lunedì 25 aprile 2011

il Fatto 24.4.11
L’appello dell’Anpi: “Non si torna indietro”


Ecco l’appello dell’Anpi per la Festa di domani: “ ‘Cari compagni, ora tocca a noi (...) Io muoio, ma l'idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella’. Giordano Cavestro (‘Mirko’), 18 anni, studente di Parma, medaglia d’oro al valor militare, scrisse questa lettera appena prima di essere fucilato dai nazifascisti il 4 maggio 1944. Il 25 aprile ha il suo nome e di tutti quei meravigliosi ragazzi e ragazze che immolarono la loro breve vita, senza alcuna esitazione, alla causa della liberazione del proprio Paese dalla tirannia nazifascista. Il 25 aprile avremo i loro nomi nel cuore, nella coscienza, e li diffonderemo nelle piazze, ne faremo una ragione di impegno, ancora, per il futuro di una democrazia che, come sappiamo, come vediamo, non è data una volta per tutte, non vive di respiri propri, ma va irrobustita, vivificata, giorno per giorno. Il 25 aprile diremo il nome di Giordano Cavestro a quei senatori della destra, che stanno tentando, con una ignobile proposta di legge, di abrogare la XII disposizione transitoria della Costituzione che vieta la riorganizzazione del partito fascista. Diremo NO! È una vergogna, un oltraggio ai caduti per la libertà. All’Italia intera. Il 25 aprile diremo che dalla Liberazione non si torna indietro”.

Carlo Galli, politologo
Questa giornata è l’antidoto alla giungla. Il 25 aprile è ciò che precede la nostra Repubblica, è la sua origine, l’energia propulsiva che l’ha fatta nascere, vivere e per qualche decennio anche prosperare. Per questo non possiamo trattarla come una data storica, ma dobbiamo viverla come una ricorrenza civile: è il compleanno della Costituzione. Noi oggi siamo di fronte a una sfortunata deriva, dove la vita associata del Paese assomiglia a una giungla, dove vince il più forte, dove anche le elezioni sono vissute come un giudizio divino. Il 25 aprile è stato, al contrario, l’inizio di una esistenza civile regolata, non primitiva o selvaggia, ma all'insegna del rispetto, dei diritti, del bilanciamento dei poteri, dei limiti dei poteri, compreso quello del popolo .
Se ci dimentichiamo questo passato, ci priviamo di un’arma con cui possiamo difendere la Costituzione da chi oggi vuole farla a pezzi per dare il via libera al peggio che è in noi.

Angelo d’Orsi, storico
Non ricordo un anniversario della Liberazione talmente vicino al crollo come questo. Oggi meno che mai non dobbiamo limitarci a celebrare, ma dobbiamo trasformare il 25 aprile in una occasione politica di mobilitazione. Dobbiamo riflettere sul significato storico del fascismo e sulla sua persistente minaccia sotto altre forme: sono assolutamente convinto che il berlusconismo sia il volto nuovo del fascismo. Per questo occorre mobilitarsi, ancora una volta, per cacciare il tiranno. Dobbiamo suonare la sveglia, spiegare agli ‘italiani tranquilli’ che sono seduti sull’orlo del baratro, che stanno per finirci dentro. Bisogna svegliare i dormienti, incitare i dubbiosi, incoraggiare gli esitanti.
Più tardi lo si fa, peggio è. Questo “partito della devastazione” sta spargendo un veleno che distrugge l’etica pubblica. Se non reagiamo, alla fine, diventeremo anche noi portatori sani di questo virus.

Carlo Lucarelli, scrittore

La festa della Liberazione è un riassunto. Un riassunto di tutto ciò che di bello e importante c’è nella nostra Italia. Perché tutto comincia da lì. Penso che il 25 aprile andrebbe festeggiato come la festa più importante dell’anno, almeno per l’Italia laica. C’è sempre stato e sempre ci sarà chi insulta la memoria. Il modo migliore per contrastare chi mortifica il 25 aprile è prendere in mano la memoria. Troppo spesso noi che siamo venuti dopo abbiamo delegato il racconto ai più anziani, a quelli che c’erano e non sempre questa operazione è riuscita al meglio . Tra non molto non avremo più la memoria diretta di chi ha fatto la Resistenza. Per fortuna esiste l’Anpi, che non è un’associazione per solo anziani partigiani, ma un luogo aperto a tutti. E negli ultimi anni le adesioni sono state tantissime. I valori non muoiono con chi li ha costruiti. Dipende da noi.

l’Unità 24.4.11
Questione di tempo
di Concita De Gregorio


A Milano «le Brigate rosse in procura» e, a Roma, le squadracce fasciste che augurano «buona pasquetta» per farsi beffe del 25 aprile. Direte: sono manifesti messi da qualche cretino. Vero, ma solo qualche anno fa non si sarebbero permessi. I cretini escono in massa allo scoperto perché si sentono tutelati, spalleggiati e in fondo approvati. Si specchiano in chi ci governa e improvvisamente non hanno più vergogna né paura, anzi, al contrario: sono tracotanti e rumorosi. Si sentono dalla parte di chi ha vinto, salgono sul carro.
Alcuni sono solo cretini, e pazienza. Altri sono sul crinale del crimine e a volte oltre, ci sono cose che non si possono fare non perché non sta bene o perché si offende qualcuno ma perché è proprio un reato. Apologia di fascismo, per esempio. Altri ancora sono applauditi e saranno probabilmente eletti, così da chiudere il cerchio fra rappresentanti e rappresentati.
Qualche tempo fa con Dacia Maraini abbiamo lanciato una campagna per sollecitare i giovani ad iscriversi all’Anpi, l’Associazione partigiani. Ha avuto molto successo, Fabrizio Gifuni Moni Ovadia e Giancarlo De Cataldo furono tra i sostenitori, moltissimi ragazzi giovani e giovanissimi presero la tessera: resistenti del nuovo millennio proprio nello spirito dei loro nonni, perché come dice oggi in un’intervista Gianrico Carofiglio nella Resistenza c’è «il valore della ribellione contro ogni tipo di sopruso. Violenza fisica, morale, del denaro o della propaganda».
È una forma di violenza (e di paura: sempre nella violenza c’è la paura della propria debolezza) quella di chi cerca in ogni modo di impedire il voto popolare. Prendete il caso dei referendum. Tutti sanno che il voto sul nucleare e sull’acqua ha la concreta possibilità di raggiungere il quorum, essendo questi temi – la salute, la sicurezza, i beni pubblici – quelli che davvero riguardano e interessano i cittadini, in specie raggiungono la sensibilità dei più giovani. È per questo che non hanno voluto l’accorpamento con le amministrative, rimandando il voto a giugno. È per questo che adesso provano in ogni modo, con provvedimenti tampone che puntano solo a far passare la nottata («l’onda emotiva», come dissero con disprezzo il giorno di Fukushima) per arrivare a quel momento non così lontano in cui si potrà ridiscutere daccapo, come se nulla fosse accaduto perché è proprio così: ogni giorno tutto sembra accadere e nulla accade mai.
I due referendum su acqua e nucleare portano con sé anche il voto sul legittimo impedimento, e qui come vedete siamo in tema giustizia, l’unico che al premier davvero interessi. L’obiettivo di tutto questo è semplicemente evitare il voto popolare in tempi di grande impopolarità del Nostro.
I resistenti del nuovo millennio, i giovani, hanno in mano il loro e il nostro destino. Questa incredibile pagliacciata finirà solo quando i giovani decideranno che è l’ora che finisca. I nonni saranno al loro fianco, e se abbiamo fortuna ci sarà ancora qualcuno fra i padri e le madri. Bisognerà informarli, è anche di questo che molto il governo si preoccupa: che non sappiano, che nulla passi in tv. È solo questione di tempo. I ragazzi ormai non si informano più attraverso la tv. Hanno altri canali, altre reti. Facciamoci trovare al loro fianco.
Buona Pasqua, e soprattutto buon 25 aprile a tutti.

l’Unità 24.4.11
In Parlamento i tentativi di revisionismo del Pdl, dai libri di scuola al periodo ‘44-‘48
In Commissione Difesa il ddl per mettere sullo stesso piano repubblichini e partigiani
Il fascismo dentro di loro. Sotto attacco la democrazia
Sono quattro i disegni di legge in discussione tra Camera e Senato: dalla norma per disciplinare le associazioni combattenti e reduci a quella per abolire la XII norma transitoria della Carta sul partito fascista.
di Claudia Fusani


Ricostituzione del partito fascista. Mescolare le acque in un unico calderone per mettere sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Rivedere i libri di testo perché sulla storia «non sono imparziali». E già che ci siamo anche una bella commissione d’inchiesta su quello che è accaduto tra il ‘44 e il ‘48 nel triangolo tra la Liguria, il Piemonte e l’Emilia, il triangolo rosso dove particolarmente duro è stato il regolamento di conti tra partigiani e fascisti. Sono proposte di legge spuntate qua e là in Parlamento negli ultimi tre mesi. Di queste ore la notizia di alcuni manifesti che a Roma e a Salerno mani di destra hanno fatto giocare sulla coincidenza di calendario che quest’anno vuole la Pasqua di Resurrezione festeggiata alla vigilia della Festa di Liberazione.
L’attacco alla Carta, alle istituzioni, agli organi di garanzia come la Consulta e ai cardini dello stato di diritto come il Parlamento e la magistratura è cronaca quotidiana e battaglia condotta alla luce del sole dai partiti di maggioranza convinti che sia giunto il tempo di cambiare tutto o molto. Ma nella più generale volontà di ristrutturazione dello stato in nome, è la motivazione ufficiale del centro destra, «di un maggior efficientismo dell’organizzazione dello stato», trova posto anche un disegno finalizzato al revisionismo più sfacciato della resistenza e della liberazione dal nazifascismo.
«Non parliamo del tentativo più o meno esplicito di revisionismo osserva Emilio Ricci, avvocato, membro del Comitato nazionale dell’Associazione nazionale partigiani che periodicamente è sempre spuntato fuori. Oggi è diverso. Da un paio d’anni, leggendo insieme varie iniziative, si ha la sensazione invece di assistere a un piano strutturato per riscrivere la storia in modo strumentale. Un piano che questa volta ha la forza dei numeri di cui gode la maggioranza politica».
Il progetto più serio, «insidioso e subdolo» dice Andrea Orlando responsabile Giustizia del Pd, riguarda due pdl in discussione in Commissione Difesa e che recuperano un precedente tentativo (era il 23 giugno 2008) di mettere sullo stesso piano repubblichini e partigiani. Lo avevano chiamato Ordine del Tricolore. Il Pd si mise per traverso. Il presidente della Camera Gianfranco Fini lo fece morire nei cassetti.
Rispunta a febbraio, prime firme Cirielli e Fontana. In modo più generico vuole «disciplinare le associazioni combattenti e reduci» affidando il tutto alla regia del ministero della Difesa. Il punto è, insiste Orlando, che «chiunque, purchè abbia svolto attività militare, può reclamare il diritto di formare un’associazione di combattenti e reduci a prescindere da due criteri fondamentali: l’adesione ai valori della Costituzione e la distinzione tra legittimamente e illegittimamente belligeranti». Pd e associazioni partigiane sono convinte che questa norma sia il trucco per dare ai repubblichini di Salò il riconoscimento che cercano da anni.
Il 29 marzo viene presentato un altro progetto di legge, questa volta al Senato, che propone di cassare, dopo 63 anni, la 12 ̊ norma transitoria della Carta, che «vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista». Il primo firmatario della norma è Cristiano de Eccher, già condannato per via del partito fascista. È un crescendo. Il 12 aprile Gabriella Carlucci (pdl) chiede una commissione d'inchiesta sull'imparzialità dei libri di testo scolastici. Ci aveva già provato Storace nel duemila. Questa volta la Carlucci si porta dietro 19 deputati. Il 20 aprile Fabio Garagnani (pdl) mette sul tavolo la carta più grossa: vuole anche lui un Commissione d'inchiesta «sulla violenza politica tra il 1944 e il 1948 nel triangolo rosso tra Piemonte, Liguria e Emilia dove ci fu un terrore di massa in nome della Resistenza ma in realtà in un’ottica marxista furono colpiti innocenti cattolici e laici». E’ il filone revisionista avviato da Giampaolo Pansa.

l’Unità 24.4.11
«Nella Resistenza c’è un valore cardine: ribellarsi ai soprusi»
Lo scrittore e senatore Pd: «Festeggiare il 25 aprile significa difendere un’identità collettiva. Quelle del premier sono pagliacciate pericolose»
di Federica Fantozzi


Da un lato l’attenzione al passato: l’auspicata commissione parlamentare d’inchiesta sugli anni ‘44-‘48; l’ipotetica abolizione della norma che vieta la ricostituzione del partito fascista; la revisione dei libri di testo. Dall’altro l’assalto al presente: ogni giorno un “volonteroso” propone di riformare un articolo della Costituzione. Senatore Gianrico Carofiglio, con questa maggioranza che 25 aprile si appresta a festeggiare l’Italia?
«Questa serie di iniziative all’apparenza eterogenee fa parte di un grande disegno strategico. Una mistificazione collettiva. Un colossale gioco di prestigio. Una truffa: spararne ogni giorno una più grossa per distrarre l’attenzione dai temi sostanziali». Sotto il codicillo niente?
«Guardi, il valore politico e sostanziale delle sortite di questi ascari è uguale a quello della dichiarazione di Berlusconi quando uscì lo scandalo delle giovani prostitute per cortesia scriva così: non escort ad Arcore. Disse: ho una compagna stabile, non posso aver fatto ciò di cui mi si accusa. Ecco: una patacca». Siamo governati da burloni?
«Le offese ai professori comunisti, la riforma “epocale” della giustizia, le polemiche sui testi scolastici: tutte bufale. Si manifesta l’indole dell’uomo: un grandissimo pataccaro. Che però sa fare i suoi interessi. Non è sprovvedutezza: il chiasso copre la sostanza. La crisi, il lavoro che non c’è. E il fatto che la maggioranza degli italiani ha cambiato idea su di loro. Sono pronti al crollo e alzano il livello dello scontro». Pagliacciate, dice lei. Pericolose o no? «Le pagliacciate possono essere molto pericolose. È un dato, comunque, che la cifra stilistica di Berlusconi sia la pernacchia, la barzelletta volgare, il riferimento a odori corporali, il sesso meccanico e ossessivo».
Vede segnali di maggiore autoritarismo nel quadro istituzionale? «Non vedo tentativi in atto: l’impronta autoritaria c’è già. Non si parla di fascismo in senso storico, ovviamente. Ma attraverso la propaganda, il cambiamento di mentalità, l’abolizione dell’opinione pubblica si produce la torsione di una democrazia avanzata con tutti i suoi difetti, per carità in una di tipo plebiscitario e peronista».
L’Italia come l’Argentina anni ‘40?
«Berlusconi è un Peron in sedicesimo, in tutti i sensi» Se questo è il quadro, cosa fare? «Tenere la barra ferma sui punti fondamentali. Non abboccare alle provocazioni. Non discutere di temi inesistenti: la riforma Alfano e la commissione sul ‘44-‘48 non si faranno mai. Non reagire in modo scomposto. Dobbiamo dettare noi l’agenda».
Ne fanno parte le celebrazioni del 25 aprile? Che senso ha oggi la Resistenza? «È una categoria fondativa. Le feste servono a confermare l’identità di una collettività intorno a valori non prescindibili, che se vengono messi in discussione vanno difesi. Nella Resistenza c’è il valore della ribellione contro ogni tipo di sopruso: violenza fisica, morale, del denaro o della propaganda. Festeggiando il 25 aprile diciamo che non intendiamo assistere inerti a quello che stanno facendo».
Secondo lei, il Paese ha gli anticorpi per reagire? «Ne sono certo. Ha visto le ultime foto di Noemi? Era una ragazzina molto bella: i ritocchi l’hanno trasformata in altro. Non entrerei i dettagli. Basta guardarle, quelle foto. Quasi una metafora di cosa significhi entrare, a qualsiasi titolo, in rapporto con quest’uomo. Gli italiani lentamente cominciano a capirlo». Primo banco di prova per la sua tesi, le amministrative.
«Se quella città per loro cade il che significa che per noi risorge nulla sarà come prima». Su Milano è ottimista?
«Sì. Lì si gioca una bella partita politica. Chiariamo una cosa: Lassini, che ha offeso le vittime dei terroristi, poi si è ritirato e poi ha cambiato idea, sarà eletto e andrà in consiglio comunale. La cifra della destra oggi è quella di Lassini, dei suoi mandanti e fiancheggiatori».
Sui muri romani sono comparsi manifesti con fasci littori e soldati in fez. «È un fascismo da strada che fa parte di una lunga linea grigiastra di imbecillità miserabile e idiota. Non merita commenti politici ma antropologici e, in certi casi, criminologici».
Si stupirebbe se il premier passasse il giorno della Liberazione a Villa Certosa? «Non mi interessa cosa fa. Nulla potrebbe aggiungere scandalo o vergogna a quanto ha già fatto. Dobbiamo solo liberarcene».

il Fatto 24.4.11
La nostra festa
di Paolo Flores d’Arcais

Domani, 25 aprile, è Festa nazionale. Il che significa che la nazione italiana riconosce in quella data il fondamento della propria identità. Detto altrimenti: il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani perché per far parte della Patria è necessario riconoscere nel fatto storico che si celebra la radice della propria comune cittadinanza. Ora, il 25 aprile è stato scelto a riassumere i giorni in cui i partigiani insorgono in tutte le più importanti città del nord, liberandole. “Aldo dice ventisei per uno” è la frase in codice trasmessa da radio Londra con cui il comando della Resistenza il pomeriggio del 24 aprile dà l’ordine dell’insurrezione generale.
Il 25 aprile è dunque la festa di tutti gli italiani perché è la festa della Liberazione, la festa della vittoria della Resistenza antifascista. La Resistenza antifascista è dunque il fondamento del nostro essere italiani. Chi della Resistenza antifascista nega o disprezza o combatte i valori sta semplicemente minando e negando l’identità e l’appartenenza che ci fanno Patria. Patria e Resistenza antifascista sono sinonimi, fino a che l’Italia vuole restare “Repubblica italiana” e non collassare di nuovo in quella mera “espressione geografica” di cui parlava Metternich. La Resistenza antifascista fa tutt’uno infatti con la Costituzione repubblicana, che nasce nel pieno esplodere della guerra fredda e che tuttavia custodisce l’identità comune della Nazione, al di là di uno scontro politico sempre più aspro, proprio perché radicata nell’impegno comune – fino al sacrificio della vita cui hanno saputo dar luogo i partigiani in montagna, i militanti dei partiti clandestini nelle città, nelle carceri, in esilio.
La Resistenza antifascista, e la Costituzione che ne codifica la “buona novella” (firmata dal democristiano De Gasperi e dal comunista Terracini, ed elaborata da figure straordinarie come Calamandrei), rappresentano perciò una sorta di religione civile, di ethos comune dell’Italia democratica, nel venire meno dei quali va in pezzi la Patria stessa, e resta la nuda forza degli “spiriti animali”, le “ragioni” di chi ha più potere ed eversiva-mente lo esercita in una sorta di guerra civile soft. Forse l’articolo 1 va cambiato davvero: “L’Italia è una Repubblica democratica … nata dalla Resistenza antifascista, ai cui valori si ispira”.
Domani 25 aprile, giorno della Liberazione, della vittoria della Resistenza antifascista, è Festa nazionale. Festa dell’Italia. Chi non vi partecipa “toto corde” è perciò contro la Patria, dell’Italia si fa nemico.

il Fatto 24.4.11
La Costituzione per resistere
di Furio Colombo


“Sgomberare un campo nomadi” non significa spostare gente senza casa da un luogo inadatto a una abitazione vera. Ma spingere via, nel cuore della notte, donne e bambini, dopo averli terrorizzati con l'arrivo di polizia e militari.

Caro Furio, ti scrivo a proposito del 25 aprile. Come ogni anno noi investiamo in questo appuntamento, ritenendolo fondamentale non solo per la memoria storica.
Due anni fa siamo scesi in piazza con i rifugiati politici trattati in maniera disumana dal comune di Milano. L'anno scorso soprattutto per denunciare l'opera di revisionismo storico di un governo della città (e della provincia, e della regione e del Paese) che finanzia e sostiene gruppi neofascisti. Quest'anno il nostro obiettivo è gettare un ponte dall'altra parte del Mediterraneo per dire "cacciare il Rais è possibile". Come? Soprattutto distruggendo quelle frontiere che avevamo affidato a Gheddafi per bloccare i migranti in mare. Noi saremo in piazza con "El General" il rapper tunisino che è stato arrestato il giorno in cui Mohammed Bouazizi si dava fuoco, mentre cominciava la rivolta nel suo Paese.
Noi non saremo in piazza con Moratti, Podestà e i loro candidati.
firmato: Leon

QUANDO LEON, nella lettera che ho scelto di pubblicare come apertura di questo articolo dice "noi", intende persone molto giovani che, nella immensa confusione, dolosa e colposa in cui vive il Paese, non hanno dimenticato l'orrore del fascismo e delle leggi razziali e lo scrupoloso lavoro dei fascisti italiani al servizio del criminale progetto nazista. E sanno ciò che l'Italia di oggi, smemorata e caotica, sta facendo con una concitata persecuzione ai rifugiati delle rivoluzioni e della guerra in Nord Africa e l'ossessivo e persecutorio "sgombero" dei campi nomadi, veri e propri rastrellamenti notturni che non danno tregua a un piccolo popolo ospite in Italia e in Europa da centinaia d'anni. Mentre scrivevo questa pagina per fare in modo che tanti sappiano, nel nostro disperato Paese, dell'esostenza di persone giovani che hanno sentimenti e idee e progetti come quelli narrati da Leon, ho ascoltato, in un solo telegiornale, tre diverse vicende che ci danno notizie del tempo e del modo in cui stiamo vivendo. La prima notizia viene da Roma. In piena vigilia pasquale, e mentre la città si prepara a festeggiare la beatificazione di un Papa, è avvenuto un altro sgombero di campo nomadi della capitale.
Donne e bambini si sono presentati alla Basilica di San Paolo e hanno chiesto asilo. Infatti "sgomberare un campo nomadi" non significa spostare gente povera e senza casa da un luogo inadatto ad una abitazione vera. Non è ciò che accade. Qui, in questa civiltà e in questo Paese, "sgomberare" vuol dire spingere via, nel cuore della notte, donne e bambini, dopo averli terrorizzati con l'arrivo di polizia e formazioni militari, dopo avere distrutto con le ruspe il poco che avevano, per costringerli a vagare fuori, lontano, altrove, senza che nessuno (tranne le proteste appassionate della Comunità di Sant'Egidio) si preoccupi di dire dove e come risolvere il problema. Quale problema? I nomadi non ci sono più e basta.
Ma nello stesso telegiornale ragazzi tunisini facevano vedere ferite e lividi del pestaggio subito dalle guardie del centro di detenzione in cui erano stati ammassati (si chiamano “centri di identificazione e di espulsione” ma sono prigioni senza regole e senza codice). Hanno detto di esse stati puniti per avere tentato la legittima protesta della sciopero della fame. Oggi. In Italia.
MA QUESTI sono anche i giorni del candidato di pietra alle elezioni comunali di Milano, certo Lassini Roberto (foto), che ha ideato, pagato, stampato i manifesti che proclamano i giudici di Milano brigatisti rossi. Vuol dire assassini dediti a una missione, con fini oscuri e mandanti oscuri che infiltrano il Paese per eliminare le personalità più rappresentative, come Berlusconi.
Lassini Roberto è nessuno ma significa molto. Come in un tetro gioco del ventriloquo, parla, attraverso di lui e i suoi manifesti, il primo ministro italiano, uomo squilibrato dal quale il mondo ormai sta alla larga, cercando di non incontrarlo neppure nelle cerimoniose circostanze internazionali. Ma Lassini Roberto è qualcosa di più. E' un personaggio insignificante che ha lanciato apertamente e ufficialmente la guerra tra Potere esecutivo e Ordine giudiziario, in modo da eliminare le piccole trovate degli avvocati per ritardare o rendere pre-morti i processi a carico del capo del Governo. No, Lassini, a nome della banda Santanchè si impegna a fare in modo che sia guerra totale, trasformando elezioni amministrative, un tempo incentrate sulla qualità dei sindaci e del lavoro fatto o promesso, in una guerra senza quartiere per portare a termine il grande progetto, la spaccatura dell'Italia. Difficile dire se il solo grande partito di opposizione , il Pd sia in grado di fronteggiare il pericolo, se lo veda. A giudicare da ciò che dice e ripete il più combattivo alleato del Pd, la radicale Bonino, si direbbe di no. Se è no, vuol dire che Lassini potrà essere eletto insieme alla Moratti in un progetto di secessionismo fra Istituzioni dello Stato, un progetto anche più folle del secessionismo regionale della Lega.
ECCO PERCHÉ l'appello per il 25 aprile lanciato dai giovani e giovanissimi di Milano intorno a Leon, e detto chiaro nella sua lettera, mi sembra il punto di riferimento più forte. Non è nostalgico ma punta al dopo. Resistenza e Costituzione sono il senso, il percorso e il progetto, per cancellare una Italia storta e malata in cui si lasciano morire i "clandestini" in mare o sugli scogli di Lampedusa, si dà la caccia ai Rom, costringendoli a rifugiarsi in una chiesa, e si insegna ai bambini bianchi delle scuole italiane di oggi la canzoncina razzista "faccetta nera".
Grazie a ragazzi come Leon, possiamo ricordarci che a Milano ci saranno elezioni politiche drammaticamente importanti. E che Resistenza e Costituzione sono il programma e l'impegno per salvare la Repubblica.

Corriere della Sera 24.4.11
Un antidoto all’indifferenza
di Claudio Magris


N on è stato solo il Terzo Reich a proclamarsi e a credersi destinato a durare mille anni, anche se è durato solo dodici, meno del mio scaldabagno. Ogni potere, soprattutto ma non solo quello totalitario, ogni civiltà, ogni sistema di valori e di costumi si vogliono e si ritengono definitivi; siamo inclini a scambiare il presente, l’assetto delle cose che ci circondano, per l’eterno, qualcosa che non può cambiare. In questo senso, siamo quasi tutti ciechi conservatori, incapaci di credere che il nostro mondo— la politica, le gerarchie sociali, gli usi, le regole — possa mutare. Se nell’ottobre del 1989 qualcuno ci avesse detto che il muro di Berlino sarebbe presto caduto, lo avremmo preso per un ingenuo sognatore. Forse chi ha il senso religioso dell’eterno è più protetto dalla supina adorazione idolatrica di quel momento di tempo in cui vive e delle momentanee ed effimere forze che in quel momento appaiono vittoriose e insostituibili. Le cose invece cambiano, i muri cadono, ma l’idolatria del momento, che impone di essere «al passo dei tempi» , permane, profondamente radicata nel cuore e nella mente. Caduto il muro di Berlino che pareva eterno e con esso tutto il sistema comunista, uno studioso si è affannato a enunciare, con una celebre frase poco intelligente, che «la storia è finita» e dunque che il mondo sorto dal crollo del comunismo era quello definitivo, destinato a durare — con il suo meccanismo politico, le sue strutture economiche, il suo stile di vita — per sempre. Semmai è vero il contrario; quel muro congelava o cercava di congelare la storia, che invece oggi è vertiginosamente instabile, imprevedibile e mutevole. Sono soprattutto le dittature — quelle «molli» che soggiogano con strumenti economici, mediatici e culturali, e ancor più quelle «dure» che s’impongono direttamente con la forza bruta — che si presentano come l’unico sistema, l’unica realtà possibile. Le dittature invece cadono e il 25 aprile ricorda la caduta di quella fascista in Italia. C’è poco da aggiungere a quanto è stato detto tante volte sull’antifascismo e sulla Resistenza, sull’imperituro significato di quest’ultima quale liberazione nazionale, sulle sue contraddizioni, sulle sue diverse e contrastanti anime, sui suoi eroismi e sui misfatti compiuti in suo nome. Il 25 aprile simboleggia vent’anni di un’altra Italia, differente da quella del regime fascista; una resistenza che non è solo quella partigiana, ma anche quella di coloro che non si sono piegati quando un’altra Italia sembrava impossibile; di coloro che si sono opposti nettamente e clamorosamente, nella lotta clandestina, ma anche di chi, più modestamente, ha cercato di salvare il salvabile di dignità e ragionevolezza, senza eroismi ma con la capacità di non lasciarsi abbagliare dall’ «aria del tempo» , di respingere la tentazione di «marciare con la Storia» , di preservare quell’intelligenza critica che non si lascia sedurre dai belati del gregge, neanche quando sembrano ruggiti di leoni. Ogni resistenza ha una componente pasquale, di resurrezione; è un risorgere dalla morte, da quella falsa vita che si spaccia per immutabile e definitiva ossia finita e dunque morta.
Anche oggi, dinanzi al dilagare di confusione, volgarità, prepotenza, corruzione, sconcezza che sommerge il Bel Paese come liquami che salgano dalle fognature, è forte la tentazione di arrendersi, di lasciarsi andare, di credere che l’andazzo disgustoso sia uno stadio ultimo, che una vera mutazione antropologica abbia creato un nuovo tipo d’uomo, un non-cittadino, e che questa specie, nella selezione darwiniana, sia fatalmente dominante. L’indifferenza che mette in soffitta la Resistenza vera e propria e l’attentato alla Costituzione, che da essa è nata e che è la spina dorsale dell’Italia civile, sono un sintomo fra i tanti di questa involuzione morale. Ma proprio quella data insegna a non scoraggiarsi; ricorda come credere che tutto sia perduto e che non si possa più reagire sia una tentazione, stupida come lo sono in genere le tentazioni. C’è un’altra Italia possibile, rispetto a quella che oggi subiamo. Non è il caso di fare inchini al mondo così com’è e come esso pretende, anche perché, se proprio si è costretti a farlo, ci si può inchinare come Bertoldo, che si piegava davanti ai potenti, ma voltandosi dall’altra parte.

il Fatto 24.4.11
Rom “Fora dai ball”
Alemanno come Bossi: deporta coloro che si erano rifugiati nella Basilica di San Paolo
di Silvia D’Onghia


“Almeno pe’ sta’ qua me so’ risparmiato la spesa de Pasqua”. Il delegato del sindaco alla Sicurezza, Giorgio Ciardi, si sente un deus ex machina: per tutta la mattina fa avanti e indietro tra il parco interno alla Basilica di San Paolo, dove - dopo una notte passata in due stanzoni-magazzino - sono rimasti una quarantina di rom, e il piazzale antistante. Ciardi media, coordina, prova a chiamare al telefono Alemanno. E alla fine tira fuori il coniglio dal cilindro: mille euro al mese (500 dalle casse dei servizi sociali del Campidoglio, altrettanti “dal Vicariato o dalla Caritas, mo’ nun me ricordo”) per ogni nucleo familiare che accetterà il rimpatrio assistito in Romania.
Il cielo sopra Roma è grigio, viene giù anche qualche goccia di pioggia. Di prima mattina alcuni rom oltrepassano i cancelli della Basilica, le mamme vanno a comprare la colazione per i bambini, che sono tanti (alcuni anche neonati). Quando tornano, trovano un’amara sorpresa: non possono rientrare. I gendarmi dello Stato vaticano impediscono a chi è uscito di tornare dentro. Così i bimbi rimangono senza mamme o, viceversa, qualche ragazzino uscito resta senza genitori. È il caso di Giovanni, occhi vispi e brillantino all’orecchio. Parla con tutti, gendarmi, giornalisti, passanti: fa battute in romanesco e attira l’attenzione. È nato in Romania, come tutti i rom che venerdì hanno occupato la Basilica di San Paolo fuori le mura. “So’ annato a scola tre mesi”, ci racconta. “E poi?’”. “Poi so’ morte le maestre”.
MARIA ha 45 anni e cinque figli, il più grande 26 anni, il più piccolo 8. Viveva da cinque mesi nel campo di via dei Cluniacensi, a Casal Bruciato, l’ultimo in ordine di tempo fatto sgomberare da Alemanno. “Siamo venuti qui perchè in Romania non c’è lavoro. Non riuscivamo a pagare l’affitto nè a sfamare i nostri figli. Qui gli uomini lavorano come autisti, o vendono il rame. Io chiedo l’elemosina, e me ne vergogno. Ma capisco che non ci può essere lavoro per tutti. Se potessimo ritornare a casa, lo faremmo volentieri”.
La Prefettura di Roma ha dichiarato al Fatto che tutti i rom sgomberati (un migliaio solo nell’ultima settimana) sono stagionali, arrivati a Roma per lavorare durante la primavera. La smentita arriva direttamente da loro: “Sono arrivato in Italia 7 anni fa, e da 4 vivevo nel campo di Casal Bruciato” racconta Pietro, 26 anni, una moglie di 19 e un figlio di 15 mesi. “Ho lavorato per alcuni mesi come muratore, poi sono stato costretto ad andare ai semafori –. Gli italiani ci insultano, non hanno alcun rispetto per noi”. Constantine ha gli occhi blu e la pelle nerissima, in Romania faceva il paracadutista, in Italia dice di fare il madonnaro. Racconta anche di avere una moglie e un figlio a Bucarest e cerca il modo per strappare qualche euro a chi lo ascolta. Appena si sparge la voce dell’incentivo economico per tornare in patria, Constantine prova a fare il furbo con un funzionario dei servizi sociali: “Ma quando ce li date questi soldi?”. In tarda mattinata la confusione regna sovrana. Il Campidoglio non si schioda dalle sue posizioni: assistenza nei Cara (Centri per i richiedenti asilo) per le sole donne e bambini o rimpatrio assistito. A nulla è valsa la proposta delle associazioni che si occupano di integrazione: voi trovate un luogo provvisorio e noi ci occupiamo per qualche mese di loro a costo zero. “Lo vadano a chiedere alla Provincia il luogo”, risponde Ciardi ai cronisti. “Se accettassimo questa ipotesi – rincalza il sindaco Alemanno – a Roma arriverebbe un flusso incontenibile di persone che verrebbero qui nella convinzione di trovare una casa”.
QUALCOSA cambia quando una delegazione dell’ambasciata romena, poliziotti compresi, entra nel giardino della Basilica. Dopo una decina di minuti Ciardi ne esce orgoglioso: i primi romeni hanno accettato il rimpatrio. Armi e bagagli, 16 persone si concentrano in una zona off limits per chiunque non voglia imbarcarsi: trascorreranno la Pasqua separati (donne e minori nel Cara di Castelnuovo, uomini in un altro centro del Comune), poi partiranno martedì. “Chiediamo a chi rimane di firmare un documento in cui si impegna a garantire una migliore assistenza ai bambini – spiega Antonio Di Maggio, comandante dell’VIII Gruppo della polizia municipale –. Se firmano e non lo fanno, applichiamo la legge”. Cioè portiamo via i minori. E chi accetta il rimpatrio, cosa deve firmare? “Il modulo ‘convenzionale’ non è ancora stato preparato, ma non possiamo impedire a nessuno di rientrare”. Sarà, ma molti rom non si fidano. Per quale ragione Roma dovrebbe dare mille euro a una famiglia che tra poche settimane potrebbe rientrare?

il Fatto 24.4.11
Il Senato: sono 200 mila Mancano le politiche di integrazione

“A differenza di quanto comunemente si crede, la stragrande maggioranza dei Rom, Sinti e Caminanti presenti sul territorio italiano non è nomade e ha anzi uno stile di vita sedentario”. Lo scrive la commissione straordinaria per la Tutela e la Promozione dei diritti umani del Senato, in un rapporto stilato a febbraio. Di più, secondo il Viminale, solo il 2-3 per cento viaggia ancora in carovana. Opera Nomadi ha stimato che il 60 per cento della popolazione ha meno di 18 anni. “Un popolo di bambini”, spiega la commissione. Nei campi sparsi sul territorio nazionale vivono circa 40 mila persone, un dato che rappresenterebbe tra un quarto e un quinto della popolazione complessiva. A Roma sono stati censiti oltre 100 campi, di cui 7 villaggi autorizzati, 14 tollerati e oltre 80 insediamenti abusivi. A Milano (dati Ismu) esistono 45 campi. Per tutti loro, dice il Senato, non si fa abbastanza: manca un progetto di raccolta dei dati, manca un Piano nazionale (il che ci fa perdere risorse europee), manca la regolarizzazione, che passa anche attraverso il riconoscimento della cittadinanza per i minori.
In serata, arriva l’annuncio dei rom rimasti fuori dalla Basilica: “Se non potremo rientrare in chiesa e dormire lì anche stanotte, allestiremo una tendopoli sul prato”. La chiamano Pasqua.

Repubblica 24.4.11
La leader Cgil attacca: il provvedimento potrebbe non essere convertito e servire solo a far saltare la consultazione

Camusso: "Grande mobilitazione contro la trovata del decreto-imbroglio"
di Roberto Mania

L´acqua, come la scuola e la sanità è un bene primario, di cui si può parlare solo in termini pubblici
Devo ancora vederli i privati che entrano in un business e pensano prima agli investimenti e dopo al loro profitto
La Confindustria, appoggiando la posizione del governo, mostra una visione miope contro gli interessi delle imprese

ROMA - «Serve una mobilitazione della politica e della società civile per impedire il decreto-imbroglio che sta preparando il governo con l´obiettivo di far saltare il referendum sull´acqua. Bisogna dire all´esecutivo che un´operazione di questo tipo non si può fare». È la proposta di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, che ha messo la sua firma per la richiesta del referendum contro la privatizzazione del servizio idrico. In sintonia con il Comitato promotore pensa che l´acqua sia ancora un «bene primario» e che per questo, come la scuola e la sanità, non se ne possa parlare se non in termini «pubblici». Di «benessere della collettività», dice.
Perché parla di "decreto-imbroglio"? Anche nel passato i governi sono intervenuti con leggi per evitare i referendum.
«Sì, ma mai l´hanno fatto per decreto».
Vuol dire che mancano i requisiti di necessità e urgenza?
«Non solo. C´è di più. Credo che ci sia un problema giuridico non secondario. Ed è qui l´imbroglio: il decreto potrebbe ben non essere convertito in legge e dunque servire esclusivamente a impedire lo svolgimento del referendum. Un imbroglio, appunto».
Il suo è un processo alle intenzioni. È difficile che il governo possa confermare la sua interpretazione. In ogni caso: pensa che il Presidente Napolitano non dovrebbe firmare l´eventuale decreto?
«Non ho alcuna intenzione di tirare per la giacca il Presidente, lo fanno già in molti in un Paese che è in perenne conflitto istituzionale. Però possono entrare in campo la politica e la società civile. Serve una mobilitazione, appunto, di tutti coloro - dai sindaci ai comitati locali - che hanno raccolto le firme per il referendum».
Il governo ha annunciato che intende istituire un´Authority per sorvegliare il mercato dell´acqua. Non sarebbe una garanzia per gli utenti? La privatizzazione sarebbe regolata. È lo stesso modello realizzato nel gas e nell´energia.
«Qui non stiamo parlando di automobili per le quali, non ho dubbi, che debba essere il mercato il campo di gioco. L´acqua è un´altra cosa. L´acqua è come la scuola o la sanità: non si può che parlarne in termini pubblici. Qui bisogna pensare in termini di benessere della collettività, non di guadagni, di profitti o di affari di qualcuno. L´acqua è un bene prezioso ed è per questo che ha senso fare una grande battaglia».
Comunque è l´Europa che ha fissato le regole del gioco. In Francia, per esempio, c´è un modello privatistico del servizio di distribuzione dell´acqua.
«Sì, è vero in Francia è così. Ma ci sono battaglie che si possono fare anche per determinare un cambiamento in Europa».
Chi è a favore della privatizzazione sostiene che l´ingresso della logica di mercato aumenterebbe l´efficienza del servizio, riducendo gli sprechi, le perdite d´acqua lungo i tubi, e probabilmente finirebbe anche per abbassare i costi. Cosa risponde?
«Che questa contrapposizione tra pubblico e privato mi pare fuori luogo. Ci sono gestioni private che hanno migliorato l´efficienza e altre che fanno inorridire. Quello dell´acqua non solo è - come ho detto - un settore pubblico per definizione, ma richiede pure un significativo sforzo dal punto di vista degli investimenti. E io devo ancora vederli i privati che entrano in un business e pensano prima agli investimenti e dopo al loro profitto. Mi pare che le sirene secondo cui con i privati i servizi migliorano abbiano smesso di suonare. Insomma, l´argomento non funziona più e d´altra parte in giro si vedono tanti monopoli e poca concorrenza».
La Confindustria ha fatto da sponda, per quanto dietro le quinte, all´azione del governo per bloccare prima il referendum sul nucleare e ora quello sull´acqua. Cosa pensa della posizione degli industriali?
«Mi pare un´operazione molto miope, contraddittoria rispetto agli interessi stessi delle imprese ma anche la logica conseguenza di chi ha cancellato dal proprio vocabolario la parola "pubblico". Non mi pare proprio che si possa pensare di aver risolto i problemi mettendo, o provando a mettere, i referendum nel cassetto. Questo è un Paese che ha bisogno di un piano energetico, così come di investimenti nella distribuzione dell´acqua. Questo è un Paese che ha bisogno di scelte, non di nascondere i problemi, pensando di chiudere così le partite».
Perché la Cgil è molto impegnata in questa battaglia a difesa dell´acqua pubblica?
«Perché è un tema che attraversa da tempo tutta la nostra organizzazione. Noi non pensiamo agli acquedotti di quartiere, pensiamo a integrazioni e fusioni tra le municipalizzate. Noi pensiamo che il pubblico possa essere efficiente o, come dicono, anche efficientato».

l’Unità 24.4.11
Il killer dei referendum ha un nome: si chiama silenzio
di Mario Staderini


Il vero obiettivo del Governo rispetto ai referendum su nucleare e acqua non è tanto impedire il voto, bensì demotivarlo.
Spostare il confronto dal merito dei quesiti al permanere o meno della ragione per la tenuta degli stessi, significa far passare il messaggio che i referendum siano inutili perché tanto il Governo ha già fatto marcia indietro. In questo modo, una parte di indecisi si determinerà a disertare le urne e tanto basterà per non raggiungere il quorum in una consultazione dove mezzo milione di voti potrebbe fare la differenza. A quel punto, non conterà nulla che le leggine da azzeccagarbugli si rivelino incapaci di evitare la tenuta dei tre referendum, cosa peraltro nota anche ai proponenti.
Ad oggi, la norma per far saltare il referendum sul nucleare deve ancora essere approvata dalla Camera, mentre il decreto legge sull’acqua è allo stato una fantasia di un sottosegretario che per avere effetti dovrebbe essere convertito in legge ben prima della decisione della Cassazione.
Ammesso e non concesso che il Parlamento trovi il tempo di approvarle (negli stessi giorni si voterà per il processo breve e il testamento biologico), le leggine non soddisferanno comunque i parametri costituzionali per considerare superati i quesiti. Salvo il compiersi, da parte dell’Ufficio centrale, di un blitz come quelli che permisero alla Corte costituzionale di dichiarare inammissibili referendum in realtà legittimi ma scomodi al Palazzo.
Sarebbe un errore pensare che tutto accada in funzione solo del referendum sul legittimo impedimento, sottovalutando così la forza trasversale del blocco nuclearista e di quello affamato delle rendite assicurate dalla trasformazione dei monopoli pubblici in monopoli privati. Qui gli interessi di Berlusconi convergono con quelli di altri potenti. La partita referendaria si giocherà, ancora una volta, intorno alla possibilità che gli italiani conoscano le contrapposte tesi in campo al fine di esercitare un voto responsabile. Su questo il partito degli antireferendari ha già vinto, con la fattiva complicità della Rai e della Commissione parlamentare di vigilanza, la quale non ha ancora approvato il regolamento radiotelevisivo che doveva essere in vigore dal 4 aprile.
Se ci fosse un vero dibattito sul nucleare, si parlerebbe anche delle politiche energetiche italiane e delle oligarchie che le condizionano a loro esclusivo vantaggio. Allo stesso modo, parlare di acqua e di servizi pubblici locali significherebbe aprire il vaso di Pandora del consociativismo municipale e degli imprenditori d’area cui si vuole affidare la cogestione dei miliardi di investimenti pubblici nel settore idrico.
È la conoscenza quello che davvero temono.

l’Unità 24.4.11
Lo sviluppo secondo la destra: meno ricerca e più mestieri
Spingere i ragazzi verso i lavori manuali non risolve il problema della disoccupazione giovanile Per creare nuovi posti c’è solo una strada: puntare sull’innovazione. Come fanno gli altri Paesi
di Ignazio Marino


Non ho sempre pensato di fare il chirurgo. Da bambino mi affascinavano i carrettieri che sul molo di Genova trasportavano le merci su carri con ampi pianali trainati da imponenti cavalli; da ragazzo per un periodo ho pensato addirittura di fare l'orologiaio. Poi, dopo il primo trapianto di cuore eseguito da Christiaan Barnard, nel 1967, fui folgorato dalla chirurgia dei trapianti. I miei sogni e i miei dubbi di adolescente erano quelli di tantissimi giovani di oggi, ma io ho avuto una fortuna che molti non avevano: la possibilità di scegliere. Nello scenario politico senza visione di questi tempi, si sventola il vessillo del “lavoro manuale” e si scivola in dichiarazioni poco costruttive su “cattivi genitori” che spingono i figli alla laurea quando potrebbero “imparare un mestiere”. Non c’è nulla di sbagliato in questo ma deve rimanere una scelta, un progetto di vita che un giovane vuole costruire per seguire la sua passione. Temo non sia così.
È evidente che la maggioranza di destra governa ritenendo di trovarsi di fronte a cittadini poco consapevoli nella scelta dei percorsi di studio e senza interrogarsi se sia o meno un errore rinunciare ad investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo. Questo orientamento sulle politiche educative diverrà presto un obbligo implicito, sono i numeri a dirlo: disoccupazione giovanile quasi al 30%; diminuzione delle immatricolazioni nell’anno accademico 2009/2010 (293mila a fronte delle 338mila del 2003/2004); calo di studenti che al termine delle medie secondarie decidono di proseguire gli studi. Gli investimenti in innovazione e sviluppo sono fermi da undici anni, secondo i dati Ocse, all'1,18% del Pil: fanno meglio di noi Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia ed Estonia. E tutto questo mentre l’amministrazione Obama parla di un nuovo “momento Sputnik” e punta su un milione di auto elettriche entro il 2015; sulla maggiore percentuale di popolazione laureata rispetto ad ogni altro Paese entro il 2020; sull’80% di energia pulita entro il 2035; e poi banda larga e internet superveloce per tutti.
Nel ragionamento del governo manca inoltre una tessera fondamentale del mosaico sociale: il gelataio, il panettiere, l'orefice, il piccolo produttore di caffé hanno operato una scelta di vita legittima e lavorano per prodotti di alta qualità, ma vivono in un mondo globalizzato.
Quale competitività mondiale potremo assicurare a questi prodotti se non avremo ad esempio, laureati in economia ed ingegneria? Di più, il ministro Gelmini è certa che in Italia non ci sia più bisogno di fisici nucleari o di ricercatori delle malattie neurodegenerative? E chi svilupperà i software delle cartelle cliniche elettroniche e la telemedicina negli ospedali ma soprattutto le nuove applicazioni informatiche sul nostro territorio? Gli italiani che fanno ricerca all’estero sono migliaia e producono ricchezza: la loro fuga, infatti, in vent’anni è costata all'Italia oltre 4 miliardi di euro (la cifra corrisponde a quanto ricavato dal deposito di 155 domande di brevetto, dei quali l’inventore principale è nella lista dei “top 20” italiani all’estero).
Io vorrei vivere in un Paese in cui una cosa non esclude l’altra, in cui non ci sia una sola via all’occupazione: non è incitando i ragazzi ad accaparrarsi gli ultimi lavori da elettricisti, gruisti e falegnami che risolveremo il problema della disoccupazione giovanile.

l’Unità 24.4.11
Fu guerra civile a ridosso della linea Gotica
In «Uomini alla macchia» lo storico Fiorilli ricostrusce la guerriglia Le scoperte negli archivi militari inglesi e della Guardia repubblicana
di Carlo Ricchini


Alle spalle del fronte, ai confini tra Toscana e Liguria, monti della Lunigiana e entroterra spezzino, la guerra di liberazione svolse un ruolo chiave: i partigiani erano la spina nel fianco dei soldati tedeschi e dei loro rifornimenti. Svolsero questo compito con atti di coraggio e di eroismo, subirono con le popolazioni rastrellamenti, rappresaglie, fucilazioni. Ma, rivela Maurizio Fiorillo nel suo ottimo libro, mancò un comando unico, le bande erano divise, a volte rivali. Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-45 (editore Laterza), ricostruisce quel periodo con un’ottica complessiva, senza remore e reticenze, dopo avere attinto un’ampia documentazione, anche inedita, come le relazioni delle missioni militari di collegamento britanniche presso le formazioni partigiane, conservate presso i National Archives di Londra, documenti tedeschi e i notiziari della Guardia nazionale repubblicana.
Bisogna ricordare che il golfo della Spezia, nel 1943, era una grande piazzaforte militare, con l’Arsenale, caserme di marinai, batterie sulle colline del golfo con cannoni e mitraglie contro aerei e attacchi via mare. Migliaia di militari, in parte meridionali, che l’8 settembre, sbandati, non ebbero alternativa che seguire la via dei monti. Nascono così, nell’autunno del 1943, nuclei formati da sbandati, renitenti alla chiamata alle armi della repubblica di Salò, oltre che antifascisti di varie tendenze con esperienze di lotta clandestina, di carcere e di confino. Sono bande ribelli che passano gradualmente dalla resistenza passiva all’attività di guerriglia, senza mai unirsi in un vero e proprio «esercito di liberazione», mantenendo un’ampia autonomia, una variegata coloritura politica e proprie specificità locali. Il mondo alla macchia emerge come un mosaico complesso, nel quale sono contemporaneamente presenti idealismo e necessità di salvezza, progetto politico e spontaneismo, patriottismo e opportunismo, l’inevitabile violenza di un conflitto senza regole e la volontà di ricostruire dalle ceneri del disastro bellico e della dittatura un quadro politico diverso e democratico.
Deve essere inoltre ricordato che la provincia della Spezia venne insignita della medaglia d’oro della Resistenza e la città, fra le più ferite dai bombardamenti, della medaglia al valore militare.Il libro di Fiorillo è denso di fatti, narrati con una scrittura fluida, semplice, che intreccia storie diverse, riportandole a un racconto unico, avvincente. Non mancano gli episodi oscuri, come la ingiusta fucilazione da parte degli stessi partigiani del comandante «Facio», Dante Castellucci, poi decorato con la medaglia d’argento al valore militare. Emergono dal racconto personaggi della resistenza che già sui monti operarono per un movimento unitario, e che poi si distinsero nella ricostruzione e nell’amministrazione pubblica, come Anelito Barontini, Flavio Bertone, Paolino Ranieri, Pietro Beghi, Varese Antoni, soltanto per citarne alcuni. Sulla guerra di Liberazione gli storici si sono divisi: lotta di tutto un popolo unito oppure guerra civile. Fiorillo fa sua la tesi di Claudio Pavone, la sostiene e la documenta sul campo. Conclude la sua importante ricerca affermando che i ribelli, «nati da una sconfitta, dalla fuga da una guerra odiata e da un desiderio di riscatto spesso ancora confuso, combatterono contro i loro stessi errori e debolezze. Non si arresero e non accettarono di essere solo testimoni degli sconvolgimenti che attraversarono il loro paese, le città dove vivevano le loro famiglie. È forse questa la loro principale vittoria».

Corriere della Sera 24.4.11
«L’uomo non è il prodotto casuale dell’evoluzione»
Benedetto XVI riporta in primo piano la Creazione
di Gian Guido Vecchi


CITTA’ DEL VATICANO — «Se l’uomo fosse soltanto un prodotto casuale dell’evoluzione in qualche posto al margine dell’universo, allora la sua vita sarebbe priva di senso o addirittura un disturbo della natura. Invece no: la Ragione è all’inizio, la Ragione creatrice, divina» . Benedetto XVI ha l’aria un po’ affaticata ma le sue parole, nella Veglia di Pasqua in San Pietro, sono vertiginose. Nella notte più importante per i fedeli, il pontefice si sofferma sull’essenziale. Perché «la Chiesa non è una qualsiasi associazione che si occupa dei bisogni religiosi degli uomini» . No, scandisce, «essa porta l’uomo in contatto con Dio e quindi con il principio di ogni cosa» . L’alternativa che pone Ratzinger non è tra creazione e teoria dell’evoluzione ma tra «fede» e «incredulità» . Ed è anzi interessante notare come all’inizio liquidi il creazionismo che prende alla lettera il testo biblico. Nella tradizione liturgica, spiega, le letture sacre venivano chiamate «profezie» nel senso che «ci mostrano l’intimo fondamento e l’orientamento della storia» . Così anche il racconto della creazione nella Genesi è una «profezia» , argomenta: «Non è un’informazione sullo svolgimento esteriore del divenire del cosmo e dell’uomo. I Padri della Chiesa ne erano ben consapevoli. Non intesero tale racconto come narrazione sullo svolgimento delle origini delle cose, bensì quale rimando all’essenziale, al vero principio e al fine del nostro essere» . Le sue parole, semmai, contrastano col «darwinismo» , quella particolare interpretazione della teoria darwiniana che in ultima analisi vede l’evoluzione come frutto del caso. Non è vero che nell’ «universo in espansione» e «in un piccolo angolo qualsiasi» si «formò per caso» anche un essere razionale. «Ci troviamo di fronte all’alternativa ultima che è in gioco nella disputa tra fede ed incredulità: sono l’irrazionalità, la mancanza di libertà e il caso il principio di tutto, oppure sono ragione, libertà, amore il principio dell’essere? Il primato spetta all’irrazionalità o alla ragione?» . Ecco il punto, diverso anche dalla teoria dell’ «Intelligent design» che pretende di porsi come scientifica. In principio, dice Giovanni, era la Parola, quel «Logos» che significa «ragione» , «senso» , «parola» . E il grande teologo aggiunge: «Non è soltanto ragione, ma Ragione creatrice che parla e che comunica se stessa. È Ragione che è senso e che crea essa stessa senso» . Insomma, scandisce Benedetto XVI, «all’origine di tutte le cose non stava ciò che è senza ragione, senza libertà: il principio di tutte le cose è la Ragione creatrice, è l’amore, è la libertà» . Certo della libertà si può fare cattivo uso e «per questo si estende una spessa linea oscura attraverso la struttura dell’universo e attraverso la natura dell’uomo» . Ma «la creazione come tale rimane buona, la vita rimane buona. Per questo il mondo può essere salvato» . Nella veglia della Risurrezione, il Papa alza lo sguardo: «Ora celebriamo la vittoria definitiva del Creatore e della sua creazione» .

Corriere della Sera 24.4.11
L’altro Dante, profeta di se stesso
Le opere minori: rivoluzionario nella lingua, reazionario in politica
di Paolo Di Stefano


robabile che, anche se non avesse scritto la Commedia, Dante resterebbe la nostra maggiore personalità letteraria, la più innovativa, la più inimitabile. Basti pensare che all’originalità delle Rime si aggiunge la Vita nova, un romanzo amoroso giovanile. Che alla Vita nova si aggiunge il De vulgari eloquentia, un trattato in latino sull’idioma volgare. Che a quest’ultimo si aggiunge il Convivio, un trattato filosofico-morale. E si potrebbe continuare. Insomma, il cosiddetto Dante minore è minore solo a se stesso e a nessun altro. Anche perché, a ogni successiva lettura, riserva continue sorprese. Prendete il primo volume delle Opere dei Meridiani. dirette da Marco Santagata: vi troverete nuove prospettive e inedite interpretazioni. A cominciare dalla messa a fuoco dell’invadenza dell’io narrante o del personaggio Dante e dell’intreccio strettissimo tra biografia e opera. Una biografia, per altro, viziata da numerose lacune documentarie. «Essenzialmente — dice Santagata, autore di una lunga introduzione— quel che possiamo dire della vita di Dante ce lo racconta lui stesso nella sua opera, la quale si nutre dell’esperienza dell’autore. La Commedia è una specie di instant book in cui via via Dante caccia dentro tutte le sue personali vicende e gli eventi di attualità. Ma tutta la produzione dantesca ha questa caratteristica» . Si indovina una curiosa strategia nella Vita nova: Dante finge che il racconto non sia finzione: «Sì, ma per fare apparire credibile il libro, che narra una storia quasi del tutto falsa, Dante lo intesse di esperienze autobiografiche: è sempre lui il protagonista dei suoi scritti» . E che personaggio ne viene fuori? «Anche Petrarca mira sempre all’autobiografia, ma si tratta di un’autobiografia ideale da offrire ai posteri. Dante si propone come cronista e poeta, fonde elementi di realtà e di finzione, senza distinguere mai tra il vero e il falso. Per lui la finzione si trasforma in realtà e il dato letterario diventa dato autobiografico. Ma nonostante l’impulso irresistibile a mettere se stesso al centro, Dante non ha nessuna intenzione di costruire un’autobiografia ideale» . Tra i caratteri dell’autobiografismo dantesco, Santagata intravede infatti le «marche dell’eccezionalità» , come se l’autore volesse presentarsi quale portatore di un destino straordinario e dunque inimitabile, al punto da proporsi con i tratti del profeta, capace di accensioni mistiche: «Dante si sente diverso, un "unicum", sia sul piano letterario sia sul piano esistenziale: ha il pallino di sentirsi diverso anche nella vita pratica, si circonda di amici prestigiosi e quando la sorella Tana si sposa, le dà una dote immensa di 360 fiorini, con un gesto di grandeur che lo costringe a indebitarsi fino al collo. Questo senso di diversità lo trasferisce anche alla letteratura, facendo di sé un personaggio eccezionale che culmina nel profeta» . Santagata è alle prese con una biografia dantesca che consegnerà alla Mondadori: la ricostruzione si baserà sulle tracce disseminate nelle opere, comprese allusioni e enigmi indecifrabili: «Dante è incerto se rendere evidente il suo profetismo o accennarne attraverso segnali da interpretare ai fini della costruzione di sé. Nella Vita nova, quando accenna alla morte di Beatrice, afferma che se l’avesse raccontata sarebbe diventato "laudatore"di se medesimo. Come ha dimostrato Mirko Tavoni, si tratta di un rimando implicito a San Paolo, che nella seconda lettera ai Corinzi racconta il suo rapimento al terzo Cielo: l’apostolo confessa di avere resistito 14 anni prima di svelare quella sua esperienza per non "gloriarsi"di quel privilegio divino. Pure Dante, nel momento della morte di Beatrice, aveva avuto una visione mistica simile a quella di San Paolo. Da qui la sua reticenza. Dice e non dice» . Ma Dante era davvero dotato di particolari qualità o era solo un mistificatore? «Nessuno può dirlo, la verità è che lui si sente un profeta e su questa consapevolezza costruisce il suo personaggio letterario» . Quante contraddizioni, in un uomo che ha passato la vita a dare coerenza alle sue molte svolte politiche e intellettuali. La prima contraddizione è la convivenza irrisolta del rivoluzionario con il reazionario. «Dante era ideologicamente un reazionario antileghista, si direbbe oggi: se c’era una cosa che odiava era il particolarismo campanilista, che gli aveva rovinato la vita. Nel De vulgari scrive una sofferta tirata contro il provincialismo fiorentino di chi crede che il luogo natio sia il migliore. Era contro l’inurbamento, il fiorino, i mercanti, i banchieri, si opponeva ai fenomeni della modernità che vedeva nella sua Firenze e che riteneva cause del venir meno dei valori della pace e dell’ordine tipici della nobiltà del passato. A Dante sarebbe piaciuto molto essere un nobile feudale e il senso dell'inadeguatezza sociale si ribalta nell’affermazione di una superiorità esistenziale, ideologica e letteraria» . Cioè sfocia nello sperimentatore, nel rivoluzionario delle forme espressive: «È la frattura che percorre la sua intera personalità. Difficile trovare una mente più aperta all’innovazione: non c’è opera uguale all’altra, pur avendo reciproci collegamenti molto stretti. Cambiano i generi e gli stili, anche se il tentativo di Dante è quello di ricondurre tutto a un discorso unitario. L’innovazione più forte riguarda soprattutto la lingua. La scoperta della storicità delle lingue, che mutano nel tempo e nello spazio, è geniale se si considerano gli strumenti che aveva a disposizione. Non solo. In Dante c’è anche l’idea dell’evoluzione dei sistemi culturali. Ma è paradossale che uno uomo che sul piano politico vorrebbe spostare indietro l’orologio della storia, a livello intellettuale si spinga invece a questo punto di novità nella percezione della storia» .

«noi siamo animati da due forme di amore: quello verso se stessi e quello verso gli altri. Nessuno di questi due amori riesce a cancellare l´altro e la nostra vita non è che la dialettica convivenza di essi che si confrontano nella caverna dove abitano i nostri istinti, le nostre più segrete pulsioni e la nostra energia vitale. »
Repubblica 24.4.11
Pasqua, lo spirito risorge per tutti
di Eugenio Scalfari


IL MALE non esiste. Dio decise di incarnarsi, di assumere natura umana e assumere su di sé tutti i peccati del mondo. Ripristinò l´alleanza tra l´umanità e il suo creatore e indicò la via della salvezza lasciando agli uomini la libertà e la responsabilità di scegliere.
Nel giorno del giovedì cenò con i suoi apostoli. La sera si ritirò con loro nell´orto del Getsemani. Nella notte fu arrestato. Il venerdì fu processato, torturato e crocifisso. Sepolto. Dopo tre giorni (ma il sabato secondo la liturgia) resuscitò da morte, apparve alle donne e poi agli apostoli. Così raccontano i Vangeli.
Un altro racconto, pur sempre condotto sui testi della Scrittura ma diversamente interpretati, narra la storia di un uomo, figlio di Giuseppe e della giovane Maria, nato a Betlemme nei giorni del censimento, ma residente a Nazaret. Di lui, dopo la nascita ed una fuggitiva presenza al Tempio, i Vangeli non dicono più nulla, non esiste alcun racconto della sua infanzia e della sua adolescenza. Non sappiamo nulla del suo lavoro, dei suoi studi, della sua famiglia, della sua vita.
Lo ritroviamo a trent´anni, quando inizia la sua predicazione in Galilea e in Tiberiade. Va al Giordano a farsi battezzare dal Battista, raduna un gruppo di discepoli, pescatori, artigiani, mendicanti. La sua predicazione ha all´inizio contenuti soprattutto sociali; sostiene che nel regno di Dio gli ultimi saranno i primi, i deboli, i poveri, gli ammalati, saranno confortati, i giusti avranno giustizia, gli ingiusti saranno castigati.
Ma intanto quell´uomo sente crescere dentro di sé una potenza misteriosa, connessa a capacità medianiche e taumaturgiche. Ed è allora che domanda: «Voi chi credete che io sia?».
Alcuni dei discepoli rispondono: «Tu sei il "rabbi", il Maestro». Altri: «Tu porti in te lo spirito di Mosè». Ed altri: «Un grande profeta, più grande di Ezechiele e di Geremia». Altri ancora: «Tu sei il Messia, discendente dalla stirpe di David e sei venuto ad annunciare la fine dei tempi».
Gesù ascolta, si chiude in sé. Si ritira nel deserto passando dalle terre dove vive la comunità degli Esseni, rimane quaranta giorni solo con le sue tentazioni, ode la voce del Tentatore e ne respinge le impure proposte. Torna tra i suoi. Ora è convinto di essere il Figlio di Dio, il solo tramite attraverso il quale l´unico Dio manifesta il suo amore per gli uomini e la sua sconfinata misericordia.
Questi due racconti, pur svolgendosi nello stesso modo e configurando lo stesso percorso, sono però profondamente diversi, ma convergono nella stessa conclusione: quell´uomo dà inizio ad un´epoca che si ispira al principio dell´amore e della carità, del perdono e della misericordia. Il peccato è una caduta dalla quale ci si può rialzare. Il male è soltanto l´eccezionale assenza del bene. Il bene è il regno dei giusti che godono la beatitudine di poter contemplare Dio nelle sue tre consustanziali epifanie di Padre, di Figlio e di Spirito Santo.
In questa fine del viaggio e della storia il male avrà cessato di esistere, non ci sono né purgatorio né inferno, ma soltanto paradiso, senza tempo e senza luogo.
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Ma c´è un terzo racconto, quello che caratterizza l´epoca della modernità. In esso non esistono né il male né il bene, non esiste il peccato. Ogni essere vivente è dominato dalla natura dei suoi istinti e vive in perfetta innocenza. Ma noi, unica specie dotata di mente riflessiva e capace di pensiero, noi ci vediamo vivere, invecchiare e morire; noi siamo animati da due forme di amore: quello verso se stessi e quello verso gli altri. Nessuno di questi due amori riesce a cancellare l´altro e la nostra vita non è che la dialettica convivenza di essi che si confrontano nella caverna dove abitano i nostri istinti, le nostre più segrete pulsioni e la nostra energia vitale.
In questo terzo racconto non esiste metafisica, nulla è divino oppure tutto è divino, due modi per significare la stessa cosa: "Deus sive natura".
Il terzo amore che tutto sovrasta è quello verso la vita e il solo peccato pensabile è quello contro la vita, la sua dignità, la sua libertà. Non una vita idealizzata, ma una vita storicamente determinata dagli istinti che si misurano, si combattono, si trascendono, si trasfigurano, diventando passioni e sentimenti analizzati dalla lente della ragione, cioè del pensiero che pensa se stesso e che si vede vivere.
Questo pensiero è capace di inventarsi e di raccontarsi molti mondi, è una fabbrica di illusioni che ci aiutano durante il viaggio, di speranze che alimentano la nostra energia vitale, di architetture morali indispensabili a tutelare la nostra socievolezza.
Noi siamo una specie pensante e socievole, perciò costruiamo regole morali che consentono la convivenza in quel dato contesto storico. Ecco perché non esistono peccati ma esistono reati.
Quando finisce un´epoca, finisce anche una morale, si verifica una rivoluzione che smantella la vecchia architettura per costruirne un´altra affinché la vita possa proseguire alimentata e incanalata da nuovi limiti, da nuove correnti, da nuove sorgenti.
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Ognuno di questi racconti ha una sua Pasqua, ognuno raffigura un´epifania, una morte apparente e una resurrezione. Non c´è fine perché non c´è principio. Non c´è altro senso fuorché la vita che la nostra specie è in grado di raccontare, interpretare, trasfigurare, inventare. Abbiamo perfino inventato il tempo.
Il tempo morirà con noi. La morale morirà con noi. Purtroppo stanno già morendo e questo non è buon segno.
Quando si rifiuta di ricordare il passato non si può costruire il futuro, si vive schiacciati da un eterno presente come gli animali che vivono infatti fuori del tempo.
Quando si smonta un´architettura morale senza costruirne un´altra il fiume della vita cessa di scorrere diventando imputridita palude. A questa sorte dobbiamo ribellarci, questo pericolo dobbiamo scongiurare.
"Resurrexit" suoneranno oggi le campane. La Pasqua è di tutti ed è lo spirito di tutti che deve risorgere.

«In questa fase della mia vita sto studiando gli istinti e i sentimenti... L'uomo è un groviglio di due amori: quello per gli altri e quello per se stesso. E se mai ci si chiede quale sia il più forte e il più irruente di questi due istinti amorosi, s'arriva presto a concludere che l'amore per sé è quello dominante. Lo si può contenere, si può fare in modo di arginarne la pericolosità, ma non si riuscirà mai a spegnerlo perché si dovrebbe trasformare l'uomo in un angelo, dotarlo cioè di un'altra natura che estingua la natura umana.
La storia biblica comincia con Caino che uccide Abele. E neppure Cristo riuscì a spegnere l'amore di sé nell'umana natura. Provò a compiere questo miracolo ma non riuscì.»
L’Espresso nelle edicole 22.4.11
L'amore per sé e quello per gli altri
di Eugenio Scalfari

qui segnalazione di Roberto Giorgini
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lamore-per-sã©-e-quello-per-gli-altri/2149714

Repubblica 24.4.11 5 PAGINE!!!!
«Sì, ho vissuto con un santo»
Joaquin Navarro-Valls, il giornalista e psichiatra spagnolo che per ventidue anni ne è stato il portavoce, racconta il miracolo quotidiano di un uomo che ha saputo conquistare credenti e non credenti
di Vittorio Zucconi


il Riformista 24.4.11
Matteotti, un socialista incompreso
di Federico Fornaro

qui
http://www.scribd.com/doc/53765147

Terra 24.4.11
Affetti da “cioccolismo” Storia di una passione
di Alessia Mazzenga


Terra 24.4.11
«abusi: il pubblico sdegno
può piegare la Chiesa»
di Federico Tulli

qui
http://www.scribd.com/doc/53765287