sabato 16 aprile 2011

Corriere della Sera 16.4.11
«Evoluzionismo, una visione cieca della vita umana»
L’attacco al nazista Kolbenheyer
di Martin Heidegger


Ogni epoca e ogni popolo hanno la loro caverna e gli annessi abitanti della caverna. Anche noi oggi. E un caso esemplare di un odierno abitante della caverna, con il suo annesso plaudente seguito, è ad esempio il filosofo popolare e politico della cultura Kolbenheyer, che ieri si è esibito qui. Non mi riferisco al poeta Kolbenheyer, di cui ammiriamo il Paracelsus. Egli è vincolato alle ombre e le considera l’unica concretezza e l’unico mondo determinante; cioè pensa e parla nello schema di una biologia che ha conosciuto trent’anni fa— in un tempo in cui era di moda produrre visioni del mondo biologiche, cfr. Bölsche e i libri sul cosmo. Kolbenheyer non vede, non è capace di vedere e non vuole vedere: 1. che quella biologia del 1900 si fonda sull’impostazione di fondo del darwinismo e che questa dottrina darwinistica della vita non è qualcosa di assoluto, e nemmeno di biologico; piuttosto essa è determinata genituralmente dalla concezione liberale dell’uomo e della società umana, che dominava nel positivismo inglese nel secolo XIX; 2. che la sua biologia del plasma e della struttura cellulare e dell’organismo è radicalmente superata e che oggi viene alla luce una formulazione interamente nuova, fondamentalmente più profonda, della questione concernente la «vita» .— Scardinamento del concetto di organismo, che è soltanto una propaggine dell’«Idealismo» , soggetto singolare, «Io» , e soggetto biologico. Tempra di fondo: relazione con l’ambiente, e questa non è una conseguenza dell’adattamento, bensì al contrario la condizione d’attendibilità per esso; 3. che, sebbene la costitutiva determinazione della vita sia più originaria e più appropriata di quella del secolo XIX, anche in questo caso la vita (modo d’essere di pianta e animale) non costituisce la sovrana sfera d’integrità della concretezza; 4. che, sebbene, in una certa forma, la vita umano-fisica sia il fondo portante dell’umano essere e della sua successione di generazioni raccolte in stirpi, con ciò non è ancora provato che il fondo portante debba e anche soltanto possa essere anche il fondo determinante (...). 5. In fondo questo modo di pensare non si differenzia in niente dalla psicoanalisi di Freud e dalle sue consorterie. In fondo nemmeno dal marxismo, che prende il tratto genitural-spirituale come funzione del processo di produzione economico (...). 6. Sulla base della cecità di questo biologismo rispetto alla geniturale ed esistenziale concretezza di fondo dell’uomo o di un popolo, Kolbenheyer è incapace di vedere genuinamente e di comprendere l’odierna concretezza politico-geniturale tedesca; infatti, nella conferenza non ve ne è traccia — al contrario: la rivoluzione è stata falsificata come mera azienda organizzativa. 7. Qui monta il tipico atteggiamento di un borghese reazionario nazionale e popolaresco. Per quest’ultimo la «politica» è un’ignobile, fatale sfera che si lascia nelle mani di certe persone, che poi per esempio fanno la rivoluzione. Il borghese aspetta finché questo processo è finito perché arrivi nuovamente il suo turno; qui con il compito di fornire infine, ex post, lo spirito alla rivoluzione. Naturalmente per questa tattica ci si appella ad un motto del Führer: finita la rivoluzione, inizia l’evoluzione. Suvvia — non indugiamo in falsificazioni. Evoluzione — certamente, ma appunto dove la rivoluzione è finita.

Corriere della Sera 16.4.11
Nelle lezioni del ‘33 il filosofo avviò lo strappo da Hitler
di Armando Torno


Martin Heidegger cominciò presto a porsi domande sulla verità. In Essere e tempo — la prima edizione è del 1927 — si trovano le questioni di fondo della sua ricerca, in particolare egli fissava le coordinate per ristabilire il luogo ontologico nel quale la verità si costituisce. Notò, tra l’altro, che essa «deve avere pure qualcosa di valido se perdura» . Poi, nell’autunno-inverno 1930, terrà a Brema, Marburgo e Friburgo, e la ripeterà nell’estate del 1932 a Dresda, la conferenza L’essenza della verità, la medesima che sarà pubblicata soltanto nel 1943 e poi inclusa nell’opera Segnavia (tradotta da Adelphi nel 1987). Quel che si legge in questo breve testo è indispensabile per comprendere il corso universitario che il filosofo svolgerà a Friburgo nel semestre invernale 1931-32: le lezioni, dal 27 ottobre 1931 al successivo 26 febbraio, avevano come titolo L’essenza della verità (tradotte da Franco Volpi per Adelphi nel 1997). Dopo l’incarico a Hitler del 30 gennaio 1933, Heidegger è coinvolto nel nuovo clima e in marzo entra nella Comunità di lavoro politico-culturale dei docenti universitari, il 3 aprile in una lettera a Jaspers ribadisce la sua volontà di agire, il 3 maggio è tesserato (con la data del giorno 1) nel Partito nazionalsocialista, il 27 si celebra la sua nomina a rettore dell’Università di Friburgo. Il 30 giugno ad Heidelberg tiene la conferenza L’università nel nuovo Reich e Jaspers nella sua Autobiografia nota: «... anch’egli preso da quella ubriacatura...» . Il 3 novembre sul Bollettino universitario viene pubblicato il discorso d’inaugurazione del semestre nel quale Heidegger indica Hitler come punto di riferimento e l’ 11, a Lipsia, ribadisce le sue posizioni. —, ma in quei mesi sta accadendo qualcosa nella mente del filosofo. Nel semestre estivo del 1933 tiene un corso dal titolo Die Grundfrage der Philosophie, ovvero L’interroganza di fondo della filosofia. All’inizio la questione posta è sulla «nobiltà dell’istante geniturale» ; poi esamina, tra l’altro, le posizioni di Hegel, Kant, Descartes, Wolff, Baumgarten. Nell’ultima pagina si legge: «Il popolo tedesco non appartiene a quei popoli che hanno perso la loro metafisica» . Quel qualcosa che dicevamo prende forma nel corso del semestre invernale 1933-34, che ha come titolo Vom Wesen der Wahrheit, cioè Dello stanziarsi della verità. Già nel primo capitolo della parte prima, Heidegger invita a riflettere sulla «liberazione dell’uomo verso la luce d’origine» ma anche sulla condizione di chi si trova «nella caverna» , chiamando in causa quanto Platone scrive nel VII libro della Repubblica, quell’allegoria che immagina uomini incatenati in un antro e in grado di vedere sul fondo soltanto le ombre degli oggetti che scorrono davanti all’ingresso. Sono pagine densissime, che esaminano il bene, la libertà; soprattutto offrono riflessioni formidabili sulla verità. Ora, sia il corso del semestre estivo 1933 che quello invernale ricordato, vedono la luce in italiano con il titolo Che cos’è la verità? (da lunedì in libreria per Christian Marinotti Edizioni, pp. 336, e 30). Tradotti da Carlo Götz, tali scritti ebbero la prima edizione tedesca nel 2001 a cura di Hartmut Tietjen. In questa pagina anticipiamo uno stralcio che nel testo è posto in corsivo e reca il titolo A proposito del 30 gennaio 1933. È un attacco a Erwin Guido Kolbenheyer (1878-1962), scrittore o «filosofo popolare» che dir si voglia, molto letto e apprezzato nel Terzo Reich, dal 1933 funzionario culturale dell’Accademia prussiana delle arti. Heidegger è ancora rettore — rassegnerà le dimissioni alla fine di questo semestre invernale —, ma lo strappo è già avvenuto. E le sue parole, qui date in anteprima, ne sono la prova.

l’Unità 16.4.11
Restiamo umani
di Vittorio Arrigoni


Questa non è una guerra perché non ci sono due eserciti che si danno battaglia su un fronte; è un assedio unilaterale condotto da forze armate fra le più potenti del mondo, che hanno attaccato una misera Striscia di terra di 360 kmq, dove la popolazione si muove ancora sui muli. (da Gaza, 6 Gennaio 2009)
RISPOSTA    «Abbiamo visto girare l'angolo e dirigersi verso di noi, lentamente, un carretto carico di persone sospinto da un mulo. Una coppia con i suoi due figlioletti. Quando il carretto si è fatto abbastanza vicino e con orrore abbiamo visto un bimbo sdraiato con il cranio fracassato, gli occhi letteralmente saltati fuori dalle orbite, il suo fratellino con il torace sventrato (gli si potevano distintamente contare le costole bianche oltre i brandelli di carne lacera) e la madre che teneva poggiate le mani sul quel petto scoperchiato, come se cercasse di aggiustare qualcosa. È stato il nostro ennesimo personale lutto». Personale era, infatti, il lutto vissuto da Vittorio per lo strazio della guerra e da qui bisogna partire,credo, per capire il senso della sua presenza a Gaza e il perché di una morte dovuta, oggi, alla crudeltà cieca di quelli che usano gli orrori compiuti da altri solo per giustificare i loro. All’interno di una spirale di odio da cui Vittorio voleva tenersi fuori. Chiudendo la sua lettera con un «restiamo umani!» che era il suo messaggio per tutti noi e che è stato oggi la ragione della sua condanna a morte.

l’Unità 16.4.11
Intervista con Ahmed Yousef
«Lo ricorderemo tra i martiri del nostro popolo»
Il dirigente di Hamas sostiene che il gruppo salafita può essere stato infiltrato: «Solo Israele poteva avere un vantaggio da questo crimine»
di U. D. G.


Ho avuto l’onore di conoscere Vittorio Arrigoni. Ho imparato ad apprezzarne il coraggio, la disponibilità, lo spirito di sacrificio. So che anche in questi momenti terribili c’è chi ha pensato di infangarne la memoria dipingendolo come “amico di Hamas”. Non è così. Vittorio era amico del popolo palestinese, ne aveva abbracciato la lotta di liberazione. Ed era divenuto un esempio per quanti in Europa volevano impegnarsi per Gaza, battendosi contro l’assedio israeliano. Per questo Vittorio Arrigoni era diventato un bersaglio. Da eliminare. Vittorio è uno “shahid” (martire, ndr) e come tale sarà ricordato e onorato da tutti i palestinesi». A parlare è uno dei più autorevoli dirigenti di Hamas: Ahmed Yousef, consigliere politico del primo ministro del governo di Hamas, Ismail Haniyeh. Yousef è considerato un esponente dell’ala «pragmatica» di Hamas, spesso in aperta polemica con l’ala militarista e con quei gruppi dell’islamismo radicale armato palestinesi contigui ad Al Qaeda. Per questo la sua denuncia acquista una particolare valenza: «Abbiamo studiato la situazione e abbiamo capito che solo Israele poteva avere un vantaggio da un crimine di questo genere».
Vittorio Arrigoni è stato assassinato. A Gaza come in Cisgiordania sono in molti a piangerlo. Così in Italia. C’è chi sostiene che la sua uccisione sia una sfida ad Hamas e al suo «regno» a Gaza...
«L’assassinio di Vittorio è una sfida, un oltraggio a tutto il popolo palestinese. C’è chi ha interesse a gettare discredito sulla nostra lotta di liberazione, a dipingere Gaza come una giungla ingovernabile dove ogni abiezione è possibile. Per il suo impegno solidale, per le sue puntuali denunce dei crimini compiuti da Israele contro la popolazione di Gaza, prima, durante e dopo “Piombo Fuso”, Vittorio Arrigoni era diventato un testimone scomodo, un nemico da eliminare...».
Chi aveva questo interesse?
«Le ripeto ciò che ho avuto modo di dire ad altri suoi colleghi in queste ore: abbiamo studiato la situazione e abbiamo capito che solo Israele poteva avere un vantaggio da un crimine di questo genere. Israele vuole fermare tutti coloro che cercano di aiutare la gente della Striscia di Gaza. È stato così con l’assalto alla Freedom Flotilla. E ora la storia si ripete...». La sua è un’accusa pesante. Fondata su che cosa? Lei chiama in causa Israele, ma a rivendicare il rapimento di Arrigoni è stato un gruppo salafita palestinese...
«Le indagini sono in corso e nelle prossime ore potrebbero esserci sviluppi importanti...Probabilmente Israele è riuscito a infilitrarsi in questo gruppo e a commettere l’assassinio direttamente o in combutta con alcuni traditori. Questo è l'unico modo per intimorire le persone che vogliono venire a Gaza per solidarietà come il movimento di cui Vittorio faceva parte. La morte di Vittorio è stata particolarmente raccapricciante, ma Israele non è nuova a operazioni di depistaggio che servono a screditare i palestinesi e, al tempo stesso, eliminare persone ritenute scomode per il loro impegno, per il loro esempio. La strategia israeliana è chiara è chiara: dividere i palestinesi, conquistare i territori e danneggiare Hamas...».
Insisto ancora. Tra le ipotesi che vengono avanzate in queste ore, c’è che Vittorio Arrigoni sia rimasto vittima di un regolamento di conti tra fazioni palestinesi....
«Gaza come una giungla, in balia di abietti assassini, dove nessuno può dirsi al sicuro, neanche chi “gode della protezione di Hamas...”. Ecco l’immagine che si tenta di far passare agli occhi dell’opinione pubblica italiana della Striscia, della sua gente, di Hamas...Ma le cose non stanno così. E Vittorio lo sapeva bene...».
Ma non può negare che a Gaza agiscano gruppi salafiti...se vuole le faccio l’elenco. «Non c’è bisogno. Costoro non hanno nulla a che vedere con la resistenza palestinese, sono solo una banda di degenerati fuorilegge che vogliono seminare l'anarchia e il caos a Gaza. Ma neanche questi banditi si sarebbero spinti fino a questo punto...».
Ritorna l’accusa a Israele...
«Anche il più fanatico tra i palestinesi ricerca un consenso alle sue azioni. Uccidere Vittorio getta solo discredito...
E Israele lo sa bene».

il Fatto 16.4.11
“Adesso siamo terrorizzati ma restiamo a Gaza”
I compagni di “Vik”: “Israele ed europei sono i veri colpevoli”
di Alessandro Oppes


Hanno paura. Ma non hanno lasciato trascorrere neppure ventiquattr’ore dalla morte di Vittorio Arrigoni per confermare che loro, da Gaza, non se ne andranno. Anche a costo di dover intensificare ulteriormente le misure di sicurezza, raddoppiare la prudenza, imparare – sempre di più – a diffidare. Sono ancora sotto choc i circa trenta rappresentanti delle dieci ong italiane presenti nella Striscia, tutte impegnate proprio in queste settimane nell’avvio del programma d’emergenza finanziato in parte dal dipartimento Cooperazione della Farnesina (con un impegno economico sempre più scarso: appena 2 milioni quest’anno, contro i sei del 2010), da diversi donors europei e da associazioni della società civile italiana. Conoscevano tutti Vittorio, uno dei veterani tra i nostri cooperanti a Gaza, e sapevano bene che da tempo era nel mirino di gruppi dell’estrema destra israeliana, che avevano messo una taglia sulla sua testa. È per questo che ora che è morto, anche se la responsabilità viene attribuita a gruppi salafisti ostili ad Hamas, pensano che la domanda principale a cui si deve cercare di rispondere sia: “A chi fa comodo questa uccisione?”.
LO CONFERMA al Fatto Quotidiano una cooperante impegnata da parecchi anni a Gaza, e che chiede di mantenere l’anonimato per timore di ritorsioni: “Parliamoci chiaro, questa è una zona di sperimentazione militare. Si sa che la linea delle autorità israeliane è che non ci debbano essere testimoni per raccontare lo schifo che si svolge sotto i nostri occhi”. Tra gli attivisti delle ong, “nessuno si aspettava che i palestinesi avrebbero potuto commettere un orrore simile: non avevano mai ammazzato uno che sostiene la loro causa. Mai in 60 anni di cooperazione con il popolo italiano hanno fatto qualcosa del genere”. E allora, che cosa può essere accaduto? Si sa che il clima cominciò a degenerare a partire dalla vittoria di Hamas nel 2006: “Da quel momento si è andati verso uno scontro interno sempre più aspro. Abbiamo visto emergere personaggi che contribuivano a creare una situazione sempre più preoccupante. Ma non avevamo mai avvertito nessuna ostilità verso di noi”. Al di là delle divisioni interne al campo palestinese, riemerge quindi la domanda: “Chi c’è dietro? Chi ha interesse a soffiare sul fuoco?”. Gli unici a dare una risposta secca, carica di rabbia, sono proprio i compagni di Vittorio, i dirigenti dell’International Solidarity Movement: “Ci sono responsabilità precise, politiche e morali, dello Stato d’Israele, con la complicità del governo italiano , che è tra i suoi più fedeli e cinici alleati, dell’Europa, degli Stati Uniti e dei cosiddetti Paesi arabi moderati”, taglia corto Alfredo Tradardi, portavoce della sezione italiana dell’ong.
UN ATTACCO frontale, che provoca un certo imbarazzo tra i rappresentanti delle altre associazioni impegnate nel portare aiuto a Gaza. Per questo, tutte insieme, ieri hanno stilato un comunicato nel quale esprimono soprattutto una preoccupazione: che l’opinione pubblica “non operi la solita, banale equazione, fuorviante e controproducente, tra palestinesi, terroristi, Islam e fondamentalismi”. La vera urgenza, proprio nel momento più delicato, è che non si inceppi la macchina degli aiuti. A rimetterci, sarebbero le vittime di sempre, quelle che più hanno sofferto in questi anni: la popolazione di Gaza sotto-posta a un brutale assedio. “Non li possiamo abbandonare, ce lo chiedono a gran voce”.

l’Unità 16.4.11
16 anni e mezzo all’ad Espenhahn Condanne da 10 a 13 anni per gli altri dirigenti imputati
Fra le fiamme morirono in sette L’applauso dei parenti. Il pm Guariniello: «svolta epocale»
«Omicidio volontario» Giustizia per la Thyssen
Sentenza storica per il processo Thyssen. Il Tribunale di Torino accoglie la richiesta dell’accusa: fu omicidio volontario. 16 anni e mezzo per l’a.d. Espenhahn, condannati gli altri dirigenti. L’applauso dei familiari.
di Oreste Pivetta


Un quarto d’ora dopo le nove di sera, arriva la sentenza. La Corte di Assise di Torino riconosce che vi è stato omicidio volontario con dolo eventuale. I sette morti del rogo alla Thyssenkrupp, tre anni e mezzo fa, non sono stati un accidente legato all’imperizia degli stessi lavoratori o dei loro compagni, come aveva fatto intendere la difesa, che aveva addirittura parlato di processo politico, di processo ideologico «contro il capitalismo». No, scandisce il presidente della Corte Maria Jannibelli: si tratta di omicidio volontario con dolo eventuale. Così l’amministratore delegato dell’azienda, Herald Espenhahn, viene condannato a 16 anni e mezzo di reclusione, come aveva chiesto il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello. Anche gli altri imputati vengono condannati, tutti per omicidio colposo: Gerald Priegnitz, Marco Pucci,  Raffaele Salerno e Cosimo Cafuerri a 13 anni e 6 mesi, Daniele Moroni a 10 anni e 10 mesi. I giudici accolgono le richieste dell’accusa, aumentando piuttosto la pena di Daniele Moroni (Guariniello aveva chiesto nove anni). È una decisione che farà storia, perché per la prima volta viene riconosciuto, per un incidente sul lavoro, un reato di omicidio volontario: nulla è avvenuto per caso, si sapeva, si poteva prevedere, per interesse si sono negate quelle misure di sicurezza che avrebbero potuto evitare la strage. Faranno scuola questa sentenza e l’attenta minuziosa indagine del procuratore Guariniello, che ha sostenuto la prova di una consapevolezza del pericolo: si sapeva del rischio, ma si è preferito correre quel rischio: Espenhahn «si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce accettando il rischio di cagionarle».
Alla lettura molti applaudono. Saranno duecento circa ad affollare il salone della seconda corte d’assise di Torino. In prima fila anche il procuratore capo Giancarlo Caselli. Poi ci sono le madri, le sorelle, le mogli, i padri, con le foto dei loro cari. Si tengono per mano quando i giudici entrano. Ci sono gli amici. Qualcuno tra i parenti indossa la maglietta nera con la scritta: «giustizia, condanne severe per gli imputati». Non dicono: «giustizia è fatta». Con realismo dicono: «è un passo verso la giustizia». Qualcuno si sente male. Nessuna condanna potrebbe cancellare il dolore. Ma intanto al primo giudizio si è arrivati. Guariniello mette in guardia: bisogna fare in fretta con processi di questo genere, perché la possibilità della prescrizione c’è sempre (soprattutto se passerà la legge sul “processo breve”). Ma in questo caso siamo avanti: tutto è avvenuto, miracolosamente, in tempi relativamente rapidi. «È una svolta epocale prosegue Guariniello da oggi in poi i lavoratori possono contare molto di più sulla sicurezza. È un regalo che vogliamo fare al presidente della Repubblica».
La sentenza è l’ultima voce di una lunga notte cominciata tre anni fa. L’ultima giornata, ultima per ora, si era aperta con i primi drappelli nel piazzale davanti al palazzo di giustizia: poca gente, militanti, sindacalisti della Fiom, una scena fredda, come se Torino avesse scelto l’indifferenza. L’ultima giornata era continuata con i parenti delle vittime e con gli amici che sono arrivati e sono ripartiti per recarsi al cimitero: un saluto ancora ai loro cari. Poi sono tornati, stretti vicini. «Ci vorrebbe l’ergastolo. Mio fratello è rinchiuso in una tomba da tre anni e mezzo», diceva Concetta Rodinò. «In ogni caso, non ci rassegneremo mai», diceva Laura Demasi.
Il presidente della Corte d’Assise di Torino, Maria Jannibelli, aveva aperto l’udienza, per invitare tutti al rispetto del silenzio, di un «rigoroso silenzio»: «Ricordo che siamo in un’aula di Tribunale e che non verrà rispettata alcuna intemperanza da parte chiunque». Niente altro e aveva riunito il collegio in camera di consiglio. Fuori il pubblico si era ancora assottigliato. Restavano Giorgio Cremaschi e Antonio Boccuzzi, il sopravvissuto di quella notte, oggi parlamentare del Pd. Restavano presidi e striscioni. «Onore ai sette eroi della Thyssen, solidarietà ai familiari», recitava quello del Collettivo comunista piemontese. Restavano i cartelli che invocavano giustizia. Erano ricomparse, alle cancellate, le foto dei morti, tante volte viste in aula.

Repubblica 16.4.11
"Il lavoro non è solo profitto in fabbrica niente sarà come prima"
Il segretario Cgil Camusso: sentenza storica per la sicurezza
di Roberto Mania


È una decisione giusta: per la prima volta un dirigente viene condannato per omicidio volontario
C´è in Italia una deriva culturale che porta a sostenere che nelle aziende si possa fare a meno dei diritti

ROMA - «Questa sentenza dice una cosa precisa: la vita di un lavoratore non si può trasformare in profitto. Non so se sia una decisione storica, so che è la prima volta che un amministratore delegato viene condannato per omicidio volontario. Non era mai successo». Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, misura le parole di fronte alla sentenza della Corte d´Assise di Torino. Riflette su come la tragedia alla Thyssen abbia inciso sulla coscienza di tutta la società italiana, sulle resistenze che ancora ci sono di fronte al tema della sicurezza sui posti di lavoro, su come la tendenza ad abbassare il valore del lavoro possa condurre anche a consumare drammi come quello di due anni fa nello stabilimento siderurgico torinese.
Cosa ha provato quando ha saputo della condanna?
«La prima sensazione è stata positiva, per quanto si possa dire davanti a quella che è stata una vera strage. Ma, d´altra parte, la disattenzione alla sicurezza dei lavoratori in un impianto siderurgico non può che essere colpevole. Ricordo che subito dopo la tragedia, molti lavoratori denunciarono i tanti segnali di pericolo che c´erano stati dentro la fabbrica. E come l´azienda, avendo deciso di chiudere l´impianto, continuasse a produrre senza i necessari interventi sulla sicurezza. Ricordo, addirittura, il tentativo di fare ricadere le responsabilità sui lavoratori».
Cosa significa condannare un capo azienda per omicidio volontario?
«Sia chiaro, non ho nulla di personale, ma credo che sia una decisione giusta. Viene respinta l´idea che per conseguire il profitto si possano sacrificare le condizioni di sicurezza dei lavoratori».
Pensa che questa sia un´idea diffusa in Italia?
«C´è una tendenza secondo la quale bisogna togliere i controlli, ridurre le procedure burocratiche, deregolare. La verità che afferma la sentenza è che la responsabilità della sicurezza dei lavoratori è dell´impresa».
Definirebbe storica questa sentenza?
«Non lo so. Dico che è una sentenza molto importante: non si può scherzare con la vita di chi lavora».
Quasi un riscatto del lavoro, per quanto attraverso una vicenda drammatica?
«Sì. Un riscatto molto doloroso. Ma può essere d´aiuto per ribadire che non può esserci un profitto a prescindere».
Sta dicendo che nel nostro sistema imprenditoriale ci sia questa cultura?
«Io ho visto un governo molto impegnato ad alleggerire la legislazione sulla sicurezza sul lavoro. Quasi un «liberi tutti». Una deriva culturale che porta a sostenere che possa esserci un lavoro senza diritti. Questo c´è. Poi, non c´è dubbio, la crisi economica ha aumentato la pressione sui lavoratori. Non a caso sono aumentate le malattie professionali».
La crisi sta mettendo più a rischio la vita dei lavoratori nelle fabbriche?
«C´è chi ha usato la crisi per sostenere che prima di tutto viene il lavoro e sul resto (diritti, sicurezza, tutele) si può anche sorvolare».
Perché si continua a morire sul lavoro? Solo qualche giorno fa hanno perso la vita due lavoratori alla Saras dei Moratti in un incidente molto simile a quello della Thyssen.
«Perché non si fa tesoro dell´esperienza. C´è una cultura, ripeto, che gioca sulla povertà. Piuttosto penso che manchi un senso di mobilitazione civile per dire che è proprio ingiusto morire sul lavoro. Servirebbe una mobilitazione corale per dire che queste morti sono contro qualunque idea etica della società».
Eppure gli ultimi dati dell´Inail indicano un calo delle morti nell´ultimo anno.
«Ci andrei cauta perché vorrei capire quanto hanno inciso le ore di cassa integrazione, cioè di non lavoro».
In questo contesto culturale che lei descrive, c´è una responsabilità anche del governo?
«In quello che è accaduto non c´è una responsabilità diretta del governo. Ma certo questo governo è corresponsabile nell´aver creato un clima, un atteggiamento culturale, in cui si ritiene che i diritti non siano connaturati al lavoro».
Cosa è cambiato in Italia dopo la tragedia alla Thyssen?
«Purtroppo questo è diventato un paese che consuma qualsiasi notizia molto in fretta».

l’Unità 16.4.11
Se il sogno tv non incanta Chiara e Ambra
Berlusconi ha rabbia contro tutto ciò che è bello giovane e felice. Tutte queste cose il premier non le ha più e per questo attacca il corpo delle donne
di Luigi Cancrini


La deposizione di Ambra    e Chiara ai Pm di Milano è un documento che apre una finestra sul mondo (mercato) dello spettacolo televisivo, sui modi in cui esso viene vissuto (fantasticato) dai più giovani, sulle reazioni che produce su di loro e nelle loro famiglie. Propone un’immagine inquietante, nello stesso tempo, sul rapporto che c’è fra le caratteristiche attuali di questo mondo e la figura del premier. L’uomo intorno a cui tutto si muove.
L’accesso al mondo della tv Diventare meteorina, si sa, non richiede la partecipazione ad un concorso o curricula. Chiede di esibire ad uno che conta (nel caso Emilio Fede) le curve o le scollature, assecondare qualche movimento galante facendo finta (con se stesse, in questo caso) di considerarlo innocuo: («avrebbe potuto essere mio nonno: di che dovevo preoccuparmi?»), accettare l’idea di correre qualche rischio. In due, in questo caso, per proteggersi a vicenda (o di testimoniare l’una per l’altra) se qualcosa andrà di traverso.
Il rapporto fra uomo (nonno) e donna. Descritto con sobrietà e con grande precisione, il tipo di rapporto che l’uomo potente, che ha in mano le chiavi del tuo successo e/o del tuo guadagno (1800 euro al mese) è un rapporto di scambio ben sintetizzato, due secoli fa dal senatore di Donizetti nell’Elisir d’amore: «Io son vecchio/e tu sei bella/io ho i ducati/e i vezzi hai tu». Quello che il senatore prometteva ad Adina era il matrimonio, però, non il bunga bunga e/o l’acquisto del corpo che qui si intende interamente donato al compratore con tutti gli annessi e connessi (come un appartamento ) nel momento in cui accettando di concedersi (vendersi) le donne (fanciulla, ragazza, minore) mette la sua firma in calce al contratto. Chiaramente delineando il rapporto fra l’uomo che compra e la donna che vende: un rapporto di compravendita in cui lei mette in gioco tutto quello che ha (corpo e bellezza) in cambio di promesse vaghe, mantenute solo se lei si comporterà come vuole lui.
La psicopatologia della vecchiaia Invecchiare bene non è facile, specie per l’uomo di successo. Accettare l’idea della morte, non più così lontana, e i limiti imposti dagli anni alla propria possibilità di fare richiede maturità e capacità di accettare la depressione: compito difficile e a volte impossibile, questo per le persone patologicamente innamorate di sé, del proprio carisma, del proprio potere o del proprio denaro. Quello che ne risulta è naturalmente (purtroppo) una rabbia contro tutto ciò che è bello, giovane, riuscito, potenzialmente felice che è l’espressione immediata dell’invidia vissuta da chi queste cose non le ha e non le può avere più e che si traduce, qui, in questo attacco al corpo della donna. Sezionato in tette, culi, cosce dallo sguardo avido di un desiderio capace di scordarsi del tutto della persona e della dignità personale della bellezza.
L’eleganza Terribile di fronte alla descrizione delle cene e del bunga bunga, dei corpi così volgarmente esibiti e degli scherzi osceni del premier, il ricordo della parola che Berlusconi ha usato tante volte per caratterizzare quelle sue serate di “intrattenimento” quando di incontri eleganti e di conversazioni “raffinate” lui ci aveva parlato senza mai spiegare perché a quelle sue serate venissero invitate (a pagamento) solo donne giovani, belle e da lui “mantenute” (o mantenibili). Confondendo probabilmente anche in buona fede perché questo è il suo livello l’eleganza con la capacità di spendere e la raffinatezza con le mani bucate di un uomo vecchio e solo che si fa guardare e toccare da persone pagate per questo.
La dignità Che esiste, per fortuna, perché Ambra e Chiara se ne vanno, rinunciando al loro sogno televisivo. Dicendo di no a Emilio Fede, a Silvio Berlusconi, ai loro soldi e ai loro “stipendi” e decidendo, a distanza di tempo, di fare pubblica denuncia di quello che è accaduto. Con l’appoggio di famiglie molto più dignitose di quelle che incitavano le loro figlie, sorelle (o fidanzate) a prendere tutto quello che si poteva prendere. Prendendosi insieme dei rischi per mettere la parola fine alle chiacchiere che giravano intorno alle loro serate ad Arcore. Rivendicando in questo modo la loro dignità. Orgogliosamente facendosi forti, (come l’Adina di Donizetti) della loro gioventù e della loro bellezza contro cui poco davvero possono, ora, i soldi di chi spudoratamente aveva tentato di comprarle.

l’Unità 16.4.11
Nuova strategia Pd: una legge elettorale per impedirgli di arrivare al Colle
Bersani freddo di fronte alla proposta Veltroni-Pisanu di un governo di «decantazione»: «Si sbaglia chi crede che Berlusconi rifletta su come decantare». Cambiare la legge elettorale per impedire la scalta del premier la Colle.
di Simone Collini


2012: Berlusconi che passa la mano a un altro leader del centrodestra anche per la premiership, ma solo perché lui nel 2013 punterà al Quirinale. È lo scenario su cui iniziano a ragionare nel Pd ora che per dirla con Bersani «la compravendita va avanti» e l’ipotesi della spallata è definitivamente tramontata. Al Berlusconi «padre nobile» che si fa da parte non crede Bersani («sì, e poi farà il nonno nobile per altri 10 anni») il quale anzi è convinto che il premier punti alla presidenza della Repubblica. Non a caso il fronte antiberlusconiano, che sta preparando la battaglia per impedire la scalata al Colle, ha ripreso in mano una pratica che era finita nel cassetto dalle settimane in cui ha tentato di battere il governo sul voto di fiducia e poi sulle norme ad personam: la legge elettorale. Così, mentre i leader delle forze di opposizione hanno ripreso a sparare contro il “porcellum”, che assegna il 55% dei seggi a chi prende anche un solo voto in più («è peggio addirittura della legge Acerbo promulgata sotto il fascismo» per Bersani, mentre per Fini cambiare questa «legge pessima» è «una delle grandi emergenze»), i “tecnici” hanno ripreso il lavoro da dove lo avevano lasciato quattro mesi fa (un misto di proporzionale e uninominale a doppio turno). Il problema rimane, oltre al raggiungimento di un accordo tra Pd, Idv e Terzo polo, avere la maggioranza in Parlamento. È su questo per i vertici del Pd, più che su un improbabile governo di transizione, si deve ora lavorare, cercando una sponda tra le persone «di buona volontà» presenti nel centrodestra.
PROPOSTA VELTRONI-PISANU
A riaprire una discussione su questo tema è stata una lettera al “Corriere della Sera” di Veltroni e Pisanu.
L’esponente del Pd e quello del Pdl propongono un governo di «decantazione» per rasserenare il Paese, mettere mano alle emergenze e riformare la legge elettorale. È la prima volta che una personalità del partito del premier apre all’ipotesi di un governo non a guida Berlusconi. E gli apprezzamenti non mancano. Da quello di Fini, che dice di condividere «dalla prima all’ultima parola», a quelli dei diversi esponenti di Movimento democratico (e qualcuno si spinge a vedere un nesso col fatto che Napolitano ribadisca che «l’unità nazionale e la coesione sociale e istituzionale non solo non sono un ostacolo, ma sono la condizione per il successo concreto delle riforme necessarie nel nostro Paese»).
Il problema è che dal fronte centrodestra la bocciatura è totale, con il capogruppo del Pdl alla Camera Cicchitto che parla di «proposta che non sta né in cielo né in terra» e con il ministro leghista Calderoli che parla di «proposta del governo degli zombie».
È basandosi non tanto su queste parole quanto sul comportamento tenuto da Berlusconi e soci in questi mesi che Bersani ritiene difficilmente realizzabile la proposta Veltroni-Pisanu. «Tutte le soluzioni che portano a un passo indietro di Berlusconi sono benvenute ma non mi pare che lui sia intenzionato a farlo», dice il leader del Pd. La prova è che «c’è il decreto sulle intercettazioni e continuano le operazioni di compravendita dei deputati». Veltroni dice a chi sostiene che Berlusconi non è disposto a farsi da parte che allora «non rimane che attendere passivamente i prossimi due anni»? Per Bersani c’è un’altra soluzione: «Il Pd deve dire agli italiani sei, sette cose precise e attorno a quelle costruire le alleanze. Si può fare anche tra diversi ma su basi chiare. Bisogna chiamare le persone di buona volontà per andare oltre la fase attuale. Chi si sottrae deve dire cos’altro fare per evitare di trovarci Berlusconi Presidente della Repubblica. Se qualcuno immagina che l’uomo rifletta su come decantare, si sbaglia».

l’Unità 16.4.11
Noi ce ne andiamo e loro arrivano Su lavoro e nascite il record è loro
L’analisi dei dati dell’Istat «sconfessano» gran parte dei luoghi comuni che circolano sul tema dell’immigrazione. In aumento il numero dei giovani italiani che vanno a lavorare all’estero. Il peso del “Buco” demografico.
di Nicola Cacace


Gli italiani hanno paura degli immigrati per la diffusione di pregiudizi e cattiva informazione, oltre che per la pessima gestione politica dell’immigrazione. Quanti sanno che nel decennio 2000-2010 la popolazione residente è aumentata di quasi 4 milioni solo grazie agli immigrati e che gli sbarchi via mare sono stati 20mila l’anno, il 6% del totale? Quanti sanno che gli stranieri, pur essendo di istruzione «abbastanza simile a quella degli italiani» (Istat, gli stranieri nel mercato del lavoro) fanno lavori che gli italiani generalmente rifiutano? Quanti sanno che molti di questi lavori servono a salvare lavori italiani a valle altrimenti destinati a scomparire come, la pesca d’altura per il mercato del pesce, gli allevamenti per latte e formaggi, cuochi e camerieri per il turismo, portantini per ospedali, concerie per pelli e calzature, fonderie per la meccanica, raccolta frutta per l’industria conserviera, etc., senza parlare del milione e 400mila tra colf e badanti (stima Censis) che consentono ad altrettanti italiani/e di andare a lavorare? Se l’immigrazione nell’ultimo decennio
è cresciuta in Italia assai più che altrove è perché dal 2000 ha cominciato a pesare il Buco demografico, con nascite dimezzate da 1 milione a 500mila, a partire dal 1975, così che dal 2000 ci sono ogni anno solo 500mila ventenni a sostituire 1 milione di sessantenni. E di questi 500mila, quasi tutti diplomati, nessuno è disponibile a fare lavori «al di sotto della loro istruzione», soprattutto a Nord. E cosa fanno? La metà trova lavoro precario, gli altri emigrano. Secondo l’Istat l’emigrazione netta è stata di 20mila giovani nel 2008, 44mila nel 2009, 66mila nel 2010 (primi 11 mesi). Siamo di fronte a due mercati del lavoro, uno di lavori “umili” per gli stranieri, un altro di lavori “qualificati” per gli italiani. Mentre il primo mercato regge abbastanza bene, essendo lavori «faticosi, con molto sudore e paghe basse», il secondo mercato va male perché l’Italia va male, innova poco e quindi non crea lavori qualificati a sufficienza. La riprova del doppio mercato si ritrova nei dati sull’occupazione. Come certifica l’Istat quella degli stranieri è cresciuta sempre, 2009 (IV trimestre) +102mila, 2010, +183mila, anche quando quella degli italiani calava, 2009 (IV trimestre) -530mila, 2010 -336mila. Un dibattito serio sull’immigrazione deve affidarsi ai fatti, i costi dell’accoglienza ma anche i ricavi, dai contributi pagati dagli immigrati alle attività italiane salvate. L’idiozia non può far scuola, tantomeno dovrebbe guidare le scelte politiche.

il Fatto 16.4.11
Comunisti cubani a congresso tra Fidel ed esercito
Dopo dieci anni torna a riunirsi il vertice del Partito-regime
di Maurizio Chierici


Comincia all’Avana il sesto Congresso del Partito comunista cubano, partito unico riunito l’ultima volta dieci anni fa a Santiago, capitale orientale dell’isola. La malattia del Fidel (adesso risanato) fa saltare l’appuntamento 2006, ma il rimandare non aiuta le speranze: modello socialista dello stato padrone in agonia per il gran rifiuto ai consigli cinesi che suggerivano l’ibrido terribile del capitalismo socialista. Fidel non ne voleva parlare e Raul non sa a quali santi aggrapparsi.
Cuba balbetta nella prospettiva che le conclusioni del Congresso rovescino la vita del Paese. Ormai la povertà si è trasformata in una miseria difficile da spiegare a 11 milioni di cittadini tra i più evoluti delle due Americhe: alfabetizzazione, lauree tecniche e scientifiche in concorrenza con Stati Uniti. Ecco la scelta dolorosa annunciata da Raul Castro: cambiare le strutture economiche , aprire alle privatizzazioni tagliando i rami secchi che affogano i bilanci. Perdono il posto un milione e mezzo di dipendenti dello Stato ai quali si promettono permessi ed aiuti per aprire piccole aziende o reti commerciali. La delusione immalinconisce la generazione di chi ha 50 anni. Cresciuta nelle università, impegnata nell’orgoglio del nazionalismo respirato in ogni virgola dell’apprendistato di cittadinanza: ingegneri, medici, scrittori, la classe dirigente che illustra Cuba oltre i confini, viene imbalsamata e non sa che pesci pigliare.
Brontolii, blog pieni di spine: come possiamo diventare contadini o barbieri se la nostra vita è stata programmata in altro modo? Tra le spiegazioni la lotta alla corruzione non diversa da ogni altro Paese latino, ma Cuba è nella vetrina sbagliata mentre a Santo Do-mingo, Panama o Colombia, Paesi amici di Washington, le vetrine sono male illuminate e nessuna esasperazione gonfia la condanna . Uscito di prigione l’ultimo dei 75 detenuti politici che hanno infiammato i liberali d’Occidente, restano i buchi di una libertà di stampa che non c’è e la richiesta dell’opposizione interna consapevole e lontana dai traffici di Miami. Chiedono un altro partito in concorrenza col socialismo proclamato il 16 aprile di 50 anni fa da Fidel. Era la vigilia dell’invasione della Baia di Porci. Oggi Fidel, Raul e ogni vecchio militante sono consapevoli che si apre l’ultimo Congresso della loro generazione. Indispensabile l’ingresso dinuoviprotagonisti,perlopiùin divisa.
RAUL governa con loro: 10 militari tra ministri e vice nel suo governo. Ed è possibile che altri militari finiscano ai vertici: per una transizione non definita se non nel contenimento dei debiti. Gli oppositori seri che dall’interno contestano lealmente il regime, ne sono sconvolti. Manuel Cuesta Morua, meno di 50 anni, intellettuale di colore, socialdemocratico che si é formato in Europa, soprattutto in Italia, fa sapere che “militarizzare la politica è un modo per ingessare l’esistente senza pensare al futuro“. Più o meno le parole dell’ingegner Payà, democristiano ed autore del piano Varela, presentato all’università dell’Avana con Fidel in prima fila che applaude Jimmy Carter entusiasta della proposta. Subito sepolta. Da 8 anni non si parla più di una richiesta “sensata”, parole di Carter: affidare al bipartitismo il futuro del Paese. Il cui cambiamento è quasi quotidiano. Anche lo zucchero, bandiera del volontariato del Che, è un ramo secco: l’Avana lo importa dal Texas; la sua zafra mantiene il commercio solo del fantastico rum. Fuorigioco gli oppositori del passato: Elisardo Sanchez, spia della polizia, medaglia al valore di Castro per le “informazioni strappate agli stranieri di passaggio che bussavano alla sua porta”. La fine del socialismo non sarà un terremoto , ma brucerà sicurezze e memoria di tre generazioni. Le quali hanno sotto gli occhi l’importanza che il governo attribuisce alla mediazione della Chiesa cattolica, cardinale Ortega fino a qualche anno fa considerato avversario pericoloso: in gioventù spedito qualche mese ai lavori forzati. Storie di ieri sopravvissute al Duemila. Non è che dall’altra parte del mare i sentimenti siano diversi: solo rovesciati. Mentre piazza della Rivoluzione festeggia i 50 anni della vittoria alla Baia dei Porci, i reduci ricacciati dalla Baia di Porci vengono accolti al Congresso dagli amici repubblicani con la retorica di chi esalta il coraggio dei “liberatori”. L’assemblea del Partito trascurerà i veleni di questo populismo. Valuterà se la speranza di Obama che al secondo mandato apra davvero le porte a Cuba come Jimmy Carter ha lasciato capire nel viaggio all’Avana prima dell’assise del partito unico. Viaggio per sapere, viaggio per informare, chissà. L’immagine dei colloqui in giardino, sembra uscire dal tempo che fu: Carter e Raul, due camice bianche, pance ormai rotonde, ascoltano la camicia bianca di Fidel che alza il dito con autorità, ormai illusione. Alla fine del Congresso sapremo se questo passato sopravvive o se la speranza è un’altra.

il Fatto 16.4.11
Matteotti, italiano diverso
di Angelo d’Orsi


Il 10 giugno 1924 un signore, alto e distinto, che percorreva Lungo Tevere Arnaldo da Brescia veniva affiancato da un’automobile nera. Ne scendevano alcuni uomini che lo aggredivano, colpendolo fin quasi a tramortirlo, e a forza lo cacciavano nella vettura, dove la colluttazione proseguì, finché l’uomo fu trafitto da vari colpi di pugnale. Gli assassini erano guidati da Amerigo Dumini; l’ucciso si chiamava Giacomo Matteotti, e il suo cadavere, scarnificato, fu ritrovato in un bosco non lontano da Roma, il 16 agosto. La “crisi Matteotti” fece vacillare il regime fascista, ma si risolse in un fiasco per le opposizioni, per la loro interna divisione, e per la complicità del re Vittorio Emanuele III con Mussolini. Questi il 3 gennaio 1925, con un discorso arrogante e ribaldo davanti a una Camera largamente asservita, si assumeva la responsabilità morale e politica di quanto era avvenuto. E dava il via a una seconda ondata di violenze squadriste. Già, “il fascismo non era poi così male”, potrebbe commentare (come ha fatto) il Giuliano Ferrara di turno.
CHI ERA Matteotti? Un italiano diverso, lo definisce lo storico Gianpaolo Romagnani che gli ha appena dedicato una biografia appassionata (Longanesi), che sebbene discutibile in qualche punto e in molti giudizi, è un lavoro utile che, dopo l’agiografia e il martirologio, vuole raccontare in modo critico la vita di questo riformista anomalo, che non smise di pensare alla rivoluzione, ma che era stato uno dei più tenaci oppositori della guerra, tanto nel 1911, per la prima impresa di Libia (ora siamo alla terza, dopo la seconda, sterminatrice negli anni ’30), quanto, poco dopo, nella Grande guerra. La coerenza fu il tratto distintivo del rodigino Matteotti, pur nella incoerentissima posizione di rampollo (solo sopravvissuto dei 7 figli) di una ricca famiglia di proprietariespeculatori,nonproprio amatissimi nel povero Polesine tra Otto e Novecento. Ma a ben pensare, l’accusa di “tradimento” che gli si moveva da parte borghese, e i sospetti che si addensavano su di lui dalla sua parte, per quell’appartenenza sociale, costituiscono elementi che accrescono il valore del personaggio. Quanto gli sarebbe stato più facile fare l’avvocato, amministrare le proprietà, o avviarsi alla carriera universitaria, o persino fare quella politica, ma dalla “sua” parte, quella dei padroni: invece Giacomo scelse la via stretta e aspra del militante (poi dirigente) socialista, scelse di stare dalla parte degli umili, e di aiutarli a risorgere. Perciò egli ebbe sempre attenzione al linguaggio della politica: farsi capire dagli analfabeti e, aiutarli a crescere, culturalmente, prima che politicamente. Di qui il suo interessamento alle questioni scolastiche: e specialmente relative ai gradi più bassi dell’insegnamento. Organizzatore lefficace, formidabile oratore, ottimo amministratore a livello comunale, ebbe dei limiti sul piano della visione politica, ma fu davvero un combattente coraggioso, con quella sua “figuretta ostinata ed esigente”, come gli scriveva la sua adorata Velia, la compagna che gli diede tre figli, e che, cattolica e disinteressata alla politica, condivise con lui ansie, pericoli, ostracismi. Pur avendo denunciato, quasi con spavalderia, la natura ferocemente di classe del movimento mussoliniano, accusava innanzitutto la borghesia che lo sosteneva, ma non aveva il coraggio di farlo palesemente: reazionari e vili.
E LA REAZIONE incarnata dalle squadre armate fasciste colpì durissimamente proprio la provincia di Rovigo, dove il Socialismo aveva dominato incontrastato: era, come a livello nazionale, un gigante dai piedi d’argilla. E cadde, dolorosamente, travolto dal micidiale combinato disposto fra squadristi, forze dell’ordine (un bel paradosso) e altre pubbliche istituzioni, e associazioni agrarie. L’azione di Matteotti fu instancabile, anche quando fu costretto a lasciare la provincia: gli era del resto già accaduto durante il primo conflitto mondiale quando fu inviato al confino di polizia in Sicilia, per timore che la presenza di un antimilitarista come lui avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti sulle truppe italiane. Fu, il dopoguerra, la sua ultima stagione politica, ma anche la più intensa, cominciata e finita all’attacco: minacciato, pestato, addirittura (pare) sodomizzato dai fascisti, Giacomo Matteotti non arretrò di un passo, continuando nella sua opera di denuncia, documentata e precisa, delle violenze squadriste. Costanza, abnegazione, moralità severa, furono i tratti distintivi della sua azione, che ne fecero una delle figure più a rischio dell’antifascismo. Matteotti non era un deputato in vendita, come s’usa oggi; non era un uomo per tutte le stagioni, secondo i modelli correnti; non aveva l’impudicizia del voltagabbana, oggi sulla cresta dell’onda. Era un uomo intero, che visse la politica con abnegazione assoluta, certo compiendo errori, ma assumendosene la responsabilità, secondo princìpi etici inderogabili, che non lo fecero mai venir meno a quell’assunto di “redenzione delle “plebi agricole” (come disse in uno dei suoi celebri discorsi) e più in generale della masse dei diseredati, guidandole sulla strada del socialismo. Un italiano da rimpiangere, in tempi di bunga-bunga.

Corriere della Sera 16.4.11
Famiglie Le famiglie dei figli in provetta? Più equilibrate e solide
di franca Porciani e Maria rita Parsi


Fresca di laurea in biologia, sana, graziosissima è lei la più bella pubblicità alla fecondazione assistita. Nata nel 1983 a Napoli, Alessandra Abbisogno è il primo essere umano concepito fuori dal corpo della donna in Italia, cinque anni dopo il «miracolo» di Louise Brown, mitica figlia della provetta che ha valso cinquantadue anni dopo al suo artefice, Robert Edwards, il Nobel per la medicina. Lo scienziato, oggi ottantacinquenne, mantiene con la donna, adulta e madre a sua volta, un’affettuosa amicizia, analogamente a quanto avviene fra Alessandra e il ginecologo che l’ha fatta nascere, Vincenzo Abate. Ma sono casi «storici» ; nella vita di ogni giorno l’essere venuti al mondo grazie alla tecnologia resta un segreto gelosamente custodito all’interno della coppia. È prassi corrente in Italia, come testimoniano gli operatori dei centri di procreazione assistita; tra questi Andrea Borini, direttore scientifico di Tecnobios, a Bologna: «Forse la mentalità sta lentamente cambiando, ma la scelta prevalente è ancora oggi quella del silenzio» . In altri paesi le cose non vanno in modo diverso. Come testimonia il ginecologo Carlo Flamigni, uno dei maggiori scienziati italiani in questo ambito del quale è appena uscito per le Edizioni Pendragon, Figli del cielo, del ventre e del cuore: «Una ricerca condotta da uno psicologo dell’università di Londra e pubblicata su Human Reproduction nel 2006 ha studiato le famiglie di bambini nati con la fecondazione assistita che avevano raggiunto i dodici anni, scoprendo che nel 65 per cento dei casi i figli non sono a conoscenza della loro storia. Quando poi è in gioco una donazione di spermatozoi, il silenzio sfiora il 90 per cento» . «E certamente in Italia, il divieto di quest’ultima esperienza con il conseguente turismo sanitario, oggi rivolto soprattutto alla Spagna e alla Grecia, non è stato di aiuto» aggiunge Claudia Livi, direttore del Centro Demetra di Firenze. D’altro canto, la stessa ricerca ha messo in evidenza che questi ragazzi sembrano tranquilli e sereni e le famiglie reggono nel tempo: i tassi di divorzio sono bassissimi. Questa della family stile Mulino Bianco è una storia ricorrente fra le coppie che l’hanno formata grazie al laboratorio e alle provette; emerge da ricerche condotte negli Stati Uniti (alcune, molto superficiali), ma anche dall’unica finanziata dalla Commissione europea che ha riguardato l’Italia insieme alla Gran Bretagna, l’Olanda e la Spagna. Lo studio si è articolato in due fasi: la prima ha coinvolto 400 famiglie con bambini fra i quattro e gli otto anni nati con il seme di un donatore, con la fecondazione omologa (spermatozoi e ovuli della coppia), adottati e concepiti naturalmente; la seconda ha testato di nuovo le stesse famiglie cinque anni dopo per vedere che cosa succede con la crescita dei figli. Il quadro più roseo, dove i legami affettivi risultano più solidi e equilibrati (emerso dal primo studio, confermato dal secondo) è quello delle famiglie dove c’è stata l’esperienza della fecondazione assistita. Anche quando il padre non è quello biologico e vive, inevitabilmente, il «fantasma» del donatore: sente il bisogno di diventare protagonista del rapporto col figlio e, di conseguenza, gli si dedica molto. «È un risarcimento— conferma Carla Facchini, che insegna sociologia della famiglia all’università di Milano Bicocca —; l’equivalenza fra fertilità e virilità è un patrimonio interiorizzato dell’uomo di oggi; fare il superpapà è una sorta di battaglia contro questo. Peraltro siamo di fronte a realtà che pongono quesiti nuovi sulla genitorialità» . «Forse certi fantasmi potrebbero essere meno ingombranti se cambiassero le parole per dirlo, la terminologia medica aggiunge la sociologa Marina Mengarelli —; aver chiamato queste procedure tecniche di tipo eterologo, averle definite una sorta di adulterio legalizzato, è stato privo di conseguenze sul loro impatto sociale? Non si può più semplicemente parlare di donazione?» . «Credo— conclude Flamigni— che il desiderio di avere un figlio trascenda l’ordine biologico, sia da riferire prima di tutto al mondo del simbolico. Se cominciamo a ragionare così, la biologia perde, finalmente, un po’ della sua tirannia» .

Repubblica 16.4.11
Dal vuoto al Nulla viaggio nei misteri della (meta)fisica
a cura di Annalisa Usai


Leibniz si è chiesto «Perché c´è qualcosa piuttosto che niente? Giacché il niente è più semplice e più facile di qualcosa». Frank Close, fisico delle particelle di Oxford, colto e ironico come uno scienziato del Settecento, la pensa molto diversamente da lui, e dal senso comune, e compie sotto i nostri occhi un capovolgimento per cui non solo il niente risulta molto più complicato del qualcosa, ma soprattutto si rivela molto più operoso. È una gigantesca matrice creativa da cui deriva tutto, senza bisogno di interventi soprannaturali, e casomai con un gioco di prestigio in cui, invece che conigli e cappelli, si adoperano esperimenti ed equazioni. Per questo gioco sono necessarie tre mosse.
La prima è di tipo essenzialmente linguistico, e consiste nella metamorfosi (e nella esorcizzazione) del nulla, trasformato in vuoto. Il nulla è difficile da pensare, e inoltre può essere spaventoso, perché ha a che fare con la sparizione di tutto quello che ci riguarda, del mondo, dei colori, delle persone, e di noi stessi. Ma se dal nulla passiamo al vuoto è tutto un altro paio di maniche. Qui siamo in un laboratorio, con un tubo di vetro chiuso alla sommità che contiene una colonnina di mercurio che scende lasciandosi dietro qualcosa che non può che essere il vuoto. Non siamo affatto soli, siamo in un laboratorio, c´è tutto, e in una piccola regione di quel tutto abbiamo prodotto il vuoto. Di cosa dovremmo aver paura?
La seconda mossa, invece, consiste nel passaggio dalla fisica ingenua alla fisica esperta, dal mondo quale ci è immediatamente accessibile ai sensi, nella visione ecologica della esperienza quotidiana, a quello del molto grande e del molto piccolo. Con il passaggio dall´esperienza alla scienza, e soprattutto con il cambio di scala che dal mondo mesoscopico osservabile a occhio nudo ci porta a quello che si vede (o meglio si visualizza) con i microscopi e i telescopi, viene a prodursi un passaggio di stato. E contrariamente a quello che ci testimoniano i sensi dobbiamo arrenderci all´evidenza che il cuore della materia è pieno di vuoto. Gli atomi, cioè i componenti elementari del mondo fisico, sono vuoti (per l´esattezza, al 99, 999999999999%). Lo sappiamo bene, ma tendiamo a dimenticarlo, e soprattutto facciamo fatica a immaginarlo. Close racconta che vicino al Cern di Ginevra avevano pensato di adoperare un grande edificio sferico alto 20 metri, ideato per delle esposizioni e rimasto inutilizzato, per mettere in scena la grande rappresentazione di arte concettuale che è l´esperienza del vuoto interno a un atomo: appesa a un filo, una pallina del diametro di un millimetro. Quello è tutto il pieno dell´atomo, il resto è vuoto.
La terza mossa è il passaggio dalla fisica newtoniana al mondo della relatività e della fisica quantistica. È in questo universo che il nulla, pardon, il vuoto, si rivela un elemento altamente creativo. D´accordo con la visione (oggi un po´ antiquata, ma potente e affascinante) proposta ottant´anni fa dal fisico Paul Dirac, diventa un mare profondissimo agitato da onde di energia negativa, e che le cose stiano in questi termini è provato dal fatto che se in quel vuoto mettiamo due placche di metallo una forza oscura incomincerà a far sì che siano spinte l´una verso l´altra perché hanno interferito con le onde che attraversano il vuoto. A questo punto la creazione dal nulla è la cosa più naturale di questo mondo, in un processo che avrebbe fatto la delizia di Hegel. Quando nel gran mare negativo si produce un buco, sarà un positivo, sarà un qualcosa, che dunque non è affatto più complicato del nulla, come sosteneva Leibniz, e anzi, sembra il resto di niente, un buco nell´acqua. È da questa "tenebra ricoperta da tenebra", come dice Close citando i versi del Rig Veda, che viene tutta la materia che compone il nostro mondo. Un po´ come in quelle illusioni ottiche per cui una superficie concava si presenta a noi come convessa, tranne che questa non è una illusione, è la realtà, è l´universo. In questo senso, osserva ancora Close con tranquilla ironia, l´universo potrebbe essere il pasto gratis supremo.
E non finisce qui. Perché queste potrebbero semplicemente essere le leggi del vuoto per come si dà oggi alla nostra osservazione, ma potrebbe darsi benissimo che in altre epoche della storia dell´universo le sue forme fossero diverse. Così come potrebbe darsi altrettanto bene che le dimensioni spaziotemporali di cui abbiamo esperienza non siano tutte, che ce ne siano altre a noi non accessibili, o che la totalità del nostro universo (e delle sue leggi) non sia che uno degli infiniti mondi che ci circondano, quello in cui per un caso fortuito si sono realizzate le condizioni compatibili con la nostra vita. In questo quadro, il problema, si direbbe, si capovolge, e dal troppo vuoto si passa al troppo pieno. Nel frattempo noi, che continuiamo a chiederci dove finisce il presente quando è passato e dove finiremo noi quando passeremo, ci siamo distratti osservando il gioco di prestigio, e abbiamo seguito un corso di fisica privo di trionfalismo e pieno di humour.

Repubblica 16.4.11
Quando lo Zar Stalin fece pace con la chiesa


Quando competenza specifica, visione d´insieme e chiarezza di tesi si sposano in un libro, nascono i rari esempi di solida storiografia contemporanea. È il caso di Stalin e il patriarca, opera fondamentale di Adriano Roccucci, uno dei più profondi studiosi della Russia moderna e contemporanea. La sua ricostruzione del rapporto fra potere politico e autorità religiosa, ristabilito da Stalin in piena "grande guerra patriottica", ha fra l´altro il merito di indagare la matrice russo-zarista del sistema sovietico, spesso trascurata. Stalin si considerava il fondatore del nuovo impero russo, in cui tradizioni zariste e universalismo comunista agivano come moltiplicatori della potenza di Mosca. Visione suggellata nella convocazione notturna al Cremlino dei vertici della Chiesa ortodossa russa, fra il 4 e il 5 settembre 1943. Incontro nel quale il dittatore si mostrò particolarmente sollecito verso le necessità anche materiali dei suoi interlocutori. Ma che soprattutto concesse alla Chiesa di rieleggere finalmente il suo patriarca. Rinasceva così quella peculiare relazione fra imperatore e capo della Chiesa russa che il potere sovietico aveva inteso abolire.

La Stampa 16.4.11
Non perdere il filo del Bardo
Ritratto. Lo scrittore e l’uomo attraverso una guida alle opere e una suggestiva biografia
di Paolo Bertinetti


Stefano Manferlotti ripercorre commedie, drammi e tragedie: i testi e i personaggi di trama in trama Peter Ackroyd esamina le diverse, fantasiose ipotesi su tutto quanto non è sicuro: ad esempio la formazione cattolica

Per quale serie di sfortunate circostanze Romeo non sa della morte apparente di Giulietta e si suicida sulla tomba di lei? Perché Amleto si ritrova al cimitero poco prima della sepoltura di Ofelia, di cui ignorava la morte? Molti appassionati di teatro, e molti studenti, probabilmente ricordano in modo confuso (se non errato) le trame delle opere di Shakespeare.
L'appendice del saggio di Stefano Manferlotti, intitolato perentoriamente Shakespeare , provvede a colmare le possibili lacune fornendo le trame dei lavori teatrali che illustra ed esamina nelle precedenti 290 pagine. Il volume raggruppa per grandi settori i testi drammatici (dedicando un bel capitolo a parte alla produzione poetica): le commedie, i drammi «greci e romani», i drammi storici («troni di sangue», si dice con reminiscenza cinematografica nel titolo del capitolo) e infine i testi che costituiscono quello che Manferlotti definisce «il grande canone» - Romeo e Giulietta , Sogno di una notte d'estate , Il mercante di Venezia , La tempesta e le grandi tragedie (Amleto, Re Lear, Otello, Macbeth) - e che sono anche i lavori di Shakespeare più spesso rappresentati in ogni parte del mondo.
Ne emerge una guida alle opere del Bardo che si àncora saldamente alle parole del testo, sapientemente utilizzate come pilastri dell'interpretazione e gustate per la loro bellezza; che si avvale del richiamo illuminante ai più diversi testi e forme della produzione culturale di tutti i tempi; che coglie con rigore appena mascherato dalla piacevolezza della scrittura i nodi essenziali delle opere di volta in volta esaminate. Un volume utile, dotto il necessario e mai pedante, puntuale nell'esposizione e mai oscuro, sicuro nella valutazione e mai presuntuoso: un libro da collocare nello scaffale a portata di mano.
Alla vita di Shakespeare sono dedicate una quindicina di pagine, più che sufficienti in un saggio di questo tipo. Invece Peter Ackroyd, profondo conoscitore della storia di Londra, alla vita del Bardo ne dedica più di seicento. Per la verità, il suo lavoro, Shakespeare. Una biografia , parla anche ampiamente, in modo gradevole, non specialistico ma documentato, del contesto in cui si svolse il lavoro del più grande uomo di teatro di tutti i tempi. Cosa utilissima, perché molti aspetti della cultura teatrale elisabettiana, decisivi per lo sviluppo della produzione drammatica shakespeariana, sono tutt'altro che familiari al comune lettore. E, in ogni caso, il biografo di Shakespeare deve per forza «allargarsi», perché pochissimi sono i documenti relativi alla sua vita. E nessuno di essi, notarili come sono, particolarmente utile a capire «l'uomo» Shakespeare, o in grado di offrire degli spunti che ne illuminino la personalità.
Ackroyd, come gli altri biografi, propone così una serie di ipotesi suggestive riguardanti ciò che non è documentato ma che potrebbe essere vero. Ad esempio, a proposito delle convinzioni religiose di Shakespeare, presenta tutti gli elementi che propendono a favore di una sua possibile formazione cattolica (l'unico dato certo è che era cattolica sua madre). Su questo punto, come su altre fantasiose ipotesi (le opere di Shakespeare sono state scritte da un altro; negli anni della gioventù, su cui niente si sa, aveva viaggiato in Italia), Ackroyd illustra assai bene le posizioni contrapposte, ma poi si attiene alle conclusioni più ampiamente condivise dagli studiosi. In una sola occasione si sbilancia a favore di un'ipotesi azzardata, sostenendo che il monologo «Essere o non essere» è un' interpolazione. Strano sbilanciamento, dato che qualsiasi esperto di teatro elisabettiano poteva spiegargli senza difficoltà che interpolazione non è.
Il pregio di questa biografia sta soprattutto, oltre che nella scorrevolezza della scrittura, nell'ammirazione contagiosa con cui Ackroyd si porge al lettore per reclutarlo tra i fans di Shakespeare. Impresa meritoria. Ma per uno sguardo più acuto e puntuale sulla sua vita (cattolicesimo incluso), resta insuperato il saggio di Stephen Greenblatt Vita, arte e passioni di William Shakespeare, capocomico , pubblicato in Italia da Einaudi pochi anni fa.

Repubblica 16.4.11
Brillanti, sicuri, potenti alla ricerca della pillola che dà l´intelligenza
Molti i farmaci che aiutano le performance, ma nessuno è super come nel film "Limitless"
Il tema del potenziamento cerebrale diventa anche etico: si finisce nel doping
di Michele Bocci


Più intelligenti grazie a una pillola. Sempre presenti, brillanti, concentrati e tranquilli. Addosso un senso di potenza assoluta, la sicurezza di riuscire a fare bene ogni cosa. Non è la scienza (per ora) a segnare la rivoluzione ma un film a farla immaginare. Si intitola "Limitless", nel cast c´è pure Robert De Niro, e il protagonista grazie a un farmaco dal nome Nzt dà una svolta alla sua esistenza, il suo cervello diventa più potente e la sua vita va alla grande.
Una medicina come quella che sconvolge, non solo in positivo, Eddie Morra, interpretato da Bradley Cooper, ancora non esiste ma qualcuno la studia e soprattutto in molti la cercano tra quelle già disponibili in farmacia. Che siano amfetamine, farmaci anti narcolessia o anti parkinson, sono tante le molecole a cui chiede aiuto chi vuole più concentrazione e lucidità. Ma il prezzo da pagare è molto alto. «Questi prodotti possono dare effetti collaterali e dipendenza, come le droghe - dice Sandro Sorbi, ordinario di neurologia a Firenze - E poi è impensabile usarli per periodi prolungati se non si è malati».
Tra gli studenti di ogni età da anni c´è chi sceglie le amfetamine per imparare velocemente. Soprattutto negli Usa ora va di moda il Ritalin. Nel 2008 la rivista Nature ha intervistato 1.400 scienziati di 60 paesi scoprendo che un quinto di loro usava farmaci per ottenere un potenziamento cognitivo e quasi sempre si trattava dell´amfetamina nata per i bambini iper attivi. Anche il Provigil, efficace contro la narcolessia, viene usato da chi vuole rendere di più in ciò che fa. È stato pure testato sui piloti di elicottero Usa. Poi ci sono musicisti e performer: non pochi controllano l´agitazione prima degli show con betabloccanti, farmaci per l´ipertensione.
«Da anni si parla di un farmaco per l´intelligenza. La ricerca c´è, anche su pratiche come la stimolazione magnetica transcranica, che noi usiamo sui nostri pazienti - dice Carlo Caltagirone, direttore scientifico del Santa Lucia di Roma, importanti centro di neuroriabilitazione - Questa attività potenzia o inibisce certe aree cerebrali. In chi ha subito un danno può essere di grande aiuto. Esistono anche studi su persone sane per capire se stimolando determinate zone si accrescono certe capacità». Il tema del potenziamento del cervello non è solo sanitario. «L´intelligenza è un concetto troppo complesso: posso aumentare l´attenzione ma di qui a far venire idee migliori con una pillola ce ne vuole», dice Pierangelo Geppetti, farmacologo clinico di Firenze. «C´è un problema etico. È corretto migliorare la memoria e la lucidità se non in casi limitati, come quello del pilota che deve salvare i passeggeri da un pericolo? - chiede Caltagirone - Perché dobbiamo essere più produttivi ed efficienti, per lavorare di più? Non mi convince la ricerca della performance quando si parla di intelligenza. Si finisce nel doping». Laura Fratiglioni dirige il centro di ricerca sull´età del Karolinska di Stoccolma. «Dobbiamo ricercare per mantenere la capacità intellettiva di anziani e malati, non per aumentare l´apprendimento di chi è giovane e sta bene».

Repubblica 16.4.11
"La plasticità del sistema nervoso può farci migliorare, non le medicine"
Anche l´attività fisica è importante perché fa sì che funzionino più cellule


Non c´è bisogno di medicine, il cervello diventa più forte con l´allenamento, sia mentale che fisico. Ne è convinta Monica De Luca, professoressa di neurofarmacologia all´Università di Milano.
Come si diventa più intelligenti?
«Bisogna stimolare i circuiti del cervello, attivando le sinapsi. Se leggo un libro, parlo le lingue, socializzo metto in pratica dei processi che ampliano il mio "hard disk". Magari anche involontariamente».
In che senso?
«Una ricerca inglese ha scoperto che i tassisti di Londra, a furia di memorizzare strade, hanno l´area del cervello detta ippocampo più grande. Hanno fatto un allenamento inconsapevole».
E l´attività fisica serve?
«Lo dimostrano le ricerche di uno scienziato americano, Fred Gage. Un topolino in una gabbia vuota sviluppa molti meno neuroni di un altro a cui diamo la ruota per correre. Non è detto sia più intelligente ma ha più potenzialità perché ha cellule in più da far funzionare».
Quindi i farmaci non servono?
«Sono gli americani a lanciare i progetti di ricerca sui medicinali. È meglio agire sulla plasticità del sistema nervoso, sulla sua capacità di modificarsi e crescere seguendo certi stimoli».
(Monica De Luca è docente di neurofarmacologia, mi. bo.)