giovedì 3 marzo 2011

www.adifesadellacostituzione.it.

l’Unità 3.3.11
Prove di alleanza costituzionale Nel corteo dal Pda Fli, da Bersani a Vendola e Di Pietro
L’invito a Benigni e a Saviano sul palco Vecchioni e Neri Marcorè con Piccolo e Guerritore
In piazza il popolo tricolore per scuola e Costituzione
Sarà il C-Day. Tutti in piazza con in mano la Costituzione e il tricolore. «Mettetelo anche ai balconi». La prima a parlare alla piazza sarà Sofia Sabatino, che rilancia il nostro appello in difesa della scuola pubblica.
di Mariagrazia Gerina


Stavolta il popolo che scende in piazza, a Roma e in tutta Italia, indosserà semplicemente il tricolore. «Verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni», come recita l’articolo 12 della Costituzione. Sarà lei, che già campeggiava nei cortei viola del No-B Day, la protagonista, solenne e popolare, del 12 marzo, proclamato «C-Day», giornata della Costituzione. Da leggere, da portare in piazza, da regalare, da declamare. Da difendere dalle «randellate» del presidente del Consiglio. Perché a sessantaquattro anni dalla sua promulgazione è ancora lei la difesa più forte di tutto ciò che, essenziale per la democrazia, finisce sotto attacco. A cominciare dalla scuola pubblica.
E per questo sarà una ventenne, Sofia Sabatino, della Rete degli studenti, a salire per prima sul palco di piazza del Popolo. In nome dei milioni di studenti, insegnanti, assistenti scolastici, offesi, in una sola battuta, dal premier. Quale migliore riparo anche per loro della Costituzione? «Difendere la scuola pubblica e difendere la Carta costituzionale è una sola battaglia», spiega Sofia, rilanciando a tutto il popolo del 12 marzo l’appello de l’Unità. Una battaglia che parla a tutti, universale, senza colori. Ci vorrebbero Benigni o Saviano a darle voce, suggerisce a nome dei promotori Beppe Giulietti di Articolo 21. Un invito, più che un semplice auspicio. Lo sforzo è fare di quel palco, il poet’s corner della «Repubblica democratica fondata sul lavoro». Largo al “cantante-professore” Roberto Vecchioni, reduce da Sanremo, invitato a intervenire. E all’attore Neri Marcorè, volto popolarissimo del cinema e del piccolo schermo, che alla Costituzione ha già prestato voce e talento, con uno spettacolo teatrale a lei dedicato. Ci saranno Ottavia Piccolo e Monica Guerritore. E poi, silenzio. per ascoltare le parole del padre costituente Piero Calamandrei. Gli organizzatori sperano che possa essere sua nipote a introdurle alla piazza.
Resteranno giù dal palco i politici che hanno aderito alla manifestazione. Tanti, tantissimi. Escluso Pdl e Lega, ci sarà tutto l’arco parlamentare e non nel corteo che, a partire dalle 14, si snoderà da piazza della Repubblica a piazza del Popolo. Dai democratici del Pd, guidati da Bersani, Bindi e Franceschini, ai finiani di Fli, con Fabio Granata e Filippo Rossi (l’adesione alla manifestazione gli è costata la chiusura di Farefuturo webmagazine). Fianco a fianco con Antonio Di Pietro, Nichi Vendola, il Prc Paolo Ferrero, il verde Bonelli. Prove di allenaza costituzionale. Non mancherà l’Api, assicura Tabacci. E anche i centristi di Casini ci stanno riflettendo. «La difesa della Costituzione è nel nostro dna, ma decideremo domani (oggi ndr)», fa sapere Lorenzo Cesa. «Tutti sono benvenuti», dice Giulietti a nome di un comitato promotore che va da Articolo 21 al Popolo Viola, daa Se non ora quando alla Cgil, dall’Usigrai all’Anpi alle Chiese Evangeliche. E non c’è solo Roma. A Brescia, al popolo tricolore è stata negata piazza della Loggia, denuncia Sandra Bonsanti di Giustizia e Libertà: «Ce ne prenderemo un’altra».

il Fatto 3.3.11
La grande alleanza si fa in piazza
Articolo 21 lancia la manifestazione del 12 marzo
di Wanda Marra


Da Fabio Granata di Futuro e Libertà a Nichi Vendola di Sel: il 12 marzo in piazza “A difesa della Costituzione” le opposizioni ci saranno. E con loro nel corteo promosso da Articolo 21 dietro gli stessi colori, “uniti nella differenza” tanti altri: insegnanti e studenti, società civile dai diversi orientamenti, mondo sindacale e associativo. “Si tratta di un’iniziativa organizzata da un grande Comitato che mette insieme sentimenti diffusi che vanno oltre gli schieramenti, donne e uomini che non vogliono che la Costituzione sia messa da parte a colpi di randellate”, ha spiegato il portavoce di Articolo 21, Beppe Giulietti. In piazza scenderanno con un Tricolore e una copia della Costituzione. Simboli essenziali che rappresentano le basi stesse della Repubblica italiana, con i quali in molti dunque si sentono di sfilare. A presentare il corteo, che partirà alle 14 da piazza della Repubblica, a Roma, e arriverà a piazza del Popolo, ieri c’erano rappresentanti delle varie anime che danno vita alla mobilitazione. A partire dagli studenti in movimento in questi giorni a difesa della scuola pubblica, dopo gli attacchi all’arma bianca di Silvio Berlusconi: “La scuola è un tema centrale della Costituzione, un tema oggi negato”, ha spiegato Sofia Sabatino, portavoce della Rete degli studenti. A manifestare non sarà solo Roma, ma anche tante altre città, in Italia e in Europa: Londra, dove l’appuntamento è a Downing Street, Edimburgo, Praga. “Dobbiamo avere a cuore tutte le piazze ha sollecitato Sandra Bonsanti, di Libertà e Giustizia A Brescia, ad esempio, il comune ci sta negando piazza della Loggia”.
 Tante le adesioni al “C day” dal mondo dei movimenti e delle associazioni: il Popolo Viola (ieri presente anche in conferenza stampa), la Fnsi, la Chiesa evangelica. E poi, la Cgil, l’Arci, l’Anpi, le donne di “Se non ora quando”.
SARANNO presenti in molti dal mondo della politica: “La nostra adesione ha spiegato Massimo Donadi, capogruppo dell’Idv a Montecitorio nasce dalla consapevolezza che stiamo raggiungendo il massimo del cinismo”. Con la richiesta di sollevare conflitto di attribuzione e le “aggressioni alla Corte Costituzionale” la sensazione “è di essere alla vigilia di una campagna elettorale che il centrodestra intende giocare su uno scontro istituzionale finale”. Mentre Antonio Di Pietro sul suo blog, annunciando l’adesione del suo partito al corteo, ha sottolineato che subito dopo partirà la campagna referendaria. Di fatto di natura “politica straordinaria” ha parlato Fabio Granata. E dunque, la mobilitazione del 12 sarà “la risposta a ciò che abbiamo dovuto subire in questi mesi, dall'attacco ai magistrati alla scuola pubblica”. Per Futuro e Libertà è arrivata l’adesione di Angela Napoli e anche di Filippo Rossi, che si è visto chiudere proprio l’altroieri il suo web magazine, FareFuturo, come probabile effetto della faida interna ai futuristi. La goccia che fatto traboccare il vaso sarebbe stata proprio l’adesione al “C day”. “L'essermi impegnato culturalmente a destra mi ha insegnato il valore del patriottismo. Mi ha insegnato che il senso dello stato deve essere messo al primo posto, prima degli interessi personali e particolari”. Difficile pensare che in piazza ci possa essere Gianfranco Fini, che però è informato della presenza e dell’impegno dei suoi. Sulla necessità di rispettare “la filosofia di fondo” della nostra Carta ha insistito Bruno Tabacci dell’Api: “È la deriva presidenzialista” il vero “vulnus” alla Costituzione perché “non avremo una democrazia alla Obama. Il rischio è una finta democrazia alla Putin”. Tra le adesioni di politici, quelle di Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi, Dario Franceschini e Anna Finocchiaro del Pd, di Paolo Ferrero (Federazione della Sinistra), Angelo Bonelli (Verdi), Claudio Fava (Sel). Insomma, da tutto l’arco delle composite opposizioni. Nessuna adesione ufficiale ancora dall’Udc, anche dai centristi dicono che alcuni di loro ci saranno. Gli organizzatori precisano che si tratta di un’alleanza per la manifestazione e non per le elezioni, o per il governo. Ma di sicuro è la prima “materializzazione” della “Grande alleanza”.
INTANTO si lavora al palco (anche se l’intento degli organizzatori è spostare l’attenzione sulle persone normali): a salirci saranno Roberto Vecchioni, Ottavia Piccolo a Monica Guerritore, Neri Marcoré. Roberto Benigni e Roberto Savia-no sarebbero i benvenuti, come dichiara Giulietti. Una nota, per finire: si tratta di una mobilitazione autofinanziata tant’è che la settimana prossima partirà sulla rete e su numerosi network radiofonici una campagna per trovare fondi.

il Riformista 3.3.11
Bersani soffre
D’Alema e Veltroni scettici sui referendum Ma ora è il biotestamento la vera frattura
DEMOCRATICA. Nuove grane per il segretario. Cresce il fronte astensionista sui referendum di Di Pietro. Riesplode il caso biotestamento. E sui dieci milioni di firme anti-Cavaliere.
di Tommaso Labate

http://www.scribd.com/doc/49915081

l’Unità 3.3.11
Immigrazione: il ritorno della politica
Dalla propaganda alla realtà
di Marco Pacciotti


Si è svolta, sabato a Roma, la terza riunione del Forum Immigrazione nazionale del Pd nato lo scorso maggio. Confesso che mi aspettavo una discussione incentrata sulla “emergenza immigrazione” come conseguenza di un imminente “esodo biblico” generato da quanto sta avvenendo nel Sud del Mediterraneo. Timori infondati. Gli interventi hanno riportato la giusta ammirazione per chi sta conquistando la propria libertà e la comprensibile preoccupazione per il dopo. Con forza si è sottolineato come l’Europa abbia la chance e il dovere di esercitare un ruolo centrale nella transizione ora e nella ricostruzione poi. Quella stessa Europa che fino a ieri ha preferito la stabilità alla libertà, dando il sostegno a quei regimi corrotti e violenti a scapito dei movimenti di opposizione. Il tutto condito dalla supponente certezza che in quei paesi mai sarebbero nate democrazie di tipo occidentale, sottovalutando per anni i segnali di insofferenza che pure arrivavano.
In tanti hanno sottolineato come le parole che profetizzavano biblici eventi siano smentite dai fatti: c’è semmai da chiedersi come mai i poco più di 5.000 tunisini e circa 50 egiziani finora arrivati abbiano mandato in tilt l’intero sistema di accoglienza. Colpevolmente impreparato nonostante fosse chiaro quello che stesse avvenendo a 70 chilometri da Lampedusa. Impreparazione a cui si è sommata inadeguatezza sulla scena internazionale. Anziché predisporre in sede europea le necessarie contromisure per gestire eventuali altri flussi più rilevanti, si è assistito a un maldestro scaricabarile e a un allarmistico crescendo di numeri. Stime poi ridimensionate a forse 50.000 possibili transfughi, ovvero meno dei 60.000 lavoratori stagionali ammessi col recente decreto flussi e molti meno delle centinaia di migliaia di profughi kosovari di qualche anno fa. Gestire anziché allarmare quindi, prevedere invece di stupirsi. Questo dovrebbe essere il modus operandi con cui affrontare una possibile emergenza. Si è ribadita la necessità di presentare le cose nella corretta prospettiva per evitare una percezione distorta dei fatti. Una realtà già seria, senza bisogno di inutili enfatizzazioni mediatiche ad uso propagandistico. In primis, evitando di parlare di emergenza immigrazione, poiché non esiste. Esiste invece una vasta comunità di nuovi italiani, donne, uomini e minorenni che nel nostro Paese vive ormai da tempo. Lavorando, andando a scuola, svolgendo vite regolari e tranquille. Nuovi cittadini che chiedono legalità e certezze. È questa l’Italia della convivenza, l’idea di Paese che a 150 anni dalla sua nascita vorremmo raccontare nella Conferenza nazionale sull’immigrazione che si terrà il 25 e 26 marzo a Roma.

l’Unità 3.3.11
Flessibilità in uscita Confindustria tentata dallo strappo del governo LaleaderCgil Non è questa la priorità, i problemi sono altri
Camusso ferma la Marcegaglia: non sognatevi di toccare l’art.18
Marcegaglia vuole affrontare il tema della flessibilità in uscita, Camusso frena: «Il pensiero corre subito all’art.18». La leader degli industriali sposa la linea Marchionne: possibile la deroga al contratto nazionale.
di La. Ma.


Emma Marcegaglia la butta là: il problema della flessibilità in uscita dal lavoro, dice convinta, «va affrontato». Sacconi plaude immediatamente, Susanna Camusso frena: «Il pensiero risponde corre subito all’articolo 18 e al tentativo, che ha in mente Sacconi, di destrutturazione dello Statuto dei lavoratori. Questo non ha nulla a che vedere con la realtà di oggi del Paese, con i problemi che dobbiamo proporci». Come dire, non è tempo di discutere di un tema che creerebbe peraltro solo ulteriori divisioni nel Paese. Ma la leader degli industriali non demorde, la polemica a distanza prosegue: «Credo che il problema del mercato del lavoro completamente duale e spaccato sostiene Marcegaglia vada risolto. C’è il problema di una flessibilità in
ingresso, forse eccessiva con strumenti che vanno tarati, ma c’è anche il problema di una flessibilità in uscita, che prima o poi va affrontato, non possiamo continuare a eluderlo». Il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi scatta subito: «Ha ragione Marcegaglia dice quando sottolinea l’esigenza di completare la regolazione del mercato del lavoro e dei rapporti di lavoro. Così come fa bene, dal punto di vista del metodo, a voler cercare su ciò un’intesa con le altre parti sociali».
La presidente di Confindustria è ad un convegno dedicato a contrattazione e cassa integrazione in Germania e Italia. Un parallelismo che non regge: la Germania, ricorda Marcegaglia, cresce a un ritmo del 3,6%, mentre l’Italia viaggia sull’1,3%, perché la crisi è stata affrontata in maniera diversa oltre che per differenze strutturali del sistema. L’Italia è ricorsa ad un uso massiccio della cig, «usata anche per coprire la disoccupazione», mentre in Germania «la cassa integrazione è usata per ridurre le ore di lavoro». E su questo, invita Marcegaglia, «si deve riflettere». Quanto alla cassa integrazione in deroga, «è stata utile perché con la crisi non è stato possibile riformare gli ammortizzatori sociali» ma «va vista come uno strumento eccezionale per gestire la crisi, altrimenti c’è il rischio che la ripresa arrivi e si continui a usarla».
MARCHIONNE DOCET
Altra questione, la deroga al contratto nazionale, possibile nell’idea di «sposare con la contrattazione aziendale un maggiore livello di produttività e pagare più salario», riprende Marcegaglia. Come Confindustria «stiamo ragionando sul tema dell’opting out», l’uscita temporanea di un’impresa dall’associazione alla quale è iscritta per contratti collettivi aziendali in deroga dei contratti nazionali. In altri termini, la strada seguita da Marchionne per Pomigliano e Mirafiori.
«Solo il 3% delle aziende usa l’opting out spiega la presidente di Confindustria una possibilità che in Germania c’è dal 2005. In un momento come questo di grande difficoltà dobbiamo avere la capacità di concordare, attraverso le relazioni sindacali, una serie di strumenti che consentano di aumentare i livelli di produttività e di avere salari più alti. Dobbiamo scegliere con i sindacati se questo percorso lo vogliamo gestire o subire. Come Confindustria chiude la presidente io lo vorrei gestire».

Repubblica 3.3.11
Parla Cofferati, dieci anni fa leader Cgil e paladino dell´articolo 18
"Macché tabù della sinistra Quella norma difende la dignità delle persone"
Siamo alla riproposizione ideologica di un falso obiettivo. È una classica fuga dalla realtà
di Roberto Mania


ROMA - Sono passati quasi dieci anni dalla battaglia del 2002 sull´articolo 18. Sergio Cofferati era all´epoca il segretario generale della Cgil e il "capo" del movimento a difesa dello Statuto. Oggi, dopo essere stato sindaco di Bologna, Cofferati è parlamentare europeo per il Pd.
L´articolo 18 continua ad essere un tabù per la sinistra?
«Non è mai stato un tabù. È sempre stata una norma a difesa delle dignità delle persone. È un diritto».
Eppure riguarda una minoranza dei lavoratori visto che lo Statuto si applica solo nelle aziende con più di quindici dipendenti.
«Allora perché i dipendenti delle piccole imprese, i lavoratori precari, i giovani parteciparono con tanta determinazione alla difesa di quella norma che non li riguardavano direttamente? Perché era evidente la posta in gioco: e cioè l´idea stessa del diritto del lavoro. E, insisto, il rispetto e la dignità di chi lavora. È bene ricordarsi poi che si parla del divieto di licenziamento senza giusta causa. Perché è questo che non è accettabile nella coscienza delle persone. Ora siamo alla riproposizione ideologica di un falso obiettivo. È una classica fuga dalla realtà. Poiché la realtà è drammatica, non viene affrontata e si parla d´altro. Con una crescita economica intorno all´1 per cento non si crea occupazione aggiuntiva. Vuol dire che chi è fuori dal lavoro non rientrerà e per i giovani non c´è nemmeno la prospettiva del lavoro temporaneo. D´altra parte, sono i dati dell´Istat che lo dicono».
Come pensa, allora, che si possa superare il dualismo del nostro mercato del lavoro, diviso tra chi ha tutte le tutele e chi ne ha pochissime?
«Questo è il momento delle riforme. Servono nuovi strumenti. Noi continuiamo ad applicare la cassa integrazione e i prepensionamenti che sono nati all´inizio degli anni Settanta. Il mondo è cambiato».
Qual è la sua proposta?
«Vanno riformati gli ammortizzatori sociali e introdotti nuovi strumenti. Per esempio è una proposta interessante quella di Tito Boeri sul reddito minimo garantito contro la povertà. Noi siamo tra i pochissimi Paesi europei a non avere uno strumento di questo tipo. Abbiamo ancora la cassa integrazione ordinaria e quella straordinaria, mentre ci sarebbe bisogno di elementi unificanti».
Resta il fatto che quasi nessun Paese ha una norma come quella dell´articolo 18.
«Se è per questo in nessuna nazione europea è stato sollevato il problema dei licenziamenti. Comunque ciascun Paese ha la sua legislazione e la sua storia».
Che cosa pensa dello Statuto dei Lavori proposto dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi?
«Penso che lo Statuto dei Lavoratori del 1970 sia una legge modernissima per concezione e anche per le soluzione adottate. C´è un sistema di diritti che viene riconosciuto. C´è, invece, da scandalizzarsi davanti all´idea che siccome non tutti godono delle tutele dello Statuto, allora queste si riducono a tutti. Nel 2003 la Cgil raccolse 6 milioni di firme per una legge di iniziativa popolare che estendesse la rete dei diritti, modulandola in base alle tipologie del lavoro. Dove è andata a finire?».

Repubblica 3.3.11
Se l´istruzione per tutti diventa un bersaglio
Piero Calamandrei l´aveva definita felicemente "un organo costituzionale". Essenziale per la cittadinanza
Nella società di oggi costituisce uno spazio insostituibile e irrinunciabile di confronto pubblico tra identità e culture diverse
L´attacco del premier provoca le proteste di insegnanti e studenti e riporta al centro della discussione una istituzione in difficoltà per mancanza di finanziamenti
di Stefano Rodotà


In pubblico, con toni veementi (esagitati?), il Presidente del Consiglio è andato all´attacco della scuola pubblica come luogo di cattivi maestri, dalla quale a buon diritto genitori liberi e pensosi vogliono tenere lontani i figli. Non è una novità. Per raccattare voti, Berlusconi non va mai troppo per il sottile. Ma una scuola allo stremo avrebbe meritato ben altra attenzione da parte del Presidente del Consiglio e della sua sempre fedele ministra dell´Istruzione (così ne avrebbe scritto Damon Runyon). Se una parola doveva venire, questa doveva essere di riconoscenza e rispetto per chi, in condizioni personali e ambientali sempre più difficili, svolge l´essenziale funzione della trasmissione del sapere e della formazione dei giovani. E anche di rispetto per gli studenti, ridotti nelle sue parole ad oggetti docilmente manipolabili, e che invece hanno mostrato di essere tutt´altro che inclini all´indottrinamento, di possedere sapere critico. Ma è proprio il sapere critico che inquieta, che turba il disegno di una scuola tutta e solo votata alla "formazione al settore produttivo"(queste le larghe vedute del Governo).
La scuola pubblica è un´altra cosa. Le sue ragioni sono oggi persino più forti di quelle che indussero i costituenti ad attribuirle valore fondativo, a costruirla come una istituzione affidata alle cure e agli obblighi della Repubblica, come ben risulta dalla severa lezione di diritto costituzionale impartita da Salvatore Settis all´inconsapevole ministra (Repubblica, 1° marzo). Le nostre società sono divenute più complesse, plurali nella loro composizione, attraversate da conflitti. Hanno per ciò bisogno di spazi pubblici dove le persone diverse possano incontrarsi, dialogare. Di fronte all´altro, infatti, non è più sufficiente la tolleranza. Oggi servono soprattutto riconoscimento, accettazione, inclusione. E per questo non bastano le buone parole, peraltro rare, i propositi virtuosi. Sono indispensabili istituzioni capaci di produrre le condizioni personali e sociali del riconoscimento.
Di queste istituzioni, di questi spazi aperti, la scuola pubblica è la prima e la più importante. Il mettere sullo stesso piano scuola pubblica e scuole paritarie annuncia il passaggio ad un sistema che produce scuole di "appartenenza" – cattoliche o musulmane, leghiste o meridionalizzate, per élites o per diseredati – e avvia un tempo in cui non è la libertà di ciascuno ad essere esaltata, ma nel quale il riconoscimento reciproco è sostituito dall´esasperazione della propria identità, il confronto dalla distanza dall´altro. Chiuso ciascuno nel proprio ghetto, tutti preparati a contrapporsi ferocemente l´un l´altro. Si rischia così una società nella quale nessuno è educato alla conoscenza degli altri, ma solo dei propri simili. Dove, dunque, il dialogo tra diversi diviene impossibile o superfluo, dove non solo la soglia della tolleranza si abbassa drammaticamente, ma si perde pure la possibilità di essere educati alla ricerca di dati comuni, che sono poi quelli che consentono di superare gli egoismi e di individuare interessi generali. Solo una scuola pubblica può trasformare la molteplicità in ricchezza.
Con espressione felice, Piero Calamandrei aveva parlato della scuola pubblica come "organo costituzionale". Proprio queste parole ci aiutano a cogliere un altro aspetto sconcertante dell´intervento del Presidente del Consiglio. Un organo costituzionale delegittima un altro organo costituzionale. Pure questa non è una novità. Non v´è più nulla nelle istituzioni che Berlusconi pensi che meriti d´essere rispettato, fuori di se stesso. Nel momento in cui la scuola viene indicata al disprezzo dei cittadini come luogo dove si "inculca" qualcosa, ecco costruita la premessa per giustificare il suo abbandono materiale, il taglio delle risorse, la mortificazione di chi lavora lì dentro – docenti e studenti. E, al tempo stesso, si dà nuovo fondamento al "dirottamento" dei fondi pubblici verso le scuole private.
Uso questa parola non per riaprire qui, come pure sarebbe doveroso, la questione della legittimità del finanziamento pubblico alla scuola privata, ma per porre un altro problema. Essendo indiscutibile l´obbligo dello Stato di istituire "scuole statali per tutti gli ordini e gradi" (art. 33 della Costituzione), nel momento in cui le risorse disponibili si riducono, quella chiarissima prescrizione costituzionale deve essere almeno intesa come criterio per la distribuzione delle risorse disponibili, sì che ai privati si dovrebbe arrivare solo dopo aver soddisfatto le esigenze del pubblico.
Si perde, altrimenti, proprio la qualità di organo costituzionale della scuola pubblica, il suo essere luogo di produzione della conoscenza, dunque di una delle precondizioni della stessa democrazia. Ma l´innegabile natura costituzionale della scuola pubblica, improponibile per una scuola privata che può esserci o non esserci, è specificata dal fatto che di essa la Costituzione parla subito dopo aver detto che «l´arte e la scienza sono libere e libero ne è l´insegnamento». Alla scuola pubblica si deve guardare come al luogo del sapere libero e disinteressato, che è la forma del sapere che costruisce il cittadino. Se l´attenzione, invece, è sempre più rivolta al "settore produttivo", si ha di vista una formazione tutta strumentale, fatalmente riduttiva, persino inadeguata a quelle esigenze di flessibilità culturale che oggi accompagnano qualsiasi lavoro.

Repubblica 3.3.11
Fu il centrosinistra degli inizi a portare l´età dell´obbligo a quattordici anni, aprendo così a tutti gli strati sociali la possibilità di accedere agli studi superiori, dai licei fino all´università
"L´ascensore sociale" della Prima repubblica
Così è cresciuto il nostro paese
di Miriam Mafai


Alla fine, a ripensarci adesso, non fu poi così male la nostra scuola ai tempi della cosidetta Prima Repubblica, quando al ministero di Viale Trastevere, comandarono quasi senza interruzione dal 1946 al 1997 uomini della Dc, da Gonella a Gui a Misasi fino a Rosa Russo Iervolino. Qualche battaglia, e non delle meno importanti, è stata vinta. Non fu poi così male la nostra scuola negli anni della Prima Repubblica se, grazie all´impegno dei nostri maestri e delle nostre maestre, si riuscì ad abbattere il tasso di analfabetismo che nel 1951 in Italia era ancora del 14% (con punte del 25% in Puglia e Sicilia e del 32% in Calabria) e si riuscì moltiplicare il numero degli studenti della scuola media che nel 1951 non arrivavano, in tutta Italia, a un milione e venti anni dopo sfioravano i tre milioni.
Non sarà stato merito dei vari ministri democristiani, ma grazie all´impegno dei suoi insegnanti, la nostra scuola pur nelle dure condizioni di quei tempi ha accompagnato e promosso, forse senza programmarla, la crescita del nostro paese. Eravamo allora un paese in movimento, nel quale erano possibili sogni e speranze. Penso alle centinaia di migliaia di contadini meridionali semianalfabeti che, emigrati a Milano o Torino, indicati spregiativamente come "marocchini", sognavano per i propri figli un futuro da operai. Ed erano migliaia gli operai di Torino o Milano che sognavano per i propri figli un futuro da tecnico o da ingegnere. Solo sogni? No, non furono solo sogni: quello che chiamiamo "ascensore sociale" bene o male per un certo periodo ha funzionato, anche grazie all´impegno ed alla fatica dei nostri insegnanti.
Una spinta decisiva in questo senso venne dalla prima vera riforma della scuola che, ereditata dal precedente regime, prevedeva dopo i cinque anni di elementare due percorsi alternativi: da una parte una scuola media con il latino per i ragazzi (e le ragazze) che si ripromettevano di proseguire gli studi fino all´Università. Gli altri potevano, volendo, frequentare un avviamento professionale o, ancora meglio, dare una mano a bottega o nei campi. Va ascritto a merito del primo centrosinistra, presieduto da Amintore Fanfani, avere cancellato per sempre quello che era stato definito un "marchio dei poveri al bivio dei dieci anni" istituendo una scuola media unica obbligatoria per tutti fino ai 14 anni. E senza il latino. Aspramente discussa e contestata la riforma avrebbe aperto a ceti che ne erano stati fino a quel momento esclusi le porte dell´istruzione superiore, fino, eventualmente, all´Università. Al ministero di Viale Trastevere c´era sempre un democristiano, naturalmente. Era Luigi Gui, un veneto personalmente assai poco proclive alle riforme, ma il clima politico era cambiato e la riforma, fortemente voluta e quasi imposta dai socialisti e dal loro uomo di punta, Tristano Codignola, alla fine nel dicembre del 1962 sarà approvata. Qualcuno definì quella riforma un miracolo.
Poi, nel corso degli anni fu la volta di altri provvedimenti, più o meno ambiziosi e condivisi, destinati a suscitare dibattiti e proteste. Nel corso dei quali mi vien fatto di pensare che bisognerebbe ascoltare di più le voci di coloro che nella scuola lavorano, gli eredi di quei maestri e quelle maestre che ai tempi della Prima Repubblica sconfissero l´analfabetismo e avviarono quell´ascensore sociale di cui oggi sentiamo la mancanza.

Repubblica 3.3.11
Ci sono i diplomifici a pagamento dove basta pagare la retta per non essere mai bocciati. E poi gli istituti di élite dove dovrebbe formarsi la classe dirigente e dove più che la conoscenza contano le conoscenze
L´esperienza di un professore
Per chi suona la campanella
di Marco Lodoli


La scuola pubblica vacilla sotto le bastonate del governo, sotto le radiazioni mortali delle televisioni e dei nuovi valori dominanti, disprezzata e vilipesa dal primo che passa e dal primo ministro. I professori sono piuttosto vecchi e giovani non ne arrivano, graverebbero troppo sul deficit; anche gli edifici spesso sono malridotti, sistemarli sarebbe un altro costo impossibile; i programmi spesso sono astrusi, frutto di tanti anni di astrattismi furibondi; i ragazzi sono confusi, a volte addirittura maleducati, imparano poco, pensano ad altro o a niente.
Eppure se vogliamo che l´Italia abbia un futuro, dobbiamo tenerci stretta questa scuola così malridotta e cominciare ad amarla di nuovo e di più, dobbiamo investire denaro e energie nell´unico laboratorio culturale che il paese possiede. Certo, ci sono le scuole private, e sono tante: ma vogliamo vederle un po´ più da vicino, vogliamo entrarci? Appena laureato ho lavorato alcuni anni in diplomifici preoccupati di una sola cosa: la retta mensile. Non c´era problema didattico o disciplinare che non potesse venir spianato da un assegno. Ricordo anche il volto attonito del gestore della mia prima scuola quando si rese conto che avevo rimandato in storia il rampollo di una nobile famiglia: «Ma quelli pagano, pagano! Lo capisci o no? Quelli ci mantengono a tutti quanti, anche a te che vuoi fare l´eroe! I soldi nella tua busta paga ce li mettono loro, è chiaro?». E gli studenti questo lo sanno benissimo, questi principi vengono loro inculcati – per usare un verbo alla moda – concordemente dai genitori e dalla scuola. Sanno di andare avanti spinti dal soffio di una mazzetta frusciante di banconote: do ut des, pagare moneta vedere cammello, tanto dal ministero non arriva nessuno a controllare.
L´educazione si snoda attorno a un solo comandamento: i ricchi se la cavano sempre, anche quelli decerebrati. Poi ci sono le scuole private d´elite, e anche queste stanno aumentando perché fanno promesse importanti. Qui non si tratta più di salvare i mentecatti, qui si tratta di preparare il club dei migliori. "Non conta la conoscenza, contano le conoscenze" questo è lo slogan implicito delle nuove scuole private, quelle con gli stemmi, i nomi inglesi, le divise stirate e inamidate. Qui ci si iscrive in una loggia che durerà nel tempo: ci si scambiano indirizzi, visite, week-end, sorelle e fratelli, qui si cementa la nuova classe dirigente. A volte c´è una spolveratina di cattolicesimo, zucchero a velo, ma di sicuro in nessun luogo al mondo le parole di Gesù valgono meno che qui: amore, fratellanza, carità sono solo carta da parati. Qui i cammelli passano in fila e al trotto nella cruna dell´ago. Le rette si aggirano attorno ai mille euro al mese proprio per fare selezione, per tenere fuori i miserabili. Quali valori sociali vengono inculcati nelle tenere menti dei vari Jacopo e Coralla? Non perdete tempo nella commiserazione, fate finta che tutto vada bene e andate avanti, il mondo vi aspetta!
Per tenere insieme la società c´è solo la scuola pubblica. È commovente vedere come i ragazzi italiani e i ragazzi che in Italia sono arrivati da lontano riescono a stare bene insieme, a capirsi, a spiegarsi, quanta solidarietà c´è tra tutti quanti, quanti discorsi crescono insieme e si intrecciano al futuro. Bisogna solo rendere la nostra scuola più bella, perché sia il fondamento di una società giusta: bisogna credere in questi ragazzi, proteggerli, farli crescere bene, anche se non hanno mille euro al mese da spendere.

La Stampa 3.3.11
Il pericolo è un altro Kosovo
di Marta Dassù


Uno stallo del genere, con tutti i pericoli che si porta dietro, era prevedibile. Il comportamento di Gheddafi non è poi molto diverso da quello di Milosevic, altro dittatore amico dell’Italia e che alla fine (1999) abbiamo bombardato, assieme agli impianti di Telecom a Belgrado. Il punto è che la gestione internazionale della crisi libica rischia di entrare in una spirale molto simile: dalle sanzioni economiche ai corridoi umanitari, fino ai bombardamenti militari. Siamo preparati a un esito del genere? La sensazione, guardando agli interventi occidentali degli ultimi due decenni, è che questo tipo di guerre moderne nascano appunto così: come guerre non dichiarate e forse neanche volute, ma che diventano inevitabili come ultimo anello di una catena di azionireazioni. Quale Paese in prima linea, molto più esposto di altri, l’Italia ha interesse a evitare che la risposta internazionale alla crisi libica ricalchi le stesse dinamiche. Perché l’esito sarebbe già scritto: finiremo per bombardare Tripoli.
Se americani ed europei decidessero di colpire sedi e strumenti del potere di Gheddafi, come si comincia a chiedere da Bengasi, le implicazioni sarebbero almeno tre.
Primo: diventeremmo alleati di una parte in conflitto, così come lo diventammo a suo tempo dei guerriglieri kosovari-albanesi. E’ una scelta politica che siamo intenzionati a compiere? Non è facile rispondere, anche perché non è chiaro, in realtà, come sia composta la galassia assai frammentata dell’opposizione cirenaica. Secondo: l’appoggio cinese e russo alla prima risoluzione dell’Onu è stato essenziale; ma è escluso che Pechino (e forse Mosca) possano votare a favore di un’azione militare, che sarebbe quindi essenzialmente americana ed europea. Dopo aver bombardato, gli occidentali sarebbero comunque oggetto del risentimento della popolazione locale: la gratitudine dei popoli liberati è merce rara. Terzo: l’uso della forza nei conflitti interni agli Stati non si esaurisce con il primo intervento. Crea anzi le premesse di una lunga presenza, militare e politica, trasformando nei fatti la «responsabilità di proteggere» - ossia un intervento motivato da ragioni umanitarie - in un semi-protettorato. A dodici anni dall’intervento in Kosovo siamo sempre lì, con i nostri soldati e i nostri soldi. E’ un onere che l’Italia e l’Europa sono pronte ad assumersi, in Libia?
Vista l’importanza di queste conseguenze, tentare prima strade diverse è ragionevole - ammesso che la violenza contro il popolo libico non torni a crescere rapidamente. Una parte della diaspora libica, ad esempio, sostiene che nella cerchia ristretta del Colonnello esistano ancora interlocutori possibili, pronti a fare uscire di scena Gheddafi e ad avviare trattative con il governo provvisorio. Un golpe interno, con appoggi internazionali, sarebbe in ogni caso preferibile - almeno come modo per liberarsi del raiss di Tripoli - a un intervento esterno. Nel frattempo, l’Italia dovrà comunque rafforzare gli sforzi umanitari, cercando di garantirsi un appoggio più concreto dell’Europa. Dovrà anche vagliare, con Stati Uniti e Lega Araba (che ha aperto all’Unione africana), l’opzione di una «no fly zone»: non come primo passo verso bombardamenti militari su più larga scala, ma per evitarli, impedendo una repressione tale da costringere a un vero e proprio intervento militare.
In conclusione: i costi e le implicazioni delle decisioni che stiamo prendendo devono essere chiari. Troppo spesso, di fronte alle crisi passate, l’Italia è stata trascinata - a volte nella giusta direzione, a volte meno - dalla spirale degli eventi. In questo caso l’Italia, viste le sue responsabilità particolari di fronte alla Libia, potrà tentare di influire sulle scelte collettive. Ricordando il punto sostanziale: a lungo termine, l’unica vera condizione per la stabilità della Libia è che sia retta dalla propria gente, invece che dai dittatori locali o dalle vecchie potenze coloniali.

La Stampa 3.3.11
Il noi delle donne da Facebook a piazza Tahrir
di Naomi Wolf Oxford


Tra i più diffusi stereotipi occidentali sui Paesi islamici ci sono quelli riguardanti le donne musulmane: occhi da cerbiatto, velate e sottomesse, esoticamente silenziose, eteree abitanti di immaginari harem, rinchiuse in rigidi ruoli di genere. Allora dov’erano queste donne in Tunisia e in Egitto?
In entrambi i Paesi, le manifestanti non avevano nulla in comune con lo stereotipo occidentale: erano in prima linea e al centro, nei notiziari e sui forum di Facebook, e anche al comando. In Egitto, in piazza Tahrir, le donne volontarie, alcune accompagnate da bambini, hanno lavorato costantemente per sostenere le proteste – dando un mano alla sicurezza, alle comunicazioni e all’assistenza. Molti commentatori hanno accreditato al gran numero di donne e bambini la complessiva notevole tranquillità dei manifestanti di fronte alle gravi provocazioni.
Altri cittadini diventati reporter in Tahrir Square - e praticamente chiunque con un telefono cellulare poteva esserlo - hanno rilevato che le masse di donne coinvolte nelle proteste erano demograficamente rappresentative. Molte indossavano il velo e altri segni di conservatorismo religioso, mentre altre ostentavano la libertà di baciare un amico o fumare una sigaretta in pubblico.
Ma le donne non servivano solo come lavoratrici di supporto, il ruolo abituale a cui sono relegate nei movimenti di protesta, da quelli del 1960 fino alla recente rivolta studentesca nel Regno Unito. Le donne egiziane hanno anche organizzato, elaborato strategie e riportato gli eventi. Blogger come Leil Zahra Mortada hanno affrontato gravi rischi per tenere quotidianamente il mondo informato sulla scena in piazza Tahrir e altrove.
Il ruolo delle donne nel grande sconvolgimento del Medio Oriente è stato tristemente sottovalutato. Le donne in Egitto non si sono limitate a «unirsi» alla protesta - sono state una forza trainante per l'evoluzione culturale che ha reso la protesta inevitabile. E ciò che è vero per l'Egitto è vero, in misura maggiore e minore, in tutto il mondo arabo. Quando le donne cambiano tutto cambia e le donne nel mondo musulmano stanno cambiando radicalmente.
Il più grande cambiamento è sotto il profilo educativo. Due generazioni fa, solo una piccola minoranza delle figlie delle élite ricevevano una formazione universitaria. Oggi, le donne rappresentano più della metà degli studenti nelle università egiziane. Sono istruite a usare il potere in un modo che alle loro nonne sarebbe stato difficile immaginare: pubblicando giornali (come Sanaa El Seif ha fatto, a dispetto dell’ordine del governo di cessare le sue attività), facendo campagna per i posti di leadership degli studenti; raccogliendo fondi per le organizzazioni studentesche e organizzando riunioni.
Oggi una consistente minoranza di giovani donne in Egitto e altri Paesi arabi hanno trascorso i loro anni formativi esercitando il pensiero critico in ambienti misti, con uomini e donne, e anche sfidando pubblicamente in classe professori maschi. È molto più facile tiranneggiare la popolazione quando la metà di essa è scarsamente istruita e addestrata a essere sottomessa. Ma, come gli occidentali dovrebbero sapere dalla propria esperienza storica, una volta che le donne sono istruite, diventa probabile che l’agitazione democratica accompagni il conseguente massiccio mutamento culturale.
Anche la natura dei media sociali ha contribuito a trasformare le donne in leader della protesta. Avendo insegnato le capacità di leadership alle donne per più di un decennio, so quanto sia difficile far loro affrontare e rivolgersi a una struttura organizzata gerarchicamente. Allo stesso modo, le donne tendono ad evitare l’iconografia che la protesta tradizionale in passato ha imposto ad alcuni attivisti - quasi sempre un giovane dalla testa calda con un megafono in mano.
In tali contesti - con un palcoscenico, un riflettore, e la necessità di parlare in pubblico - le donne spesso rifuggono dai ruoli di leadership. Ma i social media, attraverso la natura stessa della tecnologia, hanno cambiato l’aspetto e il senso della leadership. Facebook imita il modo in cui molte donne scelgono di vivere la realtà sociale, con connessioni tra le persone importanti tanto quanto la posizione di dominio o di controllo individuale, se non di più.
Su Facebook si può diventare un leader che conta solo creando un «noi» davvero grande. O si può rimanere allo stesso livello, concettualmente, di tutti gli altri nella pagina, non occorre far valere una posizione dominante o di autorità. La struttura dell’interfaccia di Facebook crea ciò che le istituzioni «reali», nonostante 30 anni di pressione femminista, hanno omesso di fornire: un contesto in cui le capacità delle donne di forgiare un potente «noi» e impegnarsi in una leadership di servizio possa far progredire la causa della libertà e della giustizia in tutto il mondo.
Naturalmente, Facebook non può ridurre i rischi della protesta. Ma, per quanto violento possa essere nell’immediato futuro il Medio Oriente, la documentazione storica di ciò che accade quando le donne istruite partecipano a movimenti di liberazione suggerisce che quelli che vorrebbero mantenere l’ordine con il pugno di ferro nella regione sono finiti.
Proprio quando la Francia iniziò la sua ribellione nel 1789, Mary Wollstonecraft, che era stata coinvolta nella testimonianza di quegli eventi, scrisse il suo manifesto per la liberazione delle donne. In America dopo che le donne ebbero aiutato a combattere per l'abolizione della schiavitù, misero all’ordine del giorno il suffragio femminile. Dopo che nel 1960 fu detto loro che «la posizione delle donne nel movimento è sdraiata» generarono la «seconda ondata» del femminismo - un movimento nato dalle nuove competenze delle donne e dalle loro antiche frustrazioni.
In ogni tempo, una volta che le donne hanno combattuto le battaglie per la libertà di altri, sono poi passate a difendere i loro diritti. E, dal momento che il femminismo è semplicemente una logica estensione della democrazia, i despoti del Medio Oriente si trovano di fronte a una situazione in cui sarà quasi impossibile forzare queste donne risvegliate a fermare la loro lotta per la libertà - la loro propria e quella delle loro comunità.
Copyright: Project Syndicate, 2011. www.project-syndicate.org TRADUZIONE DI CARLA RESCHIA

Repubblica 3.3.11
Io, giornalista "a lezione" dalla polizia così la Cina lotta contro la rivoluzione
Il vento della protesta terrorizza Pechino. Stretta sui cronisti stranieri
Regole surreali: per parlare con chiunque, ad esempio, serve un´autorizzazione
di Giampaolo Visetti


Da oggi, se desidero rivolgere la parola ad un cinese, devo chiedere il permesso alla polizia. Nove moduli da compilare, in orario d´ufficio. Scomodo, nel caso di un´urgente necessità, ma accettabile, dai tecnocrati della seconda potenza del secolo che all´improvviso si destano, misteriosamente assediati da un nemico invisibile.
Più difficile fare richiesta di parlare con qualcuno, casualmente, per strada, con tre giorni di anticipo su un incontro determinato dalla sorte. Che in Cina si debba presentire chi si incrocerà, prevedere la curiosità del momento e presentare al governo una domanda sulla fiducia? E se si fosse colti dall´improcrastinabile desiderio di salutare uno sconosciuto? Il funzionario dell´ufficio stranieri di Pechino è colto da una sete fastidiosa, mentre cerca di spiegare le nuove misure per la mia sicurezza. Il suo tavolo, nel seminterrato della caserma di quartiere, due piani sotto lo sportello che rilascia i permessi di soggiorno, è sgombro da qualsiasi oggetto di lavoro e invaso da bottiglie d´acqua lasciate a metà. Due agenti, ai suoi fianchi, sorridono e scrutano il muro. Un terzo aziona una telecamera e ci tiene a mostrare lo zelo con cui riprende le «lezioni di comportamento agli amici giornalisti occidentali». Non ce l´hanno con me. Sono uno qualsiasi tra i centinaia di convocati «per comunicazioni urgenti» nelle ultime ore. Il funzionario legge le istruzioni su un gobbo. Premette: «Quella che voi chiamate rivoluzione dei gelsomini in Cina non c´entra e non è oggetto di questo amabile colloquio. E poiché non sappiamo cosa sia, non sono autorizzato a parlarne». I poteri autoritari, quando smarriscono la certezza della loro onnipotenza, optano per l´assurdo.
Esibiscono un´efficienza ignota alle democrazie, ma incapace di respingere l´urto della semplicità, che inesorabile abbandona i loro atti. Sono due settimane che il Paese più stabile e controllato del pianeta lotta contro l´anonimo annuncio informatico di una rivoluzione priva di insorti. Può apparire strano: ma più la leadership si accerta che non uno si oppone, nemmeno in Internet, e più si convince che non può essere così.
Per rispondere di tale inaccettabile evidenza, in quanto soggetto a forze ostili, trascorro con la polizia di Pechino questa mattina che forse anticipa, anche in Asia, una casuale primavera. Nessuno osa pensare all´ipotesi che le «passeggiate per la democrazia», ogni domenica alle 14 nel cuore delle più importanti città, possano con le settimane raccogliere un numero crescente di appassionati dell´andare a zonzo in silenzio. Per il funzionario che mi ha svegliato alle sei e trenta il problema è questo: non deve succedere che domenica prossima, mentre sono annualmente riunite l´Assemblea Nazionale del Popolo e la Conferenza Consultiva del Popolo Cinese, migliaia di persone si mettano a bighellonare insieme nello stesso luogo di cento città della Cina.
O meglio. Spiega che se camminare equivale a protestare, allora anche Wen Jiabao si oppone a se stesso. Il suo compito è che, qualsiasi cosa accada, nessuno ne parli. Gli viene il dubbio di aver esagerato e si corregge: l´autorizzazione di tre giorni per interpellare, filmare o fotografare un cinese sarà obbligatoria solo in una serie di «luoghi sensibili». Inizia a leggere un elenco di molti fogli: piazza Tienanmen e Wang Fujing a Pechino, piazza Renmin e il Bund a Shanghai, e qui si ferma certo che il resto della Cina in Occidente risulti ignoto. Sta dicendo che, come nel 1989 e mentre al posto dei carri armati per le strade circolano Audi blu, il motore economico del mondo riprecipita, senza una ragione, nel coprifuoco. Potrò guardare le vetrine su Jianguomennei Dajie, ma non quelle un passo più in là. Dovrò fingere di non conoscere un vicino di casa davanti al mausoleo di Mao, ma sarà lecito cenare insieme a lui attorno al lago di Houhai. La domanda su come regolarsi nel caso sia un cinese a rivolgere la parola ad uno straniero, interrompe la lezione. «Lo vede - dice il funzionario - sono i giornalisti succubi dell´America che vogliono trasformarsi nella notizia e diventare una rivoluzione, per farsi pagare immagini che essi stessi animano». La tesi è che la "rivoluzione dei gelsomini", che dovrebbe infettare la Cina con il virus libertario che ammorba il Mediterraneo, sia l´accademico show del club dei corrispondenti in crisi d´astinenza. Dunque: no giornalisti no insurrezione. Non che abbia solo torto: ma basta un cameraman per espugnare la Città Proibita? «Voi che vivete qui - legge il funzionario - dovreste invece collaborare con le autorità a mantenere l´ordine».
Un´obiezione lo ferma. Perché, se i cinesi non desiderano diritti, libertà e giustizia, ma solo soldi, Internet da giorni è diventato inaccessibile, centinaia di persone sono state arrestate, il Paese è occupato dai soldati ed è stato censurato perfino il video in cui il presidente Hu Jintao intona la canzone popolare "Ma che bel fiore di gelsomino"? E perché io adesso sono qui? Entra nell´ufficio un uomo gonfio, in tuta da ginnastica nera, con gli occhi al pavimento e una borraccia rossa in man. È lo stesso che domenica scorsa mi ha pedinato per tre ore a Wang Fujing, che da giorni si addormenta ubriaco fuori di casa mia. «Per un po´ di tempo - sorride il funzionario mentre mi congeda - sarà il suo assistente. Se ha problemi, si rivolga a lui». La Cina pensa che la stabilità della sua contemporanea dinastia possa essere minata solo da una forza estranea, scatenata lontano. E se lo pensa, significa che lo sa.

Avvenire 3.3.11
Pedofilia: quanti speculano sul dolore della Chiesa?
di Massimo Introvigne


Un pamphlet di Agnoli ricorda che, accanto ai veri colpevoli, troppi innocenti sono finiti nel tritacarne

Una ricerca sociologica in Sicilia, presentata la settimana scorsa a Piazza Armerina, ha mostrato che la fiducia nella Chiesa cattolica, pur rimanendo maggiore rispetto a quella nelle istituzioni politiche, è scesa in modo preoccupante rispetto a precedenti indagini, soprattutto tra i più giovani. Il 61,5% di chi ha perso fiducia nella Chiesa afferma di essere stato influenzato in modo importante dalle notizie sui preti pedofili.
Questa ricerca siciliana conferma i dati di numerose altre indagini internazionali.
Benché altre notizie e altri scandali abbiano preso il posto dei preti pedofili sulle prime pagine dei giornali, la ferita inflitta alla Chiesa rischia di essere – se non permanente – almeno di lunga e complessa guarigione. Ma l’opinione pubblica è davvero correttamente informata sulle vicende dei preti pedofili? Ne dubita il giornalista Francesco Agnoli, di cui esce oggi in libreria Chiesa e pedofilia. Colpe vere e presunte. Nemici interni ed esterni alla Barca di Pietro (Cantagalli). Il testo raccoglie articoli in parte già pubblicati da quotidiani, che affrontano diversi aspetti della crisi in un modo appassionato e che non si vergogna né si scusa per il tono polemico. Non si può chiedere a un’opera di questo genere il rigore o la sistematicità di uno studio accademico, ma il lettore ne ricaverà tre informazioni non consuete e molto utili per avere un quadro più completo. La prima è che un numero impressionante di sacerdoti accusati di pedofilia è innocente. Accanto a casi su cui rimangono dubbi, vi sono preti certamente calunniati come il povero don Giorgio Govoni (1941-2000), che anch’io ho conosciuto, morto d’infarto dopo una durissima arringa del pubblico ministero e in seguito completamente scagionato dai giudici di appello e di Cassazione. E Agnoli elenca molti altri casi sconcertanti. La seconda è che soprattutto – ma ormai non solo – negli Stati Uniti la caccia al prete pedofilo è un enorme business per studi legali specializzati che si occupano solo di questi casi e che lavorano a percentuale, trattenendo per sé la gran parte dei risarcimenti milionari che riescono a ottenere, spesso con tattiche che per usare un eufemismo possiamo chiamare piuttosto disinvolte. La terza è che molti di coloro che più duramente attaccano la Chiesa sono stati, e talora sono ancora, alfieri di una rivoluzione sessuale che dal 1968 in poi ha giustificato ogni forma di sessualità 'alternativa', qualche volta non arrestandosi neppure di fronte alla pedofilia e alla giustificazione della vergognosa piaga del turismo sessuale di chi va a cercare minorenni nei bordelli della Tailandia o della Cambogia. I dati che Agnoli offre aiutano a riflettere. Il lettore avveduto userà per continuare la riflessione anche altre fonti. Un approfondimento del magistero di Benedetto XVI sul tema dei sacerdoti pedofili – su cui il testo si limita a qualche cenno – lo aiuterà a evitare ogni rischio di sottovalutazione di un problema che il Papa denuncia come assolutamente reale, vergognoso e drammatico. Ci sono le esagerazioni, le manipolazioni, i teoremi giudiziari infondati. Ci sono, purtroppo, anche i colpevoli. Agnoli non lo nega. E la Chiesa, come il Papa ha ricordato nel suo viaggio in Gran Bretagna, è chiamata –- mentre difende gli innocenti calunniati – a confessare senza reticenze anche la sua «vergogna» e «umiliazione» per i colpevoli, e il «profondo dolore per le vittime innocenti di questi inqualificabili crimini».

l’Unità 3.3.11
Lea Melandri esplora in un saggio le nuove forme di dominio annidate nelle relazioni più intime
La guerra trai sessi sembra stemperata dall’attuale spazio pubblico «femminizzato». Invece...
Inferni di famiglia: ecco dove nasce la nuova violenza
Amore e odio. Si compenetrano da sempre, a partire dalla nascita
Lea Melandri è una delle figure più note del femminismo italiano. Anticipiamo la sua prefazione al nuovo saggio edito da Bollati Boringhieri: «Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà».
di Lea Melandri


Il sussulto di dignità e l’invito che oggi, da schieramenti diversi, viene rivolto alle donne, affinché si ribellino all’immagine degradante con cui sono rappresentate dalla pubblicità e dalla televisione, non deve trarre in inganno. Il corpo femminile occupa la scena mediatica da molti anni, l’immaginario pornografico ha contaminato ormai ogni ordine di discorso e di linguaggio, l’esibizione e il voyeurismo, sapientemente amalgamati dai reality show, sono subentrati, se mai è esistita, alla fruizione passiva dello spettatore. Il risveglio improvviso di coscienze morali offese, di intelligenze femminili «umiliate» dalla mercificazione che si fa del loro sesso, è venuto al seguito di vicende che non potevano lasciare indifferenti, perché avevano come protagonista una delle maggiori cariche dello Stato, il presidente del Consiglio, e come materia scottante le prestazioni sessuali scambiate indifferentemente con denaro, carriere politiche o televisive. Di donne-oggetto, donne-immagine, donne-ornamento, chiunque abbia dato un’occhiata alla televisione, ne ha viste transitare sui teleschermi a flusso continuo, in fasce di orario protette e non protette, trasmissioni colte o di intrattenimento, filogovernative o di opposizione. L’uso del corpo femminile come abbellimento estetico o solleticazione erotica, da affiancare a una parola che resta pur sempre quella dell’uomo, si riconosce, al di là delle appartenenze politiche, per quel marchio d’origine che lo colloca, inequivocabilmente, dalla parte del sesso vincente.
Eppure, è come se l’evidenza che passa sotto gli occhi di tutti, quando per strada o alle fermate della metro alziamo gli occhi su un muro, quando accendiamo la televisione o sfogliamo un giornale, avesse avuto bisogno, per rendersi visibile, di una scossa dall’esterno, dal mondo stesso che la produce. Tale è stata la vicenda che ha visto implicati Silvio Berlusconi, veline ed escort. Per chi ha alle spalle un percorso ininterrotto di cultura e pratica femminista, è irritante sentir parlare di «silenzio delle donne», ma bisogna anche avere il coraggio di porsi interrogativi scomodi e imbarazzanti su quella che oggi appare vistosamente come una contraddizione: un movimento che ha dato alle donne una circolazione e una cittadinanza nel mondo finora sconosciute, ma che le ritrova inspiegabilmente «adattabili», poco inclini ad aprire conflitti, acrobate protese a sorreggere l’impossibile conciliazione tra due realtà fatte per restare separate, la casa e la polis, il corpo e il pensiero, la femminilità e la durezza virile, gli affetti e la complessità della vita sociale.
Lo spazio pubblico, che ha nel suo atto fondativo l’esclusione delle donne, si è andato sempre più femminilizzando, ma sembra al medesimo tempo diminuita progressivamente la conflittualità tra i sessi, proprio là dove l’impatto con saperi e poteri marcatamente maschili – l’economia, la politica, la scienza ecc. – faceva pensare che sarebbe riemersa con forza. Permangono pressoché inalterati luoghi storici, come la scuola e i servizi sociali, dove una predominante presenza femminile è garantita dalla continuità con quella «naturale» o «divina missione», che vuole la donna «madre per sempre, anche quando è vergine» (Paolo Mantegazza), oblativamente disposta alla cura, anche fuori dalle mura domestiche. Ma la femminilizzazione è andata oltre, spingendosi fin nelle pieghe del tessuto sociale, esaltata come fattore di innovazione e risorsa preziosa da un sistema economico, politico, culturale che risente del declino di antichi steccati tra sfera privata e sfera pubblica, natura e cultura, sessualità e politica: quelle linee di demarcazione che hanno permesso finora alla comunità storica degli uomini di pensarsi depositaria di un marchio di umanità superiore.
Sui giornali più vicini alla Confindustria, come Il Sole 24 Ore, non c’è giorno che non si elogi il valore D, il contributo di qualità relazionali che le donne possono portare ai livelli alti del management, in soccorso di un sistema produttivo sempre più flessibile e immateriale. Nelle professioni, e in generale nei rapporti di lavoro, si celebrano esempi eroici di «supermamme», capaci di eccellere allo stesso modo nella cura di un figlio e nella carriera. Ma dove il «femminile» è esploso, cogliendo di sorpresa chi aveva previsto un lento e faticoso approssimarsi delle donne all’autonomia da modelli imposti, è stato nei mezzi di comunicazione, in particolare nella televisione, nell’industria dello spettacolo e nel mercato pubblicitario. Il dibattito che si è acceso sulle veline e sulla folta schiera di avvenenti intrattenitrici che si muovono intorno a uomini di potere, flessibili al punto da passare con noncuranza da concorsi di bellezza alla Camera dei deputati, ha fatto gridare alla barbarie, temere la fine o il fallimento di un secolo di emancipazione. Anche in questo caso si tratta di giudizi approssimativi, lontani dalle analisi che il pensiero delle donne è venuto facendo su ciò che permane degli stereotipi di genere, al di là di cambiamenti evidenti del contesto sociale. Libertà, diritti acquisiti, non sembrano aver scalfito alla radice l’aspetto più accattivante dei ruoli sessuali, la complementarità, «quel profondo, benché irrazionale istinto» – come ha scritto Virginia Woolf – a favore della teoria che solo l’unione dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, «provoca la massima soddisfazione», rende la mente «fertile e creativa».
Di questo ideale ricongiungimento di nature diverse si alimenta l’amore di coppia e il suo antecedente originario, la relazione madre-figlio. Poco o per nulla indagate, queste zone più intime del rapporto tra i sessi ricompaiono oggi deformate sotto la maschera di una emancipazione che stentiamo a riconoscere come tale. Al posto della rincorsa omologante a essere come l’uomo, sono gli attributi tradizionali del femminile – le «potenti attrattive» della donna, di cui parlava Rousseau, e cioè la maternità e la seduzione – a essere impugnati come rivalsa, appropriazione di potere, scalata sociale. Se l’emancipazione del passato poteva essere vista come fuga da un femminile screditato, oggi è il femminile – il corpo, la sessualità, l’attitudine materna – a emanciparsi come tale e a prendere nello spazio pubblico il posto che compete a un complemento indispensabile della cultura maschile. Il patriarcato sta divorando se stesso, scricchiolano le impalcature su cui si è costruita la polis, alle donne, le escluse-incluse di sempre, si offre l’occasione per portare allo scoperto quel potere di indispensabilità all’altro di cui si sono fatte forti finora solo nel privato. La femminilizzazione della sfera pubblica ammorbidisce il conflitto tra i sessi e come nell’illusione amorosa fa balenare la possibilità di una «tregua». Ma, proprio come per l’amore, lascia aperto il dubbio che sia invece, come ha scritto Pierre Bourdieu, «la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile» del potere dell’uomo sulla donna. È necessario perciò tornare a scavare là dove si arresta il viaggio di Freud, l’«avventuriero dell’anima», il grande indagatore della felicità: in quella «roccia basilare» che è il «rifiuto della femminilità», l’inspiegabile intreccio di Eros e Thanatos, l’odio che nasce ogni volta dall’amore, nella vita personale come nella sfera pubblica.