venerdì 4 marzo 2011

l’Unità 4.3.11
La Cgil decide la data: «Questo governo affossa l’Italia. Il lavoro emergenza dimenticata»
Cassa integrazione nuovo balzo a febbraio. Boom per quella straordinaria e in deroga
Camusso: «Una scossa al paese» Sciopero generale il 6 maggio
Parte la campagna di assemblee nei luoghi di lavoro in preparazione della protesta di 4 ore. Revocato lo sciopero Fp Cgil del 25 marzo. Dati Inps sulla cig: +17% a febbraio per 70,6 milioni di ore
di Laura Matteucci


L’obiettivo resta invariato: «Dare una scossa al paese e a un governo che lo affossa partendo dai problemi del lavoro, che è e rimane un’emergenza dimenticata». Adesso c’è anche la data, 6 maggio, annunciata da Susanna Camusso all’attivo dei delegati di Modena. «Una scelta di responsabilità: ognuno deve mettere in campo ciò che può cambiare questo paese». Il giorno dopo il botta e risposta tra Camusso e la leader confindustriale Marcegaglia sulla flessibilità in uscita dal lavoro, la Cgil rimette in campo lo sciopero generale, che sarà di quattro ore e si articolerà con manifestazioni territoriali. Nella protesta generale confluirà lo sciopero già indetto per il 25 marzo della Funzione pubblica (che resterà comunque una giornata di informazione «sui danni causati dai provvedimenti di questo governo»), ampliato a 8 ore. Anche la Fiom valuterà l’estensione a 8 ore, e intende «coinvolgere tutti i movimenti e i soggetti della società civile dice il segretario Maurizio Landini che in questi mesi hanno sostenuto le lotte per la difesa della dignità del lavoro e della democrazia».
Un paese fermo, dove o manca il lavoro o sempre di più a mancare sono i diritti del lavoro, in cui insieme all’inflazione adesso è ripartita pure la richiesta di cassa integrazione. Dove «è Berlusconi e non il sindacato il primo ostacolo agli investimenti stranieri», come dice Camusso. «Sulla campagna per la democrazia, sui valori della costituzione, della scuola chiamiamo altri insieme a noi continua Non conosco nessun
altro modo che andare giorno per giorno a fare assemblee e ricostruire la motivazione. Serve una straordinaria campagna di assemblee».
Marcegaglia commenta «non è con lo sciopero generale che si risolvono i problemi». Il ministro Sacconi va oltre e parla di «scelta politica di supplire alla debole opposizione parlamentare». Camusso lo rassicura: «La Cgil non è un’opposizione politica. E sbaglia anche chi pensa a uno sciopero indetto per dare ragione alla Fiom». Il riferimento è anche al segretario Cisl Raffaele Bonanni, col quale è ripresa la polemica a distanza: il «filo dell’unità non va mai perso», dice la leader Cgil, «ma la condivisione di Cisl e Uil delle politiche del governo indica una resa senza condizioni». Apriti cielo. «La vera resa senza condizioni risponde secco Bonanni è quella del segretario Cgil di fronte alle realtà estremistiche presenti nella sua organizzazione che la obbligano a scioperare ed andare in piazza con i partiti in piena campagna elettorale per le amministrative». Ancora: «Noi non intendiamo mischiarci nè con le vicende politiche nè con alcun partito aggiunge Bonanni Faremo le nostre proposte e le nostre proteste sui temi del fisco, dei salari, delle pensioni e della crescita». Il tutto «di sabato», «senza far perdere un euro ai lavoratori e senza penalizzare le loro imprese». E dire che Camusso, parlando a Modena, aveva esortato a «provare a parlare anche con gli iscritti Cisl e Uil».
LA VALANGA DELLA CIG
La richiesta dello sciopero era stata approvata la settimana scorsa dal direttivo Cgil per «rimettere al centro il tema del lavoro e dello sviluppo si leggeva tra l’altro nel documento riconquistare un modello contrattuale unitario e battere la pratica degli accordi separati, riassorbire la disoccupazione, contrastare il precariato, estendere le protezioni sociali e ridare fiducia ai giovani. Serve una nuova stagione di obiettivi condivisi e rispettosi della dignità del lavoro e serve definire le regole della democrazia e della rappresentanza». Nell’analisi della Cgil, lo scenario economico preoccupa perché lascia intravvedere una ripresa senza occupazione, mentre la disoccupazione giovanile quasi al 30% è a livelli drammatici, «perché stabile e senza segni di evoluzione positiva». I nuovi dati Inps sulla cassa integrazione suonano come un’ulteriore conferma: rispetto a gennaio, nel mese di febbraio le ore richieste sono cresciute del 17% per un totale di 70,6 milioni. Boom soprattutto per la cassa straordinaria (+22,4%) e in deroga (+23%), che parlano di situazioni difficili protratte nel tempo e legate a reali crisi, non solo a rallentamenti temporanei della produzione. «Un segnale inevitabile dice Camusso È evidente che l’economia non è ripartita».

l’Unità 4.3.11
«Abbracciamo» il Colosseo, in nome della cultura
Domani iniziativa di protesta contro lo stato di abbandono del patrimonio artistico del nostro Paese. Iniziative a Roma a Padova e in Sicilia. Piazza continua, da qui al 17 marzo
di Luca Dal Frà


Il gesto affettivo più forte e tenero, caldo, universale: abbracciarsi, stringersi per ritrovarsi e riconoscersi. È questo il simbolo della campagna in difesa del nostro più grande patrimonio che da due mesi attraversa il territorio nazionale, «Abbracciamo la cultura» che domani troverà una giornata di mobilitazione in tutta Italia, con il suo momento clou nella capitale, dove una catena umana «abbraccerà» il Colosseo.
A condurre la manifestazione romana sarà Concita De Gregorio, a partire dalle 9.30 si alterneranno sul palco Salvo Barrano, Associazione Nazionale Archeologi, Rossella Muroni, di Legambiente, Roberto Natale, della Federazione nazionale della stampa, Giulio Scarpati, de Sindacato Attori, intercalati da interventi musicali. Al segretario della Cgil Susanna Camusso, l’intervento finale prima che una catena umana si stringa attorno al Colosseo.
Nelle stesse ore saranno «abbracciati» la Cappella degli Scrovegni a Padova, il tempio C del prezioso sito archeologico di Selinunte in Sicilia, da anni nel degrado, i Sassi di Matera, la Marmifera di Carrara. È il segno di come la cultura sia una emergenza e domani la presenza di attori, giornalisti, archeologi, ambientalisti non deve stupire. Partita a gennaio, “Abbracciamo la cultura” ha già “abbracciato” il centro storico dell’Aquila, abbandonato dal governo, il teatro delle Muse di Ancona, Piazza Armerina, Firenze, Verona, Milano, Campobasso, nella convinzione che l’attacco del governo alla cultura riguardi tutti: lo spettacolo e i siti archeologici, i beni architettonici, la scuola, i giornali, l’università, i nuovi media, la ricerca e gli artisti.
L’iniziativa, infatti, è di una coalizione di associazioni lontane tra loro come i tecnici restauratori e archeologi, la Cgil, i sindacati dello spettacolo, Legambiente, l’Arci e Acli, la federazione della stampa. A Camusso toccherà fare il punto sulla criticità del lavoro artistico, culturale e dell’istruzione, con una altissima presenza di precari, senza reali ammortizzatori sociali –soprattutto nello spettacolo–, con scarsi contributi e tutele.
Domani si apre una vera e propria escalation di proteste lungo il mese di marzo: l’8 marzo toccherà alle donne consegnare a Palazzo Chigi le oltre 10 milioni di firma del appello del Pd contro Berlusconi dal esplicativo titolo “Dimettiti!”. Il 12 si manifesta in difesa della costituzione e della scuola pubblica, il 17 la società civile darà vita alle celebrazioni del 150 ̊ anniversario dell’Unità, pressoché ignorate dal governo, mentre il 27, per la giornata mondiale del teatro, le associazioni italiane stanno organizzando una “giornata per la fine del teatro in Italia” sotto i colpi del governo Berlusconi.

l’Unità 4.3.11
Le violenze sessuali Il parroco responsabile di decine di episodi su sette ragazzi pre-adolescenti
L’imbarazzo della Curia dopo anni di reticenze. Ma ora rischia di dover risarcire i danni alle vittime
Pedofilia, 15 anni a don Ruggero il prete delegato di Alemanno
«Spero che questa sentenza possa far sparire persone come lui», commenta uno dei ragazzi abusati. Ma fra il pubblico in aula molti difensori dell’ex parroco di Selva Candida. «Crocifisso come Gesù».
di Angela Camuso


È una sentenza record. Quindici anni e quattro mesi di prigione per le violenze sessuali commesse su sette pre-adolescenti all’ex parroco don Ruggero Conti, il prete nato a Milano, oggi sessantenne,
parroco di una chiesa di borgata della capitale e scelto dal sindaco di Roma Alemanno durante la sua campagna elettorale come delegato del Comune alle politiche per la famiglia. Ci sono volute solo tre ore di camera di consiglio ai giudici della sesta sezione del Tribunale di Roma per emettere ieri, in un’aula piena di sostenitori dell’imputato, il verdetto su una vicenda andata agli onori delle cronache non soltanto per la numerosità dei casi di violenze su minorenni contestati al parroco e per i rapporti di don Conti con la politica ma anche perché in questo processo, per la prima vol-
ta, è stato ascoltato come testimone un vescovo, monsignor Gino Reali, all’epoca a capo della diocesi di Roma. All’alto prelato alcune vittime si erano rivolte chiedendo aiuto, senza che tuttavia il vescovo prendesse provvedimento alcuno tant’è che ad oggi, a due anni dall’arresto del sacerdote, non è stato ancora istituito a carico di don Conti un processo canonico. Per questi motivi le parti civili avevano chiesto all’autorità giudiziaria che anche il vescovo Reali, per le sue gravi condotte omertose, fosse processato insieme all’ex parroco, quando invece il pm aveva ritenuto non ci fossero i presupposti giuridici per una sua incriminazione. Fatto sta che solo ieri, per la prima volta, la Chiesa ha preso posizione sulla vicenda. Il vicario generale della diocesi suburbicaria di Porto-Santa Rufina, in una nota ufficiale, si è detto «profondamente addolorato per l’accaduto», esprimendo una «ferma condanna per i gravi delitti», nonché «vicinanza e piena solidarietà della diocesi alle vittime».
La Curia ha anche annunciato provvedimenti nei confronti del condannato, ma per gli avvocati dei violentati questa tardiva presa di posizione non può essere una scusante del comportamento tenuto in passato. Qualora don Ruggero, come è probabile, si dirà incapace di risarcire economicamente le sette vittime, i legali si sono infatti detti pronti a citare la Curia in giudizio e della stessa intenzione il segretario dei Radicali Italiani Mario Staderini, che si è costituito parte civile per il Comune di Roma in sostituzione del sindaco Alemanno, che ha tenuto il Campidoglio fuori dal processo ufficialmente a causa di un ritardo nella presentazione delle proprie istanze presso la cancelleria del Tribunale.
Don Ruggero Conti, alla lettura della sentenza, si è allontanato in silenzio dall’aula a testa bassa consolato dagli abbracci e dalle pacche sulle spalle di alcuni parrocchiani, che contemporaneamente si sono scagliati contro i giornalisti, accusatori e giudici. «Lo hanno messo in croce Come Gesù Cristo», urlava una donna, quasi tra le lacrime. «Lo hanno fatto per i soldi. I trenta denari sono diventati 50.000 euro», è stato il commento sarcastico di un’altra sostenitrice del sacerdote, alludendo alla multa di 40mila euro al cui pagamento è stato condannato don Conti, fatto salvo i successivi importi dei risarcimenti da quantificare in sede civile.
Il sacerdote, stando alle testimonianze delle vittime, tutte di sesso maschile, approfittando del suo ruolo di reggente della parrocchia romana di Selva Candida e della conseguente fiducia che i genitori devoti riponevano in lui, tanto da affidargli i propri figli per intere giornate e anche per la notte, praticava agli adolescenti rapporti orali completi, finanche durante la confessione. Per questo don Conti, che si è sempre detto vittima di un complotto era stato arrestato a giugno 2008. Ha già trascorso circa un anno dietro le sbarre e ora risiede con l’obbligo di firma in un istituto di cura per anziani, essendo malato di cuore.
«Mi si è tolto un peso dallo stomaco», ha commentato al telefono dopo un lungo sospiro di liberazione uno dei ragazzi, oggi 23enne, che ha denunciato di essere stato abusato per decine di volte. «Spero che questa sentenza possa fare sparire persone come lui ha dichiarato un altro dei violentati. Anche se quello che ho subito lo porterò sempre dentro di me».

La Stampa 4.3.11
Gli aristocratici del bene fanno il gioco del male
La scuola marxista barese che ha ispirato Vendola sfida l’azionismo torinese
La critica alla sinistra neoazionista in un saggio di Franco Cassano: si compiace della propria superiorità morale e dimentica gli uomini reali
di Massimiliano Panarari


Il Grande Inquisitore conosce bene, benissimo, gli uomini, come il diavolo che fa le pentole e, in verità, assai spesso, anche i coperchi. Il pensiero politico, da che mondo è mondo, non può prescindere dal confronto con il Male e le sue emanazioni come, per l’appunto, l’onnipotente e terribile figura evocata da Dostoevskij nel quinto libro dei Fratelli Karamazov poiché, dalla lettura che ne dà, corrispondente all’interpretazione della natura umana, discendono delle conseguenze (e delle azioni) molto diverse. Questo spiega, dunque, perché negli ultimi anni La Leggenda del Grande Inquisitore rappresenti un oggetto di continua riflessione da parte di vari protagonisti della cultura italiana, da Sergio Givone a Gustavo Zagrebelsky, con posizioni che possono venire tradotte, quasi immediatamente, in altrettante filosofie politiche.
Quel monologo torna, all’insegna di un’analisi assai originale, nelle pagine de L’umiltà del male (Laterza, pp. 112, euro 14, in uscita oggi), il nuovo libro del sociologo Franco Cassano, uno degli intellettuali di riferimento della sinistra italiana sin dai tempi della cosiddetta école barisienne (e uno dei cui testi,
Il pensiero meridiano , ha contribuito significativamente a forgiare l’«ideologia» di Nichi Vendola). La tesi di Cassano va contro il mainstream delle ermeneutiche prevalenti della Leggenda che insistono tutte sulla netta distinzione tra il male incarnato dall’Inquisitore e il Bene di cui, naturalmente, è simbolo il sofferente e silenzioso Gesù Cristo tornato sulla terra nella Spagna insanguinata dai roghi e dalle persecuzioni scatenate dai suoi sedicenti difensori. Troppo manicheismo, che distingue così nettamente tra la ragione e il torto, sostiene lo studioso, non porta da nessuna parte, se non verso un assolutismo morale e un «aristocratismo etico» che serve unicamente a rafforzare i suoi portatori della convinzione intorno alla propria superiorità morale. Il punto, decisivo ma troppo sottovalutato, invece, è che il male dispone di infinite capacità di adattamento e sa reinventarsi ogni volta, a differenza di una morale che rischia di essere autoreferenziale e scarsamente attraente. La , forza del Grande Inquisitore risiede nel suo essere un profondissimo conoscitore della natura umana, delle nostre fragilità e miserie; e se un tempo il suo governo sugli individui si nutriva del miracolo, del mistero e dell’autorità come affermava l’ateo Ivan Karamazov nell’età liquida e postmodernissima i suoi mezzi di dominio si rivelano straordinariamente ancora più potenti. E, così, questo spin doctor della manipolazione delle debolezze personali può contare oggi, rimarca Cassano, sul narcisismo amorale e il divismo della mediocrità esaltati dalla società dello spettacolo e sul consumismo illimitato.
E, allora, che fare? Una domanda tutt’altro che peregrina, perché in questo libro, decisamente attuale, si avverte l’eco del conflitto tra due tendenze di fondo della storia della sinistra italiana: in buona misura, Hegel vs. Kant, l’essere degli uomini contrapposto al «dover essere», che vorrebbe gli individui migliori di quello che sono (e, quindi, perde, come fa intendere l’autore). Se le città avessero un’anima politica esclusiva potremmo dire la sinistra neoazionista dei «cieli stellati» sopra Torino (e della «legge morale» dentro di sé) vs. quella plurale della Bari meridiana di Cassano (col suo laboratorio politico e culturale che va da Gianrico Carofiglio a Nicola Lagioia).
Racconta la Leggenda che il trionfo del Grande Inquisitore deriva dall’abbandono del campo da parte dei «dodicimila santi», onesti, ma un po’ troppo presuntuosi e saccenti, come certe élites salottiere (e, in ogni caso, numericamente troppo pochi per vincere). Gli uomini non sono santi, e quindi Cassano rivolge alla sinistra l’appello a fare i conti con questo dato di fatto e con la «zona grigia», come la chiamava Primo Levi. Non c’è nostalgismo per qualche epoca (irreversibilmente) passata, ché, anzi, agli anatemi di Adorno nei confronti dell’industria culturale Cassano contrappone uno sforzo di comprensione dei mass media per imparare a usarli. E, naturalmente, men che meno siamo dalle parti della falange degli Smutandati capitanati da Giuliano Ferrara, dal momento che, scrive il sociologo, «capire non è perdonare». Il suo è un realismo di sinistra, che mette insieme Gramsci e i cultural studies nello sforzo di capire le continue metamorfosi della società, invitando i progressisti a un bagno di «umiltà» per comprendere, di nuovo, il popolo e non lasciarlo nelle grinfie del Grande Inquisitore.

Corriere della Sera 4.3.11
Piace agli ebrei il Gesù del Papa
Gattegna: prosegue il dialogo. Di Segni: è la linea del Concilio
di Gian Guido Vecchi


Renzo Gattegna, presidente degli ebrei italiani, la mette sul piano istituzionale, come il segno di un dialogo «necessario» : «Apprendiamo che in un capitolo dell’ultimo libro di Benedetto XVI viene ribadita con forza l’infondatezza dell’accusa di deicidio che per secoli è stata usata per diffondere odio nei confronti degli ebrei e ha reso problematici i rapporti tra ebrei e cristiani. E constatiamo con gioia che prosegue quel processo di riconciliazione iniziato nel ’ 65 con la dichiarazione Nostra Aetate» . Riccardo Di Segni, il rabbino capo di Roma che il 17 gennaio dell’anno scorso accolse Benedetto XVI in sinagoga, parla piuttosto con piglio da studioso: «Per la verità mi stupisce il clamore, dato che dal punto di vista teologico ed esegetico queste cose sono state affermate solennemente 46 anni fa e dovrebbero essere ovvie non solo agli studiosi. Comunque il Papa le ha dette, siamo contenti. Come dicono gli inglesi: "No news, good news". Però non è che ogni volta dobbiamo ringraziare, dopo aver patito per duemila anni una mostruosità teologica…» . Certo è che le parole di Joseph Ratzinger, nella seconda parte del libro Gesù di Nazaret, hanno fatto ieri il giro del mondo. La «realtà storica» , ha scritto, è quella dei Vangeli di MARCO e Giovanni; a chiedere la morte di Gesù non fu «tutto il popolo» , come dice Matteo, ma i seguaci di Barabba designati dal termine greco ochlos (la «folla» dei sostenitori accorsi) e l’ «aristocrazia del tempio» , senza nessun «carattere razzista» , e del resto israeliti erano lo stesso Gesù, tutti i suoi discepoli e l’ «intera comunità primitiva» . L’essenziale, certo, era già scritto nella Nostra Aetate: «Se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo» . Ma l’esegesi del Papa ha approfondito, smontandola, la genesi di quell’accusa dalle conseguenze «fatali» . E Renzo Gattegna sorride: «Prosegue una fase positiva che ha già prodotto risultati importanti, è indispensabile continuare così per un futuro di dialogo, di comprensione e di pace» . Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane ricorda ciò che aveva scritto il 10 novembre sull’ «Osservatore Romano» , «a testimonianza che si presta una viva e reciproca attenzione a tutte le azioni e le dichiarazioni che riguardano le relazioni interreligiose» , e ripete «la richiesta» affidata al quotidiano della Santa Sede: «Per arrivare a impostare pienamente le nostre relazioni sulla base della pari dignità e del reciproco rispetto, auspichiamo che la Chiesa cattolica accetti di eliminare totalmente dalla liturgia del Venerdì della Pasqua qualsiasi accenno alla conversione degli ebrei» . Il riferimento è al testo latino: la Santa Sede ha sempre replicato che non si lavora alla conversione e pregare perché gli ebrei «riconoscano Gesù» esprime, con San Paolo, «una speranza escatologica, riferita alla fine dei tempi» . Comunque le frasi del Papa, aggiunge Gattegna, «fanno sperare che anche questo ulteriore passo possa essere compiuto in un percorso che dovrà proseguire nel tempo, ma che ha già permesso di raggiungere traguardi importanti» . Tutto bene, insomma. Il rabbino Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, spiega: «Non è in sé una novità, ma è importante che il Papa l’abbia riaffermato» . Però ringraziare no, sospira Di Segni: «Vede, abbiamo patito duemila anni di lutti e sofferenze per quelle parole di Matteo: "Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli". Una mostruosità teologica, un’aberrazione densa di lutti e orrore: non bisogna ringraziare perché non c’è più» . Il rabbino apprezza le riflessioni di Ratzinger, «in quelle pagine c’è tutto il suo stile di professore colto, di divulgatore appassionato» . Ciò che lo «indigna» sono alcune reazioni: «Sarebbe inquietante se ci fosse ancora bisogno di queste parole, del libro del Papa, per togliere dalla testa della gente certe idee…» . E se ce ne fosse bisogno? «Questo non lo so. Certo, se penso a come appaiono i "giudei"in certe rappresentazioni popolari della passione, o all’ignoranza religiosa diffusa… Diciamo che il libro del Papa, da questo punto di vista, sicuramente non è inutile» .

Corriere della Sera 4.3.11
Nuova Cina e vecchi fantasmi. Quando la felicità è di Stato
di Giovanni Belardelli


L’obiettivo ufficiale, ora, in Cina è promuovere la «felicità» del popolo. E l’obiettivo reale: arginare i malumori della classe media, che comincia a guardare con preoccupazione al futuro. Ma quei riferimenti alla gioia di massa, assurta a traguardo politico, appendice della «società armoniosa» cara al segretario Hu Jintao e del premier Wen Jiabao, sono sorprendenti. E non solo perché contraddetti dai caratteri autoritari del regime.

Da qualche mese i vertici del Partito comunista cinese vanno proclamando con insistenza l’intenzione di promuovere la «felicità» della popolazione. Si tratta di uno slogan presumibilmente pensato soprattutto per arginare certi malumori della classe media, che comincia a guardare con preoccupazione al proprio futuro per i motivi che Marco Del Corona spiega oggi nella sua corrispondenza da Pechino. Ma quei riferimenti alla felicità, assurta così nei fatti a obiettivo politico, lasciano a dir poco perplessi. Non solo perché sembrano contraddetti dai caratteri autoritari del regime (quanto avrà contribuito alla felicità dei cinesi la politica del figlio unico, in vigore da decenni, che ha provocato l’aborto selettivo di milioni di bambine?). Quel richiamo alla felicità fa anche venire alla mente la neolingua delle dittature del ’ 900, che mentre producevano orrori e crimini nelle dimensioni di massa che conosciamo, pretendevano però di stare realizzando una qualche forma, appunto, di felicità. Quasi mezzo secolo fa, fu la stessa rivoluzione culturale cinese, cioè la fase più totalitaria nell’intera storia del regime comunista, a volere accreditare di se stessa un’immagine estremamente gioiosa e felice, attraverso un’iconografia di Stato non troppo diversa da quella dell’arte ufficiale nazista o stalinista. Nelle grandi dittature del secolo passato era soprattutto il lavoro a dover assumere (per un obbligo ineludibile imposto dal partito al potere) i colori del piacere e della felicità (così lo stacanovismo sovietico, così il movimento ricreativo tedesco Kraft durch Freude, «forza attraverso la gioia» ). Dietro quell’immagine, come sappiamo, si celava la realtà di campi di lavoro che erano al contempo campi di concentramento e di morte. Naturalmente, non v’è nulla di sbagliato nell’idea che i propri concittadini possano aspirare alla felicità. Anzi, quell’idea ha rappresentato un principio base delle democrazie moderne a partire dalla Dichiarazione d’indipendenza americana, che parlava appunto di un diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità» (al «perseguimento» , si noti, quasi a sottolineare che la felicità è soprattutto importante per lo sforzo che si compie nel cercarla). Ma quel diritto alla felicità faceva appunto tutt’uno con la libertà individuale, con la facoltà di ciascuno di perseguire non una felicità codificata e uniforme, stabilita dall’alto, bensì la propria idea di felicità. La libertà dei moderni, secondo quel che Benjamin Constant scriveva quasi due secoli fa, consiste precisamente nell’idea che non può (e dunque non deve) essere lo Stato a renderci felici: l’autorità, scriveva, «si limiti a essere giusta, noi ci incaricheremo di essere felici» . Sulla stessa linea, quel grande osservatore della democrazia moderna che fu Alexis de Tocqueville metteva in guardia dai pericoli di un nuovo, subdolo autoritarismo, impersonato da uno Stato che «lavora volentieri alla felicità dei cittadini, ma vuole esserne l’unico agente e il solo arbitro» ; fino al punto estremo di «levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere» . Le società di oggi — e con essa la democrazia contemporanea — sono molto cambiate dai tempi di Constant e di Tocqueville. Un po’ in tutte le democrazie varie forme di protezione sociale da parte dello Stato sono da tempo ritenute indispensabili per permettere effettivamente a ciascuno di perseguire la propria felicità. E tuttavia la differenza di fondo non è cambiata rispetto a quanto segnalato dai grandi liberali dell’ 800: da una parte lo Stato autoritario, che sostiene di voler fare la nostra felicità; dall’altra lo Stato democratico che cerca di attuare il principio che è ciascuno di noi a decidere come essere felice. Col rischio molto concreto di non riuscirvi, s’intende; ma è un rischio che fa tutt’uno con la nostra libertà.

Corriere della Sera 4.3.11
Cina, obiettivo di Stato: «Felicità per il popolo» Diritto per tutti
Ma un sondaggio rivela: solo il 6%è «contento»
di Marco Del Corona


PECHINO — «Xingfu» , e così sia. Felicità. I tempi sono quelli che sono, umori popolari prostrati dall’inflazione, punte d’incertezza accompagnano la formidabile crescita della Cina, e così la leadership si stringe intorno a una parola che è uno slogan condensato, un’appendice di quella «società armoniosa» cara al segretario Hu Jintao e del premier Wen Jiabao. Il Partito comunista non sarà mai il Partito della Felicità. Un po’ sì, però. Perché sono stati i suoi stessi vertici a rivendicare il ruolo di garante del benessere del popolo, forma aggiornata della magnanimità confucianamente paternalistica dell’imperatore. La felicità avrà il suo bel da fare, per conquistare la Cina. Un sondaggio del portale china. com. cn, ripreso ieri dai media, segnala che solo il 6%nella Repubblica Popolare si dichiara «felice» . Il 49%non lo è; il 39%sta così così, un altro 6%non sa neanche come si senta. E la principale causa del malessere viene dai problemi economici, seguita dalla «pressione psicologica» . Eppure, ancora ieri pomeriggio, all’apertura della Conferenza consultiva (una sorta di camera bassa che vuol essere specchio della società, compresi attori, sportivi, religiosi e partitini «democratici» legali), il suo presidente Jia Qinglin ammoniva che «il benessere del popolo non è solo un importante tema economico e sociale, ma anche una decisiva questione politica. Il popolo prima di tutto» . La leadership di Pechino è consapevole delle incrinature che attraversano il consenso della classe media, beneficiaria del boom. Nella chat online di domenica scorsa il premier Wen ha definito la felicità come la capacità di dare «al popolo una vita confortevole e sicura, serenità mentale, fiducia nel futuro» . Di questo, con ogni probabilità, Wen parlerà domani davanti all’Assemblea nazionale del Popolo (il parlamento vero e proprio), illustrando il nuovo Piano quinquennale. Già nel 2010 aveva sottolineato «l’obiettivo di rendere possibile che il popolo viva un’esistenza più felice e più dignitosa» , sanzionando un principio complementare alla «società armoniosa» . La scorsa settimana, poi, era stato il Quotidiano del Popolo a rimarcare come, per alzare la felicità della Cina, occorre «gonfiare i portafogli» , eco della massima di Deng Xiaoping «arricchirsi è glorioso» . Anzi. Cercare la felicità individuale da un pezzo è lecito, se non si toccano pochi confini sensibili. Nella Cina dove le periferie del potere spesso precorrono o parafrasano le indicazioni del centro, ciascuno cerca la felicità come vuole. Bo Xilai, boss del Partito nella popolosissima municipalità di Chongqing, la vede rossa, fatta di slogan neomaoisti, di pubblicità in tv sostituite da canti rivoluzionari, redditi raddoppiati d’imperio ai contadini, case popolari, studenti spediti a imparare nelle campagne e paghe aumentate del 75%in città. Il Guangdong aveva annunciato di includere un indice della felicità negli obiettivi della provincia: non è il Pil della felicità istituzionalizzato dal piccolo regno del Bhutan ma in qualche modo poteva assomigliargli. La capitale, invece, un po’ di felicità popolare se l’è appena giocata annunciando un sistema di monitoraggio del traffico (nota fonte di infelicità) che metterebbe sotto controllo i telefonini di tutti: «Illegale violazione della privacy» , si inalberano i primi critici sul web. Hu Jintao, il leader dello «sviluppo scientifico» , e Wen Jiabao, l’uomo che chiede di fidarsi di lui «perché io la mattina guardo i prezzi delle cose da mangiare» , hanno davanti un cimento complicato. Il nervosismo per le (inesistenti o quasi) rivolte dei gelsomini cinesi non c’entra. Felicità in Cina significa stabilità. E far felici gli altri può essere un modo di essere felici.

Repubblica 4.3.11
La nuova parola d´ordine dei vertici di Pechino: "Compagni, spendere è glorioso"
Il Partito consumista cinese
La Repubblica popolare vara il nuovo piano quinquennale in cui l´imperativo è: felicità e benessere. Ovvero, spendere
di Giampaolo Visetti


Trent´anni fa, di Deng Xiaoping diceva:"Cittadini, arricchitevi" Oggi, nell´era del post-comunismo di mercato, la parola d´ordine è: "Spendere". I cinesi affollano gli shopping center e la nazione inaugura una nuova era: non è più la stagione dell´armonia ma quella della felicità e del benessere L´Assemblea del popolo vara il piano quinquennale della repubblica popolare Stipendi più alti, meno tasse, welfare Ecco le direttive del presidente Hu Jintao Basta nascondere i soldi sotto il materasso, è venuto il momento di fare acquisti

Compagni, consumare è glorioso. Trent´anni dopo l´ordine di arricchirsi, impartito da Deng Xiaoping dopo la morte di Mao Zedong, la Cina del post-comunismo di mercato si prepara ad assolvere un obbligo nuovo: spendere. I compagni non esistono più e l´appellativo è stato appena abolito anche nella vita pubblica.
I soldi però restano, e in Oriente sono sempre di più: la rivoluzione di Hu Jintao e Wen Jiabao, che tra un anno scenderanno dal trono della Città Proibita, punta a spostarli dalle casse dello Stato a quelle delle famiglie, dal partito all´individuo. I cinesi escono dai capannoni ed entrano negli shopping center. La nazione che sta trainando la fragile ripresa dell´economia mondiale, inaugura un´era nuova: quella in cui i consumi interni dovranno sostituire le esportazioni. Per il pianeta è uno spartiacque e i mercati, assieme alle cancellerie internazionali, seguono con il fiato sospeso i lavori della Conferenza politica consultiva del popolo e dell´Assemblea nazionale del popolo, chiamate a varare il dodicesimo piano quinquennale della repubblica popolare cinese. Significa decidere come usare un terzo della ricchezza globale, un quarto delle risorse naturali della terra e un sesto dei destini dell´umanità.
E anche oggi, archiviata la stagione "dell´armonia", l´ordine del potere è chiaro: xingfu, ossia felicità e benessere. I più anziani ricordano che è lo stesso con cui il Grande Timoniere tempestava le masse negli anni ‘60 del Novecento e non è un caso se, per tuffarsi ufficialmente nel futuro, Pechino si rifugia sostanzialmente nel passato. Per la leadership al potere l´obiettivo essenziale non cambia: mantenere la stabilità, che in Cina è un modo per garantire l´autorità indiscutibile del partito.
Dal 2008, inizio della crisi di un´economia occidentale degenerata nella finanza fine a se stessa, anche per la Cina, uscita rafforzata dal crac euroamericano, tutto è cambiato. I leader cinesi hanno capito che affidare la sorte nazionale agli ordini di merci degli stranieri, può segnare il capolinea della più longeva dinastia dell´Impero. Su Pechino, mai forte e decisiva come oggi, grava da mesi il senso di un´urgenza e di una precarietà, come se l´apice del successo segnasse il confine con la sconfitta di un sistema. Le autorità, scosse dallo spettro delle rivoluzioni mediterranee, si rendono conto all´improvviso che per conquistare il mondo hanno in realtà consegnato il Paese nelle sue mani, rendendosi vulnerabili dall´esterno. Strade, aeroporti, treni-missile e grattacieli, frutto dello schiavismo praticato in fabbrica per sostenere l´export, non bastano più. L´uscita dalla crisi, per il resto del mondo, sarà lenta e se l´Occidente non acquista più, tocca all´Oriente trasformarsi nel "Cliente Unico" per tutti. Alla vigilia della svolta, che dovrà convincere 1,34 miliardi di persone a non nascondere più i soldi sotto il materasso, ma a investirli in quelle che fino a ieri erano definite "depravazioni borghesi", universalmente note come "consumi", è partito così il mantra della propaganda di Stato. La Cina ha ordinato ai suoi funzionari di smetterla di costruire viadotti e sgomberare contadini, per «dare invece gioia alla gente». Il premier Wen Jiabao ha gelato i tremila delegati del parlamento. «La valutazione dei funzionari non sarà più fatta in base al numero di edifici e di progetti, o sulla crescita del Pil delle regioni. Guarderà alla capacità di rendere felice il popolo». E´ una scossa, che fa tremare le grandi lobby industriali, i blocchi di potere di regioni con un bilancio triplo rispetto a molti Paesi Ue, la pancia massimalista del partito e le stesse multinazionali della delocalizzazione. Al passo d´addio il presidente Hu Jintao, che passerà alla storia come il tecnocrate più grigio sopravvissuto al crollo del "mondo sovieticus", tenta dunque la rivoluzione capace di riscattarne la memoria. Le colonne del piano, rese pubbliche da domani ma anticipate dalla stampa governativa, sono tre. Spostare la Cina dalle esportazioni manifatturiere a basso costo ai consumi interni generati dallo sviluppo dei servizi. Aumentare gli stipendi e abbassare le tasse sui redditi medi e bassi. Creare una rete di welfare, a partire da sanità pubblica e previdenza, che consenta alla popolazione di non risparmiare tutta la vita per scongiurare di morire nell´abbandono. Pechino vive nell´incubo di una rivolta online innescata dall´Occidente e per scongiurarla adotta il profilo del capitalismo che ha combattuto per 62 anni. Le caratteristiche però, come sempre, saranno cinesi. «La nostra missione - ha spiegato Hu Jintao alla scuola centrale del partito - è costruire un sistema di gestione socialista per salvaguardare gli interessi e i diritti della gente, che se saranno ignorati potrebbero arrecare danno alla stabilità sociale». A poche ore dal varo della più impressionante riforma economica del nostro tempo, destinata a cambiare il volto non solo della Cina, un sondaggio choc ha rivelato che dopo trent´anni di boom solo il 6% dei cinesi si dichiara soddisfatto. Il primo nemico da battere è l´inflazione, che secondo l´87% della popolazione continuerà a crescere anche nel 2011. Nel 2010 è salita del 3,3% e in febbraio ha raggiunto il 4,9%, rispetto al 4% dell´obiettivo 2011. I prezzi alimentari sono schizzati però del 10,3%, la frutta addirittura del 30%. I tentativi della banca centrale di raffreddare il denaro sono sostanzialmente falliti e per la prima volta il governo è stato costretto a rivedere al ribasso il target della crescita. Nei prossimi cinque anni, per rendere sostenibile il proprio sviluppo, la Cina intende calmare l´economia e crescere ad una media del 7%, rispetto all´8% annunciato per il trascorso quinquennio. Nel 2010 il Pil cinese ha registrato in realtà un più 10,3% e la tendenza a risultati più alti delle attese non cambierà. Il messaggio però è inequivocabile: l´obiettivo dello Stato non è più fare soldi per controllare una vecchia massa proletaria, ma fornire servizi per gestire le attese di una nuova classe media. I capi del partito, nelle fasi di transizione politica e alla vigilia delle riforme economiche, non sono mai stati avari di promesse. Ciò che oggi viene prospettato ai cinesi supera però ogni precedente.
"L´ideologia della felicità" prevede, come d´incanto, lo stop all´inflazione, il taglio delle tasse ai ceti bassi e l´aumento generale degli stipendi. Nel 2011 i salari minimi aumenteranno di un altro 20%, come l´anno scorso, ma con punte del 75% nelle regioni interne. Un operaio passerà da 124 a 146 euro al mese.
Nelle città la busta paga media sarà di 2 mila euro all´anno, rispetto ai 600 euro guadagnati nelle zone rurali. Domani Wen Jiabao annuncerà che le disparità crescenti tra miliardari e miserabili, fonte irreprimibile della rabbia popolare, saranno colmate, come il divario tra metropoli e villaggi, tra costa industriale e interno medievale. Con la lotta alla corruzione pubblica, che sta demolendo il rispetto verso il partito, la grande scommessa cinese è però su assistenza, casa, lavoro, ambiente, agricoltura e istruzione. In cinque anni il peso della sanità a carico del privato scenderà dal 40 al 30%, le pensioni saranno agganciate all´inflazione, diventerà reato non pagare i dipendenti e contadini beneficeranno di contributi inediti per la modernizzazione delle colture. Per spegnere il rischio di una «bolla immobiliare», inizio della fine trent´anni fa in Giappone, lo Stato non si limiterà a frenare il credito: nel 2011 consegnerà 10 milioni di alloggi popolari, che diventeranno 36 milioni entro il 2015. Gli investimenti in energia pulita, sicurezza alimentare, e taglio delle emissioni nocive (-17% per unità di Pil entro cinque anni, -40% nel 2020) porranno la Cina al primo posto nel mondo, come quelle in hi-tech, ricerca scientifica, cultura e sviluppo delle università. Un Paese con 700 milioni di colletti bianchi ha bisogno di essere creativo e innovativo: Pechino, perseguendo il primato nella scienza, si appresta a non esportare più container di jeans, ma file carichi di brevetti. Questo affascinante germoglio di Cina del Duemila, estremo nostro appiglio, presenta un´incognita e una controindicazione. La prima consiste nella percentuale di possibilità che le promesse si traducano in fatti. Il governo, esternamente, abusa in autoritarismo monolitico, ma al suo interno è diviso tra fazioni locali e lobby economiche contrapposte, spesso frenate dal conservatorismo nazionalista imposto dalla dipendenza dalle forze armate. Il cambiamento, se risulterà possibile, si rivelerà più lento e difficile di quanto annunciato. Il limite di una Cina costretta a spendere è invece la riduzione dello squilibrio commerciale con l´estero. Regalerà una boccata d´ossigeno ai cambi, sebbene Wen Jiabao abbia confermato che la rivalutazione dello yuan procederà con il freno tirato, ma taglierà i fondi cinesi da investire per salvare i deficit dell´Occidente, a partire da Stati Uniti e Unione europea. Gli eredi di Mao distribuiscono denaro per seminare l´obbligo della spesa e l´incubo dei debiti, antidoto estremo contro l´alba del dissenso interno e il tramonto dei nemici esterni. Rinunciano però, ancora una volta, a donare ai cinesi dignità, diritti e libertà. E sulla sconnessione tra acquisto e partecipazione che può naufragare l´esperimento secolare del «compagno consumista». Se così sarà, non vedremo cadere solo l´ultima dinastia dell´ultimo Impero.

Corriere della Sera 4.3.11
Attacco ai sindacati La spallata dell’Ohio
di Massimo Gaggi


«Quante persone servono per cambiare una lampadina in Virginia? Tre: una avvita quella nuova mentre le altre due discutono di quanto era più bella la luce delle lampade di un tempo» . La battuta, usata un tempo in America come caricatura del conservatorismo nostalgico del Sud, viene ora rispolverata proprio dai conservatori che la usano contro i sindacati decisi a impedire il taglio (in discussione in vari Stati degli Usa) dei diritti di negoziazione collettiva nel pubblico impiego. Ai sostenitori dell’inalienabilità dei diritti di contrattazione, i «pragmatici» replicano che troppi anni di accordi «di manica larga» e lo stato comatoso della finanza pubblica hanno creato una situazione nuova: non c’è più nulla da distribuire e quindi non c’è nulla da negoziare. Ma c’è anche chi va molto più in là, compresi gli studiosi di rango: nel privato negoziare è una libertà, ma nel settore pubblico — tra monopoli, alleanze trasversali e accordi politico-sindacali a spese dei contribuenti— «la negoziazione collettiva rassomiglia più a una violazione delle norme Antitrust che all’esercizio di una libertà civile» scrive sul Wall Steet Journal l’economista di Harvard Robert Barro. L’offensiva lanciata dal governatore del Wisconsin, in quello Stato è ora una guerra di trincea, col Parlamento locale bloccato e la gente divisa: per alcuni non sono più sostenibili contratti che garantiscono ai dipendenti pubblici pensioni, sanità (e a volte anche salari) migliori rispetto al settore privato. Per altri quello in atto è semplicemente il tentativo di dare la spallata definitiva al sindacato: ridotto ai minimi termini nel settore privato, ora gli si toglie ossigeno anche nell’unica area, quella pubblica, in cui è ancora forte. Il governatore Walker dice che si è mosso per tutelare il taxpayer, non per scelta ideologica. La pubblicazione di una conversazione privata durante la quale afferma di voler completare il lavoro lasciato a metà da Ronald Reagan («questo è il nostro momento, la nostra occasione di cambiare la storia» ) lo mette, però, in difficoltà. Ma mentre il Wisconsin è in stallo, si muove l’Ohio: uno Stato ancor più grande e ben più sindacalizzato. Qui il Senato ha appena approvato una norma analoga a quella proposta da Walker: contrattazione collettiva ridotta ai minimi termini e divieto di sciopero. La conferma della Camera (a forte maggioranza repubblicana) e la firma di ratifica del governatore sembrano solo formalità: tra una settimana la nuova norma potrebbe essere legge. Un attacco alle confederazioni? Certamente sì, e anche ai democratici e a Obama, visto che le union sono il motore elettorale della sinistra. Ma il sindacato non riesce a uscire dall’angolo. Si dice pronto a vaste concessioni, ma non viene creduto. C’è da riflettere, anche fuori dagli Usa. Chi abusa della pazienza dei contribuenti può ritrovarsi all’improvviso su un piano inclinato, senza vie d’uscita praticabili.

l’Unità 4.3.11
Dietro le sbarre del Cie
«Perché ci tengono in gabbia come i cani?»
La rabbia dei tunisini detenuti nel centro di Torino: dopo la rivolta e i roghi lo sciopero della fame. «Vogliamo solo andare in Francia, lasciateci partire» Ma Parigi ha già iniziato a rimandare indietro i migranti scappati dall’Italia
di Gabriele Del Grande


Tensione alle stelle al centro di identificazione e espulsione di Torino. Dopo l’incendio che domenica scorsa ha devastato un’intera sessione rendendo inagibili 30 dei 180 posti della struttura, adesso è la volta di uno sciopero della fame a oltranza. Anche qui i protagonisti delle rivolte, come a Gradisca e a Modena, sono i tunisini trasferiti da Lampedusa. Si tratta di 104 persone, tutti uomini, su un totale di 144 trattenuti. Arrivano dalle città di Zarzis, Gabes, Ben Guerdane, Djerba, le zone più colpite dalla crisi del turismo seguita alla caduta di Ben Ali. Hanno iniziato a rifiutare il cibo tre giorni fa e oggi entrano nel quarto giorno di sciopero della fame. Alla protesta aderisce un’intera sezione del centro espulsioni, ovvero una trentina di ragazzi, pronti a portare avanti la protesta fino al giorno della loro liberazione. Per quasi tutti è la prima volta in Europa. I parenti li aspettano in Francia. Sono comunità ben integrate e con forti legami di solidarietà. Lo si vede dai calli sulle mani che è brava gente, che ha attraversato il mare per rimboccarsi le maniche. Dall’Italia non chiedono documenti, ma soltanto la libertà e un foglio di via per continuare il loro viaggio verso la Francia, dove poter finalmente raggiungere i familiari già pronti a ospitarli e a farsene carico.
In carcere non ci sono mai stati e ritrovarsi dietro le sbarre, sorvegliati da polizia e militari come se fossero dei criminali, è un’umiliazione che non riescono a mandare giù. «Cos’è un canile? Cos’è questa gabbia? Fateci uscire!», mi grida in arabo Saif da dietro la grata che ci separa. Gli occhi piantati dritti nei miei, la faccia rossa di rabbia, e le mani strette attorno ai ferri. Ha la mia stessa età, 29 anni. Ha appena telefonato agli amici in Tunisia, e gli ha detto di scrivere ad Al Jazeera per denunciare la loro situazione. In Francia l’aspetta Stéphanie, una ragazza francese conosciuta in vacanza a Zarzis. Mi mostra tutti gli sms sul cellulare. «Amore mi manchi, sii forte, verrò a trovati».
«Siamo uomini liberi, è una questione di onore, di dignità, non potete rinchiuderci come animali in questa prigione per sei mesi. Anche in Tunisia stanno arrivando migliaia di stranieri dalla Libia, ma non li abbiamo arrestati! Ridateci la nostra libertà. Siamo diretti in Francia, lasceremo l’Italia, dateci soltanto cinque ore». Tra di loro c’è anche un minorenne. Si chiama Basam e dice di essere nato il 31 luglio del 1994. Tra qualche mese compirà 17 anni. Per legge non può essere trattenuto in un centro di identificazione e espulsione. Il problema è che fino ad oggi non lo aveva dichiarato a nessuno. Dice che aveva paura che lo portassero via da solo, si sentiva più sicuro rinchiuso, ma con gli amici. Il problema è che non ha documenti di identità, e non li ha per lui neanche il fratello che vive a Milano, sposato con la compagna italiana. E allora adesso non gli rimane che la radiografia del polso. Un test che si fa per verificare la minore età.
Comunque anche se dovessero rilasciarlo, dice che tenterà di nuovo di raggiungere gli zii in Francia. E c’è da sperare che non lo rispediscano di nuovo in Italia. E sì perché alla frontiera di Ventimiglia ormai si gioca una partita di ping pong tra l’Italia e la Francia, e i tunisini di Lampedusa sono la pallina. Roma chiude un occhio per lasciarli passare oltralpe, e Parigi fa le retate per rispedirli al mittente. Al centro espulsioni di Torino, ne sono già ritornati 7 in pochi giorni. Ahmed l’hanno preso alla stazione di Nice, dove era arrivato in treno da Foggia. Con lui sono stati respinti in Italia anche Salim, Nizam e Basam, il diciassettenne. Loro tre li hanno presi che erano ancora in automobile con un tale che avevano pagato per portarli di là dalla frontiera. I numeri per ora sono bassi, ma soltanto perché i Cie sono pieni e non c’è posto dove mettere i respinti. Ma i controlli oltralpe si fanno sempre più serrati. Nella sola prefettura di Alpes Maritimes, la regione al confine con Ventimiglia, negli ultimi giorni sono stati identificati 301 tunisini. Vengono tutti da Lampedusa. E rischiano di tornarci se non si trova un accordo politico tra Italia e Francia».

il Fatto 4.3.11
Somali, zingari e altri cittadini
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, Mi ha colpito lo stretto legame del peggio con il peggio. Voglio dire il modo in cui il sindaco Alemanno si è liberato dei somali di via dei Villini e la decisione del sindaco di Brescia Paroli che, nell'ostinazione di sfrattare una famiglia Rom ha condannato a morte il loro bambino, che vive solo se riceve ossigeno da un congegno elettrico. Il sindaco Paroli ha infatti tolto la luce alla famigliola. Sono storie dei nostri giorni, in un’Italia che non ha nessun problema né con i somali né con i Rom ma, la mente malata di alcuni, vede nemici e pericoli dovunque. Voglio uscire da quest'incubo. Come fare?
Ennio

LE RACCAPRICCIANTI storie più recenti sono tre, non due. Chiedo a Ennio di aggiungere alle ragioni della vergogna che prova da italiano, a essere governato da gente simile, la vicenda dei quattro bambini morti bruciati in un campo Rom della Capitale la notte del 6 febbraio.   Purtroppo le vicende che vorremmo commentare qui, per ricordare che idee meschine e principi sbagliati possono portare a conseguenze tragiche, sono molte di più. Ma queste tre sono purtroppo esemplari, anche per la diversa origine e formazione politica dei due sindaci. Uno, Paroli, si porta addosso la persuasione della Lega che il federalismo si faccia cacciando tutti i diversi, come in epoche e paesi barbari. L'altro, Alemanno, crede che l’autorevolezza sia autorità e che un’autorità fa quello che vuole se le persone sono deboli e indifese. Cercherò di ricostruire, sulla base dei loro atti, il loro modo di operare. Primo, se hai potere usalo. Usalo soprattutto per farti bello, senza spese e nel corso di una notte, per affermare una vacua promessa di sicurezza che hai fatto parlando di rapine e di stupri, e che realizzi al prezzo di sgomberi selvaggi di persone innocenti eseguiti sempre di notte, terrorizzando i bambini, distruggendo i pochi averi e spingendo gli “sgomberati” a vagabondare senza alcuna protezione o ricovero o destinazione. È quello che è accaduto a Sebastian, Patrizia, Fernando, Raul, bambini fra i quattro e gli undici anni. Assieme al padre e alla madre, sono stati cacciati una volta, due volte, tre volte, da campi che ogni volta i nomadi sono costretti a ricostruirsi da soli. Infatti “sgombero” non vuol dire che ti portano in un altro   posto. Vuol dire che ti distruggono tutto e ti costringono ad andare via. Via dove? I sindaci ritengono di avere fatto qualcosa di meritevole sgombrando, ma sono sicuri che il resto non tocca a loro. Quelli non sono nomadi? Vadano dove vogliono. L’ultimo tetto dei fratellini era stato costruito in fretta con quel poco materiale (purtroppo infiammabile) che i genitori avevano trovato. Faceva freddo, è stato acceso un fuoco, gli adulti erano a comprare cibo. Quando sono tornati la tragedia era già avvenuta. Molti minuti di cordoglio nei telegiornali, ma nessuno ha promesso che , d'ora in poi, “sgombero” avrebbe voluto dire assegnare un luogo per vivere. Il piccolo Tommaso di Brescia (15 mesi e una malattia rara che può portare al soffocamento se gli manca ossigeno) aveva una casa, nel campo Sinti di via Orzinuovi (periferia di Brescia). Andava bene alla precedente amministrazione comunale del sindaco Corsini.   Ma non va bene per il sindaco Paroli, uno di quei leghisti che accumulano cariche, e pur essendo sindaco di grande città passa il tempo a Roma (la famosa Roma ladrona) alla Camera dei deputati. È una buona cosa per due ragioni: incassi due volte e il lavoro sporco te lo fa il vicesindaco, certo Rolfi, che per incoraggiare lo sgombero fa tagliare la corrente elettrica del campo Sinti (notare: i Sinti sono Rom di antica cittadinanza italiana ). L’ossigeno che viene necessario al piccolo Tommaso arriva attraverso uno strumento elettrico. Staccata la luce, Tommaso muore. Lo ha salvato il padre procurandosi in fretta un piccolo generatore. Ma non pensate che Paroli o Rolfi perdano il sonno per l'omicidio che stava per compiersi. La cacciata permane benché i genitori del piccolo insistono che qui trovano aiuto e li conoscono tutti. Se li mandano via dove vanno? Ma, come abbiamo visto, questa è la domanda che non si pone nessuno. E così i somali, tutti rifugiati politici con le carte in regola, che avevano occupato per disperazione l'ex Ambasciata somala di via dei Villini a Roma, sono stati “sgombrati” e basta.   Adesso vagano tra i sotterranei della stazione Termini e i ricoveri di fortuna. Il sindaco ora potrà vantarsi anche di questo: ho sgombrato i somali. D'accordo, è un incubo vivere in un paese disumano. Il come uscirne è il solo lavoro politico a cui vale la pena di pensare. In tanti, anche nelle piazze.

l’Unità 4.3.11
Donne velate, donne svelate: libere o oppresse?
Anticipiamo ampi stralci della prefazione di Concita De Gregorio e Nicla Vassallo al libro di Marnia Lazreg, che spiega i pro e i contro del velo. Ma sia in Oriente che in Occidente discriminazioni e ostacoli non sono così diversi
di Concita de Gregorio e Nicla Vassallo


Una studiosa di origini islamiche
L’autrice
Marnia Lazreg, professore di Sociologia presso l’Hunter College of the City University of New York, si occupa di sviluppo, geopolitica e questioni di genere legate all’Islam.
Attraverso una puntuale ricostruzione storica e colloqui con le donne che quotidianamente indossano il velo, Marnia Lazreg ci offre in questo libro «Sul velo. Lettere aperte alle donne musulmane» gli argomenti per rispondere senza pregiudizi a questi interrogativi: in Occidente è malvisto, in Francia addirittura vietato, il velo delle donne musulmane suscita violente prese di posizione, per questo va osteggiato? Perché simbolo del fondamentalismo e dell’oppressione femminile nei paesi islamici? È davvero così?

Difficile esprimersi sui diversi codici d’abbigliamento. Si pensi al secolo dei Lumi, alla rilassatezza di alcuni costumi, alla vistosa
estrosità delle acconciature, alle scollature vertiginose, che mostravano senza ritegno i capezzoli (purché non ai servi), accompagnate però da lunghe gonne. Codici d’abbigliamento così prepotenti da ottenere un buon risalto in pagine e pagine della migliore letteratura inglese, quella vittoria-
na, in cui la cosiddetta «dress culture» procede di pari passo con le «New Women». Già, in quei secoli non ci si trovava in regimi democratici! Oggi, invece, nei nostri stati, per recepirsi «vere» donne, le occidentali sagomano le proprie forme, con guaine, corsetti, bisturi, soprattutto bisturi, fantasticandosi una Beyoncé, una Jennifer Lopez; comprano chili di leggerissima lingerie, in beffa alla crisi economica, ma leggono pochi libri; ostentano ogni parte del corpo, quale unica esca con cui prendere all’amo il desiderio maschile (sessuale o intellettuale); si interrogano se dopo i quarant’anni gli short siano convenienti, sconvenien-
ti, con quali altri capi abbinarli. Questi short «vecchi» e al contempo noti grazie allo slogan di una campagna pubblicitaria del 1973, e un Pier Paolo Pasolini, sempre acuto su un’Italia «tappezzata di manifesti rappresentanti sederi con la scritta “chi mi ama mi segua”» in cui «tra l’“Jesus” del Vaticano e l’“Jesus” dei blue-jeans, c’e stata una lotta (...). Il Gesù del Vaticano ha perso». Un eccesso di embodiment? Forse sì, ma per vestirsi e svestirsi occorre pure la mente, la propria, non quella altrui: Marnia Lazreg ne è consapevole. Quando le donne si sottopongono al dolore e alle manomissioni/mutilazioni chirurgiche – lo fanno in massa, le star di Hollywood e le ragazzine di provincia, già sopraffatte, non ancora diciottenni, dall’ansia di somigliare al modello estetica-mente e sessualmente apprezzabile – cosa cercano? Quando si pretende e ottiene un aspetto «migliore» per sentirsi «a posto», di che posto si parla? Non è forse, in prima battuta, esterno lo sguardo (infine interiorizzato, perciò preteso/inteso come proprio) di chi detta i codici di pudicizia, di bellezza, di appetibilità, di qualunque attributo sia in quel contesto sociale destinato a decretare la promozione a oggetto del desiderio? La donna ideale, la moglie ideale, l’amante ideale. Le regole e l’ordine a cui «volontariamente» ci si sottomette, non sono dominanti, non è lo sguardo di chi guarda – lo sguardo padroneggiante, lo sguardo maschile – a stabilire il codice? Che cosa ha trasformato la minigonna di Mary Quant, il suo liberatorio taglio di forbici, il suo gesto rivoluzionario dell’ordine precedente (della pudicizia degli insopportabili gonnelloni-burka, colpevoli di provocare ingovernabili, «naturali» impulsi erotici) in un oggetto di provocazione, di offerta sessuale, di esibizione della propria merce da destinare al baratto – la mia nudità in cambio della tua benevolenza, di quel che potrai pagare per averla? È la minigonna in sé oggetto di provocazione, o quel pezzo di stoffa indica sia liberazione sia sottomissione, in relazione al punto di vista dello sguardo che giudica e sancisce? Infine, oggi, la dittatura della chirurgia estetica, del silicone, del botulino che fissa gambe, glutei, labbra, palpebre, seni, zigomi in un tempo immobile, inchiodando l’unica lecita, appetibile avvenenza a quella dei vent’anni, non è un «ordine» imposto dallo sguardo che brama e soggioga?
Il burka della plastica di chi volentieri esibisce la sua chirurgica nudità non impedisce a chi se ne veste di andare alle crociate contro chi – sotto altro codice, in virtù di altro criterio di «ordine» – copre se stesso allo sguardo altrui con le stoffe. Detto semplicemente: le crociate contro il velo islamico, di xenofobi e suffragette della politica, sarebbero tanto più credibili e apprezzabili in presenza di crociate speculari contro il burka dell’artefatta appariscenza chirurgica. O, nel nome della reciproca tolleranza, in assenza di entrambe. Più opportuna parrebbe piuttosto una riflessione su che cosa induca, «volontariamente», le donne ad assoggettarsi al codice vigente, fino a che punto riescano a sovvertirlo, che cosa lo impedisca, quali siano i vincoli e gli ostacoli alla supremazia del proprio sguardo su di sé, indotti da cosa, nel tempo, e da chi. Si prosegue con lo scherzare sulle/con le donne, «abusarle» a fini economico-politici, con in mente qualche macchiavellismo, gioco non nuovo in Occidente: spesso, benché non sempre, i canoni di comportamento femminili vengono dettati dall’alto, non si sa se per esaltare, marginalizzare, nazionalizzare la presunta «femminilità». Che ne è allora della possibilità/ capacità/necessità delle donne di procedere indipendentemente, di rivelarsi veri e propri esseri umani, consce delle libertà che spettano loro, del loro diritto a una vera e propria istruzione, a reali forme d’educazione medico-sanitario-sessuali, a posizioni lavorative di rilievo intellettuale, economico, politico, nella società?
Chiedere tolleranza e armonia, rispetto per la diversità, insistenza sulle tante conoscenze e identità femminili rischia di condurre a un tipo di multiculturalismo indifferente rispetto alle condizioni d’oppressione in cui si trovano molte, troppe donne, di cui i despota non si assumono responsabilità alcuna. Pure donne di successo: l’algerina Hassiba Boulmerka, oro alle Olimpiadi di Barcellona sui 1500 metri, per aver corso a gambe scoperte è stata condannata a morte dal Gruppo islamico armato. A tratti viene comodo far finta di nulla di fronte alla sua condanna, di fronte alle donne, oltre che velate, lapidate, costrette a rapporti sessuali coatti, oggetti di violenze domestiche, ripudiate dal proprio sposo (accade anche nelle famiglie islamiche sulle sponde nord del Mediterraneo), come far finta di nulla di fronte al Paolo della Prima lettera a Timoteo: «La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo a essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia». Si fa finta di nulla per non essere tacciati di anticlericalismo, imperialismo culturale, razzismo, e ci si attiene senza batter ciglio a qualche sondaggio, stando a cui la gran parte delle donne musulmane, pur aspirando al diritto di voto, a lavori non domestici, a una maggiore presenza pubblica, non ritiene oppressiva la propria condizione, né la riconduce a disuguaglianze di genere, mentre giudica umiliante la situazione in cui versano molte donne occidentali. Di questa situazione ci siamo ormai accorti anche noi, donne e uomini occidentali pensanti, che, pur vedendo l’emancipazione, assistiamo a un’inarrestabile escalation di mutevoli mercificazioni nonché di polimorfi sfruttamenti delle corporeità e sessualità femminili.
© 2011 il Saggiatore

il Fatto Saturno 4.3.11
La libertà svelata
Donne dell’Islam a viso aperto
di  Marnia Lazreg


Nella storia delle società musulmane ci sono stati molti periodi in cui le donne non portavano il velo senza che questo creasse grandi problemi. Il velo cadeva in disuso e tornava in voga a seconda delle circostanze politiche. La sua evoluzione ha sempre riflettuto la percezione che le donne avevano di loro stesse. Nel momento in cui il nostro paese conquistò l’indipendenza, un gran numero di algerine non portava più il velo. Naturalmente, molte continuavano a rispettare i loro obblighi religiosi, pregavano e digiunavano durante il Ramadan. Il velo aveva perduto il significato religioso che gli era stato attribuito durante l’era coloniale e veniva inteso come una consuetudine riservata alla vecchia generazione, quella delle madri e delle nonne, che non avevano ricevuto un’istruzione formale ma avevano allevato i giovani e le giovani che avevano preso le armi contro la Francia.        GRADUALMENTE, il velo divenne anche segno di appartenenza a una certa classe sociale: le cameriere che lavoravano per la nuova classe dominante postcoloniale (quella dei politici e dei professionisti) di solito erano donne povere che sembravano voler nascondere la loro povertà dietro al velo. Accettato come un residuo del passato reso obsoleto dalla storia, il velo veniva disprezzato e considerato un’usanza arcaica, priva di un vero significato. Quindi è comprensibile che donne come mia madre decisero di toglierlo. Erano ansiose di eliminare quel marchio di classe e provare la libertà di muoversi senza l’impaccio di quei lenzuoli di seta bianca. Ovviamente, c’erano uomini che sollevavano obiezioni alle ragazze che si avventuravano fuori casa in minigonna, ma in generale le donne potevano andare all’università e al lavoro senza velo. Negli anni sessanta e settanta, l’establishment religioso condannava la prostituzione ma era più occupato a opporsi alla politica socialista di espropriazione e ridistribuzione delle terre che a pensare al velo delle donne. 
Il suo attuale revival, spesso nello stile importato dall’Egitto (una sciarpa sulla testa e uno spolverino lungo), è coinciso con una mancata politica di sviluppo, una guerra civile che ha contrapposto il governo a un movimento islamista radicale e diviso, e con la nascita di un movimento interregionale per la difesa dell’identità culturale influenzato dagli   eventi geopolitici. L’eco di quello che succede a Baghdad e al Cairo, a Washington e a Parigi risuona anche ad Algeri, Rabat e Amman. Nella storia del colonialismo, della resistenza e delle proteste nei paesi mediorientali, il velo è sempre stato un simbolo e un fertile terreno di scontro per le ideologie politiche...
KHOMEINI IMPONEVA COLORE E TIPO DI SCARPE
IN IRAN, NEGLI ANNI SETTANTA, molte donne portavano il velo per protesta contro la politica repressiva dello scià. Appena salì al potere, Khomeini restituì loro il favore rendendo il velo obbligatorio. Come un regolamento militare, il decreto imponeva il colore («nero, blu scuro, marrone o grigio scuro») dell’hijab, il tipo di scarpe da indossare e, per dare un’illusione di scelta, conteneva una serie di immagini di abiti «accettati» e «preferiti» con il titolo «Stili dell’hijab islamico». Vale la pena anche di ricordare che alla fine degli anni novanta il movimento di opposizione iraniano dei Mujaheddin-e-Khalq (Mujaheddin del popolo) istituì un Esercito di liberazione nazionale in cui le donne combattevano dalla parte degli iracheni (durante la guerra tra Iran e Iraq) indossando sciarpe rossovivo. È vero che le Guardie della rivoluzione iraniana portano una sorta di turbante stilizzato, ma almeno hanno la fronte e il collo liberi. Come in Arabia Saudita, in Iran esiste una polizia per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio sempre in cerca di donne ribelli che violano le regole del velo.
Il controllo da parte dello stato dell’abbigliamento e del corpo delle donne non è solo umiliante ma anche disumano. Nessun uomo ha il diritto di imporre a una donna di che colore o lunghezza deve essere il suo vestito. Questo è l’abuso di potere più sfacciato: lo stesso presidente della Repubblica islamica dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad quando   viaggia in Occidente veste all’occidentale. La polizia per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio non ha niente da obiettare al modo in cui si veste, e nessuno lo considererebbe meno musulmano solo perché non indossa la tunica lunga e il turbante. Perché nessuno ha da ridire sulla sua scelta di non vestire alla musulmana mentre una donna può essere arrestata solo perché ha permesso che una ciocca di capelli sbucasse dal velo? Dov’è la giustizia? Se gli uomini sono liberi di vestirsi come vogliono, anche le donne dovrebbero esserlo.
Diversamente dagli obblighi religiosi legati al dogma, il velo è un fenomeno storico, forse il più storico di tutti, e di conseguenza suscettibile di cambiamenti. Non portarlo non ha alcuna connotazione eretica. Uscire senza non è vietato come prestare a interesse e bere alcol. Questo spiega perché i riformisti musulmani del diciannovesimo secolo invocavano un miglioramento della vita sociale delle donne, fortemente limitata dal velo. Ma neanche i più liberali di loro arrivarono a dichiarare che quella del velo non era una vera e propria pratica religiosa. Nel 1879, Jamal Al-Din al-Afghani ammoniva così i suoi contemporanei: «Dovreste sapere che per noi è impossibile uscire dall’ottusità, dalla prigione dell’umiliazione e della miseria e dalla più profonda debolezza e ignominia finché le donne saranno prive di diritti e ignoreranno i loro doveri, perché come madri sono responsabili dell’educazione primaria e dell’insegnamento dei principi morali fondamentali».
SPETTA A NOI DIVENTARE AGENTI DI CAMBIAMENTO
L’INVITO AL CAMBIAMENTO di al-Afghani non era dettato da una nuova visione del futuro delle donne ma da considerazioni sul loro ruolo di madri. Si guardò bene dal mettere in discussione lo status religioso del velo. Anche lui gli attribuiva una funzione morale. Qasim Amin, il giurista egiziano suo contemporaneo, invece non trovava alcun fondamento nella religione o nella legge islamica per il velo che copre il viso, le mani e i piedi di una donna. Da un’attenta lettura del suo trattato Tahrir al Mara’a (La liberazione delle donne) si evincono i motivi per cui le donne non dovrebbero coprirsi il volto con il velo. È paradossale che le argomentazioni portate da Amin per convincere gli uomini del suo tempo potrebbero essere usate anche oggi per dissuadere le donne che sostengono la necessità del velo, a dimostrazione di quanti pochi progressi siano stati fatti. Secondo Amin, la religione veniva usata come scusa per perpetuare una consuetudine socialmente dannosa per le donne. Per usare le sue parole: «I musulmani erano attratti dal velo, lo approvavano, ne esageravano l’uso e lo rivestivano di un significato religioso, proprio come altre usanze dannose hanno preso piede in nome della religione, ma delle quali la religione non ha colpa». Eppure, nonostante la sua appassionata dimostrazione dei danni sociali causati dal velo alle famiglie musulmane e al paese, Amin scrisse: «Difendo ancora l’uso del velo e lo considero uno dei pilastri della moralità». Tuttavia, diversamente da molte donne musulmane che si sono velate, si rendeva conto dell’influsso del velo sulle preadolescenti del suo tempo il cui sviluppo era «rallentato» dal divieto di interagire con il mondo esterno appena lo indossavano. Il velo costituisce quindi il limite del liberalismo del pensiero riformista. Spetta alle donne di oggi fare il passo successivo e mettere fine alla politica del velo semplicemente non portandolo come facevano le donne degli anni cinquanta e sessanta. È loro dovere nei confronti della storia diventare agenti del cambiamento sociale e completare l’opera cominciata dalla generazione precedente.

il Fatto Saturno 4.3.11
Céline, così   imbarazzante
Grande scrittore, perfetto stronzo
Scontro in Francia sulle celebrazioni. Il carteggio con l’editore Gallimard
di Martina Cardelli


Leggere Céline, passeggiare con un suo libro sottobraccio, non è affatto cosa scontata in Francia. Per noi, che non riusciamo a richiamarci a una memoria condivisa, è difficile capire quanto questo scrittore sia scomodo in Francia, paese che si riconosce (quasi) interamente nella Repubblica uscita dalla Resistenza e guarda con difficoltà al proprio passato collaborazionista e antisemita. Lo scandalo che riguarda Céline non è emendabile: come ha potuto il sublime autore del Viaggio al termine della notte scrivere pamphlet rigurgitanti trivialità e propositi razzisti? Alcuni risolvono il problema evitando di leggere i suoi romanzi, negandone insomma il genio in nome della sua scelleratezza. Altri fanno l'operazione inversa: ne minimizzano le colpe per poterne salvare l'opera. 
Tale rapporto irrisolto con una della figure maggiori della letteratura del Novecento si manifesta in tutte le sue contraddizioni quest'anno, nel cinquantenario della sua morte. Inserito in un primo momento nella lista delle celebrazioni nazionali (che riunisce eventi tanto diversi quanto la nascita di Cioran e il «primo concerto di Johnny Hallyday»), il nome di Céline ne è stato infatti escluso in seguito alle proteste di Serge Klarsfeld, presidente dell'«Associazione figli dei deportati ebrei di Francia».
Ma non tutti approvano la decisione del ministro Mitterrand: Henri Godard, massimo studioso di Céline, ha denunciato quella che considera una «forma di censura», mentre il filosofo Bernard-Henri Lévy ha osservato che nulla   impedisce di essere allo stesso tempo «un grandissimo scrittore e un perfetto stronzo». Verranno invece sontuosamente festeggiati i cento anni di Gallimard, la casa editrice che pubblica tutto Céline: sono previste mostre, pubblicazioni, programmi radiofonici. E difficilmente si potrà evitare di citare lo scrittore dal genio impossibile, che della storia di Gallimard ne ha fatto parte, in un modo o nell'altro. Certo, il manoscritto del Viaggio al termine della notte era stato inizialmente rifiutato da Gaston Gallimard - capostipite della maison che allora si chiamava ancora NRF (Nouvelle Revue Française) - forse sconcertato dal tono della lettera di accompagnamento,   nella quale Céline annunciava: «È pane per un secolo intero di letteratura. È il premio Goncourt 1932 su un piatto d'argento per il Felice editore che saprà accogliere quest'opera senza pari…». Lo pubblicò l'editore Denoël. E il romanzo, che non vinse il Goncourt, fece esplodere il “caso” Céline.
Nel dopoguerra però, quando lo scrittore, dimenticato e furente, dall'esilio danese lanciava i suoi strali contro tutto l'establishment letterario, allora dominato dalla figura del nemico Sartre, fu proprio Gallimard a proporre all'autore del Viaggio un contratto esclusivo che prevedeva la riedizione in meno di un anno di tutti i suoi romanzi. La via d'altro canto era   libera: al precedente editore, Robert Denoël, accusato di collaborazionismo, avevano sparato a bruciapelo sulla piazza degli Invalides pochi anni prima, nel 1945.
Quanto invece ai rapporti di Céline con Gaston Gallimard, le numerose lettere tra i due, recentemente pubblicate con tutta la corrispondenza dello scrittore, ne danno uno scorcio a tratti esilarante. Lo scrittore non fa che reclamare più attenzione, più soldi, più articoli, e torna ossessivamente sul suo desiderio di entrare a far parte della Pléiade, la prestigiosa collana creata da Jacques Schiffrin e acquisita da Gallimard nel 1933.
«1500 FRANCHI, SE NO VENGO A DEMOLIRVI»
Céline manda al suo editore centinaia di lettere, alternando gratitudine e disprezzo, richieste di affetto a veri e propri insulti. «Ah se vi puliste il culo con imiei“contratti”!»,oppure:«Sarebbe divertente, se non foste tutti quanti e fino all'ultima goccia un branco di spilorci!». E non faceva mancare le rivendicazioni: «sono io l'inventore, io ho sfondato la porta della camera in cui stagnava il romanzo prima del Viaggio»; anche se preferiva di gran lunga lagnarsi: «ho dedicato il mio ultimo libro a Plinio il Vecchio e a Gaston Gallimard, non mi hanno ringraziato né l'uno né l'altro…». L'ultima lettera al suo editore, con la quale chiedeva «1500 franchi invece di 1000, altrimenti affitto un trattore e vado a demolire la NRF», rimase sul tavolo. Céline non arrivò mai a spedirla: morì il giorno dopo averla scritta.

il Fatto Saturno 4.3.11
“Il palazzo vuole l’eutanasia clandestina”
Il digiuno di Carlo Troilo. Suo fratello, terminale, morì suicida
di Enrico Fierro


“Ma lo sanno questi signori cosa vuol dire essere malati e avere tra le mani una diagnosi che ti sbatte in faccia quella che sarà la tua sorte? Poche settimane di vita, i giorni e le ore contati e un’unica certezza: non sarai più padrone di te stesso, il tuo corpo malato, provato, devastato, cederà e anche la più piccola funzione vitale, bere, alimentarsi, espellere i tuoi rifiuti, sarà una umiliazione”. Carlo Troilo è un giornalista che per anni si è occupato di pubbliche relazioni in grandi aziende e ministeri importanti, ha sempre avuto simpatie socialiste e radicali, oggi è un attivista dell’associazione Luca Coscioni e si occupa di Testamento biologico e di problemi legati al fine vita. Da lunedì sarà insieme all’associazione   Coscioni in Piazza Montecitorio per quello che chiama un “digiuno del dialogo”. “Voglio convincere i parlamentari disposti – dice – a far prevalere, almeno in questo caso, le ragioni della loro coscienza sulle direttive dei rispettivi partiti”. L’evento che ha spinto questo signore borghese, colto, che parla sempre con calma preoccupandosi che i suoi concetti arrivino all’interlocutore, ad occuparsi di un tema così complesso è stato un evento tragico: “Il suicidio di mio fratello Michele”.
TUTTO INIZIA in una calda giornata di luglio. La famiglia è in vacanza e gode il sole del mare d’Abruzzo. Michele, che ha settant’anni ed è single per scelta, si sente stanco. Va a farsi le analisi del sangue: “Ricordo ancora quel momento, il volto di pietra del medico e il suo sguardo”   . Michele è malato, il suo corpo è stato attaccato da una potentissima forma di leucemia. Ha poche settimane di vita. Le possibilità di resistere al male sono scarse e legate a cure dolorosissime. “Una chemioterapia fortissima che mio fratello sopporta e che per un po’ lo aiuta. Quando tornammo a Roma in autunno sembrava rifiorito   , non nascondo che anche noi cominciammo a sperare”. Poche settimane, poi la leucemia si riprende il corpo di Michele, in modo prepotente, invasivo, totale. Ora i medici giudicano inutili e pericolosi i cicli di chemioterapia. “Ci consigliano di portarlo a casa, il suo letto serviva ad un altro malato. Ma non ci abbandonano, perché   la gente non sa dell’esistenza di un mondo di silenziosa solidarietà, infermieri che volontariamente alla fine del loro lavoro in ospedale assistono i malati terminali”. Sono giorni di strazio per Michele, per i suoi fratelli e per gli amici. “Eravamo lì, impotenti ad assistere alla fine di un uomo timido, gentile, che teneva molto al suo decoro e che ci chiedeva in continuazione di poter morire dignitosamente. Una sera, alla fine di una giornata dove ogni minuto era stato scandito da dolori atroci, il corpo di mio fratello cede. Michele è incontinente. Ridiventa un bambino da aiutare, portare in bagno, lavare, assistere con amore e con rispetto. Per lui è troppo, ritiene di avere ormai perso la sua dignità di uomo, vede profanata la sua riservatezza, la malattia ha offeso la sua intimità. Conoscendolo posso immaginare   l’orribile nottata che ha passato, i pensieri che gli hanno attraversato la mente quando si è accorto che le sue intimità erano strette in un pannolone. All’alba si è alzato dal letto, ha aperto piano la finestra e si è lanciato nel vuoto. Suicida perché lo Stato e una perversa interpretazione della religiosità gli hanno impedito una morte dignitosa. A noi Michele ha lasciato solo un bigliettino di scuse, sì, scuse per il fastidio che ci aveva dato negli ultimi mesi di vita. Ecco perché ho deciso di impegnarmi anima e corpo nella battaglia per una giusta legge sul testamento biologico”. 
MENTRE LA POLITICA si divide (la discussione in Senato è stata rinviata al 24 marzo e la legge verrà approvata tra aprile e maggio) e il dottor Alberto Zangrillo, medico personale di Silvio Berlusconi, paragona il dramma di Eluana Englaro a quello di “un cavallo azzoppato”, Carlo Troilo e l’associazione Luca Coscioni, ci ricordano il dramma di chi intubato in un letto di ospedale aspetta che la morte lo liberi dalla sofferenza: “L’eutanasia clandestina in Italia è diffusa. Delle 30 mila persone che muoiono ogni anno nei reparti di terapia intensiva, il 62% lo fa grazie all’aiuto di un medico rianimatore. In Italia ogni anno 200-250 mila persone colpite da malattie oncologiche muoiono tra sofferenze atroci per la vergognosa carenza di terapie del dolore nelle   quali il nostro Paese è all’ultimo posto in Europa. La conseguenza più atroce è ogni anno che mille malati terminali decidono di togliersi la vita. Come mio fratello Michele. È per la loro dignità offesa che sto lottando”.