l’Unità 28.4.11
Sit in del Pd e degli «immigrati di seconda generazione». Nati qui ma non riconosciuti
Costretti al permesso di soggiorno perché non c’è una legge a renderli subito «regolari»
«Noi, italiani Vogliamo la piena cittadinanza»
Bersani: «È una vergogna che lo Stato non riconosca un milione di nati in Italia». Alla Camera, due proposte di legge sulla cittadinanza in attesa di essere calendarizzate. Turco: «Fini passi dalle parole ai fatti»
di Mariagrazia Gerina
Ritmo sincopato. Parole leggermente piegate alle esigenze dell’hip hop. «Fratelli in Italia, l’Italia s’è desta...», cantano i nati nel paese che ancora non ha deciso il loro status. Né italiani, né stranieri, finché la legge non li riconoscerà per quello che sono. Loro davanti a Montecitorio l’inno d’Italia lo scandiscono come un rap di protesta, con le braccia che si levano su e giù come un avvertimento. E come dovrebbero cantarlo visto che lo Stato dove i loro genitori li hanno messi al mondo e/o cresciuti li ha lasciati per anni senza cittadinanza?
Le idee sul futuro del paese sembrano avercele più chiare loro, che, come dice Khalid Choauki portavoce del Forum Immigrazione conoscono anche l’inno di Mameli «meglio di tanti parlamentari della Lega».
«Appena finita la scuola vorrei montare pannelli solari, le energie alternative sono il futuro», spiega Jasmeet Singh Samra, 18 anni, all’ultimo anno dell’istituto tecnico industriale. «Il rap con i Termini Underground è un hobby». Quando è nato, nel Punjab, suo padre, che ora fa il giardiniere, era già l’Italia. Lui lo ha raggiunto che aveva appena 4 anni, con sua madre, che ora lavora in un ospizio per anziani. E ora a 18 anni si ritrova addosso l’inconfondibile accento della periferia romana in cui è cresciuto, a Quarto Miglio. Che non lo salva però dalla trafila riservata agli immigrati. Fatta di permessi di soggiorno. E di «perquise», che in gergo giovanile è «quando la polizia ti ferma in strada e ti comincia a domandare: da dove vieni?».
Cristina He, 17 anni, è nata in Italia, ma deve aspettare i 18 anni per chiedere la cittadinanza. I suoi, che erano appena arrivati dalla provincia del Zhejiang, le misero quel nome desiderando che loro figlia si sentisse sempre a casa sua nel paese in cui l’avevano fatta nascere. «È stato un trauma quando a cinque anni ho capito che non ero cittadina italiana». Era piccola ma sapeva già leggere e aveva visto che sulla carta sanitaria c’era scritto «cittadina cinese»: «Perché papà?».
Julija Stevanovic (che al rap preferisce una sintetica cronistoria) è un po’ più grande: 21 anni, iscritta a Scienze Politiche a Padova, anche lei è ancora in attesa di cittadinanza. «Ormai a casa mia ce l’hanno tutti, mio fratello mi prende anche in giro», ironizza Julija che è venuta in Italia a tre anni, con i genitori «cittadini croati di origine serba, costretti a fuggire per paura delle persecuzioni». Per fare la domanda ha dovuto aspettare i 18 anni e la risposta non è ancora arrivata: «Lo sai la cosa che mi fa più rabbia? È che ora ci sono i referendum e io non posso nemmeno votare».
Sullo sfondo, mentre i fratelli d’Italia si raccontano, Montecitorio sembra di cartapesta. Lì dentro giacciono indiscusse tutte e due le proposte di legge per riconoscere la cittadinanza ai nati in Italia. La prima, depositata dai deputati del Pd Bressa e Zaccaria, risale al 2008. L’altra, a doppia firma Sarubbi (Pd) e Granata (allora ancora Pdl), a quando Fini, proprio sull’immigrazione, cominciava a smarcarsi dagli alleati. «Siamo qui anche per dire al presidente della Camera che dopo più di un anno dovrebbe passare dalle parole ai fatti», scandisce Livia Turco, dallo stesso palco de i giovani rapper: «Sappiamo che il centrodestra è ostile, ma noi quella proposta l’abbiamo iscritta all’ordine del giorno e vogliamo che vada avanti». Anche Bersani nonèvolutomancarealsit-inorganizzato dal Pd. «Sull’immigrazione il fallimento delle politiche del centrodestra è stato totale», dice il segretario, «ma qui parliamo del diritto di chi è nato e cresciuto in Italia di essere cittadino italiano ed è una vergogna che pesa sulla coscienza del paese che ci sia un milione di ragazzi né immigrati né italiani». L’impegno del Pd spiega è riconoscerli italiani e basta ,«appena avremo mandato a casa il centrodestra». La legge sulla cittadinanza sarà all’ordine del giorno del primo Consiglio dei ministri, promette Livia Turco. E intanto il sit-in spiega Marco Pacciotti, coordinatore del Forum Immigrazione serve a dare una scossa a chi siede ora in parlamento.
La Stampa 28.4.11
20 mila come fantasmi. È il numero dei giovani nati in Italia da genitori stranieri che negli ultimi 18 mesi sono diventati maggiorenni: cittadini italiani fino al giorno prima, ora sono costretti a chiedere in questura il permesso di soggiorno per non essere clandestini “Noi, italiani con permesso di soggiorno
Nati e cresciuti qui da genitori immigrati, a 18 anni perdono la cittadinanza: le loro storie in un film
di Franco Giubilei
Un bambino (o una bambina) può nascere in Italia, andare all’asilo e poi a scuola in Italia, diciamo fino alla quinta superiore, ma non per questo potrà necessariamente dirsi italiano: sì, perché al compimento della maggiore età il figlio di due stranieri privi di cittadinanza si ritroverà in un’anagrafica terra di nessuno, dato che da noi si diventa cittadini a patto che lo sia almeno uno dei genitori, o che si rispetti una normativa contorta.
Una condizione in cui vivono quasi 20mila ragazzi che sono diventati maggiorenni fra il 2010 e il 2011 nel nostro Paese, tutti venuti alla luce lungo lo Stivale o giunti qui a pochi anni d’età, e tutti rigorosamente orfani di cittadinanza. Parla di loro il documentario «18 ius soli», realizzato da un regista nato a Bologna 40 anni fa da padre ghanese e madre italiana: Fred Kudjo Kuwornu, già aiuto di Spike Lee nel film «Miracolo a Sant’Anna», ha raccontato le storie di quindici giovanissimi costretti, loro malgrado, a fare il permesso di soggiorno nonostante siano italiani a tutti gli effetti.
Basta scorrere il curriculum di alcuni degli intervistati, come la ventenne Heena, nata a Reggio Emilia da genitori indiani, studentessa di Giurisprudenza e mediatrice culturale. O di Valentino, romano di origini nigeriane, studente di Biotecnologia e artista hip-hop. Oppure di Anastasio, parmigiano di nascita ma con padre e madre delle Mauritius, di professione cuoco, nel tempo libero volontario alla Croce Rossa. O vogliamo parlare di Angela, 23 anni, nata a Rimini ma dagli occhi a mandorla dal taglio inconfondibilmente cinese, studentessa di Economia e commercio?
A guardarli e ad ascoltarli nel documentario – che oggi sarà presentato in anteprima nazionale alla fiera Cittadini del Mondo di Reggio Emilia e che, per iniziativa della Regione Emilia Romagna, sarà proiettato in tutte le scuole superiori – c’è da chiedersi dove stia la differenza fra questi ragazzi e i loro coetanei italiani a tutti gli effetti, colore della pelle e lineamenti a parte.
Il fatto è che in Italia vige il criterio dello Ius sanguinis, il diritto di sangue, ragion per cui il titolo del film è «18 ius soli», in segno di auspicio perché la legislazione cambi tenendo conto della terra in cui si vive, mettendo così fine a un controsenso dai risvolti discriminatori. Nel documentario c’è anche la testimonianza del presidente della Camera Gianfranco Fini.
L’autore del film ricorda come, a complicare la vita dei figli degli immigrati, ci sia una burocrazia rugginosa: «Ci sono i ragazzi nati in Italia, che quando compiono 18 anni hanno un anno di tempo per presentare domanda e che devono dimostrare di aver vissuto ininterrottamente in Italia per un decennio. E poi c’è la casistica più numerosa, cioè quelli arrivati in Italia da piccoli, che a 18 anni possono fare domanda ma ai quali lo Stato non è tenuto a dare la cittadinanza, perché è un atto discrezionale. C’è anche un problema d’informazione, pochi conoscono le regole».
Prima della maggiore età ci sono difficoltà ad espatriare, anche solo per andare in gita scolastica all’estero, perché serve il permesso del consolato. Dopo i 18 anni poi bisogna trovare subito un lavoro, oppure non sgarrare negli studi, altrimenti il permesso di soggiorno non viene rinnovato e ci si trasforma in clandestini a rischio espulsione. Fra i casi estremi, quello di Anastasio, nato a Parma 21 anni fa: «E’ stato clandestino per sei mesi perché, per un errore dell’ufficio anagrafe in occasione di un trasloco della famiglia, il periodo di dieci anni necessario per la cittadinanza si è interrotto per un mese, e così ha dovuto ricominciare da capo. A lui sarebbe piaciuto fare il soldato, invece non ha potuto perché non ha ancora la cittadinanza. Ed è una persona ottima: quando c’è stato il terremoto all’Aquila è andato per un mese a far volontariato. Eppure incontra mille problemi».
http://www.18-ius-soli.com/
il Fatto 28.4.11
Una paga per il Vaticano
di Marco Politi
Berlusconi paga sull’unghia. Uno strapuntino nel governo ai responsabili-pronti-a-tutto. Una legge sul biotestamento, che espropria il paziente di qualsiasi decisione, per tacitare la Chiesa e garantirsi il suo appoggio.
Le gerarchie ecclesiastiche si adombrano, quando si accenna al do ut des. Ma è sotto gli occhi di tutti. In cambio delle concessioni sui principi “non negoziabili”, la Chiesa italiana chiude gli occhi sullo sfascio inflitto dal premier al Paese.
Il testamento biologico non spacca gli italiani, non divide credenti e sinistre – come continua caparbiamente a sostenere la stampa ecclesiastica – non separa cattolici da laici. Il diritto del paziente di non essere sottoposto a trattamenti medici contro la propria volontà, sancito dalla Costituzione, è un concetto radicato nella stragrande maggioranza degli italiani. Se i media ecclesiastici vogliono conoscere la voce del Paese, possono facilmente rintracciare i sondaggi che da anni confermano la stessa tendenza. Dai due terzi ai quattro quinti degli italiani vogliono decidere personalmente se rimanere attaccati a un tubo o dipendere a oltranza da trattamenti artificiali. Non c’entra l’eutanasia, non c’entra la voglia di darsi la morte . È in gioco – lo ribadiscono da sempre coscienze cattoliche come il filosofo Giovanni Reale – la scelta se lasciare che la morte arrivi naturalmente o accanirsi a rimandarla tecnologicamente.
L’ultimo sondaggio all’interno del collegio dei chirurgi italiani certifica che il 73 per cento di loro considera “trattamento medico” la nutrizione e l’alimentazione artificiale e quindi un argomento su cui il paziente ha diritto di decidere. Anche all’interno del Pdl già nel 2009 il 70 per cento era per il biotestamento (dati Crespi). I cattolici quotidiani hanno già scelto.
La cinica manovra di Berlusconi nasce dalla paura che il Terzo polo lo possa scavalcare nei rapporti con la Chiesa e dal desiderio di demonizzare le sinistre come partito anti-vita. Al di là di queste miserie, resta che la legge anti-paziente, che il premier e la gerarchia vogliono varare, è imposta contro la volontà degli italiani: credenti e diversamente credenti.
il Fatto 28.4.11
Un pessimo biotestamento in cambio dell’assoluzione dal bunga bunga?
Alla Camera il ddl Calabrò diventa un comizio elettorale per attrarre il voto cattolico Berlusconi: “Senza legge i tribunali scavalcano il Parlamento”
di Caterina Perniconi
In aula giusto il tempo di un comizio elettorale, qualche applauso e poi tutto rimandato a dopo le elezioni. Lo show sul testamento biologico offerto ieri dalla Camera dei deputati è servito alla maggioranza e all’Udc per mostrare i muscoli al loro elettorato cattolico sui temi etici. Ma nulla di più.
Il clima era incendiato già dal mattino, quando il presidente del Consiglio ha inviato ai parlamentari del Pdl una missiva per ringraziarli del lavoro delle scorse settimane sul processo breve, chiedere loro impegno sul biotestamento e, tanto per non perdere il vizio, attaccare i giudici. “La gran parte di noi – ha scritto Berlusconi – ritiene che sul ‘fine vita’, questione sensibile e legata alla sfera più intima e privata, non si dovrebbe legiferare, e anch’io la penserei così, se non ci fossero tribunali che, adducendo presunti vuoti normativi, pretendono in realtà di scavalcare il Parlamento e usurparne le funzioni”. La lettera ha fatto molto arrabbiare Beppino Englaro: “Il problema di Berlusconi è la magistratura – ha detto il padre di Eluana – ma nel caso di mia figlia, non ha fatto altro che rispondere alla domanda di giustizia del cittadino con principi di diritto allineati alla costituzione senza essere serva di alcun potere”.
NELLO STESSO tempo la Cgil consegnava al presidente della Camera Gianfranco Fini, le diecimila firme raccolte tra medici, infermieri e operatori sanitari contro il disegno di legge all’esame dell’aula. Gli stessi che promettono battaglia in caso di approvazione di questa legge: “Se passerà vedremo di percorrere tutte le vie possibili per fermarla, visto che così com’è è incostituzionale”.
Poi si è arrivati in aula, in tutta fretta, per un provvedimento che è rimasto nei cassetti di Montecitorio per quasi due anni. L’urgenza dettata dalla morte di Eluana Englaro era venuta meno. E il testo arrivato alla Camera il 26 marzo del 2009 non accennava a essere discusso. Fino a ieri. Quando una ragione “di convenienza e non d’importanza”, come ha spiegato durante il suo intervento il presidente dei deputati democratici Dario Franceschini, ha riportato la legge all’ordine del giorno. Così il partito di Casini ha chiesto la priorità per il biotestamento che è stata approvata grazie ai voti dei ministri, tutti schierati in aula a “salvare” il governo.
Perché la discussione sul “fine vita” spacca sia la maggioranza che l’opposizione. La sospensiva presentata dal Pd è stata respinta con 248 sì e 306 no. Anche Fli ha votato coi democratici e l’Idv. Bocciate inoltre le pregiudiziali di costituzionalità di Idv e Radicali (225 sì, 307 no). Ma la maggioranza, oltre alle assenze (mancavano 16 Pdl, oltre a 7 Responsabili e due leghisti, mentre 19 erano in missione), ha registrato il dissenso di Giuseppe Calderisi (Pdl) che ha votato a favore delle pregiudiziali e si è astenuto, assieme a Santo Versace, sulla sospensiva. Versace si era astenuto anche nella votazione precendete assieme a Lella Golfo, Antonio Martino e Manuela Repetti. Per quanto riguarda i democratici, gli ex Ppi vicini a Giuseppe Fioroni non hanno partecipato al voto sulle pregiudiziali, mentre Luigi Bobba ha votato contro.
Un tema delicato e scivoloso sul quale “la maggioranza si sente onnipotente e libera di ledere i diritti degli italiani” ha dichiarato l’Italia dei valori. E per il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani “è indecoroso che con tutte le urgenze e le priorità che abbiamo, il Parlamento, ancora una volta, usi la maggioranza per stravolgere gli ordini del giorno e imbastire iniziative che sono solo elettoralistiche. Nel merito – ha spiegato – noi siamo assolutamente contrari ad una legge che entra a piedi giunti tra la vita e la morte del cittadino. Chi ci accusa e dice la parola eutanasia ci offende sanguinosamente”. Ma i distinguo sono forti anche nel suo partito. E a Bersani resta meno di un mese per provare a ricompattarlo su una posizione comune.
La Stampa 28.4.11
Blitz elettorale sul biotestamento
Berlusconi e Casini accelerano ma il sì finale dopo il voto
di Carlo Bertini
Per ora è una toccata e fuga, con uno scopo non confessato, sventolare una bandiera che dovrebbe piacere all’elettorato cattolico in vista delle amministrative. Ma siccome il biotestamento è tema sensibile che investe le coscienze di tutti gli italiani, è probabile che all’accelerazione decisa ieri alla Camera, segua una prudente frenata per far slittare a dopo le elezioni un testo controverso e foriero di lacerazioni in tutti i partiti. Un testo che esclude la possibilità di rinunciare in piena coscienza, al momento della stesura di un testamento biologico, ad alimentazione e idratazione forzate. Che i medici saranno tenuti a fornire al paziente, salvo i casi in cui non sia più in grado di assimilarle.
Non stupisce dunque che ieri in piazza Montecitorio le associazioni dei medici Cgil protestassero consegnando a Fini 10 mila firme in difesa del dettato costituzionale che riconosce alla persona il diritto di non curarsi. Questo poco prima che l’aula votasse, su richiesta di Casini, un’inversione dell’ordine del giorno per passare subito all’esame del testo sul fine-vita. Quindi, dopo una battaglia tra Pd-RadicaliIdv-Fli e Pdl-Lega-Udc, la proposta di Casini passava a larga maggioranza 306 a 248. Con Fini lesto a chiarire che, comunque sia, l’aula oggi procederà con l’esame del Documento di finanza pubblica come deciso dall’ultima capigruppo. E quindi, dopo la bocciatura delle pregiudiziali di costituzionalità di Idv e Radicali, tutti a casa con la scusa che mancavano i pareri delle commissioni di merito agli ultimi emendamenti depositati. Ma con la consapevolezza generale che se ne riparlerà dopo il 17 maggio, complice la fitta agenda e la pausa dei lavori dovuta alla campagna elettorale.
«Hanno detto che bisognava fare presto e ora si scopre il bluff», attaccava il Radicale Maurizio Turco. «Vedremo, ancora non sappiamo quando concluderemo l’esame», metteva le mani avanti il capogruppo del Pdl Cicchitto. «Ma certo che slitterà al 17 maggio!», sbottava un cattolico moderato come Pierluigi Castagnetti del Pd. Convinto che il blitz di Casini fosse dettato dall’esigenza di «non farsi scavalcare nel rapporto con il Vaticano dalla Lega, che per prima in capigruppo aveva chiesto di procedere all’esame del fine-vita». E che il motivo del probabile rinvio del voto finale sia «la paura che tutti hanno di misurarsi in campagna elettorale con questo tema». E come viatico dell’incontro di oggi con Bertone, ieri Berlusconi è sceso in campo con una lettera ai deputati «per un voto responsabile» su una legge, che non sarebbe stata necessaria, «se non ci fossero tribunali che, adducendo presunti vuoti normativi, pretendono in realtà di scavalcare il Parlamento e usurparne le funzioni». Il riferimento è al caso Englaro e tutto quel che comportò, comprese le divisioni in Parlamento tra laici e cattolici, tanto che il premier ha voluto chiarire che «nel nostro partito esistono sensibilità diverse su questo tema, e non è mia intenzione chiedere che queste convinzioni personali siano sacrificate. Ma il lungo lavoro sul testo di legge credo abbia portato a un risultato largamente condivisibile».
E se l’obiettivo della maggioranza era spaccare il Pd, i primi effetti si son visti all’assemblea del gruppo Democrat dove Fioroni è stato convinto da Veltroni a non far votare i «suoi» con la maggioranza contro la pregiudiziale dei Radicali. E dopo aver tuonato in aula contro chi «butta un tema così delicato nel tritacarne della campagna elettorale», Franceschini si è sorbito l’accusa di Buttiglione di esser andato al traino dei Radicali e della loro «campagna eutanasica». Accusa che «ci offende sanguinosamente», ha reagito duro Bersani. Con massima soddisfazione di Pdl e Lega, che in un colpo hanno ottenuto la spaccatura di Pd, Terzo Polo e opposizioni.
Corriere della Sera 28.4.11
Da Mina Welby a La Malfa, i mille volti del fronte del «no»
E Monicelli è il simbolo della protesta
di Alessandra Arachi
ROMA— Maria Antonietta Coscioni parte dal principio: «La chiamano legge sul testamento biologico. Peccato che in questa legge il biotestamento non abbia più alcun valore. La volontà della persona perde senso» . Radicale, la Coscioni è stata eletta alla Camera nel Pd proprio in virtù della battaglia vissuta sulla sua pelle con la morte del marito Luca. Il suo no al testo in esame a Montecitorio risuona forte e chiaro, proprio come quello di Mina, la moglie di Piergiorgio Welby. Sopra di tutti quello di Beppino Englaro, il papà di Eluana, la donna chiamata a simbolo di questa legge. Dice: «Questa legge nasce da un evento che ha traumatizzato l’opinione pubblica, la morte di mia figlia Eluana. Ma per il motivo contrario a quello che dice Berlusconi. La gente è rimasta traumatizzata dalle sue parole. Soprattutto quando il premier ha detto che Eluana avrebbe potuto generare un figlio» . Ma la verità è che contro la legge in discussione alla Camera, sono parecchi i no che si levano decisi. Turbati. Sdegnati. Dal fronte politico, come dalla società civile. E se le anime cattoliche del Pd frenano, i laicismi di senatori come Ignazio Marino o Vincenza Vita trascinano. «Al Senato contro questo testo abbiamo fatto una battaglia che deve diventare un simbolo» , incita Vita. E spiega: «Non dobbiamo mai dimenticarci le parole del cardinal Villot, il segretario di Stato di Paolo VI: fu lui, in punto di morte, a dire che proprio sulla morte non c’è nessuno che possa dare lezioni. Anche Papa Wojtyla chiese di poter tornare a casa dall’ospedale, per morire» . Walter Veltroni e Rosy Bindi, presidente del Pd, puntano il dito contro l’uso strumentale della legge che a loro dire sta facendo il Pdl. L’ecodem Ermete Realacci, invece, entra nel merito: «È sbagliato proprio fare una legge su un tema così delicato. Anche noi abbiamo sbagliato quando abbiamo cercato di farla» . In Transatlantico il repubblicano Giorgio La Malfa passeggia nervoso: «È assurdo» , sbotta. Poi dice: «È un argomento terribile. Questo testo sancisce il dovere di continuare a soffrire» . E così dicendo interpreta gli umori che navigano anche fuori dalle mura dei palazzi. Meglio: i malumori. Come quello di Oliviero Toscani. «Ma come si permettono là dentro di decidere sulla mia morte?» . Il pubblicitario sembra non vederci dalla rabbia: «Saranno responsabili di tanti suicidi. Perché se non sarò consapevole chiederò a mio figlio di ammazzarmi, altrimenti farò come Mario Monicelli e mi butterò dalla finestra» . Con Mario Monicelli l’attore Alessandro Haber (che a teatro sta portando Craxi sulle scene) ha girato sei film. E anche lui non esita a tirare in ballo il gesto estremo fatto dal regista della commedia all’italiana: «È stato un gesto di grande coraggio e forza. E chi sta cercando di impedirci di decidere come gestire la fine della nostra vita dovrebbe tenerne conto» . Anche il regista Mimmo Calopresti alza le spalle e gli occhi al cielo: «Adesso non è più possibile neanche morire in pace? Se una persona lascia scritto un testamento, la sua scelta, che diritto hanno i signori che ci governano di non volerla rispettare?» .
il Fatto 28.4.11
Paolo Flores d’Arcais vs. Marco Politi
Wojtila santo subito o santo no?
Il 1 Maggio Giovanni Paolo II verrà beatificato: due voci opposte a confronto
di Silvia Truzzi
KAROL WOJTYLA CURVO SUL BASTONE, TESTIMONE della fragilità della condizione terrena. Un padre sofferente, vicino agli ultimi del mondo, ambasciatore di un forte sentimento di fede. Eppure, in un pontificato lunghissimo, fu anche un Capo di Stato le cui azioni furono oggetto di critiche e suscitarono polemiche. Nel processo di beatificazione, iniziato immediatamente al momento della scomparsa, il 2 aprile 2005, al grido di “Santo subito” qualcosa è stato dimenticato. Ne abbiamo discusso con Paolo Flores d’Arcais e Marco Politi alla vigilia di quel 1 maggio che lo vedrà beato.
Di Giovanni Paolo II è rimasta l’immagine di papa umano, vicino ai deboli, buono. Cosa è stato dimenticato?
MARCO POLITI: Il Papa buono resta Giovanni XXIII. Wojtyla è il primo papa geopolitico, che capisce la globalizzazione. Quei viaggi, che all’inizio sembravano una sorta di turismo frenetico, hanno rivitalizzato il senso di unità della Chiesa. E’ il primo pontefice a presentarsi nella sua fisicità anche di maschio, il primo che usa la parola “io”. Riesce a tenere insieme, come disse Bill Clinton, la capacità di parlare a tutti: ai musulmani, agli ebrei, agli agnostici. Un rapporto con il mondo che include anche polemiche, critiche. Ha unito il discorso religioso al richiamo ai diritti umani, la solidarietà economica, i diritti del Terzo mondo.
PAOLO FLORES D’ARCAIS: Le immagini popolari sono quelle del papa sofferente. “Santo subito” è il grido che nasce dopo mesi di esposizione mediatica di una sofferenza autentica, sempre più evidente e vissuta fino all’estremo. Questo colpisce il cuore di fedeli e non, anche perché Wojtyla era stato il papa “atleta della fede”. Ha affascinato anche i non credenti, secondo me del tutto a torto, per un equivoco di fondo. E cioè: Wojtyla è riuscito a presentarsi come pontefice pacifista. Politi parla di “diritti umani”. In realtà è l’opposto: è stato il nemico dei diritti umani in quanto prodotti della democrazia e della modernità, due secoli e mezzo di lotte dall’Illuminismo a oggi. E’ il papa che mette al centro dei diritti umani la “vita” come la intende lui (e anche Ratzinger, più che mai): dal concepimento alla morte, l’uomo non ha nessun diritto all’autodeterminazione. Da qui la violenta crociata di Wojtyla contro l’aborto, che ha definito “il genocidio dei nostri tempi”. Se non ricordo male usa quest'espressione in una delle tante visite in Polonia, di ritorno da Auschwitz. Quindi è evidente il cortocircuito simbolico che vuole esprimere: è l'olocausto dei nostri tempi. Stabilisce un'equazione tra il responsabile di un aborto e le Ss responsabili dei forni crematori. Questo è l'impatto che vuole creare. Anche sul piano degli aspetti sociali, la sua critica del capitalismo non è che la critica della pretesa dell'uomo di decidere su se stesso, di cui la dismisura del profitto come unico Dio è solo una delle espressioni. Ma questa denuncia non impedisce al papa di avallare, per esempio, in maniera plateale il regime di Pinochet, presentandosi al balcone insieme al dittatore. E i gesti simbolici per un pontefice mediatico come lui sono cruciali.
Non c'è stato solo l'episodio di Pinochet, ma anche l'opposizione alla Teologia della liberazione in America latina e la volontà di isolare il vescovo Romero, ucciso poi barbaramente mentre diceva Messa. Un giudizio sul Capo di Stato che tanto ha fatto contro i regimi dell'ex blocco sovietico.
POLITI: E’ stato un grande leader politico. Ma anche una personalità complessa, un mistico. In realtà non voleva nemmeno fare il prete, voleva fare il monaco. Era un filosofo della storia: ecco perché dopo la caduta del comunismo non si inebria della vittoria della parte “capitalista”, ma pone il problema del capitalismo sfrenato. E dice espressamente a noi giornalisti durante un viaggio: “Non so se è un bene che sia rimasta una sola superpotenza”. Gli elementi negativi di un lungo pontificato sono fatti, che è giusto giudicare. Un leader, che lascia la sua traccia nella storia, non è un “santino”. Ne aggiungerei altri: la lotta spietata contro la Teologia della liberazione in America latina, la contraddizione tra l'essere sul piano politico-sociale il portavoce dei diritti dell'uomo e la repressione sistematica all'interno della Chiesa del dissenso dottrinale, grazie al suo braccio destro che era Joseph Ratzinger. Ha creato una leva di vescovi scelti più per l'obbedienza che per la capacità critica. Ha lasciato completamente solo Romero. Io ero nel Salvador con lui, quando andò per la prima volta sulla sua tomba e lo definì “zelante pastore”, come fosse un curato di campagna. Solo in un secondo viaggio, quando ormai era cambiata la situazione politica, ha cominciato a elogiare Romero. E comunque, con tante beati da lui proclamati, Romero non è ancora stato fatto santo. Però rimane la capacità di Wojtyla di aprire il dialogo con le altre religioni. Lui non voleva che, come il XX secolo era stato marcato dalla guerra fredda est-ovest, il XXI fosse segnato dallo scontro tra cristianesimo e islam. Ha lavorato perché le religioni condannassero insieme la manipolazione del nome di Dio usata dal terrorismo. È stato il primo papa a proclamare un grande mea culpa per errori ed orrori nella storia della Chiesa. Bastano solo questi fatti per considerarlo, laica-mente, una grande personaggio storico.
FLORES D’ARCAIS: la grandezza storica di un personaggio prescinde dalle valutazioni positive o negative. Io considero Karol Wojtyla il più grande oscurantista del XX secolo. Un grande oscurantista può innescare anche degli effetti positivi, dal punto di vista di un progressista come me. È certo che la caduta del Muro di Berlino non sarebbe avvenuta con le stesse modalità e negli stessi tempi senza il papa polacco. Ma è l'unico effetto collaterale positivo del grande oscurantsimo di Giovanni Paolo II. Il nemico è l'illuminismo: questo è il filo rosso di tutta la sua predicazione . La presunzione, mostruosa secondo lui, che l'uomo prenda in mano il proprio destino prescindendo dall'obbedienza a Dio. Non si può imputare questa impostazione estremamente ortodossa a un papa. Ma il Concilio Vaticano II aveva segnato un elemento di assoluta novità, di apertura alla critica del mondo. L'annientamento della Teologia della liberazione non è uno degli elementi di un percorso contraddittorio, ma è parte della coerenza del pontefice. Dom. Franzoni è l'unico padre conciliare che ha testimoniato contro la beatificazione di Wojtyla: sostiene che Romero avrebbe potuto essere fatto cardinale. E non sarebbe mai stato ammazzato. Non sappiamo se è vero, ma certo sarebbe stata una bella sfida contro un potere che lo voleva morto. Il mea culpa sugli errori della Chiesa riguarda “peccati” ormai lontanissimi. Riconoscere, tra mille distinguo, che si è sbagliato con Galileo quattro secoli dopo è acqua fresca, quando contemporaneamente si difendono fino all'ultimo Maciel e i Legionari di Cristo. Le prime denunce, molto circostanziate, contro i Legionari risalgono a qualche anno prima dell'elezione di Wojtyla. Per 26 anni il papa respinge qualsiasi richiesta di intervenire. Schönborn ha raccontato che Ratzinger pose il problema. E spiega: vinse la Curia. Vinse perché Wojtyla così aveva deciso. E che dire del vescovo di Boston Bernard Law, che aveva coperto il più grande scandalo di pedofilia nella sua arcidiocesi? Fu insignito del titolo di Arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma! Aggiungiamo la santificazione di padre Escriva, cioè dell'Opus Dei e lo spazio crescente che viene concesso a Comunione e liberazione. Non dimentichiamo la santificazione di Pio IX, che condannò a morte due patrioti italiani e fu protagonista del caso Mortara: il bimbo ebreo rapito perché ricevesse un’educazione cattolica coatta. Mettendo insieme tutti questi elementi non si può dire che il suo sia un papato contraddittorio. Anzi è lineare, all’insegna della contrapposizione tra obbedienza alla legge di Dio e quel vero e proprio Satana che è la pretesa umana all’autonomia. In questo quadro abbiamo, è vero, lo straordinario effetto collaterale, liberatorio, della caduta dei regimi comunisti.
POLITI: Responsabilità, colpe, meriti di Giovanni Paolo II sono agli atti. Nella memoria popolare, quei tre milioni di persone che si sono messe in fila per vedere il suo corpo (ed erano in massima parte non praticanti), non attecchisce l’idea del papa oscurantista. Ha aperto nuovi orizzonti al cattolicesimo. Il rapporto con gli ebrei: riconosce Israele e chiude il capitolo dell’antisemitismo, recandosi al muro di Gerusalemme e facendo atto di pentimento per l’antigiudaismo secolare della Chiesa. Ha posto con forza la questione dei diritti sindacali sul finire del secolo XX, specie dopo la caduta del comunismo. La sua attività geopolitica non si esaurisce con la caduta del comunismo. L’autocritica sugli errori del passato non si è limitata a Galileo. Ha riconosciuto per la prima volta che la Chiesa non è infallibile come si era sempre presentata, in un’apologetica continua. Ha riconosciuto le responsabilità nelle crociate, nelle guerre di religione, la distruzione di Costantinopoli per mano dei cattolici. A differenza di altri papi, che spesso hanno fatto dichiarazioni sulla pace semplicemente esortative, lui sull’avventura di Bush in Iraq ha esercitato un’azione diplomatica continua, sistematica, per otto mesi. L’effetto fu che nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite il Messico e il Cile, paesi chiave per decidere la maggioranza, votarono no a Bush. America e Inghilterra non riuscirono ad avere il timbro dell’Onu sull’operazione in Iraq. Anche in Italia, dove il governo Berlusconi approvava – pur non partecipando all’operazione – la politica di Bush, e in tutta Europa la maggioranza della popolazione è stata chiaramente contraria alla guerra. Qui si è sentito il ruolo di Wojtyla. Anche se poi l’invasione è avvenuta, lui – come autorità morale – ha indicato che l’operazione era fallimentare perché avrebbe alimentato il fondamentalismo. Questi sono atti che rimangono sul piano storico. Altre responsabilità, indubitabili, non cancellano il resto. Una puntualizzazione, peraltro: non è credibile e non ci sono prove che Wojtyla, sapendo della vita pedofila di Maciel, lo abbia coscientemente protetto. Esistono forti indizi, compreso l’intervento di Schönborn, che il suo entourage gli abbia nascosto i fatti.
Guardiamo per un attimo il nostro Paese: che papa è stato Wojtyla per l’Italia?
POLITI: il suo ruolo è stato molto negativo. Ha appaltato la politica italiana al cardinale Ruini, che ha sconfitto quella parte della Chiesa che avrebbe voluto concentrarsi sulla missione religiosa. La gestione Ruini ha significato un totale livellamento, il soffocamento di qualsiasi voce di dissenso e riflessione critica nelle organizzazioni sociali cattoliche: dall’Azione cattolica alle Acli. Hanno perso la voce, si è creato un clima che lo storico Pietro Scoppola chiamava l’afasia dei cattolici. Ruini ha schierato la Chiesa nelle operazioni politiche più dannose per la crescita della società civile: l’astensione al referendum sulla fecondazione artificiale, il sabotaggio del tentativo del governo Prodi di varare una legge sulle coppie di fatto, la lotta al testamento biologico che ancor oggi blocca una legge esistente in altri paesi, perché la maggioranza berlusconiana appoggia comunque il Vaticano per coprire i propri abusi.
FLORES D’ARCAIS: Sottoscrivo tutto quello che ha detto Marco. Per Wojtyla le cose che contano davvero sono – per usare le sue stesse parole – le “strutture del peccato” che hanno l’incubazione nell’illuminismo e danno luogo ai vari versanti del fenomeno modernità. A lui interessa molto di più la questione testamento biologico o ricerca sulle staminali da impedire, rispetto a tutto il resto . E dunque ecco perché rimodella l’intero episcopato italiano: le chiese hanno rapporti con i governi in cui si privilegiano questi aspetti. Poi se questi stessi governi fanno mascalzonate incredibili su altri piani, conta meno. E allora si può sostenere Berlusconi in tutti i modi come si sostiene Pinochet. E si è cercato di ridurre al silenzio tutti i fermenti delle varie Chiese locali attivati dal Concilio. Non riesco a vedere elementi di grandezza in senso positivo. Sull’apertura all’ebraismo ricordo nuovamente la beatificazione di Pio IX: per un papa che ha parlato per simboli fu uno schiaffo alla comunità ebraica. I diritti sindacali furono riaffermati ma senza trarne nessuna conseguenza pratica, visto che in America latina tutte le forze della Chiesa coinvolte nella difesa dei diritti dei lavoratori erano quelle che sostenevano la Teologia della Liberazione. Rimane lo scontro con Bush sull’Iraq: non è una cosa da poco, ma è in chiave di preoccupazione per i diritti delle religioni. Wojtyla è il papa che propone alle altre religioni qualcosa di più che un dialogo, una santa alleanza: tutte le religioni unite contro la modernità. Viene fuori nel caso Rushdie: non ci fu condanna per la fatwa contro lo scrittore. Anzi si disse, in numerose occasioni compresi articoli sull’Osservatore Romano, che Rushdie non si doveva permettere di insultare dei fedeli, anche se la condanna a morte viene criticata.
Il miracolo di papa Wojtyla è stato trovato: quello della suora guarita. Ma ce n’erano altri pronti. Si è detto che la beatificazione è stata un’operazione di marketing religioso. D’accordo?
FLORES D’ARCAIS: La questione della santità riguarda la Chiesa dei fedeli. Un ateo come me non ha titolo né voce in capitolo. Può semplicemente parlare del papa come presenza mondana nelle vicende storiche e quindi anche del suo governo della Chiesa, in relazione alla società. Posso solo riportare quello che alcuni fedeli sostengono contro la santità, come dom. Franzoni e Hans Küng, il più autorevole teologo cattolico anche se oggi messo in mora dalla Chiesa. Ci sono anche gruppi ecclesiali di base che sono contrari a quest’operazione. La santità deve basarsi sulla pratica delle famose sette virtù, cardinali e teologali, in forma eroica. Questi autorevolissimi fedeli, punto per punto, demoliscono la teoria della santità. Franzoni considera l’impunità garantita a Marcinkus e l’azione per impedire l’accertamento della verità sul crac dell’Ambrosiano un venir meno alle virtù della prudenza e della fortezza. E imputa a Wojtyla di non aver ascoltato la chiesa dei fedeli su due questioni fondamentali: la presenza delle donne e il celibato dei preti. Sull’umanità di Wojtyla poi io starei attento: penso al caso Romero.
POLITI: La questione tecnica della beatificazione mi appassiona poco. M’interessa capire perché nella memoria popolare, vasta e trasversale, Wojtyla rimane come figura affascinante. Trovo comprensibile, anche per un pubblico che non sia cattolico, il fatto che venga posto come personalità cruciale tra il XX e il XXI secolo. La Storia è complessa, non è una foto in bianco e nero. Si può benissimo dire che Wojtyla sognava l’alleanza delle religioni per bloccare il diritto all’aborto e al tempo stesso riconoscere che lavorava per una collaborazione tra le religioni ai fini della pace e di uno sviluppo economico globalmente sostenibile. Questo è interessante. La beatificazione riguarda solo la Chiesa. Non credo però si tratti di marketing religioso. Corrisponde a un sentimento popolare. Qualcosa che va oltre il fenomeno mediatico. Giovanni Paolo II ha testimoniato una fede fortemente sentita. Ricordo che durante il suo viaggio in Terrasanta una poliziotta israeliana, evidentemente critica per quanto accaduto durante la Seconda guerra mondiale, mi disse: “La Chiesa cattolica non m’interessa affatto. Però questo è un uomo di Dio”. Anche i diversamente credenti sono rimasti colpiti dall’intensità del suo sentimento religioso, unito a una carica di umanità assolutamente tangibile. La memoria popolare giustamente seleziona. E’ assolutamente vero che lui considerava gli ultimi quattro secoli come ispirati da un programma anti-cristiano. Ma tantissimi cattolici sono illuministi nel loro quotidiano e poi apprezzano la capacità di Wojtyla di intrecciare una fede autentica alla sensibilità sociale. In Italia, per esempio, ha difeso l’unità del paese. L’ultimo suo messaggio è stata la volontà di non nascondere la sofferenza, di portarla all’esterno. Un messaggio al contempo religioso: la volontà di identificarsi con la Passione di Cristo. E laico: la riaffermazione che l’uomo sofferente ha una dignità e un suo ruolo. Infine, i messaggi “caro papà… caro nonno” diffusi al funerale rivelano che ha impersonato una figura paterna, oggi in crisi.
Il Mattino 28.4.11
Quando si può staccare la spina in Francia Inghilterra e Spagna
In Francia la legge è del 22 aprile 2005, in Olanda nel 2001. Ecco «le regole» adottate nel resto d’Europa. Francia. La legge autorizza il medico a prendere la decisione di limitare o anche interrompere il trattamento se il malato non è in grado di esprimere la propria volontà. Si prevede che «atti» scientificamente ritenuti inutili possono essere sospesi o non iniziati affatto. Se si è maggiorenni si può esprimere anticipatamente la propria volontà su limiti o cessazioni di trattamenti medici se non si dovesse avere più la facoltà per esprimersi. Spagna. La legge è del 14 novembre 2002. Sancisce il «rispetto dell’autonomia del paziente», ovvero il malato può sottoporsi o rifiutare alcuni trattamenti. Per coloro che non sono in grado di decidere, per problemi fisici o psichici il consenso viene dato da un delegato del paziente o dai familiari. Inghilterra. Dal 1 ottobre 2007 è in vigore il «Mental Capacity Act» che ha istituito un quadro giuridico per le persone incapaci di prendere decisioni in modo autonomo e per le dichiarazioni anticipate di volontà. Si prevede, quindi, la compilazione di un modulo in cui siano specificati i tipi di trattamento che si vogliono rifiutare ma si può anche delegare un terzo a decidere per lui se non fosse più in grado di decidere. Olanda. Le norme sono del 2001. Si prevede perfino il livello di «assistenza al suicidio», che si compie assistendo il malato o fornendogli i mezzi: sono però previste commissioni regionali di controllo. Per i malati tra i 16 e i 18 anni, la richiesta è legale solo se i genitori o il tutore siano stati coinvolti nella decisione.
il Fatto 28.4.11
Referendum nucleare. Il parere di Lorenza Carlassare
“Resta solo il ricorso alla Consulta”
di Luca De Carolis
“A mio avviso, la Cassazione dirà che il referendum sul nucleare non si potrà tenere, ma per i promotori è sempre possibile un ricorso alla Consulta”. Lorenza Carlassare, docente emerito di diritto costituzionale presso l’università di Padova, pesa le parole e raccomanda di continuo attenzione nel riportare le sue risposte: “Siamo di fronte a una situazione inedita per il diritto italiano, occorre prudenza”.
Il governo ha abrogato la legge sul nucleare che doveva essere oggetto del referendum, e Berlusconi ha ammesso che l’ha fatto per evitare la vittoria dei sì. Ora che accadrà?
Come prevede la legge, succederà che sui quesiti si esprimerà la Cassazione. E, a mio avviso, dirà che il referendum sul nucleare non si potrà fare, perché la relativa legge è stata già abrogata. Difficilmente potrà andare diversamente.
Non vede alternative?
Direi di no, perché il governo ha abrogato senza varare una nuova legge. Se ci fosse stato un nuovo testo, sarebbe stato diverso. La Consulta, con una sua sentenza, ha previsto che se il governo abroga una legge prima del referendum, ma sostituendola con un’altra, la consultazione si tiene lo stesso, ma sulla nuova legge. Ciò può avvenire se il nuovo provvedimento non ha cambiato i contenuti essenziali e i motivi ispiratori della legge abrogata .
Di fatto, abrogando con decreto il governo si è tutelato.
Teoricamente, l’uso del decreto potrebbe aprire ulteriori scenari, perché ogni decreto va convertito in legge entro 60 giorni. In caso contrario, i suoi effetti decadono sin dalla sua emanazione, ossia in maniera retroattiva (il decreto legge omnibus che include il nucleare scade il 30 maggio, ndr). Ma vorrei aggiungere una cosa.
Prego.
A mio parere, l’uso del decreto su materie come i diritti fondamentali non è consentito dalla nostra Costituzione, perché su questi temi c’è la riserva assoluta di legge. Ovvero, deve pronunciarsi solo il Parlamento. É una mia posizione, ma che rispecchia ad esempio il contenuto della costituzione spagnola: l’unica in Europa che prevede i decreti legge, ma che li vieta per un lungo elenco di materie.
Poniamo che, come appare probabile, la Cassazione dica no al referendum. Partita persa per i promotori?
Non necessariamente. In quel caso, i promotori potrebbero presentare un ricorso alla Corte Costituzionale, sostenendo che l’unica finalità del decreto di abrogazione era quella di espropriare il corpo elettorale di un suo diritto.
In questo senso, le parole di Berlusconi sul referendum…
Beh, è evidente che potrebbero avere un peso. Il presidente del Consiglio è stato quanto mai chiaro. Tenga presente però che parliamo sempre in linea teorica. Non ci sono precedenti di questo tipo.
La Consulta però potrebbe dare ragione ai ricorrenti.
Sì, ma la decisione finale spetterebbe comunque sempre alla Cassazione, che dovrebbe tenere conto della pronuncia della Corte Costituzionale.
Tutto questo in che tempi potrebbe avvenire?
Non voglio avventurarmi in previsioni. Ricordo però che la Consulta può anche essere rapida nel pronunciarsi.
Repubblica 28.4.11
L’intervista
D’Alema sfida Berlusconi "Non ha più una maggioranza se perde il 16 maggio vada a casa"
"Opposizioni unite ai ballottaggi senza se e senza ma"
di Massimo Giannini
L’unica svolta possibile è una modifica dei rapporti di forza nel Paese. Non faccio pronostici, ma mai come oggi il premier è in difficoltà e si può battere
Una proposta positiva quella di Veltroni e Pisanu sul governo di decantazione ma il premier non se ne va Quindi insisto: si può solo batterlo alle elezioni
Sarebbe devastante se il Cavaliere fosse eletto al Quirinale. Ma è bene che si sappia: alle prossime amministrative la posta in gioco è anche questa
Il centrodestra naviga a vista. Unica bussola sono gli interessi del capo del governo: processi, affari, donne. Poi c´è il nulla
Per superare il berlusconismo e una idea di bipolarismo malato devono contribuire moderati e progressisti
ROMA - «Berlusconi avrebbe già dovuto dimettersi da un pezzo. Non ha più la maggioranza parlamentare: se l´è dovuta comprare. Ma ora siamo alla resa dei conti: se le elezioni amministrative dimostreranno che la maggioranza politica che vinse le elezioni, oltre a non esistere in Parlamento, non c´è più neanche nel Paese, allora il premier ne dovrà trarre le logiche conseguenze». Massimo D´Alema dà il preavviso di «sfratto» al Cavaliere. A pochi giorni da un voto sui sindaci che porterà alle urne 12 milioni di italiani, il presidente del Copasir avverte: «Ormai non è più il tempo di finti sondaggi. Ci sono i voti veri. Berlusconi si è messo in gioco, chiedendo un voto di fiducia al governo. Se viene bocciato non ha più alibi...».
Presidente D´Alema, come può illudersi che Berlusconi faccia un passo indietro?
«Guardiamo i fatti. Nella maggioranza c´è uno stato di confusione imbarazzante. Il discredito del nostro premier non ha precedenti. Persino un presidente francese in forte difficoltà come Sarkozy si può permettere di venir qui a svillaneggiare il governo. L´Opa di Lactalis su Parmalat, lanciata proprio nel giorno del bilaterale Italia-Francia, è ai limiti dello sfregio. Ma è ovvio che questo accada: il Paese è privo di un governo. Berlusconi paga un drammatico deficit di prestigio internazionale, e galleggia tra furbizie e prepotenze in una logica di pura sopravvivenza. Prendiamo l´operazione sul nucleare: lo scippo di democrazia tentato sul referendum è vergognoso. Tanto più perché non nasce da una riflessione vera sulla nostra politica energetica, ma dalla bieca necessità di far fallire il referendum sul legittimo impedimento. La stessa cosa si può dire sulla Libia, dove la condotta del governo è confusa e contraddittoria e la Lega si smarca per opportunismo propagandistico.
Anche il centrosinistra è diviso sulla Libia. E il Pdl vi risponde che siete divisi oggi come lo foste ai tempi della guerra in Kosovo. Cosa risponde?
«Sono bugie. AI tempi della guerra in Kosovo Bertinotti non faceva parte della maggioranza di governo, che allora era del tutto autosufficiente. La verità è che questo centrodestra naviga a vista. L´unica bussola sono gli interessi personali di Berlusconi: i processi, gli affari, le donne. Al di fuori di questo, non c´è più una politica. Non ci sono scelte, non ci sono contenuti. C´è il nulla».
Ma la maggioranza regge, nonostante tutto. E il governo, quando si tratta di votare questioni decisive in Parlamento, i numeri continua ad averli. Non vede che anche la Lega ha in parte ridimensionato lo strappo sulla Libia?
«Purtroppo "l´intendenza" segue il premier, nel suo dissennato e dannoso galleggiamento. La Lega ormai è un partito addomesticato, non più "libero e selvaggio" com´era alcuni anni fa. Anche sulla Libia, al di là dei mal di pancia pre-elettorali, Bossi non romperà. E quanto agli altri, il Pdl si regge su un patto fideistico, nel quale ciascuno si sente vincolato al premier da un rapporto di fedeltà, a-critico e quasi a-politico. E anche questo è il segno di un´inquietante regressione del nostro sistema, che ormai si basa su un equilibrio di tipo privatistico. Ma ora proprio questo "equilibrio" produce danni incalcolabili per il Paese».
L´avete detto tante volte. Avete scommesso sulle elezioni anticipate, che invece non sono arrivate. E adesso?
«Adesso l´unica leva che può scardinare questo disastroso equilibrio sono le elezioni amministrative, e poi i referendum. Io non vedo complotti, mosse tattiche o imboscate parlamentari in vista. L´unica svolta possibile è un effettivo spostamento dei rapporti di forza nel Paese. Sono convinto che anche nell´elettorato il governo rappresenti ormai una minoranza sbandata. Si tratta solo di aspettare che lo certifichino le urne, il 15 e 16 maggio».
È vero che i sondaggi gli sono sfavorevoli, ma com´è ormai noto in campagna elettorale Berlusconi da il meglio di sé. Lei è così sicuro che vincerete?
«Io non faccio pronostici, Ma mai come oggi Berlusconi è in clamorosa difficoltà e si può battere. Anche per l´impresentabilità dei suoi candidati e il fallimento delle sue amministrazioni locali. A Milano basta giudicare il modo in cui hanno gestito l´Expo per mandarli a casa. A Napoli lo scandalo dei rifiuti ha raggiunto livelli intollerabili, alla faccia dei proclami del premier».
Quindi, secondo lei, se perde in queste città il Cavaliere deve sloggiare da Palazzo Chigi? Un po´ come fece D´Alema dopo la sconfitta alle regionali del 2000?
«Lasciamo perdere i paragoni. Noi siamo una classe dirigente che ha manifestato tutt´altra sensibilità democratica e istituzionale. Berlusconi avrebbe dovuto dimettersi già da tempo: la coalizione che ha vinto le elezioni non c´è più, e il premier ha dovuto assoldare altri parlamentari che ora è costretto a ripagare con i posti da sottosegretario. Insomma: le condizioni politiche per le dimissioni sarebbero maturate da tempo. Ma è chiaro che se ora Pdl e Lega perdono, soprattutto al Nord, lo scenario cambia radicalmente. Se i cittadini ribadiscono con il voto ciò che il Parlamento ha già certificato, Berlusconi dovrà prenderne atto. Per questo mi appello a tutte le opposizioni: concentriamo i nostri sforzi su questa campagna elettorale, riduciamo al minimo le polemiche. E stabiliamo una vera e propria "disciplina repubblicana": ai ballottaggi si marcia uniti, senza se e senza ma».
Ma qual è l´alternativa a Berlusconi? Di ipotesi ne avete formulate tante. L´Alleanza democratica con chi ci sta? Il patto tra Pd, Terzo Polo e sinistre?
«Questa è un´impostazione datata e controproducente, che non ci aiuta a risolvere il problema. Abbiamo di fronte una sfida di portata costituente. Dobbiamo dare una prospettiva di ricostruzione futura del Paese. Le macerie del berlusconismo sono enormi: regole democratiche devastate, principi di legalità calpestati, istituzioni svilite. Dobbiamo mettere in campo un progetto di rilancio dell´economia e della crescita, dopo gli ultimi dieci anni sprecati dal berlusconismo. Spetta a noi del Pd fare tutto questo, con una proposta che deve essere rivolta innanzi tutto ai cittadini italiani e che miri ad unire il più ampio schieramento democratico possibile. Quando si andrà a votare per il governo del Paese la nostra proposta politica mostrerà tutta la sua forza, e con essa dovranno misurarsi tutti gli altri partiti».
E il «governo di decantazione» proposto da Veltroni e Pisanu come lo giudica?
«È stata una proposta positiva. Ed è lodevole che il senatore Pisanu abbia condiviso la proposta di Veltroni. Ma purtroppo mi pare che le repliche siano state durissime: possiamo proporre qualunque soluzione, ma finchè Berlusconi dimostrerà di non volersene andare e continuerà ad imprigionare la sua maggioranza asservendola ai suoi interessi, sarà tutto inutile. Per questo, insisto, per noi non c´è altro spazio politico se non quello di batterlo alle elezioni».
Sarà anche il momento sbagliato per discuterne, ma il mito dell´autosufficienza del Pd è già stato sfatato una volta. Di alleanze dovrete pur ragionare, prima o poi...
«È evidente che il nodo che dobbiamo sciogliere è gigantesco: qui non si tratta solo di liberarsi di Berlusconi, ma di uscire dal berlusconismo, e da una certa idea di bipolarismo malato che ha condizionato la storia repubblicana di questi anni. Ed è altrettanto evidente che un compito di questa portata richiede il contributo di forze diverse, moderati e progressisti. Il centrosinistra da solo non basta, anche se ora forse sarebbe in grado di vincere le elezioni. Ormai ci è richiesto uno sforzo più ampio, e un progetto-Paese che guardi a un orizzonte più largo».
Vi manca solo un dettaglio: il nuovo leader...
«Non ricadiamo nel solito errore, anche questo figlio del berlusconismo, che ci ha precipitato in una sorta di presidenzialismo di fatto, con tutti i suoi riti e i suoi miti. Noi non stiamo cercando un candidato per le presidenziali. Non dobbiamo scegliere un altro "uomo della provvidenza", da contrapporre al Cavaliere. Per fortuna viviamo in una repubblica parlamentare. Il nostro leader è Bersani. Come lui stesso ha detto, la scelta del candidato alla guida al Paese dovrà essere coerente con la prospettiva politica che sottoporremo agli elettori e condivisa da tutte le forze che la sosterranno».
È vero che avete già offerto la candidatura a Casini?
«Io non ho offerto niente a nessuno, e questa visione mercantilistica della politica non mi appartiene».
C´è un ultimo problema. E se per «liberarsi di Berlusconi» lo si eleggesse al Quirinale? A destra e a sinistra c´è chi ha proposto addirittura questo. Lei che ne pensa?
«Per me è una prospettiva ancora più impensabile e nefasta del suo permanere alla guida del governo. Come ha dimostrato in questi mesi Giorgio Napolitano, la presidenza della Repubblica è un ruolo ancora più essenziale nel nostro sistema, per la tenuta della coesione nazionale e per il rapporto tra cittadini e istituzioni. Se a quella carica dovesse assurgere chi non gode della fiducia della stragrande maggioranza degli italiani, l´effetto sarebbe devastante. Chi pensa a uno scenario simile, in realtà, prospetta un´ipotesi che porterebbe a un conflitto politico-istituzionale insostenibile. È giusto che si sappia: anche questo è uno degli elementi della posta in gioco delle prossime elezioni».
il Fatto 28.4.11
I professionisti del precariato
In teoria sono freelance, in pratica dipendenti senza alcuna tutela
Una ricerca della Cgil racconta il dramma dei lavoratori autonomi. il 25% guadagna meno di 10mila euro all’anno
di Eleonora Voltolina
Per entrare nel mondo del lavoro ci sono tre strade. La prima è quella standard: cercare un posto da dipendente, sempre più raro. La seconda, mettersi in proprio creando un business e trasformandosi in imprenditori, malgrado il sistema bancario non offra facilmente credito ai giovani senza la garanzia degli indispensabili, onnipresenti genitori. La terza è inserirsi nel mercato come “freelance”, offrendo le proprie competenze a chi ne abbia bisogno e sia disposto a pagarle. Per chi sceglie, o viene costretto a scegliere, quest’ultima strada – un elenco sterminato ed eterogeneo: dagli avvocati ai commercialisti , dai consulenti ai promotori, dagli architetti ai geometri, e poi ancora psicologi, musicisti, pubblicitari, traduttori, giornalisti… – si apre un futuro di autonomia, senza l’obbligo di timbrare il cartellino o di concordare le ferie, ma soprattutto di rischio, perchè il guadagno di ogni mese dipenderà da quanto i propri servizi saranno richiesti, quanto puntuali i pagamenti, quanto fedeli i clienti.
UN FUTURO oggi caratterizzato da grande incertezza e dal pericolo che il lavoro autonomo diventi uno altro bacino di precari: come conferma la ricerca “Professionisti: a quali condizioni?”, appena svolta dall'Ires – l’Istituto ricerche economiche e sociali – su un campione di quasi 4 mila persone.
Tra gli autonomi i ricercatori dell’Ires individuano tre sottoinsiemi: quelli a rischio di precarietà, i liberi professionisti con scarse tutele e quelli affermati. Peccato che nell’ultima fascia finisca solamente il 20 per cento degli intervistati, con una spiccata quanto ovvia prevalenza di maschi over 45, lasciando il restante 80 per cento in una situazione quantomeno difficile. Si legge nella premessa, curata dal responsabile professioni della Cgil Davide Imola, che in Italia esistono quasi 9 milioni di partite Iva, di cui 6 milioni e mezzo attive. Ogni anno se ne aprono 200 mila, e secondo l’Isfol quelle false, che mascherano cioè un lavoro subordinato, sono ben 400 mila. Le partite Iva rappresentano oltre due terzi del campione: la ricerca ne è quasi una radiografia, da cui emerge che nella maggior parte dei casi si è autonomi per forza o per esplicita richiesta del datore di lavoro. I freelance per scelta sono infatti meno della metà. Lavorano più dei subordinati, quasi nove ore al giorno, sono più sotto pressione e guadagnano troppo poco: uno su quattro porta a casa meno di 10mila euro all'anno.
LE PROSPETTIVE retributive si fanno via via più cupe a seconda del settore – i professionisti della cultura e dello spettacolo sono quelli messi peggio – e la soglia dei 30 mila euro, che significa almeno 2.500 euro al mese, viene superata solo dal 17,2 per cento dei professionisti. A questo si aggiunge una disparità nella relazione con i committenti: spesso la contrattazione non esiste, e o si accettano le condizioni proposte o si resta senza lavoro.
Altro punto dolente, il tempo incredibilmente lungo che si impiega per cominciare: si arriva alla professione a 28 anni e mezzo, dopo ben quattro anni di gavetta costellati di “fasi di studio, disoccupazione, praticantato, tirocini e stage”. E prima di riuscire a ottenere un compenso si lavora gratis in media quasi un anno: la gerontocrazia comincia proprio qui, quando centinaia di migliaia di giovani lavorano senza potersi però rendere indipendenti e autonomi.
Insomma in Italia la terza strada è accidentata da un canale d’ingresso troppo lungo e pieno di insidie, prospettive di guadagno deprimenti, costante necessità di essere aiutati dai genitori (oltre la metà degli intervistati ammette di ricevere aiuti), preoccupazione per un futuro previdenziale dai contorni fumosi (per uno su sette non è addirittura versato alcun contributo pensionistico), e un’altissima probabilità che il “professionista autonomo” lo sia per scelta di qualcun altro e non sua.
C’è dunque urgenza di un’azione forte non soltanto rispetto alla definizione di standard retributivi (i giornalisti sono in testa nel richiederli, e a ragione: alcune testate pagano vergognosamente meno di dieci euro per articolo) ma anche rispetto all’accesso, al welfare e alla pressione fiscale. Un’altra grande sfida che sindacati, ordini professionali e associazioni di categoria non possono più esitare a raccogliere.
La Stampa 28.4.11
Palestina, pronto l’accordo tra Hamas e Abu Mazen
Ultimatum di Netanyahu: “L’Anp scelga, o Israele o gli estremisti”
La mediazione è stata svolta dall’Egitto e prevede un nuovo governo ed elezioni
di Aldo Baquis
Nel nuovo Medio Oriente in ebollizione, è il turno dei palestinesi di balzare alla ribalta con l’annuncio a sorpresa di un accordo politico tra Fatah e Hamas che chiude anni di lotte intestine, in vista della possibile proclamazione a settembre di uno Stato indipendente all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Regista di questa manovra, che ha colto Israele di sorpresa, è l’Egitto, che ha fatto leva sulle recenti manifestazioni popolari a Gaza e Ramallah a favore di una riunificazione della leadership politica palestinese. Si chiude così la crisi iniziata nel 2007, con il putsch di Hamas e l’espulsione del presidente Abu Mazen dalla Striscia.
In mattinata il nuovo capo dei servizi segreti egiziani Murad Murafi ha convocato al Cairo alcuni esponenti di primo piano di Hamas e di Fatah e, dopo alcune ore, le parti hanno annunciato un accordo di massima in cinque punti, che sarà suggellato fra una settimana al Cairo da Abu Mazen e dal leader di Hamas, Khaled Meshal. L’accordo prevede: la composizione immediata di un nuovo esecutivo dell’Autorità nazionale palestinese formato da figure «nazionali»; l’indizione di nuove elezioni presidenziali e politiche nei Territori entro un anno; l’inclusione di Hamas nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp); la molto complessa riunificazione degli apparati di sicurezza a Gaza (legati a Hamas) e in Cisgiordania (addestrati dagli Stati Uniti, e filo Fatah); la liberazione dei prigionieri politici palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.
L’annuncio dell’intesa fra al-Fatah e Hamas è giunto a Gerusalemme nel tardo pomeriggio, poche ore dopo che nel Sinai settentrionale un commando di sabotatori aveva fatto saltare in aria - per la seconda volta in due mesi - un tratto del gasdotto che rifornisce di gas naturale egiziano Israele e Giordania. Queste forniture (che forse ora cesseranno del tutto) rappresentano il 40% del fabbisogno israeliano di energia e in passato erano assurte a simbolo delle relazioni bilaterali. Sempre ieri Israele era impegnato ad analizzare il moltiplicarsi delle voci in Egitto che invocano l’abrogazione (totale o parziale) degli accordi di pace. «L’Egitto deve comprendere che gli accordi internazionali vanno rispettati» ha detto il premier Netanyahu.
Comprensibile dunque l’asprezza della prima reazione del premier nell’apprendere l’evoluzione nella posizione di Abu Mazen. «L’Anp deve capire che non è possibile che ci sia la pace con Israele e con Hamas - ha detto Netanyahu -. Hamas anela alla distruzione dello Stato di Israele, e lo dichiara apertamente. Spara razzi sulle nostre città, sui nostri bambini. Spero che l’Anp faccia la scelta giusta e punti alla pace con Israele. Sta all’Anp decidere».
Immediata la replica di Hamas: «Israele non ha nulla a che vedere con la riconciliazione palestinese e in passato è stata di ostacolo», ha dichiarato al Cairo il portavoce dell’organizzazione, Taher al-Noono.
Ma anche la Casa Bianca ha subito ribadito che il riconoscimento di Israele da parte di Hamas - «un’organizzazione terrorista che colpisce i civili» - è una condizione imprescindibile.
Corriere della Sera 28.4.11
Toraldo Di Francia, un fisico umanista
di Edoardo Boncinelli
Q uando vengono a mancare certe personalità, non è rilevante che siano morte quanto piuttosto che siano vissute, e abbiano arricchito con la loro presenza questo nostro «viver terreno» . Fisico, filosofo della conoscenza, umanista e uomo di cultura di statura leonardesca, Giuliano Toraldo di Francia è stato una di queste personalità, e adesso ci lascia all’età di 94 anni, dopo aver traversato quasi un secolo di vita e di passioni intellettuali. Fiorentino di nascita e, a differenza di Dante, di costumi, Toraldo di Francia (qui in una foto giovanile) è stato uno dei più grandi fisici della nostra epoca, dedicandosi sia alla ricerca che all’insegnamento, prima dell’ottica, conosciuta da lui come da pochi altri, poi delle radiazioni elettromagnetiche in generale, come della relatività e dell’elettronica quantistica, nomi arcani di materie che lui sapeva rendere vivissime e quasi trasparenti al nostro intelletto. Perché erano trasparenti al suo, instancabile indagatore della realtà in tutte le sue forme. Ho detto tante volte che ci vuole più lucidità e immaginazione a contemplare la realtà com’è davvero, tutta avvolta nei misteri dei quali la natura si compiace, che nel fingersela e inventarsela. Toraldo è stato tutta la vita un esempio di un occhio al quale niente era celato: «vedeva» dentro un laser come dentro una molecola in rotazione, dentro un fluido come dentro l’inferno di una stella. O dentro il purgatorio di una cellula. Da questo punto di vista il suo capolavoro è rappresentato da L’indagine del mondo fisico (Einaudi, 1976), un libro senza uguali che parla della fisica, sia quella fondamentale che quella vertiginosa, ma anche del suo fondamento conoscitivo: la fisica è così, sembra dirci, perché noi siamo così. Con queste premesse non stupisce che nella seconda parte della sua vita egli si sia messo a studiare i fondamenti stessi della conoscenza scientifica, sia quella intrinsecamente problematica rappresentata dagli abissali dilemmi proposti dalla fisica quantistica, sia quella più consueta e quotidiana del significato della parola «misurare» . Ne sono usciti, tra gli altri, Le teorie fisiche (Bollati Boringhieri, 1981) e Introduzione alla filosofia della scienza (Laterza, 2000), entrambi scritti a quattro mani con la compagna di queste sue audaci peregrinazioni, Marisa Dalla Chiara. Negli ultimi anni della sua vita Toraldo era soprattutto un filosofo della scienza, mai dimentico di essere un fisico, ma orgoglioso di fare fruttuose escursioni nelle ardue selve del pensiero filosofico contemporaneo. Non si seppe invero nemmeno limitare a questo. In numerosi interventi, tanto sui quotidiani (collaborò al «Corriere» dal 1981 al 1984) quanto in pubblicazioni specifiche, volle dire la sua anche sulle più scottanti questioni del presente, portando sempre la luce del suo intelletto, la sua onestà intellettuale e una certa dose di buon senso, che costa tanto poco, ma può essere a volte così utile. Ne nacque ad esempio Il rifiuto. Considerazioni semiserie di un fisico sul mondo di oggi e di domani (Einaudi 1978) e diversi altri godibilissimi libretti da intendere come testimonianze di bruciante intelligenza. Appassionatissimo di musica classica, non ha mai cessato di ascoltare e frequentare le maggiori personalità del Lied romantico europeo, dell’amicizia di molte delle quali si onorava. Leggeva più spesso che poteva i classici italiani e quelli di altre letterature, spesso in lingua originale. Diventato amico del figlio Cristiano, oggi affermato architetto, ho frequentato nella prima giovinezza la sua casa di Bellosguardo a Firenze, dove ho visto passare personaggi di grande rilievo della scienza e delle arti di tutto il mondo. Là ho ascoltato sempre musica meravigliosa e sbirciato libri che hanno costituito i fondamenti delle mie personali letture di ieri e di oggi. Posso dire di averlo frequentato da vicino, anche se la sua statura mi incuteva grande soggezione. È stato in tutto e per tutto il mio Maestro. Non sono mai riuscito, anche in tarda età, a dargli del tu. Ma oggi posso contravvenire a tale autodivieto e dire: Grazie Giuliano, per quello che hai fatto e per quello che hai rappresentato. Per me e per noi tutti.
Repubblica 28.4.11
Addio a Toraldo di Francia scienziato e divulgatore
È stato un pioniere di un’arte assai poco diffusa nel nostro paese
di Piergiorgio Odifreddi
Alcuni decenni fa, quando ancora la divulgazione scientifica anglosassone non aveva la diffusione che ha oggi, in Italia c´era qualcuno che già se l´era inventata e che la praticava con successo. Era l´epoca in cui usciva la rivista Le Scienze (fondata alla fine degli anni Sessanta da Felice Ippolito e che è stata diretta fino a poco tempo fa da Enrico Bellone, recentemente scomparso) tesoro inestimabile per gli italiani appassionati. Ebbene, proprio allora, avevamo la fortuna di avere, sommersa ma decisiva, anche un´altra divulgazione, meno giornalistica ma altrettanto affascinante: quella praticata da accademici isolati come Giuliano Toraldo di Francia, morto ieri a 94 anni.
L´avevo incontrato nel 1975: ero un giovane appena laureato che stava affrontando un dottorato di logica. Eravamo ad un convegno a Santa Margherita Ligure e passeggiavamo sul lungo mare di questa cittadina: lì ci colpì una coppia singolare. Lei, Maria Luisa dalla Chiara Scabia, filosofa della scienza, e lui, il professor Toraldo di Francia, signore alto magro e brizzolato. I due camminavano insieme cantando arie d´opera. La stessa seria leggerezza e competenza, il professore la metteva nelle sue ricerche e nei suoi libri. Professore emerito di fisica superiore all´Università di Firenze, era stato anche direttore dell´Istituto di ricerche sulle onde elettromagnetiche del Cnr e presidente della Società italiana di fisica dal 1968 al 1973. E mentre stava nell´accademia scriveva libri che spiegavano a tutti come funzionava la scienza: da L´amico di Platone (Vallecchi, 1985), a La scimmia allo specchio (Laterza, 1988) fino a Un universo troppo semplice. La visione storica e la visione scientifica del mondo (Feltrinelli, 1990). Si occupava di meccanica quantistica e ci sapeva spiegare la filosofia che c´era in quelle teorie. Fino all´ultimo ha saputo mantenere il suo umorismo: a 90 anni partecipava ancora a molte iniziative e all´ultima a cui l´ho visto si lamentava perché alcuni guai fisici l´avevano costretto a smettere di giocare a tennis.
La sua figura è stata importantissima: in un paese che ha spesso affidato la divulgazione scientifica a giornalisti di formazione umanistica lui rappresentava una felice anomalia. Insieme a Roberto Vacca e a Tullio Regge è stato un grande pioniere, mettendo in pratica una cosa semplicissima che però non faceva nessuno. E cioè: pur essendo professori e universitari si può cercare di spiegare a tutti la bellezza della fisica, dell´astronomia o della chimica. Così se oggi la situazione è molto cambiata lo si deve proprio a loro. Ora gli scienziati "scendono in campo", scrivendo sui giornali, facendo conferenze per il largo pubblico, partecipando ai festival e andando anche in tv. Ma il merito è di persone come Toraldo di Francia, nato nel 1916 a Firenze, figlio e padre di un´altra Italia. Bisognerebbe non dimenticare mai la sua lezione.
Repubblica 28.4.11
La pennichella dei neuroni che ci fa dormire a occhi aperti
Le pause sono di 50-100 millisecondi. Il test dimostra che i due stati non sono impermeabili
di Elena Dusi
Sembra che sia sveglio, ma il cervello troppo stanco manda a dormire un gruppo di neuroni alla volta. Come i delfini e alcuni uccelli migratori fanno riposare un solo emisfero per non dover interrompere il loro viaggio, così il nostro cervello si difende dalla stanchezza con pennichelle talmente brevi (meno di un decimo di secondo) e limitate a piccoli gruppi di cellule da non intaccare lo stato di veglia generale.
Nell´esperimento dell´università del Wisconsin i topolini mantenevano gli occhi aperti, camminavano e cercavano di afferrare delle palline di zucchero. L´elettroencefalogramma indicava senza ombra di dubbio uno stato di veglia. Eppure gli elettrodi usati per osservare alcuni gruppi di neuroni della corteccia cerebrale li trovavano a volte addormentati.
«Dopo una veglia molto lunga alcuni neuroni si "spengono" brevemente, come avviene nel sonno» scrivono su Nature di oggi i ricercatori Usa guidati dagli italiani Chiara Cirelli e Giulio Tononi. «Durante questi periodi di "sonno locale" gli animali sono attivi e vigili. Ma fanno sempre più fatica a raggiungere le palline di zucchero che gli abbiamo messo vicino».
Le isole di siesta nel cervello iniziano ancor prima che ci si senta assonnati e aumentano con le ore di veglia. «Le pause dei neuroni durano circa 50 o 100 millisecondi» spiega Tononi. «E il fenomeno opposto avviene quando dormiamo. Quando le ore di sonno diventano soddisfacenti, i neuroni cominciano gradualmente a mostrare i segni dello stato di veglia».
La scoperta dimostra che sonno e veglia non sono condizioni impermeabili fra loro. E che il cervello non è un unicum, ma può comportarsi in maniera diversa non solo tra un´area e l´altra, ma anche fra un gruppo di neuroni e l´altro all´interno della stessa area. L´esperimento è stato condotto in due zone della corteccia cerebrale, la parietale e la motoria, con elettrodi molto precisi fissati per alcuni giorni sulla testa dei roditori. «Monitorando un gruppo di una ventina di neuroni - dice Cirelli - ne abbiamo trovati 18 attivi, mentre 2 alternavano attività e silenzio come avviene durante il sonno».
Se un neurone si addormenta ogni tanto il cervello può continuare a funzionare bene. «Ma il problema è subdolo» spiega Tononi. «Può darsi infatti che quel singolo neurone sia fondamentale per l´attività che stiamo svolgendo. La sua assenza finisce così col causare una défaillance. Nel caso dei roditori, le palline di zucchero non vengono più raggiunte con regolarità. In quello degli uomini, le cellule che vanno off-line possono provocare decisioni sbagliate. Ecco perché quando siamo stanchi commettiamo più errori pur essendo complessivamente svegli».
Le prime a cadere addormentate sono probabilmente le cellule più sfruttate durante il giorno. «Nei nostri studi precedenti - spiega Tononi - abbiamo osservato che i neuroni più sollecitati nelle ore di veglia accumulano molte nuove sinapsi e collegamenti. Il sonno serve proprio a sfrondare questi "rami" in eccesso e ad alleggerire il cervello dalle connessioni meno utili. È probabile che questo avvenga anche a livello dei singoli neuroni. Quando il peso delle esperienze vissute e del lavoro svolto durante il giorno diventa eccessivo, finiscono col cadere addormentati, indifferenti a quel che fa il resto del cervello».
Repubblica 28.4.11
Zizek: da Lacan al cinema riscopriamo il sogno
Il sistema capitalista globale, tra crisi ecologiche, squilibri interni e aumento di divisioni ed esclusioni, è al suo punto zero: eppure non ha senso parlare di "decadenza"
Il Ventunesimo secolo sarà dei soggetti "post-traumatici" È la tesi del filosofo sloveno in "Vivere alla fine dei tempi"
di Antonio Gnoli
In pochi anni le generazioni che hanno vissuto il Novecento e che con esso si sono confrontate, hanno combattuto e interrogato in linea con la modernità (e perfino con la postmodernità), sembrano aver dilapidato quel patrimonio di idee e di esperienze come mai in epoche precedenti era accaduto. È come se il nuovo secolo lungi dal tentare una continuità con il precedente faccia di tutto per staccarsene, per mostrarsi radicalmente diverso o quanto meno indifferente al proprio passato. In che modo dunque ci si può predisporre all´analisi dei nostri tempi se questi tempi sembrano refrattari all´uso delle categorie consuete?
Prendete un pensatore come Slavoj Zizek, un tipo gioviale - per via delle fattezze fisiche, gli amici lo hanno soprannominato "l´orso di Lubiana" - uno che gira il mondo e che quando riflette non si accontenta degli schemini liberal-democratici o postmoderni, ma va dentro alle questioni con molta determinazione e qualche originalità, ebbene perfino Zizek ha dovuto fare un grande sforzo di ripensamento del proprio lavoro come dimostra il suo nuovo libro il cui titolo è già la spia di un disagio: Vivere alla fine dei tempi. Quali tempi, vi chiederete. E la risposta non può che essere il tempo globale, quello che tutto avvolge e ricomprende sotto una stessa cifra, sotto una stessa bandiera, sotto un medesimo sentire. E che per reazione ha prodotto localismi impensabili solo qualche decennio fa. Mai un secolo, o meglio un millennio, si è aperto con così tante paure e angosce, neppure nei tempi più bui, neppure in quell´attesa di catastrofe millenaristica che segnò la svolta dell´anno Mille. Eppure il libro di Zizek non è una riflessione sulla decadenza, non va confuso con quelle opere, alla Spengler per intenderci, che parlavano di inesorabili tramonti nei quali l´Occidente era ormai destinato. Vivere alla fine dei tempi è semplicemente vivere nei nuovi tempi, quelli che oggi ci appartengono e dai quali difficilmente riusciremo a evadere.
Dunque tuffatevi nella lettura di queste seicento pagine - a volte geniali e a volte confuse - ma senza immaginare che lì si trovi la soluzione al problema, perché il problema semplicemente non risponde più alle sollecitazioni consuete, alle interrogazioni tradizionali. Wittgenstein, a suo tempo, parlò di "crampi linguistici". Ecco: è come se Zizek riproponesse quella scena: la muscolatura dei concetti e delle parole si è contratta, irrigidita e facciamo molta più fatica a camminare, cioè ad analizzare il percorso. Naturalmente nel libro ritroviamo alcuni temi cari a Zizek: il suo marxismo duro ed eterodosso, la sua passione per il cinema (soprattutto hollywoodiano), le cui trame sono le nuove narrazioni capaci di popolarizzare la nostra vita concettuale; infine Jacques Lacan: il maestro, il punto di riferimento che attraverso la triade Immaginario, Simbolico, Reale ci offre una possibile e plausibile spiegazione del mondo. Nel leggere i testi di Zizek mi sono chiesto da dove nascesse questo interesse (diciamo pure fedeltà) al cinema e alla psicoanalisi e la risposta è che entrambi ci offrono virtualmente un´altra vita, un´altra occasione di godimento (di eccedenza libidinale) nei riguardi di un reale che ha perso i tratti della riconoscibilità. Abbiamo perciò bisogno dell´inconscio, del sogno, del magma invisibile e sotterraneo per riprendere contatto col mondo.
Fin qui, verrebbe da dire, siamo ancora al Zizek innamorato del moderno e dei suoi grandi interpreti: Cartesio, Kant, Hegel, Marx, Freud. Ma in Vivere alla fine dei tempi qualcosa è mutato, qualcosa è accaduto alla nostra civiltà, al sistema globale del capitalismo che sta andando dritto verso un apocalittico punto zero. Quattro sono le emergenze: il collasso ecologico, la riduzione biogenetica degli umani a macchine manipolabili, il controllo digitale totale sulle nostre vite, la crescita esplosiva delle esclusioni sociali. In fondo non è affatto vero che stiamo esportando democrazia e che stiamo andando verso società più egualitarie. Il quadro che ci si prospetta è quello di una violenza sconosciuta in passato e che si realizza attraverso le speculazioni finanziarie e le catastrofi di vario tipo (naturali, fisiche, mentali). Con quali conseguenze? Se il secolo Ventesimo è stato dominato dal soggetto scabroso (titolo di un libro di Zizek), cioè un soggetto che interroga, che mette in dubbio ed è capace di reagire anche con durezza alle avversità, il Ventunesimo secolo porrà al centro il soggetto post-traumatico. Si tratta di una figura di "sopravvissuto" alla violenza (rifugiati, clandestini, vittime del terrorismo, sopravvissuti ai disastri naturali, e perfino i malati di Alzheimer), la cui nuova identità simbolica è prodotta interamente dal trauma subito. E allora si capisce bene la frase per cui «l´11 settembre ha segnato la fine della postmodernità, la fine dell´epoca dell´ironia e della correttezza politica». Il nuovo soggetto che avanza è dunque agli occhi di Zizek uno sconosciuto che non ha più legami col proprio passato. Inquietante, verrebbe da osservare. Ma su questa entità misteriosa che cosa il pensiero può dire di nuovo? Mi ha colpito una frase di Zizek: «Il mio sogno è avere una casa composta solo di spazi secondari e luoghi di passaggio - scale, corridoi, bagni, ripostigli, cucine - senza soggiorno né stanze da letto». In fondo la vita intellettuale dell´"orso di Lubiana" è molto simile al suo credo architettonico: un pensiero inospitale, dove le soste sono emergenze brevi e non esistono più luoghi nei quali trovare un riparo sicuro.
Repubblica 28.4.11
"Rinascere dopo il collasso la coscienza sociale fa i conti con l´apocalisse"
La prima reazione è il rifiuto. Poi subentrano la rabbia, la depressione Alla fine ci si rassegna e si prova a ripartire
di Slavoj Zizek
Anticipiamo un brano di "Gli spiriti del male nelle regioni celesti", introduzione a Vivere alla fine dei tempi, edito da Ponte alle Grazie.
La premessa di base di questo libro è semplice: il sistema capitalista globale si sta avvicinando a un apocalittico punto zero. I suoi "quattro cavalieri dell´apocalisse" comprendono la crisi ecologica, le conseguenze della rivoluzione biogenetica, gli squilibri interni al sistema stesso (problemi con la proprietà intellettuale; imminenti lotte per materie prime, cibo e acqua), e la crescita esplosiva delle divisioni ed esclusioni sociali. [...] La verità fa male, e noi cerchiamo disperatamente di scansarla. Per spiegare come questo accada, possiamo rivolgerci a una guida inaspettata. La psicologa di origine svizzera Elisabeth Kübler-Ross ha proposto il celebre schema delle cinque fasi dell´elaborazione del lutto, conseguente, ad esempio, alla scoperta di avere una malattia terminale: rifiuto («Non può succedere, non a me»), collera («Perché succede proprio a me?»), venire a patti («Se potessi almeno vivere fino a vedere la laurea dei miei figli»), depressione («Sto per morire, e quindi chi se frega di tutto») e accettazione («Visto che ormai non lo posso combattere, tanto vale che mi prepari »). [...] È possibile scorgere le stesse cinque figure nel modo in cui la nostra coscienza sociale prova ad affrontare l´imminente apocalisse. La prima reazione è di rifiuto ideologico; la seconda è esemplificata da esplosioni di collera di fronte alle ingiustizie; la terza comporta dei tentativi di venire a patti; poi arrivano la depressione e la chiusura in sé stessi; infine, dopo essere passato per questo punto zero, il soggetto non considera più la situazione come una minaccia, ma come la possibilità di un nuovo inizio. I cinque capitoli si riferiscono a questi atteggiamenti. Il primo capitolo analizza le modalità dominanti di offuscamento ideologico, dagli ultimi blockbuster di Hollywood fino alle false (rimosse) visioni apocalittiche (l´oscurantismo della new age ecc.). Il secondo capitolo esamina le proteste violente contro il sistema globale, e in particolare l´ascesa del fondamentalismo religioso. Il terzo capitolo si concentra sulla critica dell´economia politica, e propone un appello per la ripresa di questa componente centrale della teoria marxista. Il quarto capitolo prende in considerazione l´impatto dell´imminente collasso nei suoi aspetti meno consueti, come l´emergere di nuove forme di patologie del soggetto (il soggetto "post-traumatico"). Infine, il quinto capitolo individua i segni dell´emergere di una nuova soggettività emancipativa, e isola i germi di una cultura comunista in tutte le sue diverse forme, ivi comprese le utopie letterarie o di altro tipo (dalla comunità dei topi di Kafka al collettivo dei reietti freak nella serie tv Heroes).
Perché l’amore omosessuale in Italia è ancora uno scandalo
di Michela Marzano
Quarant’anni di battaglie
di Angelo Pezzana
Tollerare non basta
di Michele Smargiassi
l’Unità 28.4.11
Will e Kate
Tra despoti e tabloid Dio salvi l’Inghilterra dal kolossal nuziale
Eventi mediatici I soldati di Sua maestà che marciano nelle strade vuote di Londra per le prove, i giornali che parlano della sposa nuda (in sogno), fans avvolti nell’Union Jack: così si mette in scena un paese in crisi profonda
di Roberto Brunelli
Strano. Dal tormentone dell’incubo della principessa nuda alla certezza scientifica del primo figlio entro dodici mesi dal fatidico sì, la prima monarchia mediatica della storia sta per essere benedetta dinnanzi a qualche miliardo di telespettatori nonostante gli oscuri ma limpidissimi insegnamenti della storia medesima. Mentre Londra è invasa da militari in uniforme da cerimonia, spitfire nel cielo e mezzo milione di «royal fans» in attesa che, domani mattina, si compia il destino di due ragazzi chiamati Will & Kate, è come se nessuno si ricordasse, in questa eccitatissima Inghilterra dominata come non mai dalle televisioni e dai tabloid, della trucida lezione di Diana, uccisa dai miasmi della ribalta. Sì, perché mediatico è lo scopo di questo «matrimonio del secolo», volto a rilanciare la monarchia e la «cool Britannia» in profonda crisi, mediatico è il parterre degli invitati e mediatica è la costruzione dello spettacolo nuziale, degna dei più tremendi pomeriggi in tv è l’esposizione orgasmica dei «retroscena» e dei «segreti di palazzo».
È l’Inghilterra più postmodernamente retriva quella che si mette in scena: ieri centinaia di soldati di Sua Maestà avevano invaso Londra per le prove generali della grande parata di venerdì. Una scena vagamente surreale: tutti in uniforme da cerimonia a sfilare per le strade vuote della capitale, da Parliament Square a Buckingham Palace, mentre intanto due Tornado e due Typhoon saettavano per i cieli della capitale inglese. Alla parata hanno partecipato una banda (che però non suonava, data l’ora) nonché svariate carrozze e limousine, tra cui la Rolls Royce con ciu la povera Kate Middleton sarà portata a Westminster Abbey insieme al padre, e la Glass Coach, la carozza di cristallo, messa in campo se dovesse piovere come Dio comanda. Il bello è che per arrivare all’altare, Kate camminerà lungo la navata dell’abbazia di Westminster attraverso un viale di alberi: per la precisione aceri, alti sei metri e pesanti oltre mezza tonnellata, più due carpini, scelti come illustrano con commosso entusiasmo i mezzi d’informazione «per potenziare l’effetto medioevale dello scenario».
Fortuna che doveva essere un matrimonio «low profile». Finora, di low profile, per non dire «cheap» c’è solo il vino... un bianco di Chapel Down, un’azienda del Kent, secondo quanto riferiva ieri il Daily Mail, bottiglie che costano dalle 8.50 alle 14 sterline. Altrettanto cheap, se non peggio, il parterre dei ben 1900 invitati, che oltretutto rischiano di provocare non pochi problemi alla buona riuscita del «royal wedding»: per cui, accanto a Elton John, Joss Stone, Mr. Bean ed un certo numero di ex premier conservatori (ma non i laburisti Brown e Blair), ci sarà un vario florilegio di despoti, dal re dello Swaziland che ogni anno aggiunge una nuova vergine al proprio harem di mogli, al principe saudita Abdul-Aziz fino agli ambasciatori di Iran e Corea del Nord. «Gente che sarà seduta accanto a Elton John, ma che nel loro paese lo sbatterebbero in gattabuia perché è gay», come ha scritto due giorni fa il Guardian, che insieme all’Independent sta assicurando l’unico controcanto alle cosiddette «nozze del secolo», con in più varie associazioni per i diritti umani che stanno promettendo di inscenare proteste nel bel mezzo della gran festa. L’Italia? Bisognerà cercare col binocolo: oltre all’ambasciatore Alain Giorgio Economides, ci saranno, che si sappia, solo il marchese Vittorio Frescobaldi e il conte Paolo Filo della Torre nonché Carlo di Borbone, in quanto erede del casato dell’ex regno delle due Sicilie.
Ma che importa mai, quando il resto delle televisioni di tutto il mondo si sta scatenando con dirette, fiction, salottini da chiacchiera, ricostruzioni, breaking news: così, mentre a centinaia tra cui maree di mocciosetti e file di vecchietti stanno accalcati davanti a Westminster Abbey avvolti nelle Union Jack seduti sulle seggioline pieghevoli e vestiti come degli alberi di Natale, i giornali si scatenano con un vasto catalogo di bizzarrie: va forte l’«incubo ricorrente» della futura principessa Kate che una «gola profonda» avrebbe rivelato al Sun. Ovvero, l’ex timida ragazza oggi chiamata a rivitalizzare le sorti della corona inglese sognerebbe di ritrovarsi completamente nuda davanti all’altare. «Come mamma l’ha fatta!», esultano i programmi di gossip. Alle sue spalle, un’esterrefatta regina Elisabetta, il principe Filippo e due miliardi di persone che la guardano sui loro televisori in salotto. Poi c’è un tale, sedicente «ex confidente di Lady D.», che si dice matematicamente certo che Kate scodellerà un real principino nel giro di un anno. La prova è nella storia: dice il tale che sia la regina Vittoria che la regina Elisabetta che Diana sono tutte rimaste incinta non più di dodici dal giorno delle nozze. È la verità divina del tabloid, bellezza, e tu non puoi farci niente.
L’Osservatore Romano 28.4.11
"Habemus Papam" di Nanni Moretti ovvero il dubbio senza interlocutore
Una capacità smarrita
di Emilio Ranzato
Il cardinale francese Melville (Michel Piccoli) è solo uno dei tanti chiamati a riunirsi in conclave. E tale, probabilmente, vorrebbe rimanere. Nonostante una vita dedicata alla preghiera e una fede ancora solida, quando a sorpresa viene eletto Papa non sa se riuscirà a onorare un compito così gravoso.
Il ripensamento è però tardivo, la fumata bianca c'è già stata, il mondo intero aspetta soltanto di conoscere l'identità del nuovo Pontefice. Sospeso clamorosamente l'annuncio, bisogna correre in fretta ai ripari. Si prova dunque a chiamare in Vaticano il noto psicanalista Brezzi (Nanni Moretti).
Un po' per i vincoli posti alla sua indagine introspettiva, un po' per l'handicap di conoscere già la peculiarità del paziente, Brezzi preferisce però delegare l'incarico alla ex moglie (Margherita Buy), a sua volta psicanalista, che nulla ovviamente sa di Melville. Mentre l'insolito ospite rimane "prigioniero" in Vaticano per questioni di discrezione, intrattenendosi giovialmente con i cardinali, Melville farà perdere le proprie tracce, cominciando a girovagare per Roma alla ricerca di una risposta interiore.
Ciò che si imputava a Moretti fino a qualche anno fa, ossia di indulgere in un eccessivo narcisismo, di monopolizzare l'attenzione dello spettatore con la sua personalità, oggi gli si sta rivolgendo contro. Nel senso che non riesce più a sottrarsi dallo schermo senza compromettere il risultato complessivo dei suoi lavori. A Moretti, insomma, non sta riuscendo ciò che è riuscito a Woody Allen a partire da metà carriera, ossia relegare efficacemente il proprio alter-ego cinematografico a comprimario, a spettatore, o addirittura cancellarlo del tutto.
Lungi dall'essere opere comiche o leggere, pur se costellate da tanti momenti esilaranti di cui tutti conserviamo nella memoria almeno una battuta, i suoi film fino a Caro diario hanno descritto la solitudine e il disorientamento dell'individuo in un'Italia prima reduce dalle laceranti divisioni politiche, quindi adagiata in una bambagia piccolo borghese priva di valori e falsamente confortante.
I tic, le manie, le nevrosi del suo personaggio di sempre diventavano così le lenti attraverso cui guardare una realtà che perdeva i suoi punti di riferimento, senza permettere allo spettatore di giudicare se erano le prime a deformare la seconda o viceversa, in una dialettica fra oggettivo e soggettivo molto stimolante. Era un cinema orgogliosamente autistico e perfettamente autonomo, proprio perché faceva del suo ripiegamento su se stesso - ivi compreso quel narcisismo in fin dei conti funzionale - un aspetto fondamentale della propria poetica. Si trattava, inoltre, di un'unità di sguardo che felicemente si sposava con la pulizia stilistica dei film più maturi, con un'economia di linguaggio che in La messa è finita raggiungeva un culmine quasi bressoniano.
Dopo Aprile, flusso di coscienza che replicava pallidamente Caro diario, Moretti ha cominciato però a optare per un cinema più composito, forse più complesso ma non altrettanto riuscito, frutto di un lavoro di squadra in sede di sceneggiatura probabilmente inopportuno. In particolare, l'idea di spostare fuori da sé il fulcro delle crisi di volta in volta raccontate non ha pagato, e Habemus Papam lo conferma.
Chiedere a Moretti di impersonare questo Pontefice sconquassato dai dubbi sarebbe stato troppo, ma ci si aspettava che svolgesse almeno il ruolo di contraltare dialettico, che conducesse fino in fondo quella battaglia che una battuta iniziale del film sembrava propiziare: "Il concetto di anima e quello di inconscio non possono coesistere".
Invece, chissà perché, forse per un eccessivo pudore, Moretti si tira indietro anche da questo compito, lasciandolo alla ex moglie interpretata da Margherita Buy, un personaggio e un'attrice piuttosto sprecati. Anziché creare un parallelismo fra le due rinunce, produce in tal modo un doppio effetto negativo. Da una parte lo psicanalista rimane inutilmente da solo con i cardinali, dando vita a siparietti anche divertenti ma spogliati del significato che avevano un tempo nel cinema morettiano, e che non diventano mai, dunque, proiezione di qualcosa di più ampio. Dall'altra il Papa dubbioso perde un interlocutore che non sia la sua enigmatica coscienza, e viene abbandonato al centro di una drammaturgia troppo inerte. Di conseguenza solo la sentita interpretazione di Piccoli lo rende intenso e, a tratti, persino commovente.
L'amara allegoria finale affidata al teatro di ?echov - asilo di esistenze sprecate e di utopistici riscatti - è anche appropriata, ma è troppo ermetica e colta. Tanto da apparire un escamotage più che una soluzione veramente ispirata. Nel frattempo, anche qui lo sguardo non si è mai allargato. Il vacillare di Melville non è diventato una paralisi morale del mondo, come invece il sapore apocalittico dell'epilogo vorrebbe adombrare. I momenti riusciti del film si concentrano dunque in singole intuizioni: la solennità del conclave in contrasto con gli umanissimi comportamenti dei suoi protagonisti; la canzone che si diffonde contemporaneamente per gli appartamenti vaticani e per le strade di Roma; l'ombra della controfigura del Pontefice, in parte inquietante, in parte rassicurante. Infine, l'idea di fondo di mischiare le carte di un mondo millenario senza però volerle stravolgere.
Gli ingredienti messi in scena, quindi, ci parlano ancora di un autore che non fa fatica a stagliarsi sulla media del cinema italiano contemporaneo. A essersi smarrita è la capacità di comporre quegli ingredienti in un congegno efficace. Almeno da quando Moretti ha smesso di scriversi i film da solo. E di accogliere per intero dentro di sé le crisi che ci racconta.