l’Unità 1.4.11
Il segretario del Pd: l’8 aprile manifestazioni in quattro grandi città. Bindi: non penso all’Aventino
Allarme per l’informazione: «Il governo prepara una stretta», appello a Udc, Api, Fli e Idv
Bersani: «Faremo in battaglia in Parlamento e nelle piazze». E ai leader dell’opposizione dice: «Il governo prepara una stretta sull’informazione, vi invito ad un’azione comune per realizzare uno strumento di controllo».
di Maria Zegarelli
Una crisi politico-istituzionale come poche altre ce ne sono state prima, regole che saltano, il parlamento che si trasforma in un ring e volano giornali, insulti irripetibili, mentre ministri e onorevoli si esprimono neanche fossero espressione della peggiore feccia. Intanto il governo impone la prescrizione breve al parlamento per salvare il presidente del Consiglio dal processo Mills e prepara la stretta finale sull’informazione in vista delle elezioni amministrative di maggio e, soprattutto, delle elezioni politiche. E l’opposizione? «Chiedo all’opposizione unità e tenuta», invita il segretario Pd Pier Luigi Bersani che ieri ha inviato una lettera ai leader dei partiti di minoranza per affrontare quella che secondo l’ex ministro è una vera e propria emergenza democratica. Per Bersani si deve «realizzare uno strumento di controllo sull’equilibrio politico in particolare dei telegiornali e dei programmi di intrattenimento, per presidiare, in modo incisivo e tempestivo, questa delicatissima fase», perché «sembra evidente che il governo sta predisponendo un’ulteriore stretta sull’informazione, a partire dai telegiornali, così da oscurare le opposizione e da condizionare la fase politica e il prossimo appuntamento elettorale». A Casini, Bocchino, Rutelli e Di Pietro, Bersani propone «un’iniziativa comune, pur nel pieno riconoscimento delle differenze politiche», da delineare nel corso dell’incontro dei responsabili dell’informazione dei vari partiti in programma per il 7 aprile. Di Pietro si dice disposto, «l’opposizione mai è stata unita come in questo momento in Parlamento», dunque bene il comitato di controllo.
QUALE OPPOSIZIONE
Ma se l’opposizione in Aula marcia in un’unica direzione, nel Pd il dibattito sul come si deve procedere dentro e fuori il Parlamento è agitato. Aventino, dimissioni in blocco, oppure lotta dura e pura dai banchi di minoranza e nelle piazze?
Costretta Rosy Bindi a chiarire il senso delle sue parole: «Non ci sono
tentazioni “aventiniane” e il partito non è diviso, come qualche resoconto di stampa vorrebbe far credere. Non ho proposto di abbandonare il Parlamento. anche se andrebbe ricordato che in altre occasioni siamo usciti dalle aule senza che questo provocasse polemiche. Piuttosto ho sottolineato che di fronte a una situazione che non ha nulla di normale la nostra risposta deve altrettanto eccezionale». Secondo la presidente Pd serve un’azione forte concordata tra opposizioni e movimenti anche fuori dalle Camere, come manifestazioni in tutte le città. Massimo D’Alema smentisce la «lite» con Bindi, solo opinioni diverse, anche se «il rinvio del processo breve dimostra che era giusto stare in Aula». Bersani cerca di fare sintesi: «Il partito non deve mollare alcun presidio», in prima linea fuori e dentro il parlamento perché «gli aventini li abbiamo già visti...». Dai microfoni del Tg2, sottolineando come il tentato «blitz» della maggioranza sul processo breve sia fallito e annuncia che il Pd l'8 aprile parteciperà alle notti bianche per la scuola e la democrazia in 4 grandi città italiane.
Intanto Ignazio Marino propone le dimissioni in blocco di tutti i parlamentari per arrivare allo scioglimen-
to delle Camere, mentre per Franco Marini è «meglio lo scontro dentro il Parlamento», «un colle triste, l’Aventino», aggiunge, «e non porta nemmeno fortuna». Arturo Parisi incalza il segretario: «È d’accordo con Bindi che la “dittatura imposta dalla maggioranza” merita come risposta forte “un presidio permanente avanti a Montecitorio? Che l’astensione del Pd sul Federalismo regionale è stato un errore? Che la non partecipazione ai lavori parlamentari , può essere più diretta, di una partecipazione che non incide e spesso si rivela inutile?». Di parere opposto Paolo Gentiloni, Modem: «Noi dobbiamo fare le nostre battaglie in parlamento, al Pd non manca l’indignazione, manca l’alternativa». Intanto Beppe Fioroni fa sapere che non parteciperà al seminario del Pd sulla forma di partito.
Repubblica 1.4.11
Il centrosinistra protesterà a Montecitorio in occasione del voto sul processo breve e dell´udienza per il caso Ruby
Bersani: "Siamo riusciti a fermarli battaglia nelle piazze e in aula"
di Goffredo De Marchis
ROMA - «In piazza e in Parlamento», dice Pier Luigi Bersani. Opposizione ordinaria alla Camera e al Senato. "Straordinaria" con le mobilitazioni dei partiti e della società civile. «Saremo accanto a tutti i movimenti», annuncia il segretario del Pd. Senza abbandonare le aule parlamentari, senza rinunciare alla "guerriglia" sulle leggi, ai blitz dei voti in cui la maggioranza viene battuta, al ruolo di minoranza che combatte emendamento per emendamento. Bersani media sulla linea da seguire contro i colpi di coda di Berlusconi: il processo breve, i gestacci di La Russa, il caso Ruby. Per martedì e mercoledì prossimo - quando si voterà il conflitto di attribuzione sul processo Ruby, si voterà il processo breve e inizierà il processo Ruby a Milano - il Pd si sta organizzando per manifestare davanti a Montecitorio. Ma l´Aventino no. «Lo abbiamo già visto una volta...», commenta. E Dario Franceschini avverte: «Finché sarò io il capogruppo, non usciremo dall´aula». Massimo D´Alema sentenzia: «Si dimostra oggi che era giusto restare in aula, fare opposizione in Parlamento si è rilevato efficace».
Sono pezzi di un dibattito aperto nel Pd sulla strategia per contrastare il premier, «per comunicare meglio la nostra partita contro il Cavaliere», ha detto Rosy Bindi. La più esplicita nel dire che «la proposta non è l´Aventino». Ma a volte «la non partecipazione al voto è più chiara della partecipazione». E che l´abbandono dell´aula del resto non è una novità nella tattica parlamentare del Pd. «Va ricordato che è già successo senza che questo provocasse polemiche», sottolinea la Bindi. L´ultimo esempio è recentissimo, «quando i senatori democratici hanno lasciato il loro posto in occasione delle comunicazioni del ministro Frattini sulla casa di Montecarlo». La presidente del Pd trova una sponda forte in Ignazio Marino. «Aventino? No, molto di più: i deputati dell´opposizione si dimettano in massa». Ma queste voci di dissenso oltranzista non trovano terreno fertile nel Pd. Persino un gruppo di deputati vicini a Marino bacchettano la linea più dura: «Veniamo da due giorni vincenti. Abbiamo messo sotto il governo, lo abbiamo costretto al rinvio del processo breve. Così si fa opposizione in Parlamento, altre strada sono inconsistenti». Firmato: Concia, Meta, Gozi, Calipari e altri. La strada che viene definita "dipietrista" non piace neanche all´area di Veltroni, Fioroni e Gentiloni. Lo fa capire con grande chiarezza l´ex segretario del Pd: «Se esiste ancora il berlusconismo è anche colpa del centrosinistra incapace di costruire un´alternativa che vada oltre l´antiberlusconismo». Parole che certo non evocano piazze o presidi permanenti. Ma Arturo Parisi apprezza le parole nette di Bindi nell´intervista a Repubblica: «In gran parte non le condivido, ma evocano una condotta chiara. Cosa risponde Bersani?».
Bersani indica la via della «piazza e del Parlamento». «Dobbiamo stare in tutti e due i luoghi. Combatteremo alla Camera anche martedì sul conflitto di attribuzione per il processo Ruby. Prepariamo le notti bianche l´8 aprile su scuola e democrazia. A Napoli, Torino, Milano e Bologna». Così il Pd ricuce le divisioni. E Bersani spedisce una lettera a Casini e Di Pietro per un´azione comune della minoranza sui tg Rai: monitoraggio costante per denunciare omissioni e censure. La replica dell´Udc e dell´Idv è positiva. «Aderiamo», dice il centrista Roberto Rao. L´opposizione prova a marciare unita.
Corriere della Sera 1.4.11
Deriva pericolosa
di Michele Ainis
Una roba così non era mai successa. Il capo dello Stato che convoca i capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede conto dei fatti e dei misfatti. D’altronde non era mai successo nemmeno il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi dell’Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo destino per votare un’inversione dell’ordine del giorno in Parlamento. Dall’altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra, contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto, nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti dell’opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che osa esibire il suo faccione. Diciamolo: la nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti percentuali, per Ispo il 73%dei nostri connazionali disprezza il Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo di battaglia. Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come il giornale lanciato in testa al presidente Fini. Ma non è soltanto una questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi in guerra. Una risposta c’è: perché sono logori, perché hanno perso autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti. Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo. Guardateli, non c’è bisogno d’elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre istituzioni. Da qui l’urlo continuo, come quello di un insegnante che non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari. Ma da qui, in conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato. D’altronde non sarà affatto un caso se l’istituzione più popolare abita sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il presidente simboleggia per l’appunto l’unità nazionale, così c’è scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un ricambio dei signori di partito, con un’iniezione di forze fresche nel corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo) le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.
Corriere della Sera 1.4.11
Il Pd «di piazza» teme di perdere l’Udc
Casini resta lontano dai manifestanti. E sul caso Tedesco rischiano di esplodere le contraddizioni
di Maria Teresa Meli
ROMA— Ora che la maggioranza è stata bloccata alla Camera Massimo D’Alema può ben dire: avevo ragione io. «Si dimostra che era giusto restare in aula e fare opposizione» , afferma l’ex premier rispondendo implicitamente a Rosy Bindi e agli altri che avevano proposto l’Aventino. E Beppe Fioroni può prendersi lo sfizio di ironizzare sulla sua compagna di partito: «Non è ferrata in politica» . La stessa Bindi, annusata l’aria, ridimensiona le sue parole del giorno prima. E non solo è in Aula, ma presiede la seduta, non prima, però, di aver fatto la dura con un rappresentante del governo molto vicino a Berlusconi: «Cercate di darvi una regolata, sennò qui viene giù tutto» . Insomma, in questo giovedì in cui l'opposizione riesce a segnare un punto, l’ipotesi dell’Aventino scompare con rapidità, è un termine che nessuno vuole pronunciare più nel Pd, quasi fosse una parolaccia. Questo anche perché Giorgio Napolitano, che ieri ha convocato i capigruppo parlamentari, ha spiegato chiaramente che questo clima di rissa non può continuare a oltranza. Perciò i maggiorenti del Pd si danno un gran da fare a smussare e minimizzare. «Finché sarò io capogruppo non ci sarà nessun Aventino» , tuona Dario Franceschini. E quando Di Pietro annuncia che presenterà insieme al Partito democratico una mozione di sfiducia individuale nei confronti del ministro della Giustizia Angelino Alfano, da largo del Nazareno smentiscono. «Non mi risulta un’iniziativa del genere» , taglia corto il responsabile del settore Andrea Orlando. Dunque nel Pd sembrano riconoscersi tutti nelle parole di D’Alema e del segretario Bersani. Spiega il primo: «Oggi più che mai l’opposizione deve presidiare il Parlamento» . Annuncia il secondo: «Staremo nelle Aule e in piazza. E l’otto aprile faremo in quattro città le notti bianche della democrazia» . Ma questo non può nascondere il fatto che nel Partito democratico si fronteggiano da sempre due linee. Quella movimentista alla Bindi, appunto, e quella, per così dire, riformista che vede uniti, per una volta tanto, D’Alema e Veltroni. Quest’ultimo non esita a dire che «se esiste ancora il berlusconismo è perché il centrosinistra non è riuscito a costruire un’alternativa che vada oltre l’antiberlusconismo» . L’atto d’accusa di Veltroni cade proprio nel giorno giusto, nel giorno in cui il Pd più che alla piazza e alla folla che tira le monetine sembra dar retta al presidente della Repubblica. Del resto, andare appresso al popolo viola e ai dipietristi rischiava di tracciare un solco invalicabile tra il Partito democratico e i centristi dell’opposizione. In queste due giornate convulse l’atteggiamento di Pier Ferdinando Casini è stato assai diverso da quello, tanto per fare un nome, di Rosy Bindi. Duro nelle parole, il leader dell’Udc non ha però lisciato il pelo ai manifestanti e ha evitato atteggiamenti da tribuno o incitamenti alla piazza. Perciò, per recuperare quel rapporto e per tenere unite il più possibile le forze che in Parlamento contrastano la maggioranza di centrodestra, Pier Luigi Bersani propone di istituire un Osservatorio comune, con lo scopo di «fronteggiare l’oscuramento delle opposizioni» da parte del fronte berlusconiano. Ma c’è anche un’altra ragione che spinge i dirigenti del Pd a non accelerare sulla strada che inevitabilmente li porterebbe nelle braccia del leader dell’Idv Antonio Di Pietro. Una ragione con un nome e un cognome: Alberto Tedesco. Martedì prossimo il Senato si dovrà pronunciare sulla sorte del parlamentare del Pd inquisito dalla magistratura pugliese e non tutti i «democrats» sono favorevoli a concedere l’autorizzazione. Non a caso Bersani ha dichiarato che «non c’è nessuna indicazione di partito su questa vicenda» . Spingere da una parte sul pedale del giustizialismo per Berlusconi e, dall’altra, su quello del garantismo per Tedesco, non sarebbe opportuno e finirebbe per ritorcersi contro il Pd.
l’Unità 1.4.11
La Ue contro il reato di immigrazione clandestina
La Corte europea pronta a dichiarare illegittima la norma Sassoli, Pd: «È inaccettabile per l’Europa». Il bluff del governo che chiede aiuto ma non attiva la protezione temporanea
di Marco Mongiello
Il Governo italiano se la prende con Bruxelles per l’emergenza immigrazione, ma non utilizza i fondi europei a disposizione e non chiede di attivare il meccanismo di redistribuzione dei rifugiati. La richiesta l’ha dovuta fare Malta mercoledì, smascherando il bluff italiano lo stesso giorno in cui il ministro Frattini accusava di inerzia l’Unione europea. Tra qualche settimana inoltre la Corte di giustizia europea probabilmente dichiarerà illegittime le norme italiane sul reato di clandestinità, perché incompatibili con la direttiva sui rimpatri, fatta proprio da Frattini quando era commissario Ue alla Giustizia. «Sarà smontato il pacchetto sicurezza leghista del 2009 e torneranno liberi, finalmente, i 3118 detenuti extracomunitari in carcere solo per aver messo piede nel nostro paese. Per l’Europa questo è inaccettabile», ha commentato il capodelegazione Pd David Sassoli. Quanto ai soldi «sono già disponibili», ha ribadito Michele Cercone, portavoce del commissario Ue per gli Affari interni Cecilia Malmstrom. «Sono circa 80 milioni di euro per il 2010 e il 2011» e l’Italia può «riorientare la spesa dei fondi Ue già assegnati nel 2011 per finanziarie le misure di emergenza». Non è una questione di soldi, aveva replicato Frattini mercoledì, ma di redistribuire gli immigrati tra i Paesi membri. Una direttiva europea del 2001 infatti prevede la possibilità di attivare un meccanismo di protezione temporanea per i rifugiati di conflitti armati, ma per utilizzarla bisogna avere l’accordo delle maggioranza qualificata degli Stati membri, e soprattutto poi bisogna garantire una protezione di un anno, estendibile a due, ai rifugiati che oggi l’Esecutivo leghista vuole respingere o mettere in galera per reato di clandestinità. Per questo i ministri italiani sbraitano da Roma ma stanno zitti quando vanno a Bruxelles. «A Roma è in corso una approfondita valutazione sull’opportunità di attivare o meno la direttiva euro-
pea sulla protezione temporanea ha spiegato l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue È possibile che le condizioni ci siano, ma al momento non ci sono ancora». In ogni caso ora che la questione è stata sollevata dal governo maltese i ministri degli Interni ne discuteranno nella riunione in programma a Lussemburgo l’11 aprile.
Il meccanismo di solidarietà «va attivato all’interno dei governi. L’Italia, anziché abbaiare contro l’Europa, si dia da fare», ha esortato il vicepresidente dell’Europarlamento Gianni Pittella (Pd). Comunque la direttiva europea sulla redistribuzione degli immigrati, oltre a prevedere il contributo volontario degli altri governi, si applica solo ai rifugiati, quelli che hanno diritto a chiedere asilo perché scappano da situazioni di conflitto. In realtà «la vasta maggioranza delle persone che arrivano a Lampedusa sono migranti economici» ha ricordato Cercone «e solo il 15-20% chiede asilo».
l’Unità 1.4.11
Intervista a Ali Errishi
«Il raìs è rimasto solo. Ha i giorni contati ma non andrà in esilio»
L’ex ministro passato con i ribelli: «Le dimissioni del collega degli Esteri sono il segno della fine Italia attenta, non ci sarà un raìs gendarme del mare»
di U.D.G.
Il regime di Muammar Gheddafi ha i giorni contati. Attorno a lui si sta creando il vuoto. La riprova sono le dimissioni di Mussa Kussa». A sostenerlo è l’ex ministro libico per l’Immigrazione, Ali Errishi che si dimise pochi giorni dopo lo scoppio della rivolta in Libia a metà febbraio. Le dimissioni del ministro degli Esteri libico, considerato fino a pochi giorni fa uno degli uomini più vicini al Raìs, sono un «segno di come i giorni del regime sono contati. È la fine, è un colpo per il regime e i suoi seguaci. Gheddafi non ha più nessuno. È solo con i suoi figli», sottolinea Errishi. Sulla possibilità che Gheddafi possa accettare l’esilio, l’ex ministro appare alquanto scettico: «Per come ho imparato a conoscerlo dice a l’Unità mi sento di escluderlo. (Gheddafi) è un uomo che ha mostrato che non vi è altra soluzione possibile per il popolo libico dicendo “vi governo o vi uccido”». E a quanti in Occidente sostengono che l’azione militare internazionale sia stata affrettata, Ali Errishi ribatte seccamente: «Semmai è vero il contrario: gli Stati Uniti rileva l’ex ministro sono stati lenti nel sostenere l’opposizione libica perdendo forse l’occasione per far cadere il regime».
Qual è il segno politico delle dimissioni del ministro degli Esteri libico Mussa Kussa? «È il segno, pesantissimo, del vuoto che si sta facendo attorno a Gheddafi e ai suoi figli.Èilsegnodicomei giorni del regime sono contati. E forse quei giorni sarebbero già finiti se la Comunità internazionale non avesse ritardato il sostegno militare all’opposizione libica».
Vorrei restare sulle dimissioni di Kussa. Già prima vi erano stati numerosi e importanti defezioni, tra cui la sua. Al di là dell’importanza del ruolo che ricopriva, c’è un aspetto che rende le dimissioni di Kussa particolarmente significative?
«Non si tratta solo delle dimissioni di un ministro. Kussa era uno dei consiglieri di cui Gheddafi si fidava di più, oltre che legatissimo ai servizi di intelligence. È la fine del regime, Il regno brutale è sul punto di concludersi».
Tra le ipotesi ventilate per una soluzione del conflitto, c’è l’esilio del Raìs. Alcuni Paesi africani, come l’Uganda, sembrano disposti a concedere asilo a Gheddafi. Qual è la sua idea in proposito?
«Se l’esilio servisse a salvare vite umane e a evitare altri spargimenti di sangue, sarebbe una soluzione accettabile, anche se il posto più consono per Gheddafi sarebbe l’aula di un tribunale internazionale in cui rispondere dei crimini commessi contro il popolo libico. Ma per come ho imparato a conoscerlo, non credo che Gheddafi accetterà questa via di uscita. Gheddafi è un uomo che ha mostrato che non vi è altra soluzione possibile per il popolo libico dicendo “vi governo o vi uccido”. Si tratta di un uomo arrogante, pieno di sé, convinto che tutto e tutti siano comprabili...Si tratta di vedere come reagirà nel momento in cui si renderà conto che per lui è davvero finita...».
Secondo Al Arabiya anche il capo dell'intelligence libica, Abu-Zayd Durda, avrebbe lasciato il Paese per rifugiarsi in Tunisia...
«Altri personaggi di primo piano dell’establishment “gheddafiano” seguiranno questa strada..». Quanto c’è di calcolo e quanto di ripensamento in queste defezioni? «Il punto di rottura si è avuto quando Gheddafi ha ordinato di aprire il fuoco contro il popolo che reclamava diritti e democrazia. Allora occorreva schierarsi: c’è chi ci ha messo più tempo, ma l’importante è che attorno a Gheddafi e ai suoi figli si crei il vuoto. Ognuno può portare la sua motivazione personale ma ciò che conta è condividere il progetto di abbattere il regime per realizzare uno Stato democratico, pluralista...».
C’è chi ventila una spaccatura in due della Libia: lo Stato di Cirenaica e quello di Tripolitania... «Non esiste. La Libia resterà uno Stato unico, con Tripoli come sua capitale. Sarà varata una nuova Costituzione e realizzate le condizioni per elezioni libere. La transizione è già iniziata».
Lei è stato il ministro dell’Immigrazione. Dalla Libia continuano a giungere a Lampedusa barconi pieni di uomini, donne, bambini...C’è chi sostiene che sia un’arma innescata da Gheddafi per punire l’Italia del suo «tradimento»...
«Non c’è solo questo. La Libia è un Paese di transito, che fino a poco tempo fa ha funzionato, bene o male, da “tappo” per il contenimento dell’immigrazione clandestina. Ora quel “tappo” è saltato. Tornare al passato non solo è ingiusto: è impossibile. Occorre ripensare dalle fondamenta una politica di cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo per far sì che si riducano il più possibile le ragioni guerre, ingiustizie, povertà che spingono milioni di persone a fuggire dai loro Paesi. La regolazione dei flussi migratori non può essere un fatto di polizia. Gheddafi era diventato una sorta di “gendarme” del Mediterraneo, e non è stato certo il solo a giovarsene.... Questo ruolo finisce con lui. Nella Libia del futuro non esisteranno più altri “Raìs-gendarmi”».
Corriere della Sera 1.4.11
Gelmini e gli insegnanti precari: «L’anno prossimo più assunzioni»
Il ministro vuole evitare i ricorsi. La decisione spetta a Tremonti
di Lorenzo Salvia
ROMA — L’apertura di un tavolo di confronto tra il ministero dell’Istruzione e quello dell’Economia per accelerare l’assunzione a tempo indeterminato degli insegnanti precari. A confermare la notizia è lo stesso ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, rispondendo a un’interrogazione alla Camera. A chiedere chiarimenti era stato il Partito democratico, dopo la sentenza del tribunale del lavoro di Genova che ha riconosciuto un risarcimento di mezzo milione di euro a quindici insegnanti precari. «Credo che responsabilmente, insieme con il sindacato e con tutte le forze politiche presenti in questo Palamento — ha detto il ministro — dovremo certamente accelerare le immissioni in ruolo possibili» e per questo «anticiperemo il numero delle assunzioni che saremo in grado di fare per il prossimo anno» . Un chiarimento importante, questo. Alcune assunzioni sono state fatte ogni anno ma senza coprire il numero dei pensionati e quindi facendo scendere l’organico complessivo visto il taglio di 135 mila posti deciso con la Finanziaria del 2008. Adesso il tentativo è ottenere qualche assunzione in più rispetto a quelle già programmate. Non è un cambio di linea ma il tentativo di mettere i conti pubblici al riparo da un possibile effetto a catena dopo la sentenza della settima scorsa. Il giudice di Genova ha stabilito che il ricorso al precariato viola una direttiva dell’Unione europea che obbliga gli Stati membri a limitare l’uso dei contratti a termine al massimo per tre anni. Se facessero ricorso tutti gli insegnanti nelle stesse condizioni di quelli di Genova, stimati in circa 65 mila, il costo per lo Stato sarebbe di 3 miliardi di euro. Da qui il tentativo di strappare qualche altra assunzione portato al «tavolo di confronto con il ministero dell’Economia» . Mettendo sul piatto quello che i tecnici del ministero hanno suggerito nei giorni scorsi, che sindacati ed opposizione dicono da mesi e che pure il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, pur non parlando del caso specifico della scuola, ha sostenuto qualche tempo fa: in alcuni casi l’assunzione a tempo indeterminato dei precari potrebbe far risparmiare lo Stato. Il «trucco» sarebbe quello di assumere i precari nei posti che già adesso occupano «stabilmente» , coprendo cioè quelle cattedre che non restano scoperte all’inizio dell’anno per le malattie lunghe o per le maternità ma per motivi che si conoscono già da prima, come i distacchi dei politici, dei sindacalisti, o per gli spezzoni di cattedra che non si incastrano fra loro. Sono tanti, quasi 50 mila l’anno e si aggiungerebbero ai 70 mila pensionamenti che dovrebbero arrivare nei prossimi tre anni come ricorda il deputato del Pd Antonino Russo che ha consegnato alla Gelmini una lettera firmata da 60 parlamentari di vari schieramenti per chiederle di investire della questione l’intero Parlamento. Ma l’accelerazione sulle assunzioni dei precari è solo una faccia della medaglia, per altro tutta da verificare nei prossimi mesi visto che l’ultima parola spetta come sempre a Giulio Tremonti. Gelmini ha confermato che presenterà appello contro la sentenza di Genova, ricordando che ci sono state anche sentenze di segno opposto a Viterbo, Venezia e Perugia. Mentre è ormai pronto un emendamento alla legge comunitaria per provare a confermare la specificità della scuola nell’uso dei contratti a termine anche rispetto alle norme comunitarie.
Corriere della Sera 1.4.11
Stalin e gli ebrei. Storia di una ossessione
Sergio Romano risponde a Luciano Canfora
Mi pare di cogliere nella sua risposta a un lettore una lieve imprecisione. L’Urss non aveva solo «favorito la nascita» di Israele ma era stata determinante alle Nazioni Unite quando si votò nel novembre 1947 la Risoluzione 181. Si ebbero allora 33 voti a favore, 13 contro e 10 astenuti. Cinque dei 33 furono Urss, Ucraina, Bielorussia, Polonia e Cecoslovacchia e furono decisivi. Se fossero passati nel campo avverso (tale fu il Regno Unito), il risultato sarebbe stato di parità e Israele non sarebbe nato. «L’antisemitismo» , aveva detto Stalin in un suo intervento di qualche anno precedente, «è la più pericolosa eredità del cannibalismo» . Il libro di Mlecin «Perché Stalin creò Israele» (Sandro Teti Editore, con postfazione di Enrico Mentana e di Moni Ovadia) fa giustizia di molti luoghi comuni. Nel 1948 senza le armi cecoslovacche il neonato Israele sarebbe stato travolto dagli Stati arabi armati dagli Inglesi. Il deterioramento dei rapporti Urss-Israele avvenne negli anni seguenti fino all’insensato processo ai medici. Ma il vero mutamento di strategia non va riferito agli ultimi anni di Stalin bensì all’irresponsabile terzomondismo filoarabo di Krusciov e dei suoi successori.
Luciano Canfora, Bari
Caro Canfora, Ho sempre pensato che le nostre rispettive opinioni su Stalin fossero meno radicalmente diverse di quanto possa apparire a prima vista. Ammiro l’uomo che ha creato lo Stato sovietico, l’economia sovietica e vinto la Seconda guerra mondiale. Non è necessario essere comunisti per riconoscere che fu una personalità per molti aspetti ciclopica. Ma sulla sua diffidenza per gli ebrei e sulle ragioni per cui riconobbe lo Stato d’Israele non ho dubbi. Dei quattro Paesi dell’Europa centro-orientale che votarono con l’Urss, l’Ucraina e la Bielorussia erano soltanto una finzione giuridica, concordata a Yalta per strappare a Stalin un accordo sullo statuto dell’Onu; mentre la Cecoslovacchia e la Polonia erano ancora occupate dall’Armata Rossa. Stalin sostenne Israele perché la sua esistenza era un colpo all’impero britannico, ma l’entusiasmo con cui gli ebrei di Mosca accolsero Golda Meir, primo ambasciatore d’Israele in Unione Sovietica, insinuò nella sua mente patologicamente sospettosa la convinzione che gli ebrei sovietici avrebbero sempre avuto, nel loro cuore, una seconda patria. La pretestuosa campagna contro i medici ebrei, sospettati di complottare l’assassinio della dirigenza sovietica, fu la versione moderna dei processi in cui, nell’Europa medioevale, gli ebrei venivano accusati di omicidi rituali; e si sarebbe conclusa, probabilmente, con il trasferimento forzato di tutto l’ebraismo russo nelle pianure siberiane. Ma già negli anni precedenti, dopo la rottura con la Jugoslavia di Tito, Stalin aveva avviato un’operazione che si proponeva anzitutto di stroncare il contagio della eresia titina, ma anche di ridurre drasticamente la componente ebraica nelle dirigenze comuniste dei Paesi satelliti. Laszlo Rajk, ministro degli Esteri ungherese, processato nel 1949 e condannato a morte, era ebreo. Rudolf Slanskij, segretario generale del partito comunista cecoslovacco, condannato a morte nel 1952, era ebreo come altri dieci dei 14 imputati della vicenda di cui fu protagonista. Nei giorni del processo, Rude Pravo, quotidiano del partito, definì il sionismo «nemico numero uno della classe operaia» . E durante il processo vi furono allusioni frequenti ai legami fra l’ebraismo e gli Stati Uniti a profitto dello Stato d’Israele. Più tardi l’antisionismo servì all’Urss per meglio conquistare l’amicizia dei Paesi arabi. Ma dalla fine degli anni Quaranta all’inizio degli anni Cinquanta fu una delle personali ossessioni di Stalin.
Corriere della Sera 1.4.11
Simbolo e psiche per Mario Trevi
di Silvia Vegetti Finzi
Con la morte di Mario Trevi, nato ad Ancona nel 1924, scompare un grande maestro della psicologia italiana e junghiana in particolare. Laureato in Filosofia, aveva sostenuto il training didattico con Ernst Bernhard. Era stato tra i fondatori della Associazione italiana per lo studio della psicologia analitica (1960) e del Centro italiano per la psicologia analitica (1966). La sua opera fondamentale è Per uno junghismo critico (Bompiani, 1987). Il suo sguardo, critico e razionale, si è rivolto soprattutto contro una lettura naturalista ed essenzialista della teoria junghiana che, reificando i concetti, promuove inaccettabili atteggiamenti dogmatici o mistici. Di contro ha valorizzato gli spunti epistemologici di Jung, anticipatori dell’attuale epistemologia della complessità. Secondo Trevi la psicologia, intermedia tra natura e cultura, si colloca tra le discipline storiche ed ermeneutiche. L’ermeneutica, negando l’obbiettività dei fenomeni osservati, interroga innanzitutto l’uomo sulla sua condizione di interrogante. Quando noi comprendiamo qualche cosa siamo già compromessi da una precomprensione che è frutto della nostra epoca, della nostra educazione, della nostra particolare visione del mondo. La conoscenza umana deve accontentarsi di cogliere il probabile e il verosimile. La psicologia pertanto non sarà mai una teoria dell’uomo, un’antropologia perenne e assoluta, ma una proposta relativa, che vale in quel momento storico, in quelle circostanze. Attento ai fenomeni sociali, Trevi respinge però la pretesa di ricavare da Jung una precisa ipotesi sociologica, privilegiando piuttosto la dialettica tra il processo di individuazione e quello di socializzazione, tra l’inconscio individuale e l’inconscio collettivo. Solo la somma dei cambiamenti individuali, sostiene, può provocare cambiamenti sociali. «Non è il cosiddetto inconscio collettivo — scrive — l’apporto originale di Jung, bensì l’inconscio creativo» , vale a dire l’inconscio come sede dell’attività simbolica, sintesi degli opposti non contraddittori. Il simbolo è vivo finché è pregno di significato e rinvia a qualche cosa di ignoto. Mentre per Freud il simbolo media e riequilibra il rapporto tra inconscio e conscio, per Jung apre un campo di tensioni, di trasformazioni. È creativo nel senso che agisce verso un orizzonte irraggiungibile e si trasforma in mero segno una volta espresso il suo potenziale di senso. Il simbolo è una istanza operativa perché promuove lo sviluppo dell’uomo, in vista di quel processo di individuazione che sostituisce quello di guarigione. L’individuazione, che conduce dal Sé all’Io, dischiude la coscienza razionale dell’uomo. Il Sé contiene tutte le possibilità umane, mitologicamente rappresentate dalla divinità. In un primo movimento va superato per la costruzione dell’Io ma deve essere poi recuperato in quanto costituisce il luogo in cui si attiva la creatività, in cui nasce l’utopia. La realizzazione di sé comporta l’attivazione di entrambe le istanze in vista del raggiungimento dell’autenticità, di ciò che ciascuno è. Il privilegio concesso da Trevi agli aspetti creativi, fa sì che egli intenda i processi di conoscenza e di trasformazione della psiche, non come una tecnica, ma come un’arte, un esercizio inesauribile dell’interpretazione. Venuta meno la storica contrapposizione tra Freud e Jung, le varie «psicologie» sono tutte vere, purché coerenti con le loro premesse. Questa apertura «illuminista» ha costituito una grande opportunità per la cultura psicologica italiana, tanto nell’ambito teorico quanto in quello clinico.
Repubblica 1.4.11
L´analista, seguace critico di Jung, èmorto ieri a Roma. Aveva 87 anniAddio a mario trevi Maestro dell´anima
Tra i suoi libri anche un dialogo col figlio Emanuele tra memoria, ironia e intimità
ROMA È morto all´alba di ieri Mario Trevi, il grande psicoanalista junghiano, uno studioso di prim´ordine, eppure tutt´altro che una celebrità, per quella sua inclinazione alla riservatezza che tanto strideva in un mondo affollato di presenzialisti. Terapeuta amatissimo, per indole e per scelta è stato un personaggio del tutto refrattario alle sirene mediatiche. "Vivi nascosto", era il frammento di Epicuro che ha seguito con rigore inflessibile. Ogni tanto cedeva alla richiesta di un´intervista: forse per una qualche civetteria, certamente per quella gentilezza che era un altro tratto dominante del suo stare al mondo. Era nato ad Ancona il 3 aprile del ´24, dopodomani avrebbe compiuto ottantasette anni.
Di controtendenza è stato lo junghismo che Trevi ha riproposto in una chiave brillante, innovativa, nel segno dell´originalità. Del resto, lui amava il maestro svizzero più empirico, critico, ermeneutico, probabilista - il teorico di quel "principio di individuazione" che tende a differenziare il singolo dagli stereotipi collettivi, a permettergli di adeguarsi ai valori culturali con un´impronta personale. Ha invece detestato lo stregone misticheggiante, il profeta oscuro che ha creduto di scoprire il fondo dell´anima. Trevi era tutt´altro che rapito dall´enfasi per l´inconscio collettivo o per gli archetipi - quelle enigmatiche immagini originarie espresse principalmente nei miti e nelle fiabe. Tanto meno lo incantavano certe forme di religiosità neopagana costruite intorno al concetto del "Sé", un´entità a cui assegnava lo stesso peso metafisico dell´anima platonico-cristiana. A questa corrente neojunghiana deteriore, disinvolta e accattivante nel suo confuso misticismo, Trevi è stato del tutto estraneo - anzi allergico.
Per averne un´idea, basta scorrere i titoli dei suoi libri più importanti (ma ogni suo lavoro, anche minore, era un´avventura del pensiero): da Metafore del simbolo a L´altra lettura di Jung usciti da Cortina, da Per uno junghismo critico (Bompiani) ai Saggi di critica neojunghiana (Feltrinelli). Sono studi rigorosissimi, specchi in cui rimane riflessa l´eleganza della sua mente - compresa l´introduzione a L´io e l´inconscio di Jung per Bollati Boringhieri - e dove si colgono nettamente le tracce dei suoi due maestri.
Il primo è stato un personaggio decisamente eccentrico, Ernst Bernhard, più guru che psicoterapeuta di una folta schiera di artisti e intellettuali come Federico Fellini, Giorgio Manganelli, Natalia Ginzburg... Di Bernhard, il medico tedesco ed ebreo che ha introdotto in Italia la psicologia analitica, Trevi è stato paziente e poi allievo fino al ´65, l´anno della scomparsa del brillante seguace di Jung. Il secondo maestro è stato invece indiretto, ma decisivo: si parla di Karl Jaspers, tra i grandi filosofi del secolo scorso, il geniale autore di quella Psicopatologia generale che ha voltato le spalle alla psichiatria organicistica.
«Ok, papà, inizia la tortura...»: un gioiellino a sé rimane quella conversazione - sul filo della memoria, dell´intimità, dell´ironia - con il figlio, lo scrittore Emanuele Trevi. In Invasioni controllate (Castelvecchi, 2007), lo studioso indulge alla tenerezza paterna, ma accentua la spregiudicatezza intellettuale. Qui il lettore meno interessato alla produzione saggistica potrà cogliere con facilità - e senz´altro con più emozione - la qualità anche umana di Mario Trevi. Quel suo sguardo aperto, tollerante, profondamente laico nei confronti del mondo e del sapere psicoanalitico, il rifiuto dei pensieri rigidi e immutabili, delle tante scuole e scuolette.
«Arrivato alla tua età, senti di aver raggiunto una qualche forma di saggezza?», gli chiede Emanuele. E lui: «Non penso di essere diventato né un saggio né un santo... Non è che ho una grande stima di me stesso». Arrivato alla sua età, era il successo letterario del figlio la soddisfazione più grande, la consolazione più intima. Era così dolce, nella voce e nel sorriso, quando notava: «Sono passato dalla fase in cui dicevano a Emanuele: ah, tu sei il figlio di Mario Trevi, alla fase in cui mi dicono: ah, lei è il padre di Emanuele Trevi... Che effetto mi fa? Mi fa l´effetto di scomparire, molto molto felicemente».
A dispetto dell´età, Trevi ha continuato a lavorare nel suo studio ai Parioli che in un certo senso gli somigliava per sobrietà: lì incontrava i pazienti, lì si appartava con i suoi pensieri. Ma il luogo che amava di più, forse era un altro: una casetta, una "capanna" di trentacinque metri quadri, che affaccia sul lago di Trevignano. Lì si occupava del giardino, e poi cucinava.
Alle 11.30 di questa mattina, presso la Facoltà valdese di Teologia (via Pietro Cossa, 42), Mario Trevi sarà commemorato nel modo in cui desiderava. Ci saranno un paio di letture dei suoi scritti, e poi la musica, l´adagio di un quartetto di Beethoven.