l’Unità 1.4.11
Il segretario del Pd: l’8 aprile manifestazioni in quattro grandi città. Bindi: non penso all’Aventino
Allarme per l’informazione: «Il governo prepara una stretta», appello a Udc, Api, Fli e Idv
Bersani:
«Faremo in battaglia in Parlamento e nelle piazze». E ai leader
dell’opposizione dice: «Il governo prepara una stretta
sull’informazione, vi invito ad un’azione comune per realizzare uno
strumento di controllo».
di Maria Zegarelli
Una crisi politico-istituzionale come poche altre ce ne sono state
prima, regole che saltano, il parlamento che si trasforma in un ring e
volano giornali, insulti irripetibili, mentre ministri e onorevoli si
esprimono neanche fossero espressione della peggiore feccia. Intanto il
governo impone la prescrizione breve al parlamento per salvare il
presidente del Consiglio dal processo Mills e prepara la stretta finale
sull’informazione in vista delle elezioni amministrative di maggio e,
soprattutto, delle elezioni politiche. E l’opposizione? «Chiedo
all’opposizione unità e tenuta», invita il segretario Pd Pier Luigi
Bersani che ieri ha inviato una lettera ai leader dei partiti di
minoranza per affrontare quella che secondo l’ex ministro è una vera e
propria emergenza democratica. Per Bersani si deve «realizzare uno
strumento di controllo sull’equilibrio politico in particolare dei
telegiornali e dei programmi di intrattenimento, per presidiare, in
modo incisivo e tempestivo, questa delicatissima fase», perché «sembra
evidente che il governo sta predisponendo un’ulteriore stretta
sull’informazione, a partire dai telegiornali, così da oscurare le
opposizione e da condizionare la fase politica e il prossimo
appuntamento elettorale». A Casini, Bocchino, Rutelli e Di Pietro,
Bersani propone «un’iniziativa comune, pur nel pieno riconoscimento
delle differenze politiche», da delineare nel corso dell’incontro dei
responsabili dell’informazione dei vari partiti in programma per il 7
aprile. Di Pietro si dice disposto, «l’opposizione mai è stata unita
come in questo momento in Parlamento», dunque bene il comitato di
controllo.
QUALE OPPOSIZIONE
Ma se l’opposizione in Aula marcia in un’unica direzione, nel Pd il
dibattito sul come si deve procedere dentro e fuori il Parlamento è
agitato. Aventino, dimissioni in blocco, oppure lotta dura e pura dai
banchi di minoranza e nelle piazze?
Costretta Rosy Bindi a chiarire il senso delle sue parole: «Non ci sono
tentazioni “aventiniane” e il partito non è diviso, come qualche
resoconto di stampa vorrebbe far credere. Non ho proposto di
abbandonare il Parlamento. anche se andrebbe ricordato che in altre
occasioni siamo usciti dalle aule senza che questo provocasse
polemiche. Piuttosto ho sottolineato che di fronte a una situazione che
non ha nulla di normale la nostra risposta deve altrettanto
eccezionale». Secondo la presidente Pd serve un’azione forte concordata
tra opposizioni e movimenti anche fuori dalle Camere, come
manifestazioni in tutte le città. Massimo D’Alema smentisce la «lite»
con Bindi, solo opinioni diverse, anche se «il rinvio del processo
breve dimostra che era giusto stare in Aula». Bersani cerca di fare
sintesi: «Il partito non deve mollare alcun presidio», in prima linea
fuori e dentro il parlamento perché «gli aventini li abbiamo già
visti...». Dai microfoni del Tg2, sottolineando come il tentato «blitz»
della maggioranza sul processo breve sia fallito e annuncia che il Pd
l'8 aprile parteciperà alle notti bianche per la scuola e la
democrazia in 4 grandi città italiane.
Intanto Ignazio Marino propone le dimissioni in blocco di tutti i parlamentari per arrivare allo scioglimen-
to delle Camere, mentre per Franco Marini è «meglio lo scontro dentro
il Parlamento», «un colle triste, l’Aventino», aggiunge, «e non porta
nemmeno fortuna». Arturo Parisi incalza il segretario: «È d’accordo
con Bindi che la “dittatura imposta dalla maggioranza” merita come
risposta forte “un presidio permanente avanti a Montecitorio? Che
l’astensione del Pd sul Federalismo regionale è stato un errore? Che
la non partecipazione ai lavori parlamentari , può essere più
diretta, di una partecipazione che non incide e spesso si rivela
inutile?». Di parere opposto Paolo Gentiloni, Modem: «Noi dobbiamo fare
le nostre battaglie in parlamento, al Pd non manca l’indignazione,
manca l’alternativa». Intanto Beppe Fioroni fa sapere che non
parteciperà al seminario del Pd sulla forma di partito.
Repubblica 1.4.11
Il centrosinistra protesterà a Montecitorio in occasione del voto sul processo breve e dell´udienza per il caso Ruby
Bersani: "Siamo riusciti a fermarli battaglia nelle piazze e in aula"
di Goffredo De Marchis
ROMA - «In piazza e in Parlamento», dice Pier Luigi Bersani.
Opposizione ordinaria alla Camera e al Senato. "Straordinaria" con le
mobilitazioni dei partiti e della società civile. «Saremo accanto a
tutti i movimenti», annuncia il segretario del Pd. Senza abbandonare le
aule parlamentari, senza rinunciare alla "guerriglia" sulle leggi, ai
blitz dei voti in cui la maggioranza viene battuta, al ruolo di
minoranza che combatte emendamento per emendamento. Bersani media sulla
linea da seguire contro i colpi di coda di Berlusconi: il processo
breve, i gestacci di La Russa, il caso Ruby. Per martedì e mercoledì
prossimo - quando si voterà il conflitto di attribuzione sul processo
Ruby, si voterà il processo breve e inizierà il processo Ruby a Milano
- il Pd si sta organizzando per manifestare davanti a Montecitorio. Ma
l´Aventino no. «Lo abbiamo già visto una volta...», commenta. E Dario
Franceschini avverte: «Finché sarò io il capogruppo, non usciremo
dall´aula». Massimo D´Alema sentenzia: «Si dimostra oggi che era giusto
restare in aula, fare opposizione in Parlamento si è rilevato
efficace».
Sono pezzi di un dibattito aperto nel Pd sulla strategia per
contrastare il premier, «per comunicare meglio la nostra partita contro
il Cavaliere», ha detto Rosy Bindi. La più esplicita nel dire che «la
proposta non è l´Aventino». Ma a volte «la non partecipazione al voto è
più chiara della partecipazione». E che l´abbandono dell´aula del resto
non è una novità nella tattica parlamentare del Pd. «Va ricordato che è
già successo senza che questo provocasse polemiche», sottolinea la
Bindi. L´ultimo esempio è recentissimo, «quando i senatori democratici
hanno lasciato il loro posto in occasione delle comunicazioni del
ministro Frattini sulla casa di Montecarlo». La presidente del Pd trova
una sponda forte in Ignazio Marino. «Aventino? No, molto di più: i
deputati dell´opposizione si dimettano in massa». Ma queste voci di
dissenso oltranzista non trovano terreno fertile nel Pd. Persino un
gruppo di deputati vicini a Marino bacchettano la linea più dura:
«Veniamo da due giorni vincenti. Abbiamo messo sotto il governo, lo
abbiamo costretto al rinvio del processo breve. Così si fa opposizione
in Parlamento, altre strada sono inconsistenti». Firmato: Concia, Meta,
Gozi, Calipari e altri. La strada che viene definita "dipietrista" non
piace neanche all´area di Veltroni, Fioroni e Gentiloni. Lo fa capire
con grande chiarezza l´ex segretario del Pd: «Se esiste ancora il
berlusconismo è anche colpa del centrosinistra incapace di costruire
un´alternativa che vada oltre l´antiberlusconismo». Parole che certo
non evocano piazze o presidi permanenti. Ma Arturo Parisi apprezza le
parole nette di Bindi nell´intervista a Repubblica: «In gran parte non
le condivido, ma evocano una condotta chiara. Cosa risponde Bersani?».
Bersani indica la via della «piazza e del Parlamento». «Dobbiamo stare
in tutti e due i luoghi. Combatteremo alla Camera anche martedì sul
conflitto di attribuzione per il processo Ruby. Prepariamo le notti
bianche l´8 aprile su scuola e democrazia. A Napoli, Torino, Milano e
Bologna». Così il Pd ricuce le divisioni. E Bersani spedisce una
lettera a Casini e Di Pietro per un´azione comune della minoranza sui
tg Rai: monitoraggio costante per denunciare omissioni e censure. La
replica dell´Udc e dell´Idv è positiva. «Aderiamo», dice il centrista
Roberto Rao. L´opposizione prova a marciare unita.
Corriere della Sera 1.4.11
Deriva pericolosa
di Michele Ainis
Una roba così non era mai successa. Il capo dello Stato che convoca i
capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede
conto dei fatti e dei misfatti. D’altronde non era mai successo nemmeno
il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della
Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della
Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi
dell’Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo
destino per votare un’inversione dell’ordine del giorno in Parlamento.
Dall’altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra,
contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto,
nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti
dell’opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che
osa esibire il suo faccione. Diciamolo: la nostra democrazia
parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese
in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito
ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le
sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per
Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti
percentuali, per Ispo il 73%dei nostri connazionali disprezza il
Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del
clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo
di battaglia. Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva
Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come
il giornale lanciato in testa al presidente Fini. Ma non è soltanto una
questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo
cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi
in guerra. Una risposta c’è: perché sono logori, perché hanno perso
autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti.
Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano
Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo. Guardateli,
non c’è bisogno d’elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si
scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha
inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi
dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre
istituzioni. Da qui l’urlo continuo, come quello di un insegnante che
non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole
parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari. Ma da qui, in
conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato.
D’altronde non sarà affatto un caso se l’istituzione più popolare abita
sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della
politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il
presidente simboleggia per l’appunto l’unità nazionale, così c’è
scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un
ricambio dei signori di partito, con un’iniezione di forze fresche nel
corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo)
le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla
capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.
Corriere della Sera 1.4.11
Il Pd «di piazza» teme di perdere l’Udc
Casini resta lontano dai manifestanti. E sul caso Tedesco rischiano di esplodere le contraddizioni
di Maria Teresa Meli
ROMA— Ora che la maggioranza è stata bloccata alla Camera Massimo
D’Alema può ben dire: avevo ragione io. «Si dimostra che era giusto
restare in aula e fare opposizione» , afferma l’ex premier rispondendo
implicitamente a Rosy Bindi e agli altri che avevano proposto
l’Aventino. E Beppe Fioroni può prendersi lo sfizio di ironizzare sulla
sua compagna di partito: «Non è ferrata in politica» . La stessa Bindi,
annusata l’aria, ridimensiona le sue parole del giorno prima. E non
solo è in Aula, ma presiede la seduta, non prima, però, di aver fatto
la dura con un rappresentante del governo molto vicino a Berlusconi:
«Cercate di darvi una regolata, sennò qui viene giù tutto» . Insomma,
in questo giovedì in cui l'opposizione riesce a segnare un punto,
l’ipotesi dell’Aventino scompare con rapidità, è un termine che nessuno
vuole pronunciare più nel Pd, quasi fosse una parolaccia. Questo anche
perché Giorgio Napolitano, che ieri ha convocato i capigruppo
parlamentari, ha spiegato chiaramente che questo clima di rissa non può
continuare a oltranza. Perciò i maggiorenti del Pd si danno un gran da
fare a smussare e minimizzare. «Finché sarò io capogruppo non ci sarà
nessun Aventino» , tuona Dario Franceschini. E quando Di Pietro
annuncia che presenterà insieme al Partito democratico una mozione di
sfiducia individuale nei confronti del ministro della Giustizia
Angelino Alfano, da largo del Nazareno smentiscono. «Non mi risulta
un’iniziativa del genere» , taglia corto il responsabile del settore
Andrea Orlando. Dunque nel Pd sembrano riconoscersi tutti nelle parole
di D’Alema e del segretario Bersani. Spiega il primo: «Oggi più che mai
l’opposizione deve presidiare il Parlamento» . Annuncia il secondo:
«Staremo nelle Aule e in piazza. E l’otto aprile faremo in quattro
città le notti bianche della democrazia» . Ma questo non può nascondere
il fatto che nel Partito democratico si fronteggiano da sempre due
linee. Quella movimentista alla Bindi, appunto, e quella, per così
dire, riformista che vede uniti, per una volta tanto, D’Alema e
Veltroni. Quest’ultimo non esita a dire che «se esiste ancora il
berlusconismo è perché il centrosinistra non è riuscito a costruire
un’alternativa che vada oltre l’antiberlusconismo» . L’atto d’accusa di
Veltroni cade proprio nel giorno giusto, nel giorno in cui il Pd più
che alla piazza e alla folla che tira le monetine sembra dar retta al
presidente della Repubblica. Del resto, andare appresso al popolo viola
e ai dipietristi rischiava di tracciare un solco invalicabile tra il
Partito democratico e i centristi dell’opposizione. In queste due
giornate convulse l’atteggiamento di Pier Ferdinando Casini è stato
assai diverso da quello, tanto per fare un nome, di Rosy Bindi. Duro
nelle parole, il leader dell’Udc non ha però lisciato il pelo ai
manifestanti e ha evitato atteggiamenti da tribuno o incitamenti alla
piazza. Perciò, per recuperare quel rapporto e per tenere unite il più
possibile le forze che in Parlamento contrastano la maggioranza di
centrodestra, Pier Luigi Bersani propone di istituire un Osservatorio
comune, con lo scopo di «fronteggiare l’oscuramento delle opposizioni»
da parte del fronte berlusconiano. Ma c’è anche un’altra ragione che
spinge i dirigenti del Pd a non accelerare sulla strada che
inevitabilmente li porterebbe nelle braccia del leader dell’Idv Antonio
Di Pietro. Una ragione con un nome e un cognome: Alberto Tedesco.
Martedì prossimo il Senato si dovrà pronunciare sulla sorte del
parlamentare del Pd inquisito dalla magistratura pugliese e non tutti i
«democrats» sono favorevoli a concedere l’autorizzazione. Non a caso
Bersani ha dichiarato che «non c’è nessuna indicazione di partito su
questa vicenda» . Spingere da una parte sul pedale del giustizialismo
per Berlusconi e, dall’altra, su quello del garantismo per Tedesco, non
sarebbe opportuno e finirebbe per ritorcersi contro il Pd.
l’Unità 1.4.11
La Ue contro il reato di immigrazione clandestina
La Corte europea pronta a dichiarare illegittima la norma Sassoli, Pd:
«È inaccettabile per l’Europa». Il bluff del governo che chiede aiuto
ma non attiva la protezione temporanea
di Marco Mongiello
Il Governo italiano se la prende con Bruxelles per l’emergenza
immigrazione, ma non utilizza i fondi europei a disposizione e non
chiede di attivare il meccanismo di redistribuzione dei rifugiati. La
richiesta l’ha dovuta fare Malta mercoledì, smascherando il bluff
italiano lo stesso giorno in cui il ministro Frattini accusava di
inerzia l’Unione europea. Tra qualche settimana inoltre la Corte di
giustizia europea probabilmente dichiarerà illegittime le norme
italiane sul reato di clandestinità, perché incompatibili con la
direttiva sui rimpatri, fatta proprio da Frattini quando era
commissario Ue alla Giustizia. «Sarà smontato il pacchetto sicurezza
leghista del 2009 e torneranno liberi, finalmente, i 3118 detenuti
extracomunitari in carcere solo per aver messo piede nel nostro paese.
Per l’Europa questo è inaccettabile», ha commentato il capodelegazione
Pd David Sassoli. Quanto ai soldi «sono già disponibili», ha ribadito
Michele Cercone, portavoce del commissario Ue per gli Affari interni
Cecilia Malmstrom. «Sono circa 80 milioni di euro per il 2010 e il
2011» e l’Italia può «riorientare la spesa dei fondi Ue già assegnati
nel 2011 per finanziarie le misure di emergenza». Non è una questione
di soldi, aveva replicato Frattini mercoledì, ma di redistribuire gli
immigrati tra i Paesi membri. Una direttiva europea del 2001 infatti
prevede la possibilità di attivare un meccanismo di protezione
temporanea per i rifugiati di conflitti armati, ma per utilizzarla
bisogna avere l’accordo delle maggioranza qualificata degli Stati
membri, e soprattutto poi bisogna garantire una protezione di un anno,
estendibile a due, ai rifugiati che oggi l’Esecutivo leghista vuole
respingere o mettere in galera per reato di clandestinità. Per questo
i ministri italiani sbraitano da Roma ma stanno zitti quando vanno a
Bruxelles. «A Roma è in corso una approfondita valutazione
sull’opportunità di attivare o meno la direttiva euro-
pea sulla protezione temporanea ha spiegato l’ambasciatore Ferdinando
Nelli Feroci, rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue È
possibile che le condizioni ci siano, ma al momento non ci sono
ancora». In ogni caso ora che la questione è stata sollevata dal
governo maltese i ministri degli Interni ne discuteranno nella riunione
in programma a Lussemburgo l’11 aprile.
Il meccanismo di solidarietà «va attivato all’interno dei governi.
L’Italia, anziché abbaiare contro l’Europa, si dia da fare», ha
esortato il vicepresidente dell’Europarlamento Gianni Pittella (Pd).
Comunque la direttiva europea sulla redistribuzione degli immigrati,
oltre a prevedere il contributo volontario degli altri governi, si
applica solo ai rifugiati, quelli che hanno diritto a chiedere asilo
perché scappano da situazioni di conflitto. In realtà «la vasta
maggioranza delle persone che arrivano a Lampedusa sono migranti
economici» ha ricordato Cercone «e solo il 15-20% chiede asilo».
l’Unità 1.4.11
Intervista a Ali Errishi
«Il raìs è rimasto solo. Ha i giorni contati ma non andrà in esilio»
L’ex ministro passato con i ribelli: «Le dimissioni del collega degli
Esteri sono il segno della fine Italia attenta, non ci sarà un raìs
gendarme del mare»
di U.D.G.
Il regime di Muammar Gheddafi ha i giorni contati. Attorno a lui si sta
creando il vuoto. La riprova sono le dimissioni di Mussa Kussa». A
sostenerlo è l’ex ministro libico per l’Immigrazione, Ali Errishi che
si dimise pochi giorni dopo lo scoppio della rivolta in Libia a metà
febbraio. Le dimissioni del ministro degli Esteri libico, considerato
fino a pochi giorni fa uno degli uomini più vicini al Raìs, sono un
«segno di come i giorni del regime sono contati. È la fine, è un
colpo per il regime e i suoi seguaci. Gheddafi non ha più nessuno. È
solo con i suoi figli», sottolinea Errishi. Sulla possibilità che
Gheddafi possa accettare l’esilio, l’ex ministro appare alquanto
scettico: «Per come ho imparato a conoscerlo dice a l’Unità mi sento
di escluderlo. (Gheddafi) è un uomo che ha mostrato che non vi è
altra soluzione possibile per il popolo libico dicendo “vi governo o vi
uccido”». E a quanti in Occidente sostengono che l’azione militare
internazionale sia stata affrettata, Ali Errishi ribatte seccamente:
«Semmai è vero il contrario: gli Stati Uniti rileva l’ex ministro sono
stati lenti nel sostenere l’opposizione libica perdendo forse
l’occasione per far cadere il regime».
Qual è il segno politico delle dimissioni del ministro degli Esteri
libico Mussa Kussa? «È il segno, pesantissimo, del vuoto che si sta
facendo attorno a Gheddafi e ai suoi figli.Èilsegnodicomei giorni del
regime sono contati. E forse quei giorni sarebbero già finiti se la
Comunità internazionale non avesse ritardato il sostegno militare
all’opposizione libica».
Vorrei restare sulle dimissioni di Kussa. Già prima vi erano stati
numerosi e importanti defezioni, tra cui la sua. Al di là
dell’importanza del ruolo che ricopriva, c’è un aspetto che rende le
dimissioni di Kussa particolarmente significative?
«Non si tratta solo delle dimissioni di un ministro. Kussa era uno dei
consiglieri di cui Gheddafi si fidava di più, oltre che legatissimo ai
servizi di intelligence. È la fine del regime, Il regno brutale è sul
punto di concludersi».
Tra le ipotesi ventilate per una soluzione del conflitto, c’è l’esilio
del Raìs. Alcuni Paesi africani, come l’Uganda, sembrano disposti a
concedere asilo a Gheddafi. Qual è la sua idea in proposito?
«Se l’esilio servisse a salvare vite umane e a evitare altri
spargimenti di sangue, sarebbe una soluzione accettabile, anche se il
posto più consono per Gheddafi sarebbe l’aula di un tribunale
internazionale in cui rispondere dei crimini commessi contro il popolo
libico. Ma per come ho imparato a conoscerlo, non credo che Gheddafi
accetterà questa via di uscita. Gheddafi è un uomo che ha mostrato
che non vi è altra soluzione possibile per il popolo libico dicendo
“vi governo o vi uccido”. Si tratta di un uomo arrogante, pieno di sé,
convinto che tutto e tutti siano comprabili...Si tratta di vedere come
reagirà nel momento in cui si renderà conto che per lui è davvero
finita...».
Secondo Al Arabiya anche il capo dell'intelligence libica, Abu-Zayd
Durda, avrebbe lasciato il Paese per rifugiarsi in Tunisia...
«Altri personaggi di primo piano dell’establishment “gheddafiano”
seguiranno questa strada..». Quanto c’è di calcolo e quanto di
ripensamento in queste defezioni? «Il punto di rottura si è avuto
quando Gheddafi ha ordinato di aprire il fuoco contro il popolo che
reclamava diritti e democrazia. Allora occorreva schierarsi: c’è chi
ci ha messo più tempo, ma l’importante è che attorno a Gheddafi e ai
suoi figli si crei il vuoto. Ognuno può portare la sua motivazione
personale ma ciò che conta è condividere il progetto di abbattere il
regime per realizzare uno Stato democratico, pluralista...».
C’è chi ventila una spaccatura in due della Libia: lo Stato di
Cirenaica e quello di Tripolitania... «Non esiste. La Libia resterà
uno Stato unico, con Tripoli come sua capitale. Sarà varata una nuova
Costituzione e realizzate le condizioni per elezioni libere. La
transizione è già iniziata».
Lei è stato il ministro dell’Immigrazione. Dalla Libia continuano a
giungere a Lampedusa barconi pieni di uomini, donne, bambini...C’è chi
sostiene che sia un’arma innescata da Gheddafi per punire l’Italia del
suo «tradimento»...
«Non c’è solo questo. La Libia è un Paese di transito, che fino a
poco tempo fa ha funzionato, bene o male, da “tappo” per il
contenimento dell’immigrazione clandestina. Ora quel “tappo” è
saltato. Tornare al passato non solo è ingiusto: è impossibile.
Occorre ripensare dalle fondamenta una politica di cooperazione tra le
due sponde del Mediterraneo per far sì che si riducano il più
possibile le ragioni guerre, ingiustizie, povertà che spingono milioni
di persone a fuggire dai loro Paesi. La regolazione dei flussi
migratori non può essere un fatto di polizia. Gheddafi era diventato
una sorta di “gendarme” del Mediterraneo, e non è stato certo il solo
a giovarsene.... Questo ruolo finisce con lui. Nella Libia del futuro
non esisteranno più altri “Raìs-gendarmi”».
Corriere della Sera 1.4.11
Gelmini e gli insegnanti precari: «L’anno prossimo più assunzioni»
Il ministro vuole evitare i ricorsi. La decisione spetta a Tremonti
di Lorenzo Salvia
ROMA — L’apertura di un tavolo di confronto tra il ministero
dell’Istruzione e quello dell’Economia per accelerare l’assunzione a
tempo indeterminato degli insegnanti precari. A confermare la notizia è
lo stesso ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, rispondendo a
un’interrogazione alla Camera. A chiedere chiarimenti era stato il
Partito democratico, dopo la sentenza del tribunale del lavoro di
Genova che ha riconosciuto un risarcimento di mezzo milione di euro a
quindici insegnanti precari. «Credo che responsabilmente, insieme con
il sindacato e con tutte le forze politiche presenti in questo
Palamento — ha detto il ministro — dovremo certamente accelerare le
immissioni in ruolo possibili» e per questo «anticiperemo il numero
delle assunzioni che saremo in grado di fare per il prossimo anno» . Un
chiarimento importante, questo. Alcune assunzioni sono state fatte ogni
anno ma senza coprire il numero dei pensionati e quindi facendo
scendere l’organico complessivo visto il taglio di 135 mila posti
deciso con la Finanziaria del 2008. Adesso il tentativo è ottenere
qualche assunzione in più rispetto a quelle già programmate. Non è un
cambio di linea ma il tentativo di mettere i conti pubblici al riparo
da un possibile effetto a catena dopo la sentenza della settima scorsa.
Il giudice di Genova ha stabilito che il ricorso al precariato viola
una direttiva dell’Unione europea che obbliga gli Stati membri a
limitare l’uso dei contratti a termine al massimo per tre anni. Se
facessero ricorso tutti gli insegnanti nelle stesse condizioni di
quelli di Genova, stimati in circa 65 mila, il costo per lo Stato
sarebbe di 3 miliardi di euro. Da qui il tentativo di strappare qualche
altra assunzione portato al «tavolo di confronto con il ministero
dell’Economia» . Mettendo sul piatto quello che i tecnici del ministero
hanno suggerito nei giorni scorsi, che sindacati ed opposizione dicono
da mesi e che pure il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi,
pur non parlando del caso specifico della scuola, ha sostenuto qualche
tempo fa: in alcuni casi l’assunzione a tempo indeterminato dei precari
potrebbe far risparmiare lo Stato. Il «trucco» sarebbe quello di
assumere i precari nei posti che già adesso occupano «stabilmente» ,
coprendo cioè quelle cattedre che non restano scoperte all’inizio
dell’anno per le malattie lunghe o per le maternità ma per motivi che
si conoscono già da prima, come i distacchi dei politici, dei
sindacalisti, o per gli spezzoni di cattedra che non si incastrano fra
loro. Sono tanti, quasi 50 mila l’anno e si aggiungerebbero ai 70 mila
pensionamenti che dovrebbero arrivare nei prossimi tre anni come
ricorda il deputato del Pd Antonino Russo che ha consegnato alla
Gelmini una lettera firmata da 60 parlamentari di vari schieramenti per
chiederle di investire della questione l’intero Parlamento. Ma
l’accelerazione sulle assunzioni dei precari è solo una faccia della
medaglia, per altro tutta da verificare nei prossimi mesi visto che
l’ultima parola spetta come sempre a Giulio Tremonti. Gelmini ha
confermato che presenterà appello contro la sentenza di Genova,
ricordando che ci sono state anche sentenze di segno opposto a Viterbo,
Venezia e Perugia. Mentre è ormai pronto un emendamento alla legge
comunitaria per provare a confermare la specificità della scuola
nell’uso dei contratti a termine anche rispetto alle norme comunitarie
Repubblica 1.4.11
Domenica prossima Matthew Fox affiggerà 95 punti contro la Chiesa di oggi
Il teologo scomodo e le sue tesi "luterane"
di Vito Mancuso
Era il 31 ottobre 1517 quando Lutero inchiodava sul portone della chiesa di Wittenberg le 95 tesi contro le indulgenze papali dando origine alla Riforma protestante. All´indomani dell´elezione di Joseph Ratzinger al soglio pontificio il 19 aprile 2005, il teologo americano Matthew Fox inchiodava sul medesimo portone di Wittenberg altre 95 tesi contro il papato di oggi. E dopo Wittenberg, ora è la volta di Roma. Fox infatti si trova nella capitale per un dibattito con me (domenica alle 12) nel contesto della rassegna «Libri Come» attorno al suo libro In principio era la gioia (Fazi) a seguito del quale egli venne costretto a lasciare l´ordine domenicano dopo 34 anni di permanenza dietro pressione dell´allora cardinal Ratzinger in qualità di Prefetto della «Congregazione per la Dottrina della Fede», e a Roma, presso un´importante basilica, Fox ripeterà il simbolico gesto di Lutero. Ma c´è ancora bisogno di un gesto così e di altre 95 tesi?
Il luogo scelto da Fox è Santa Maria Maggiore (domenica alle 10), il cui arciprete è Bernard Francis Law, cardinale e già arcivescovo di Boston, rimosso nel 2002 per aver insabbiato numerosi casi di pedofilia e nominato nel 2004 da Giovanni Paolo II titolare dell´antica basilica romana, nonché membro attualmente di sette congregazioni vaticane. C´è ancora bisogno delle 95 tesi? Il lettore legga le tesi 8 e 68 e risponderà da sé. Qualche giorno fa in seguito al terremoto in Giappone un cattolico «doc» quale Roberto De Mattei (vicepresidente del Cnr!) dai microfoni di Radio Maria ha dichiarato che le catastrofi naturali sono un´esigenza della giustizia di Dio. C´è ancora bisogno delle 95 tesi? Il lettore legga le tesi 4 e 5 e risponderà da sé.
Dopo l´apertura di Benedetto XVI sull´uso dei preservativi nel libro-intervista Luce del mondo del novembre 2010 dove il papa li giudica un «primo atto di responsabilità», la Congregazione per la Dottrina della Fede si è affrettata a distanza di un mese (velocità supersonica per la curia romana) a pubblicare un documento per dire che non c´è nulla di nuovo e che i preservativi rimangono intrinsecamente cattivi come sono sempre stati. C´è ancora bisogno delle 95 tesi? Il lettore legga le tesi 70 e 71 e risponderà da sé. Gli esempi potrebbero continuare, ma il centro della questione è che il mondo manifesta a chi lo sa leggere un grande bisogno di spiritualità che l´offerta religiosa tradizionale non riesce talora neppure a comprendere. Matthew Fox non offre un nuovo vangelo né le sue 95 tesi pretendono di essere infallibili. È solo un onesto, attuale e simpatico tentativo di tornare a far capire alla coscienza contemporanea quali grandi ricchezze sono in gioco nella spiritualità. Il lettore legga la tesi 46 e vedrà da sé il dischiudersi di grandi orizzonti vitali.
Corriere della Sera 1.4.11
Stalin e gli ebrei. Storia di una ossessione
Sergio Romano risponde a Luciano Canfora
Mi pare di cogliere nella sua risposta a un lettore una lieve
imprecisione. L’Urss non aveva solo «favorito la nascita» di Israele ma
era stata determinante alle Nazioni Unite quando si votò nel novembre
1947 la Risoluzione 181. Si ebbero allora 33 voti a favore, 13 contro e
10 astenuti. Cinque dei 33 furono Urss, Ucraina, Bielorussia, Polonia e
Cecoslovacchia e furono decisivi. Se fossero passati nel campo avverso
(tale fu il Regno Unito), il risultato sarebbe stato di parità e
Israele non sarebbe nato. «L’antisemitismo» , aveva detto Stalin in un
suo intervento di qualche anno precedente, «è la più pericolosa eredità
del cannibalismo» . Il libro di Mlecin «Perché Stalin creò Israele»
(Sandro Teti Editore, con postfazione di Enrico Mentana e di Moni
Ovadia) fa giustizia di molti luoghi comuni. Nel 1948 senza le armi
cecoslovacche il neonato Israele sarebbe stato travolto dagli Stati
arabi armati dagli Inglesi. Il deterioramento dei rapporti Urss-Israele
avvenne negli anni seguenti fino all’insensato processo ai medici. Ma
il vero mutamento di strategia non va riferito agli ultimi anni di
Stalin bensì all’irresponsabile terzomondismo filoarabo di Krusciov e
dei suoi successori.
Luciano Canfora, Bari
Caro Canfora, Ho sempre pensato che le nostre rispettive opinioni su
Stalin fossero meno radicalmente diverse di quanto possa apparire a
prima vista. Ammiro l’uomo che ha creato lo Stato sovietico, l’economia
sovietica e vinto la Seconda guerra mondiale. Non è necessario essere
comunisti per riconoscere che fu una personalità per molti aspetti
ciclopica. Ma sulla sua diffidenza per gli ebrei e sulle ragioni per
cui riconobbe lo Stato d’Israele non ho dubbi. Dei quattro Paesi
dell’Europa centro-orientale che votarono con l’Urss, l’Ucraina e la
Bielorussia erano soltanto una finzione giuridica, concordata a Yalta
per strappare a Stalin un accordo sullo statuto dell’Onu; mentre la
Cecoslovacchia e la Polonia erano ancora occupate dall’Armata Rossa.
Stalin sostenne Israele perché la sua esistenza era un colpo all’impero
britannico, ma l’entusiasmo con cui gli ebrei di Mosca accolsero Golda
Meir, primo ambasciatore d’Israele in Unione Sovietica, insinuò nella
sua mente patologicamente sospettosa la convinzione che gli ebrei
sovietici avrebbero sempre avuto, nel loro cuore, una seconda patria.
La pretestuosa campagna contro i medici ebrei, sospettati di
complottare l’assassinio della dirigenza sovietica, fu la versione
moderna dei processi in cui, nell’Europa medioevale, gli ebrei venivano
accusati di omicidi rituali; e si sarebbe conclusa, probabilmente, con
il trasferimento forzato di tutto l’ebraismo russo nelle pianure
siberiane. Ma già negli anni precedenti, dopo la rottura con la
Jugoslavia di Tito, Stalin aveva avviato un’operazione che si proponeva
anzitutto di stroncare il contagio della eresia titina, ma anche di
ridurre drasticamente la componente ebraica nelle dirigenze comuniste
dei Paesi satelliti. Laszlo Rajk, ministro degli Esteri ungherese,
processato nel 1949 e condannato a morte, era ebreo. Rudolf Slanskij,
segretario generale del partito comunista cecoslovacco, condannato a
morte nel 1952, era ebreo come altri dieci dei 14 imputati della
vicenda di cui fu protagonista. Nei giorni del processo, Rude Pravo,
quotidiano del partito, definì il sionismo «nemico numero uno della
classe operaia» . E durante il processo vi furono allusioni frequenti
ai legami fra l’ebraismo e gli Stati Uniti a profitto dello Stato
d’Israele. Più tardi l’antisionismo servì all’Urss per meglio
conquistare l’amicizia dei Paesi arabi. Ma dalla fine degli anni
Quaranta all’inizio degli anni Cinquanta fu una delle personali
ossessioni di Stalin.
Corriere della Sera 1.4.11
Simbolo e psiche per Mario Trevi
di Silvia Vegetti Finzi
Con la morte di Mario Trevi, nato ad Ancona nel 1924, scompare un
grande maestro della psicologia italiana e junghiana in particolare.
Laureato in Filosofia, aveva sostenuto il training didattico con Ernst
Bernhard. Era stato tra i fondatori della Associazione italiana per lo
studio della psicologia analitica (1960) e del Centro italiano per la
psicologia analitica (1966). La sua opera fondamentale è Per uno
junghismo critico (Bompiani, 1987). Il suo sguardo, critico e
razionale, si è rivolto soprattutto contro una lettura naturalista ed
essenzialista della teoria junghiana che, reificando i concetti,
promuove inaccettabili atteggiamenti dogmatici o mistici. Di contro ha
valorizzato gli spunti epistemologici di Jung, anticipatori
dell’attuale epistemologia della complessità. Secondo Trevi la
psicologia, intermedia tra natura e cultura, si colloca tra le
discipline storiche ed ermeneutiche. L’ermeneutica, negando
l’obbiettività dei fenomeni osservati, interroga innanzitutto l’uomo
sulla sua condizione di interrogante. Quando noi comprendiamo qualche
cosa siamo già compromessi da una precomprensione che è frutto della
nostra epoca, della nostra educazione, della nostra particolare visione
del mondo. La conoscenza umana deve accontentarsi di cogliere il
probabile e il verosimile. La psicologia pertanto non sarà mai una
teoria dell’uomo, un’antropologia perenne e assoluta, ma una proposta
relativa, che vale in quel momento storico, in quelle circostanze.
Attento ai fenomeni sociali, Trevi respinge però la pretesa di ricavare
da Jung una precisa ipotesi sociologica, privilegiando piuttosto la
dialettica tra il processo di individuazione e quello di
socializzazione, tra l’inconscio individuale e l’inconscio collettivo.
Solo la somma dei cambiamenti individuali, sostiene, può provocare
cambiamenti sociali. «Non è il cosiddetto inconscio collettivo — scrive
— l’apporto originale di Jung, bensì l’inconscio creativo» , vale a
dire l’inconscio come sede dell’attività simbolica, sintesi degli
opposti non contraddittori. Il simbolo è vivo finché è pregno di
significato e rinvia a qualche cosa di ignoto. Mentre per Freud il
simbolo media e riequilibra il rapporto tra inconscio e conscio, per
Jung apre un campo di tensioni, di trasformazioni. È creativo nel senso
che agisce verso un orizzonte irraggiungibile e si trasforma in mero
segno una volta espresso il suo potenziale di senso. Il simbolo è una
istanza operativa perché promuove lo sviluppo dell’uomo, in vista di
quel processo di individuazione che sostituisce quello di guarigione.
L’individuazione, che conduce dal Sé all’Io, dischiude la coscienza
razionale dell’uomo. Il Sé contiene tutte le possibilità umane,
mitologicamente rappresentate dalla divinità. In un primo movimento va
superato per la costruzione dell’Io ma deve essere poi recuperato in
quanto costituisce il luogo in cui si attiva la creatività, in cui
nasce l’utopia. La realizzazione di sé comporta l’attivazione di
entrambe le istanze in vista del raggiungimento dell’autenticità, di
ciò che ciascuno è. Il privilegio concesso da Trevi agli aspetti
creativi, fa sì che egli intenda i processi di conoscenza e di
trasformazione della psiche, non come una tecnica, ma come un’arte, un
esercizio inesauribile dell’interpretazione. Venuta meno la storica
contrapposizione tra Freud e Jung, le varie «psicologie» sono tutte
vere, purché coerenti con le loro premesse. Questa apertura
«illuminista» ha costituito una grande opportunità per la cultura
psicologica italiana, tanto nell’ambito teorico quanto in quello
clinico.
Repubblica 1.4.11
L'analista, seguace critico di Jung, è morto ieri a Roma. Aveva 87 anniAddio a mario trevi Maestro dell´anima
Tra i suoi libri anche un dialogo col figlio Emanuele tra memoria, ironia e intimità
ROMA È morto all´alba di ieri Mario Trevi, il grande psicoanalista
junghiano, uno studioso di prim´ordine, eppure tutt´altro che una
celebrità, per quella sua inclinazione alla riservatezza che tanto
strideva in un mondo affollato di presenzialisti. Terapeuta amatissimo,
per indole e per scelta è stato un personaggio del tutto refrattario
alle sirene mediatiche. "Vivi nascosto", era il frammento di Epicuro
che ha seguito con rigore inflessibile. Ogni tanto cedeva alla
richiesta di un´intervista: forse per una qualche civetteria,
certamente per quella gentilezza che era un altro tratto dominante del
suo stare al mondo. Era nato ad Ancona il 3 aprile del ´24, dopodomani
avrebbe compiuto ottantasette anni.
Di controtendenza è stato lo junghismo che Trevi ha riproposto in una
chiave brillante, innovativa, nel segno dell´originalità. Del resto,
lui amava il maestro svizzero più empirico, critico, ermeneutico,
probabilista - il teorico di quel "principio di individuazione" che
tende a differenziare il singolo dagli stereotipi collettivi, a
permettergli di adeguarsi ai valori culturali con un´impronta
personale. Ha invece detestato lo stregone misticheggiante, il profeta
oscuro che ha creduto di scoprire il fondo dell´anima. Trevi era
tutt´altro che rapito dall´enfasi per l´inconscio collettivo o per gli
archetipi - quelle enigmatiche immagini originarie espresse
principalmente nei miti e nelle fiabe. Tanto meno lo incantavano certe
forme di religiosità neopagana costruite intorno al concetto del "Sé",
un´entità a cui assegnava lo stesso peso metafisico dell´anima
platonico-cristiana. A questa corrente neojunghiana deteriore,
disinvolta e accattivante nel suo confuso misticismo, Trevi è stato del
tutto estraneo - anzi allergico.
Per averne un´idea, basta scorrere i titoli dei suoi libri più
importanti (ma ogni suo lavoro, anche minore, era un´avventura del
pensiero): da Metafore del simbolo a L´altra lettura di Jung usciti da
Cortina, da Per uno junghismo critico (Bompiani) ai Saggi di critica
neojunghiana (Feltrinelli). Sono studi rigorosissimi, specchi in cui
rimane riflessa l´eleganza della sua mente - compresa l´introduzione a
L´io e l´inconscio di Jung per Bollati Boringhieri - e dove si colgono
nettamente le tracce dei suoi due maestri.
Il primo è stato un personaggio decisamente eccentrico, Ernst Bernhard,
più guru che psicoterapeuta di una folta schiera di artisti e
intellettuali come Federico Fellini, Giorgio Manganelli, Natalia
Ginzburg... Di Bernhard, il medico tedesco ed ebreo che ha introdotto
in Italia la psicologia analitica, Trevi è stato paziente e poi allievo
fino al ´65, l´anno della scomparsa del brillante seguace di Jung. Il
secondo maestro è stato invece indiretto, ma decisivo: si parla di Karl
Jaspers, tra i grandi filosofi del secolo scorso, il geniale autore di
quella Psicopatologia generale che ha voltato le spalle alla
psichiatria organicistica.
«Ok, papà, inizia la tortura...»: un gioiellino a sé rimane quella
conversazione - sul filo della memoria, dell´intimità, dell´ironia -
con il figlio, lo scrittore Emanuele Trevi. In Invasioni controllate
(Castelvecchi, 2007), lo studioso indulge alla tenerezza paterna, ma
accentua la spregiudicatezza intellettuale. Qui il lettore meno
interessato alla produzione saggistica potrà cogliere con facilità - e
senz´altro con più emozione - la qualità anche umana di Mario Trevi.
Quel suo sguardo aperto, tollerante, profondamente laico nei confronti
del mondo e del sapere psicoanalitico, il rifiuto dei pensieri rigidi e
immutabili, delle tante scuole e scuolette.
«Arrivato alla tua età, senti di aver raggiunto una qualche forma di
saggezza?», gli chiede Emanuele. E lui: «Non penso di essere diventato
né un saggio né un santo... Non è che ho una grande stima di me
stesso». Arrivato alla sua età, era il successo letterario del figlio
la soddisfazione più grande, la consolazione più intima. Era così
dolce, nella voce e nel sorriso, quando notava: «Sono passato dalla
fase in cui dicevano a Emanuele: ah, tu sei il figlio di Mario Trevi,
alla fase in cui mi dicono: ah, lei è il padre di Emanuele Trevi... Che
effetto mi fa? Mi fa l´effetto di scomparire, molto molto felicemente».
A dispetto dell´età, Trevi ha continuato a lavorare nel suo studio ai
Parioli che in un certo senso gli somigliava per sobrietà: lì
incontrava i pazienti, lì si appartava con i suoi pensieri. Ma il luogo
che amava di più, forse era un altro: una casetta, una "capanna" di
trentacinque metri quadri, che affaccia sul lago di Trevignano. Lì si
occupava del giardino, e poi cucinava.
Alle 11.30 di questa mattina, presso la Facoltà valdese di Teologia
(via Pietro Cossa, 42), Mario Trevi sarà commemorato nel modo in cui
desiderava. Ci saranno un paio di letture dei suoi scritti, e poi la
musica, l´adagio di un quartetto di Beethoven.