese ci ha spiegato invece che il simposio antico non era per niente paragonabile ai conviti, pubblici o privati, del Medioevo e dell’età moderna, tanto meno a quelli del nostro tempo. Si inserisce in questo ambito di ricerca anche il libro che Maria Luisa Catoni dedica a questo tema, facendo il punto sugli studi precedenti e aprendo nuovi fronti di discussione.
Il simposio era, come dice il nome, una «bevuta assieme», le cui forme, forse apprese dai Fenici, divennero dopo l’età omerica un vero e proprio contrassegno dello stile di vita aristocratico in Grecia. Al di là delle possibili varianti, il meccanismo del simposio dovette restare stabile per secoli: gli ospiti si accomodavano in una sala apposita della casa, l’ andrón («sala degli uomini») - termine che basterebbe a illustrare la destinazione esclusivamente maschile della «bevuta» - e qui si sdraiavano sui letti (di solito sette), modalità ereditata da forme conviviali orientali. Al centro della stanza era posto il cratere, un grande recipiente per mescolare vino e acqua: l’assunzione moderata del vino diventa infatti uno dei punti chiave dell’etica simposiale. Dal cratere si attingeva per riempire le larghe coppe decorate di ciascun invitato. Si iniziava con una libagione e una preghiera, ci si lavava, ci si incoronava con edera: azioni che iscrivevano il simposio in un ambito sacro e che ne rimarcavano il carattere rituale.
Tutto questo e molti altri dettagli si scoprono appunto in Bere vino puro , grazie anche al corredo di oltre 150 illustrazioni tratte proprio da quei vasi a figure nere e a figure rosse che servivano per lo svolgimento dei simposi e che vennero prodotti in Attica tra VI e V secolo prima di Cristo. Ma il saggio non punta tanto a descrivere lo svolgimento del simposio, quanto a osservare in questo «microcontesto quello che avviene nello spazio più ampio della polis e del mondo greco».
Del resto l’obbiettivo del simposio non era solo quello di condividere il piacere del vino, ma quello di conversare, di discutere temi filosofici, di eseguire o ascoltare canti e brani poetici; c’era posto anche per gli incontri amorosi, ed eventualmente per divertimenti, per giochi, per la baldoria finale. Attraverso queste «bevute assieme» i gruppi aristocratici rinsaldavano i rapporti reciproci e riaffermavano la propria identità; nello spazio modesto dell’ andrón viene così rappresentata la complessità della dialettica politica e sociale: basterebbe leggere i vivaci paragrafi sugli invitati e sugli esclusi (che però a volte vengono ugualmente e ne approfittano).
Ripetutamente l’autrice cambia angolazione e ordine di domande, affrontando anche problemi di metodo; in particolare, a proposito dell’interpretazione iconografica, non nasconde anche nodi problematici, come quello dei percorsi commerciali dei vasi da simposio: come mai migliaia di essi finirono in Occidente, magari destinati a conviti non greci o addirittura a corredi funerari di area etrusca?
Uno dei cardini del lavoro è l’analisi comparata di poesia e iconografie; sin dall’età arcaica infatti la lirica greca usa il simposio quale argomento, come quando Alceo incita i compagni a brindare per la morte del tiranno Mirsilo o invita a colmare le coppe «fino all’orlo» (ma di «due parti di acqua e una di vino»); nello stesso arco
Una «ricostruzione» di Maria Luisa Catoni nella antica Grecia con l’analisi comparata di poesia e iconografie
La Stampa Tuttolibri 23.4.11
Come conciliare Dioniso e Apollo, ebbri e assennati
Eros e Logos La lotta tra bellezza e verità che ha caratterizzato i Greci
Per Giorgio Colli, nel solco di Nietzsche, le due divinità non si contrappongono, ma coesistono
di Marco Vozza
Il debito di riconoscenza che la cultura internazionale, non soltanto quella italiana, intrattiene nei confronti di Giorgio Colli è inestimabile, innanzitutto per averci restituito un Nietzsche integro e credibile, sottratto alle reiterate manipolazioni precedenti, attraverso l’edizione critica delle sue opere condotta con Mazzino Montinari. Ma Colli era anche un grande editore e un filosofo autonomo, seppur sempre fedele alla traccia dei suoi autori prediletti, Schopenhauer e Nietzsche fra tutti, ma in particolare i primi pensatori greci, quei sapienti delle origini che si avvalevano delle forme espressive del mito, della religione e della poesia prima che si affermasse il pensiero astratto dei filosofi classici.
Ora abbiamo la possibilità di tornare su quei temi, tra antico e moderno, in virtù di una consistente, affascinante quanto rigorosa, raccolta di scritti inediti, la cui tesi assai ambiziosa considera «apollineo» e «dionisiaco» non soltanto criteri elettivi per la comprensione del mondo greco ma «principi universali e supremi della realtà», capaci di spiegare i dualismi del pensiero filosofico ma anche la musica di Beethoven. La chiave teoretica, non soltanto estetica, che introduce Colli, dell’antitesi tra dionisiaco e apollineo come connessione indissolubile, più che contrapposizione, tra interiorità ed espressione appare già prefigurata nella filologia nietzscheana dell’avvenire che indaga il fenomeno della vita secondo istanze metafisiche.
Apollo e Dioniso rappresentano il sogno e l’ebbrezza, la forma e la forza, la visione e l’impulso orgiastico, differenti espressioni del sentimento estatico dell’esistenza, quello in cui l’uomo viene trasfigurato nell’opera d’arte. Nietzsche insiste sulla coesistenza delle due divinità che si spartiscono il dominio nell’ordinamento delfico del culto, generando un equilibrio che vede alternarsi assennatezza e dismisura, moderazione e violenza. Nell’ebbrezza dionisiaca, la natura ritrova la propria potenza unitaria, dapprima dissipata nel processo di individuazione, opera altresì la redenzione di una volontà altrimenti intristita, ora rivitalizzata da una mescolanza panico-orgiastica di affetti.
Tra Dioniso e Apollo si instaurò la lotta tra verità e bellezza, che caratterizzò la grecità fino a raggiungere, depauperata e isterilita dopo Socrate, la modernità; i Greci intesero che il fine della cultura è quello di «velare la verità», di opporre la misura all’eccesso. Si trattò per la grecità apollinea di trasformare il carattere lacerante del pensiero tragico in «rappresentazioni con cui si potesse vivere», creando un mondo intermedio tra verità e bellezza, in cui il dolore, l’assurdità e l’atrocità dell’esistenza giungessero a manifestarsi in una bella parvenza, trasferendo cioè sul piano illusorio e salutare dell’apparenza la visione annichilente di quell’abisso terrificante.
L’arte rendeva possibile la creazione di «una possibilità più alta di esistenza», che consisteva nel mantenere aperta e vibrante l’espressione degli affetti, la comunicazione dei sentimenti, la condivisione del dolore, seppur trasferita «in rappresentazioni coscienti»; in tal modo, nell’esaltazione dell’essere che si avvale della danza e dell’intero simbolismo del corpo, la bellezza veniva ad accrescere «il piacere di esistere», cioè la vita ascendente.
Colli non ne fa menzione ma la più rilevante conferma della propria tesi giunge indirettamente dalla letteratura psicanalitica: Jung pone al centro dei Tipi psicologici la dicotomia tra apollineo e dionisiaco, come modello di spiegazione dei fenomeni di introversione ed estroversione. Il dionisiaco costituisce «l’espansione diastolica», pulsionale e multiforme, dell’esistenza, mentre l’apollineo rappresenta il tentativo razionale di ripristinare nella psiche un ordine unitario. Eros e Logos convivono permanentemente nella nostra vita.
La Stampa Tuttolibri 23.4.11
Vi presento Pletone (e non è un refuso...)
Il pensatore bizantino che innestò la dottrina platonica nel Quattrocento
di Silvia Ronchey
Che cosa sarebbe il nostro mondo senza Platone? Infinitamente diverso e certamente peggiore, lo sanno tutti. Ma pochi sanno che lo sarebbe anche senza un altro filosofo, suo quasi omonimo: Pletone. Non è uno scherzo, né, o non solo, un calembour. Il nostro pensiero, la nostra cultura, la nostra politica, questa nostra civiltà occidentale, che ha origine nella Grecia antica ma è nel Rinascimento che si forma alla modernità e appunto rinasce, non avrebbero avuto il loro imprinting nella filosofia di Platone se a trasmetterla all’internazionale degli umanisti europei non fosse stato quel grandissimo filosofo bizantino. Il suo vero nome, Gemisto, nel greco del Quattrocento voleva dire «colmo» ( gemistos ); e lo stesso o quasi — «pieno», «traboccante» — significava, nel greco classico, lo pseudonimo Plethon , Pletone, che si era dato in omaggio al filosofo per cui traboccava d'amore. Con questo nome era noto in tutto il mondo, come spiega Moreno Neri nello straordinario libro — un vero evento — che oggi ci consegna la traduzione del più diffuso fra i testi di Pletone, il Trattato delle virtù , e in cui più di 400 pagine sono dedicate a un saggio introduttivo che ha lo spessore intellettuale e critico oltreché la lunghezza di un’esemplare monografia.
Da Platone a Pletone, la filosofia platonica, per dieci secoli, aveva seguito un cammino carsico, ininterrotto ma spesso sotterraneo. Inizialmente cristianizzata, eppure quasi sempre coniugata a un sincretismo religioso intrinseco ai suoi princìpi e a un neopaganesimo filosofico condiviso anche dagli esponenti ecclesiastici delle più o meno eretiche o clandestine «eterìe» o «fratrie» che seguitarono a professarla anche dopo la sua eclissi dalla teologia ufficiale divenuta aristotelica, solo alla Scuola di Pletone sarebbe riemersa alla piena luce. E con la venuta del Gran Maestro e dei suoi discepoli in Italia per il concilio fiorentino del 1439 si sarebbe trasmessa agli intellettuali e ai politici riuniti in suo ascolto.
Fu un preciso passaggio di dottrine, uomini e testi, che da Bisanzio ormai prossima a cadere sotto il dominio turco vennero portati in salvo nell’Europa occidentale. Fu un deliberato passaggio di consegne, in nome del quale Cosimo de' Medici fondò l'accademia platonica. E quella filosofia diventò, come ha scritto Eugenio Garin, «l’ideologia della sovversione europea».
«E’ solo grazie a una combinazione di talento e fortuna che Marsilio Ficino - scrive Neri resta un nome che non si scorda, mentre quello di Giorgio Gemisto è ignoto ai più, così come Shakespeare è un’icona internazionale e Marlowe no». Di Pletone, come scrisse il suo grande estimatore e traduttore Giacomo Leopardi, «la fama tace al presente, non per altra causa se non che la celebrità degli uomini, come in effetti ogni cosa, dipende più da fortuna che da ragione, e nessuno può assicurarsi di acquistarla per merito, quantunque grande».
In realtà, non sono certo mancate le ragioni per dimenticare Gemisto, o per travisarlo, se non per diffamarlo, spiega Neri, il primo dopo Leopardi ad essersi misurato vittoriosamente con il suo greco splendido e impossibile, musicale e burrascoso, arcaico e futuribile, che ha dissuaso molti dal tradurre la sua opera omnia, di cui invece questo Trattato è il primo volume.
«Detestato da tutte le chiese costituite, finita sul rogo la sua opera più importante» — il libro delle Leggi, bruciato dal patriarca Gennadio poco dopo la sua morte —, «Pletone diede vita a entusiasmi come a odi non passeggeri tra le persone più eccellenti del Rinascimento», scrive Neri. «Fu uno dei primi geni del moderno, mosso da una curiosità quasi topografica per ogni ramo del sapere». Oltre che un teologo neopagano e un eretico, era un utopista che «aveva trovato nelle dottrine platoniche e neoplatoniche, nei mitici testi zoroastriani, orfici e pitagorici, il fondamento di un radicale programma di rinnovamento politico e religioso, di una rinascita della più antica sapienza che fosse l’inizio di un nuovo tempo dell’esperienza umana». Alla sapienza nascosta del cristianesimo non potevano non essere arrivati, riteneva Pletone, gli antichi saggi ellenici e orientali. Far rivivere i loro testi e riti avrebbe portato a una religione filosofica in cui le diversità dei culti e delle confessioni storiche sarebbero state irrilevanti per gli iniziati di un alto clero illuminato. In quel mondo nuovo, ogni devozione sarebbe stata ammessa e libera di prosperare.
Pletone affermava che tutto il mondo entro pochi anni avrebbe accolto una sola religione con un solo animo, una sola mente e una sola predicazione. «Cristiana o maomettana?», gli avevano chiesto. «Nessuna delle due - aveva risposto - ma simile a quella dei gentili. Solo quando Maometto e Cristo saranno dimenticati, la verità vera splenderà su tutte le terre del mondo». I filosofi musulmani amarono quanto gli umanisti italiani le sue opere e poco dopo la sua morte ciò che restava del libro delle Leggi fu tradotto in arabo.
«Trattato delle virtù»: l’opera di uno fra i primi geni del moderno, curioso di ogni ramo del sapere Stimato e tradotto da Leopardi, detestato da tutte le chiese, un utopista radicale, politico e religioso
Saturno Il Fatto 22.4.11
Il gesto dell’architetto Wittgenstein
di Marco Filoni
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/04/22/il-gesto-dellarchitetto-wittgenstein/106435/
il Riformista 23.4.11
Silvio scrive al Papa
«Con gli immigrati l’Italia è generosa»
In Vaticano è arrivata una lettera dal premier, in cui si sottolinea l’impegno di Palazzo Chigi sul fronte migranti e si promettono a Benedetto XVI aiuti finanziari per il Primo maggio, giorno della beatificazione di Wojtyla. Ieri Ratzinger è stato ospite di una trasmissione tele- visiva (“A sua immagine”, su Rai1): è la prima volta per un pontefice
di Francesco Peloso
qui
http://www.scribd.com/doc/53670179