Merkel sconfitta in Sassonia i Verdi raddoppiano i voti
BERLINO Nuova sconfitta della Cdu di Angela Merkel nelle regionali della Sassonia-Anhalt, dopo quella del 20 febbraio ad Amburgo. Il partito cristiano-democratico ha ottenuto il 32,5% (-3,7%), ma a vincere sono i tre partiti della sinistra, con la Linke di Oskar Lafontaine che, con il 23,5, ancora una volta supera la Spd che si ferma al 21,5, mentre i Verdi tornano nel parlamento di Magdeburgo con il 6,5%, quasi il doppio del 3,6 registrato nel 2006. Crollo del partito liberale, fuori dal parlamento con il 4. Potrebbe dunque ripetersi la Grande Coalizione con i social democratici della Spd.
In questi giorni la cancelliera è stata molto criticata dalla stampa del suo paese per la posizione sull´intervento in Libia. La Germania ha scelto di non partecipare. Ma la Merkel è anche in difficoltà per la politica nucleare del governo dopo l´onda di paura scatenata dall´incidente alla centrale giapponese.
La Stampa 21.3.11
La sentenza europea
Il crocifisso non è innocuo
di Gian Enrico Rusconi
La sentenza della Corte di Strasburgo è prigioniera di un brutto paradosso. Dichiarando che il crocifisso esposto in un’aula scolastica non lede alcun diritto, non solo lo dichiara innocuo, ma declassa il più potente segno religioso dell’Occidente a un marcatore identitario. «Non fa male a nessuno» come ripetono da sempre i molti per trarsi d’impaccio dal conflitto di ragioni che la questione seriamente solleva.Posso comprendere il tripudio dei cattolici governativi e dei leghisti che dopo lo smacco della riuscitissima festa dell’Unità d’Italia si consolano dicendo che nazionale non è la bandiera tricolore ma il crocifisso.
Quello che non capisco (si fa per dire) è l’entusiasmo della gerarchia ecclesiastica. Non si rende conto dell’equivoco che promuovendo il crocifisso come simbolo di universalismo e umanitarismo in esclusiva nazionale, negando di fatto spazio ad altri simboli religiosi, lo priva della sua specifica autenticità religiosa?
Preoccupazioni culturali, considerazioni psicologiche; deduzioni giuridiche. Di tutto si parla, salvo che del valore religioso del crocifisso che rappresenta (dovrebbe rappresentare) il Figlio di Dio in croce. Non semplicemente un uomo giusto e innocente ma in una prospettiva teologica carica di mistero il Figlio di Dio che muore per volontà del Padre per redimere l’uomo dal peccato. Terribile mistero di fede, diventato oggi incomunicabile, banalizzato a segnaposto identitario nazionale.
Evidentemente tra i «valori non negoziabili» di molti cattolici c’è la rivendicazione dello spazio pubblico per le loro idee su famiglia e omosessualità, ma non c’è la capacità di trovare le parole per comunicare verità dogmatiche di cui si è perso letteralmente il significato: peccato originale, redenzione, salvezza. Tanto vale ripiegare sulla simbologia umanitaria, come si trattasse di Gandhi. Anzi meglio di Gandhi: «Abbiamo il crocifisso».
Non è certo compito degli atei devoti o dei laici pentiti occuparsi di queste cose. A loro non interessano queste faccende teologiche. Ma dove sono i cristiani maturi? Dove sono i «teologi pubblici» come dice la nuova moda?
Lascio a chi è più competente di me dare un giudizio giuridico sulla sentenza di Strasburgo. Il lungo testo sembra molto preoccupato di delimitare i confini della competenza della Corte: «Non le appartiene pronunciarsi sulla compatibilità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche con il principio di laicità quale è consacrato nel diritto italiano». In altre parole, si affida alla giurisprudenza italiana, facendo finta di non sapere quanto essa sia incerta e controversa. Anzi adesso molti uomini di legge saranno sollevati d’avere un’autorevole istanza «esterna» cui appoggiare i loro argomenti.
Un punto importante tuttavia è acquisito dalla sentenza: in tema di religione (insegnamento, spazio pubblico, rapporti istituzionali tra Chiesa e Stato) il criterio nazionale ha la precedenza su ogni altro. Ma questo in concreto vuol dire che in Europa prevarranno linee interpretative molto diverse da Paese a Paese: la situazione francese è inconfrontabile con quella tedesca, con quella italiana, con quella spagnola, per tacere dei nuovi Stati membri dell’Europa orientale. Con buona pace dell’universalismo del messaggio cristiano ridotto a principi generalissimi diversamente intesi e praticati a Parigi, a Berlino, a Roma o ad Atene. E’ come se per paradosso si riproducessero di nuovo in termini non drammatici le antiche divisioni della cristianità occidentale.
Ma poi la Corte fa un passo ulteriore significativo, quando dichiara con una certa disinvoltura di non avere prove di una influenza coercitiva negativa del simbolo cristiano su allievi di famiglie di religione o di convincimenti diversi. In realtà proprio su questo punto è stata decisiva anni fa la sentenza della Corte Costituzionale tedesca (a mio avviso la più equilibrata e convincente mai pronunciata) che al contrario ha dichiarato necessario tenere in considerazione le opinioni di tutti gli interessati. Si tratta infatti di un conflitto tra diritti legittimi. L’esito finale della lunga appassionata controversia sul crocifisso in aula è stato il più impegnativo che si potesse immaginare: nessuna imposizione di legge, ma ragionevole intesa tra tutti gli interessati. In nome dell’universalismo e del rispetto reciproco.
E’ una strada difficile da praticare, ma è l’unica degna di una democrazia laica matura. Peccato che noi ne siamo ancora molto lontani.
La Stampa 21.3.11
La fecondazione assistita diventa peccato
La condanna del Vaticano che la inserisce tra gli “atteggiamenti peccaminosi”: è immorale
di Giacomo Galeazzi
La motivazione «Il concepimento deve avvenire in modo naturale tra coniugi, mentre gli embrioni sono persone» La sfida La Chiesa è preoccupata perché il sacramento della confessione è in grave crisi: il 60% dei fedeli rinuncia
31.791 neonati in cinque anni. I bambini nati in Italia con tecniche di procreazione assistita dal 2005 ad oggi, secondo i dati del Registro Nazionale Procreazione Assistita
La fecondazione assistita è peccato». Rientra negli «atteggiamenti peccaminosi nei riguardi dei diritti individuali e sociali». Accanto ai tradizionali vizi capitali si affacciano nuove forme di peccato e non sempre i preti sono preparati ad affrontarle. Manipolare la vita in qualunque forma contrasta con l’amministrazione di un sacramento, la confessione, che negli ultimi tempi non gode di grande popolarità tra i fedeli, ma che la Chiesa vuole invece rilanciare. Delle nuove forme di peccato e della maniera giusta per affrontarle si occupa da oggi il corso sul foro interno organizzato per 750 sacerdoti dalla Penitenzieria apostolica, il dicastero vaticano dei «problemi di coscienza».
«Oggi afferma il vescovo reggente della Penitenzieria Apostolica, Gianfranco Girotti ci sono nuove forme di peccato che prima neanche si immaginavano. Le nuove frontiere della bioetica, innanzitutto, ci mettono di fronte ad alterazioni moralmente illecite e che riguardano un campo molto esteso». Il caso più frequente è rappresentato dal «ricorso ad alcune tecniche di fecondazione artificiale, quale la Fivet, cioè la fecondazione in vitro, non moralmente accettabili».
Il vescovo Girotti, infatti, chiarisce che il concepimento «deve avvenire in modo naturale tra i due coniugi», mentre la fecondazione assistita può comportare di per sé un altro «fatto non lecito» e cioè «il congelamento degli embrioni» che «sono persone». Davanti alle sfide bioetiche il Vaticano punta sull’aggiornamento per confessori e detta nuove lineeguida per i sacerdoti alle prese con i nuovi peccati sociali, ossia violazioni bioetiche come il ricorso alle tecniche di fecondazione assistita e il controllo delle nascite, esperimenti di dubbia moralità come la ricerca sulle cellule staminali e gli studi sul Dna, l’abuso di droghe, inquinare l’ambiente, contribuire all’acuirsi della disparità fra ricchi e poveri, l’eccessiva ricchezza.
Tutto il campo delle manipolazioni genetiche, che sempre più si affacciano all’orizzonte, anche a causa dei processi di globalizzazione, «rappresenta un terreno insidioso», sottolinea il Reggente del supremo tribunale della Chiesa per il foro interno (cioè il dicastero dei peccati). E aggiunge: «Oggi si offende Dio non solo rubando o bestemmiando, ma anche con azioni di inquinamento sociale, rovinando l’ambiente, compiendo esperimenti scientifici moralmente discutibili». C’è poi anche la sfera dell’etica pubblica dove pure entrano in gioco nuove forme di peccato come la frode fiscale, l’evasione, la corruzione.
«È impressionante oggi il fenomeno della indifferenza che esiste nei confronti della confessione osserva il vescovo Girotti -. Attualmente nella Chiesa la posizione di questo sacramento non è delle migliori né sul piano della pratica né su quello della comprensione, mentre, tra i fedeli, si va affievolendo la coscienza del peccato». Per questo, evidenzia il ministro vaticano dei peccati, «la Santa Sede, specialmente attraverso la Penitenzieria, si fa carico dell’impegno di approfondire e valorizzare il sacramento della misericordia e della penitenza» istruendo in particolare i «giovani sacerdoti». Inoltre, la Santa Sede «vuole dare lo strumento perché prendano piena consapevolezza del grande impegno che loro hanno». Si allunga, dunque, la lista dei peccati mortali condannati dalla Chiesa cattolica. Ai tradizionali richiami contemplati nei dieci comandamenti, si aggiungono le nuove forme del peccato sociale.
Urge rilanciare il sacramento della confessione in crisi da anni: ormai il 60% dei credenti non si confessa più, secondo una ricerca condotta dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, sottolineano alla Penitenzieria Apostolica. In confessionale i sacerdoti sono chiamati ad affiancare al tradizionale perdono cristiano, l’attenzione alle nuove forme di peccato che si sono affacciate all’orizzonte dell’umanità quasi come corollario dell’inarrestabile processo di globalizzazione, in quanto «si offende Dio, non solo rubando, bestemmiando o desiderando la donna d’altri, ma anche rovinando l’ambiente, facendo esperimenti scientifici moralmente discutibili, dando vita a manipolazioni genetiche per alterare il Dna o compromettere l’embrione. Compie peccato chi si droga e spaccia e chi evade le tasse e chi, avendo responsabilità sociopolitiche, provoca ingiustizie, povertà o eccessivi accumuli di ricchezze destinati a pochi.
La Stampa 21.3.11
«Sono stupito: viene praticata pure in ospedali cattolici»
3 domande a Bruno Dallapiccola medico cattolico
Professor Bruno Dallapiccola (genetista del Consiglio superiore di sanità e direttore scientifico dell’ospedale «Bambino Gesù»), medici e pazienti compiono peccato con la fecondazione assistita?
«La posizione della Chiesa non è mai stata molto favorevole, però mi stupisce il fatto che la fecondazione assistita venga inclusa tra i peccati visto che viene effettuata nel mondo anche in alcune strutture cattoliche. In certi centri si è anche fatto ricorso a bolle d’aria tra uovo e spermatozoo per rendere il concepimento il più naturale possibile. Sono state ammesse alcune tecniche, quindi va criticato piuttosto l’abuso della fecondazione assistita: per la fretta di ottenere una gravidanza ormai dopo un anno di rapporti non protetti c’è la tendenza a rivolgersi ad una struttura specializzata».
C’è il rischio della “provetta selvaggia”?
«Ci sono diverse certificazioni internazionali che attestano la qualità dei laboratori e l’accuratezza delle diagnosi, ma in Italia meno del 30% dei laboratori che fanno diagnosi genetica possiedono questo tipo di certificazione. Spesso le strutture che offrono l’inseminazione artificiale non seguono la donna immediatamente dopo la terapia. Questo è un fatto gravissimo.
C’è discussione sul tema nella Chiesa?
«Mi stupisce il riferimento alla Fivet, poiché ormai la tecnica più utilizzata, in almeno il 70% dei casi, è l’Icsi, cioè l’iniezione del singolo spermatozoo nella cellula uovo. E’ tutto molto problematico e la Santa Sede ha accolto l’analisi del globulo polare che seleziona il gamete femminile nel caso di genitori con problemi conosciuti, ad esempio la talassemia. La ricerca sta facendo degli enormi passi in avanti in questo settore, raggiungendo dei risultati straordinari. La Chiesa ha avuto una posizione di apertura su questa nuova tecnica che di fatto è l’anticamera della fecondazione in vitro. E’ segno che su questi temi esistono posizioni variegate nelle gerarchie ecclesiastiche». [GIA. GAL.]
Corriere della Sera 21.3.11
Pietro Ingrao
«In famiglia, le relazioni più intense con mia madre Con brutti versi ai littoriali incontrai l’antifascismo»
di Paolo Di Stefano
L a luna. È curioso che in questa serata romana piovosa e fredda si parta dalla luna e si arrivi alla luna. Era quella che il bambino testardo Pietro pretese in regalo dai suoi genitori il giorno in cui gli chiesero di fare la pipì nel vasino: «In cambio voglio la luna!» . Qui nel salone di casa Ingrao, le finestre sono abbassate e si sente l’acqua scrosciare. E la luna chissà dove si nasconde. Ma dalle parole scolpite di Pietro Ingrao, del poeta prima che del politico comunista che ha attraversato decenni di storia nazionale, la sfera lontana sembra avvicinarsi e accendersi luminosa, quando ricordano il suo paese, Lenola, situato tra i Monti Aurunci e la piana di Fondi: «Provo una sensazione fisica molto precisa, pensando a certe serate dell’infanzia. Il mio era un paese contadino, con ceppi patronali e gruppi di artigianato. Fu mio nonno Francesco, siciliano di Girgenti e garibaldino, a costruire quella casa a metà strada tra il paese e il colle. Lenola era allora sul confine tra il Regno dei Borbone e lo Stato pontificio. Dalla casa che saliva verso il colle del santuario c’erano balconi che si affacciavano sull’orizzonte e io provavo un’emozione molto forte quando riuscivo a cogliere, stavo per dire acciuffare, il sorgere della luna dietro le spalle montuose. Specie nelle notti d’estate, guardavo la corona di montagne, con cieli gremitissimi di stelle: quello spettacolo che inondava il cielo del suo chiarore è diventato per me il simbolo di un oltre che alludeva ad altri mondi» . Recita «L’infinito» , Ingrao: «Nella poesia italiana Leopardi mi sembra l’evento più alto. Ho studiato Giurisprudenza per un ordine prestabilito della famiglia, poi Lettere, amavo soprattutto la letteratura, e in modo caldo, appassionato, la poesia. Le due pagine di invenzione artistica che apprezzo di più sono di Leopardi: "L’infinito"e "Le ricordanze". La cima sono quei versi di grande splendore e scuotimento» . Seduto sul suo divano chiaro, il viso immobile, rari sorrisi, aiutando la parola con il lento movimento di una mano, Ingrao non abbandona la ben nota espressione severa, come eternamente imbronciata, che fu del politico e poi del Presidente della Camera. Anche quando ricorda i suoi genitori pesando ogni parola: «Ho avuto relazioni familiari molto intense. Non solo con mio padre, anche di più con mia madre, che era una donna tenera e dolce, legata a quelle terre. La famiglia era anche il vincolo alla casa e al mio paese: mi piacevano molto quei piccoli aggregati, erano lì le mie passioni, i sentimenti, gli affetti, gli scatti di evasione legati al paesaggio, agli amici, alle ragazze» . Nel suo antifascismo, che arriva con la Guerra di Spagna, c’è l’educazione familiare, c’è la poesia, ci sono i coetanei del tempo e, paradossalmente, ci sono anche i Littoriali della cultura e dell’arte: «Partecipai con una poesia francamente brutta sulla bonifica delle Paludi pontine, scritta con sincerità apologetica, e Dio me lo perdoni. Sembrerà curiosa questa combinazione, ma ai Littoriali di Firenze incontrai l’antifascismo. Non racconto frottole! Gli amici con cui avrei fatto la cospirazione e la battaglia antifascista erano tutti lì. Fu una svolta. Mi precipitai al caffè delle Giubbe Rosse, dove conobbi, tra gli altri, Montale e Bertolucci» . Antifascismo è anche l’incontro con il cinema e con il Centro sperimentale di cinematografia: «Conobbi Gianni Puccini, che studiava il cinema americano. Guardi quello lì…» . Indica il burattino di Charlie Chaplin appeso a una parete: «Ci ha sconvolto e trascinato: l’immagine della macchina e di come l’operaio sta dentro la macchina l’ha rappresentata Chaplin quando si incastra negli ingranaggi tipici del capitalismo che dilaga nel mondo. La passione per il cinema si è mescolata a quella per la poesia. Con l’incontro tra generazioni a Firenze è cominciata la cospirazione» . Il 17 luglio 1936 è un giorno chiave: esplode la rivolta franchista. «Antonio Amendola cominciò a farmi ragionare sulla lotta antifascista, non tornai più al Centro sperimentale e il mio amore per il cinema restò in ombra. Da allora, la lotta di classe diventò il punto centrale nella mia vita, il primo dovere, la prima speranza: la lotta per cacciare i padroni. Un dovere che condividemmo, oltre che con Amendola, con Bruno Sanguinetti, Paolo Bufalini, Aldo Natoli, Antonello Trombadori e altri. Quel 17 luglio fu il punto di rottura. Dissi no, non ci sto» . La nuova epoca si porta dietro anche una serie di errori che Ingrao oggi, all’alba dei suoi 96 anni, non esita a riconoscere. Il più grave, da direttore dell’Unità: «Nel ’ 56 scrissi un editoriale contro la rivolta ungherese. Poco dopo capii che avevo sbagliato e che invece bisognava lavorare contro gli errori dei sovietici: tutti i miei rapporti con i sovietici hanno vissuto momenti di ambiguità» . Il giorno dell’invasione di Budapest, il 4 novembre, letta la notizia, Ingrao non ha voglia di parlarne neanche con sua moglie Laura, cammina per ore da solo per le vie di Roma sotto un cielo nuvoloso, il suo girovagare finisce a casa di Togliatti, al quale dice il suo sgomento, sentendosi rispondere: «Oggi io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più» . La repressione della primavera di Praga ha un effetto diverso, ma è passato più di un decennio: «Ero a Lenola, mi avvisarono in serata, piantai la cena e andai al giornale: Longo era in Unione Sovietica e senza sentire i dirigenti uscimmo la mattina dopo con la nostra condanna» . Altri errori: la radiazione dal Pci del gruppo del manifesto («Bisognava affrontare la differenza, guardarla in faccia» ) e la più recente adesione al partito di Bertinotti: «Non è stata una scelta felice, ritengo sia necessario costruire un soggetto collettivo e Rifondazione non ha trovato la via per questo approdo» . Ne ha vissuta di storia, Ingrao: «Tra un po’ faccio i cento, speriamo, insomma…» . Le corna che mostra con una mano sono inevitabili. Tanta storia e tanti suoi protagonisti. Mao: «A Mosca, lo stavamo ad ascoltare a bocca aperta, con entusiasmo, era il vincitore della rivoluzione asiatica» . Togliatti: «Intervenne qualche volta nel lavoro al giornale, anche sbagliando. In tutta la vicenda Vittorini, mostrò di non capire» . Berlinguer: «Ne ho un ricordo affettuoso, cordiale, però appartiene a un’altra generazione» . I dissensi con Pajetta: «Era molto vivace, ma anche fazioso e cattivo. Quando nella segreteria prendevo la parola, entrava in agitazione, si alzava e ritornava per potere materialmente scocciarmi. Bisognava avere l’abilità di lasciarlo sfogare» . Ha inciso la dura obbedienza imposta dal partito nella vita privata? «Beh, sì, come no. C’era una specie di conformismo. Togliatti presto ha rotto con sua moglie e ha trovato un amore con Nilde Iotti, che era una giovinetta. Beh, questa cosa qui il partito l’ha digerita molto male, perché bisognava rispettare le regole del buon costume. Anche alla Iotti la vicenda costò molte noie» . La vita sentimentale di Ingrao ebbe la sua svolta durante la guerra, quando conobbe Laura Lombardo Radice, figlia dell’antifascista Giuseppe e sorella di Lucio: «Durante la lotta clandestina, faceva la staffetta: ci serviva per evitare i segugi della polizia. Per tutelarci, spesso ci incontravamo ai concerti che si tenevano nella Basilica di Massenzio: un alibi buono per passarci i messaggi clandestini» . Presto nasce qualcosa che va oltre la politica e il giovane Pietro si lascia prendere dallo slancio. Sorride: «Avevo degli aspetti un po’ rozzi, lenolesi diciamo così, campagnoli, avevo un’idea un po’ volgare, e quindi è successo che in uno di questi incontri a Massenzio, in modo un po’ sgarbato e sbagliato ho tentato di darle un bacio, e mi son preso un ceffone solenne. Come a dire: siamo qui per lavorare, queste cose levatele dalla mente e non rompere le scatole» . Quella prima reazione non avrebbe impedito a Laura e a Pietro di avviare una lunga vita insieme, di sposarsi e di avere cinque figli. Laura morì nel 2003. «Abbiamo avuto una vita di grande comunicazione, anche se, senza dire bugie, io non è che fossi uno stinco di santo. Provai un dolore assai aspro quando quella sua luminosità umana mi abbandonò» . Forse la stessa la luminosità della luna che vedeva, molto tempo prima, dal balcone di casa.
Repubblica 21.3.11
L’incerto destino del Mare Nostrum
di Predrag Matvejevic’
La paura dell´immigrazione ha impedito lo sviluppo di politiche ragionate tra le due sponde
Questo bacino assomiglia da tempo solo ad una frontiera marittima che separa l´Europa dall’Africa
IL PASSATO del Mediterraneo ha visto e vissuto numerosi periodi di pace e di guerra. Il mondo latino era orgoglioso di aver imposto sulle nostre sponde un´epoca eccezionale, quella della pax romana, forse la più lunga pace nel passato del Mare Nostrum. Abbiamo conosciuto, invece, innumerevoli scontri fra stati, nazioni, fedi, città, regioni. Lasciamo alla "storia di lungo periodo" le enumerazioni abituali di questi eventi che vanno dalla preistoria ai tempi moderni.
Aanche nella nostra epoca ci siamo dovuti confrontare con varie fratture che si trasformavano in tensioni o addirittura in conflitti bellici: Maghreb, Mashrek, Spagna, Grecia, Cipro, Balcani, ex-Jugoslavia, Palestina, e via di seguito…
L´immagine che da tempo ci offre il Mediterraneo non è affatto rassicurante. La sua riva settentrionale presenta un ritardo rispetto al Nord Europa, e altrettanto la riva meridionale rispetto a quelle europee. Tanto a Nord quanto a Sud, l´insieme del bacino si lega con difficoltà al retroterra continentale. In alcuni momenti non fu davvero possibile considerare questo mare come un "insieme" senza tener conto della fratture che lo dividevano, dei conflitti che continuano a dilaniarlo.
L´Unione europea si è compiuta senza tener conto delle specificità del Mediterraneo. Nasceva un´Europa separata dalla "culla dell´Europa". Come se una persona si potesse formare dopo esser stata privata della sua infanzia o della sua adolescenza. Le spiegazioni che se ne davano, banali e ripetitive, non riuscivano a convincere coloro ai quali erano dirette. Non ci credevano forse neanche quelli che le proponevano. I parametri con i quali si osservano dal Nord europeo il presente e l´avvenire del Mediterraneo non concordano da tempo con quelli del Sud. Le griglie di lettura sono state molto diverse. Ai nostri giorni, già prima che accada questa nuova guerra in Maghreb e in Mashrek, le rive del Mediterraneo non avevano in comune che le loro insoddisfazioni. Questo nostro mare assomiglia, già da tempo, ad una frontiera marittima che si estende dal Levante al Ponente separando l´Europa dall´Africa e dall´Asia Minore. L´identità dell´essere vi rimane tesa e sensibile, invece l´identità del fare riesce con difficoltà a compiersi e soddisfarsi.
Le decisioni relative alla sorte del Mediterraneo sono state prese, tante volte, al di fuori di esso o senza di esso. Ciò genera frustrazioni e anche fantasmi. Le frammentazioni vi prevalgono da tempo sulle convergenze. Si profila all´orizzonte, non soltanto nella nostra epoca, un pessimismo storico. Siamo stati più di una volta testimoni, anche sulle sponde meridionali dei paesi europei, di un "crepuscolarismo" particolare. La figura del Sisifo è forse l´unica grande metafora mitologica, riemersa nel secolo ventesimo.
Le coscienze mediterranee si allarmavano e, ogni tanto, provavano ad organizzarsi, cercando d´includere anche le sponde africane. Le loro esigenze hanno suscitato, nel corso degli ultimi decenni, numerosi piani e programmi: le Carte di Atene, di Marsiglia e di Genova, il Piano d´Azione per il Mediterraneo (PAM) e il Piano Blu di Sophia-Antipolis che proiettava l´avvenire dell´intero mare nostro «all´orizzonte del 2025», le Dichiarazioni di Tunisi, Napoli, Malta, Palma di Maiorca, le Conferenze euro-mediterranee di Barcellona, Malta, Palermo. Simili sforzi, lodevoli e generosi nelle intenzioni, stimolati o sorretti più di una volta da commissioni governative o da istituzioni internazionali, non hanno conseguito che risultati scarsi e limitati. Il Mediterraneo "vi rimaneva dietro" (sono le parole di un poeta).
Percepire il Mediterraneo partendo solamente dal suo passato rimane un´abitudine tenace, tanto sul litorale quanto nell´entroterra. "La patria dei miti" ha molto sofferto delle mitologie che essa stessa ha generato o che altri hanno nutrito. Questo spazio ricco di storia è stato spesso vittima degli storicismi.
A cosa serviva ribadire, con rassegnazione o con esasperazione, le aggressioni che continuavano a subire le sponde di questo mare? Nulla ci autorizza, in questo momento che scuote questo spazio con una guerra di cui gli esiti sono imprevedibili, a farle passare sotto silenzio: degrado ambientale, inquinamenti sordidi, iniziative selvagge, movimenti demografici mal controllati, corruzione nel senso letterale o figurato, mancanza di ordine e scarsità di disciplina, localismi, regionalismi, e quanti altri "ismi" ancora. Il Mediterraneo non è comunque il solo responsabile di questo stato di cose. Le sue migliori tradizioni (quelle che associano l´arte e l´arte di vivere!) si sono opposte, tante volte, invano. Abbiamo visto i progetti della Conferenza di Barcellona, con l´idea di "partenariato", finire in un fallimento scoraggiante. Il tentativo del presidente Sarkozy di fare una nuova "Unione per il Mediterraneo" è stato accolto con disprezzo dall´Europa continentale (dalla Germania in primo luogo). Infatti, la proposta francese era fatta in fretta e poco preparata.
Il Mediterraneo si presenta da tempo come uno stato di cose, ma non riesce a diventare un progetto. La sola paura dell´immigrazione proveniente dalla costa Sud non basta per determinare una politica ragionata. La costa Sud mantiene le sue riserve, non dimenticando l´esperienza del colonialismo. Entrambe le rive furono molto più importanti sulle carte utilizzate dagli strateghi che non su quelle che dispiegano gli economisti.
Questo succede di nuovo, in un altro modo, ai nostri giorni in questa guerra che inizia sul territorio del Libano ed intorno ad esso. Speriamo che possa salvare una parte degli «umiliati e offesi» che sono insorti contro l´ingiustizia e la tirannia. Forse questo potrebbe cambiare il destino del Mediterraneo? Il Mare Nostro lo merita su tutte le sue sponde.
Repubblica 21.3.11
Taccuino strategico
Battaglia in ordine sparso
di Fabio Mini
Dobbiamo essere grati alla stampa internazionale se oggi sappiamo di essere parte della coalizione di volenterosi che ha assunto il compito di applicare la risoluzione 1973 delle Nazioni Unite contro la Libia. Le dichiarazioni ufficiali oscillano ancora tra ci siamo e non ci siamo, combattiamo e ci asteniamo, banchettiamo e laviamo i piatti sporchi degli altri. La posizione più netta apparsa finora è che siamo in grado di difendere il territorio e pronti a fare ciò che ci verrà chiesto. Cosa ovvia la prima, ma non chiara la seconda: chi ce lo deve ancora chiedere, visto che l´Onu lo ha già fatto e la Nato si è sfilata? Forse aspettiamo che ce lo chieda Gheddafi, l´unico a saperci coinvolti fino al collo sia con le forze sia con le basi in teoria utilizzabili solo per scopi Nato. La realtà è che la coalizione che sta bombardando la Libia è del tutto estemporanea. Si stanno sviluppando quattro diverse operazioni nazionali: la Francia conduce l´operazione Harmattan (il nome di un vento del deserto), la Gran Bretagna l´operazione Ellamy, il Canada fa l´operazione Mobile e gli Stati Uniti l´operazione Odyssey Dawn, un nome impegnativo che richiama all´Aurora dell´Odissea: rosea, dorata e assisa su di un trono anch´esso aureo come metafora di ogni nuova fase del percorso di maturazione, riscatto e vendetta di Ulisse. Non è chiaro chi comandi il tutto e nel dubbio gli americani si comandano da soli. L´operazione Odyssey Dawn è cominciata il 4 marzo con gli aiuti "umanitari" ai ribelli ed è gestita dal generale Ham che da Stoccarda comanda Africom, il comando statunitense per l´Africa che comprende anche le forze di Vicenza. I bombardamenti aero-navali sono diretti dall´ammiraglio Locklear dal suo comando esclusivamente americano di Capodichino. Lui è comandante delle forze navali americane per l´Africa e l´Europa, e il fatto che sia anche Comandante Nato di Bagnoli in questo caso è ininfluente. In tale quadro, sempre a rigor di bazzica sarebbe utile sapere che ruolo dobbiamo svolgere, chi ci comanda e che nome ha l´operazione italiana. Ma la bazzica è un gioco del biliardo e forse per noi le palle si muovono ancora troppo in fretta.
l’Unità 21.3.11
In coscienza e nel dubbio
di Concita De Gregorio
Sostengono, i commentatori duri e puri, che si debba dire sì o no, mostrarsi coerenti e in questo caso rallegrarsi con se stessi oppure autodenunciare la propria incoerenza e di conseguenza vergognarsi.
È davvero vergognoso e indicativo della miseria autoreferenziale in cui certi soloni sono precipitati, il dibattito che si sta sviluppando in queste ore a proposito del “pacifismo a corrente alternata” della sinistra italiana: sostengono, i commentatori durissimi e purissimi, che non ci sia tanto da discutere, che si debba dire sì o no, mostrarsi coerenti e in questo caso rallegrarsi con se stessi oppure autodenunciare la propria incoerenza e di conseguenza vergognarsi. Vorrei opporre a questo tribunale in servizio permanente effettivo alcuni dati di fatto ed invitarli ad esercitare insieme a noi la pratica del dubbio, sempre auspicabile e benefica nel cammino verso la comprensione delle cose. Riprendo, nel farlo, dal punto in cui ci siamo lasciati: l'editoriale di due giorni fa, scritto alla vigilia della decisione (francese) di attaccare Gheddafi, decisione a cui il governo italiano si è prontamente accodato fornendo basi e aerei di supporto. “Siamo passati dal baciamano all'elmetto”, scrivevo. Dal baciamano ai Tornado. L'amico Gheddafi in una frazione di secondo è diventato nemico. Un voltafaccia, dicevo, di cui “l'amico Muammar potrebbe risentirsi in forma personale: la categoria del tradimento, ai suoi occhi, potrebbe comprendere l’Italia intera”. Quarantott'ore dopo lo ha detto in forma esplicita: italiani traditori. Dice italiani ma pensa solo a uno: al suo caro amico. Il punto mi pare ancora questo, non si scappa da qui: è tragico e grottesco vedere La Russa in divisa da guerra, su mandato del premier, sciorinare i nomi degli aerei che sta facendo decollare all'attacco del nemico. Quello stesso nemico al quale fino all'altro ieri abbiamo venduto le armi, a cui abbiamo baciato l'anello, che abbiamo fatto accampare con le sue tende nei giardini di Roma fornendogli ragazze e cavalli per il suo circo, con quale abbiamo fatto affari pubblici e privati in materia di gas e di tv, i cui soldi abbiamo chiesto per le nostre imprese, tante. Di cui abbiamo sopportato i ricatti e le minacce, con il quale abbiamo firmato un trattato vergognoso, in materia di immigrazione. Che Gheddafi fosse un dittatore sanguinario non è notizia di giovedì scorso. La sinistra tutta e questo giornale in specie, molto spesso in assoluta solitudine, ha denunciato il pericolo e la vergogna di quella “amicizia”, ha chiarito la natura degli affari dei due soci, ha mostrato le foto dei centri di detenzione libici – autentici lager – ha pubblicato documenti inoppugnabili circa la violazione di diritti umani in Libia e ha chiesto che si mettesse un freno al delirio del Raìs. La politica poteva farlo con molti mezzi. Economici, diplomatici. Un ventaglio che va dall'embargo alla cessazione dei traffici più o meno trasparenti, delle compravendite e del business fino ad un'azione di pressione, di sostegno umanitario e di ponte culturale con i dissidenti al regime, oggi rivoluzionari. Non l'ha fatto: questo governo è stato l'ultimo a prendere le distanze da Gheddafi e il primo a sostenere Sarkozy. Di subalternità in subalternità, eterno vassallo, al servizio ieri del dittatore libico ieri sera, dell'assertivo francese stamani. Una prova di governo indecente. Una politica estera disastrosa. Solo affari, solo soldi.
Ciò detto, il dittatore folle sappiamo che è folle – noi da molto tempo, diciamo pure dal principio – che è nemico di ogni libertà (di opinione, di stampa, di voto, di religione), che minaccia di fare strage di civili e lo farà, lo sta facendo. I ribelli sono sotto le sue bombe e implorano aiuto, chiamano il mondo, ci invocano di non lasciarli soli a morire: la vendetta del Raìs, se dovesse piegare la rivolta, sarà (sarebbe) feroce.
Ci è chiarissimo che le ragioni autentiche dell'intervento militare in Libia non sono di natura umanitaria: le ricchezze energetiche, gli assetti di potere dei blocchi mondiali, persino l'ansia da prestazione del presidente francese. Tutto chiaro. E l'articolo 11 della nostra Costituzione, e il diritto all'autodeterminazione. Ma il rispetto della sovranità nazionale della Libia e il ripudio della guerra come si sposa, nelle coscienze durissime e purissime, con l'invocazione di aiuto rivolta proprio a noi da quella gente su cui Gheddafi reclama il diritto di disporre facendone se crede, visto che è roba sua, carne da macello? Non si doveva arrivare alla guerra: giusto. Bisognava combattere Gheddafi prima e con altre armi: sacrosanto. Lo chiediamo da anni. Questo governo invece lo ha trattato da statista e ha occultato i suoi crimini. Oggi lo combatte, ed è un voltafaccia disgustoso. Spara contro le armi che gli ha venduto. E noi, la sinistra, ora che le vittime della dittatura hanno aperto i cancelli dei lager che abbiamo denunciato e sono in piazza sotto le bombe a dirci aiutateci – ora che la guerra al Raìs è cominciata, insomma, e certo non l'abbiamo scatenata noi – cosa dovremmo fare, davanti a quel popolo? Parlargli di principi mentre il despota li massacra, rimboccarci le coperte e andare a letto? Lasciar fare ai francesi e agli inglesi, che ci pensino loro? Odio la guerra, e la ripudio. Odio essere rappresentata da un capo del governo che non conosce il principio di responsabilità, la diretta conseguenza delle sue stesse azioni, e che cambia alleanza in favore del vento. Vorrei che l'Italia fosse un paese dignitoso, vorrei che sapessimo tutti assumere decisioni difficili: dubitando e poi decidendo, limitando al massimo i danni. Vorrei stare dalla parte di chi ha bisogno con gli strumenti che servono, con senso della misura e del limite, senza offendere e senza ipocrisia, sporcandoci le mani come sempre accade quando si tratta di metterle nel sangue e nel fango dei feriti. Che le mani pulite sono una colpa se qualcuno sta morendo qui accanto. Certo coi Tornado è difficile. Sono giorni orribili ma bisogna starci dentro. Non so dire come, lo impareremo. Certo nessuno, nemmeno chi si sente in salvo nel suo tribunale dispensatore di sentenze, potrà restarne fuori. CONCITA DE GREGORIO
l’Unità 21.3.11
Bersani: «Intervento necessario e legale»
Critiche al governo
Il Pd pronto a votare in Parlamento la risoluzione sulla crisi D’Alema: «Esecutivo inadeguato, chiede l’autorizzazione all’uso della forza e non tutta la maggioranza si presenta»
di Simone Collini
Il Pd confermerà in Parlamento il sostegno alla risoluzione Onu sulla crisi libica ma chiederà al governo sia di superare le ambiguità incarnate in questi giornidalla Lega che di mettere da parte dichiarazioni, come quelle del ministro della Difesa Ignazio La Russa, bellicose anche in modo eccessivo.
Stamattina ci sarà un Consiglio dei ministri straordinario e probabilmente già mercoledì mattina (domani la Camera non è stata convocata) si voterà in Aula una risoluzione che dovrebbe ricalcare il documento approvato la scorsa settimana dalle commissioni Esteri e Difesa con i voti di Pdl, Pd e Terzo polo. Pier Luigi Bersani conferma che il suo partito «è pronto a sostenere un ruolo attivo dell’Italia in Libia», dove è in corso un intervento «necessario e legale»: «Necessario spiega in un’intervista a Rainews24 per impedire un massacro dei civili e legale perché avviene in seguito alle deliberazioni dell’Onu e dell’accordo tra Unione europea e Lega araba». Ma mentre qualche ministro (La Russa) si affretta dal primo pomeriggio ad annunciare le azioni militari dei nostri aerei e mentre qualcun altro (Bossi) insiste sulla linea neutralista, il leader del Pd dice non solo che sarebbe meglio che i diversi ministri «stessero zitti e il governo parlasse con voce univoca in Parlamento per definire meglio il nostro profilo in questa vicenda», ma anche che in una situazione così delicata «ci vuole grande fermezza, grande concerto e grande condivisione, prima di tutto nella maggioranza, e auspicabilmente anche del dialogo con l’opposizione».
Una «responsabilizzazione del Parlamento», per dirla con Bersani, cioè un voto, dovrebbe esserci già dopodomani, e anche se nel gruppo c’è qualche parlamentare che vorrebbe votare contro l’intervento (soprattutto nel fronte dei cattolici di Movimento democratico, con Enrico Gasbarra che chiede libertà di coscienza), il Pd confermerà il voto favorevole dato in commissione.
Repubblica 21.3.11
D’Alema: "Siamo responsabili e sosteniamo le Nazioni Unite"
La Chiesa chiede tempi rapidi: "Tutelare i civili"
Gino Strada: "No ai bombardamenti"
di Silvio Buzzanca
ROMA Benedetto XVI «segue con grande apprensione» l´evoluzione della situazione in Libia e lancia un «pressante appello» per tutelare «l´incolumità e la sicurezza dei cittadini» e «garantire l´accesso ai soccorsi umanitari». Parole che il Pontefice ha pronunciato ieri a Roma, in piazza San Pietro, subito dopo l´Angelus. Il Papa ha detto di seguire «gli ultimi eventi con grande apprensione e prego per coloro che sono coinvolti nella drammatica situazione di quel Paese».
Il Papa ha poi rivolto un pensiero alla «popolazione cui desidero assicurare la mia commossa vicinanza, mentre chiedo a Dio che un orizzonte di pace e di concordia sorga al più presto sulla Libia e sull´intera regione nord africana».
Di Libia si è occupato anche il cardinale Angelo Bagnasco in un omelia pronunciata a Genova. «Speriamo che si svolga tutto rapidamente, in modo giusto ed equo, col rispetto e la salvezza di tanta povera gente che in questo momento è sotto gravi difficoltà e sventure», ha detto il presidente della Cei.
La Chiesa, in pratica non condanna l´attacco e non si schiera su posizioni contro la guerra cosi come aveva fatto Giovanni Paolo II nel caso dell´Iraq. Il Vaticano e la Cei, dice Bagnasco, sono per un intervento «prudente e corretto». L´Avvenire e la Radio Vaticana invece sono a favore dell´azione. Ma l´intervento viene invece condannato da molti credenti sul blog aperto dai frati di Assisi
Chi si schiera nettamente è invece Massimo D´Alema. Secondo l´ex ministro degli Esteri sulla Libia «il governo è inadeguato e diviso». Per questo, ha spiegato D´Alema è ora che «le persone responsabili si facciano carico delle responsabilità». E ha precisato che «l´opposizione sostiene l´Onu e decisioni dell´Onu».
Una posizione poco condivisa sui blog di centrodestra. Sul berlusconiano "Spazio azzurro" infatti si leggono commenti contro l´intervento e a favore delle posizioni di Bossi. Sulla pagina Facebook del Pd, invece, appaiono sia commenti critici, secondo tradizione, sia post di approvazione della linea del Pd a favore dell´intervento. Intervento condannato dal fronte pacifista. In prima fila Gino Strada che si dice sempre e comunque contrario alla guerra. «Siamo di fronte ad una aggressione che metterà in ginocchio la Libia e il suo popolo», spiega Paolo Ferrero, leader di Rifondazione comunista. Ma dubbi nutre anche il democratico Enrico Gasbarra: il Pd dia libertà di coscienza, dice, e io voterò no.
Repubblica 21.3.11
Il leader di Sel: si può essere contro Gheddafi e per la pace, e l’Occidente non ha molta credibilità
Vendola si schiera con il no alle bombe “L’Onu prevede anche la diplomazia"
di Goffredo De Marchis
Noi e l´Europa in questi anni siamo stati indifferenti, e complici delle malefatte del dittatore di Tripoli e di tutti i raìs del Mediterraneo
ROMA «La risoluzione dell´Onu contiene vari ingredienti e poteva essere letta in molti modi. Si è scelta la strada più rischiosa riproducendo il ciclo paradossale di impedire il massacro di civili attraverso massacri di civili». Nichi Vendola si schiera decisamente contro l´intervento armato in Libia dopo quelle che erano sembrate delle timide aperture. «Se fossi in Parlamento voterei no ai bombardamenti su Tripoli», dice il leader di Sel e governatore della Puglia. Che annuncia il risveglio del mondo pacifista. «Nelle prossime ore e nei prossimi giorni, quando l´opinioni pubbliche italiana e europea si confronteranno con la realtà, si potrà costruire una mobilitazione su due versanti: contro Gheddafi e contro la guerra».
Sulla mozione delle Nazioni unite Giorgio Napolitano non la pensa come lei. Parla di azione autorizzata dal Consiglio di sicurezza.
«Non c´è dubbio. È stata adottata una risoluzione Onu che in qualche maniera dà una copertura legale alle decisioni assunte dai Paesi occidentali. Che poi ci sia una contraddizione tra questi impegni di carattere palesemente militare e il precetto scolpito nell´articolo 11 della Costituzione è una questione di grande rilievo. Che resta aperta».
Dire no alle bombe non significa essere indifferenti alle sofferenze degli insorti e della popolazione civile?
«Noi siamo stati non solo indifferenti ma complici, insieme con l´Europa intera, delle malefatte di Gheddafi e di tutti i rais del Mediterraneo in questi anni».
Questo è il passato. Adesso qual è l´alternativa all´azione militare?
«Tra l´indifferenza e la guerra la terza opzione è la politica del negoziato, della diplomazia che pure sono strade previste nella risoluzione dell´Onu. Si può lavorare a tenaglia sul regime libico con tutti i mezzi per arrivare a un cessate il fuoco e una forza di interposizione di pace. L´esperienza che abbiamo fatto in Libano dimostra che l´alternativa esiste. Anche perché l´Occidente non ha molta credibilità presso quei popoli. Cosa abbiamo detto delle truppe saudite che sono andare in Bahrein a reprimere la ribellione del popolo? Niente. Cosa diciamo della repressione degli oppositore in Arabia saudita? Niente. Aver usato due pesi e due misure selezionando tiranni da abbattere e altri da mettere nei consigli di amministrazione fa apparire la nostra guerra in Libia un capriccio».
I pacifisti sono un po´ ai margini. E non li abbiamo visti neanche quando Gheddafi ha cominciato a usare le armi contro il suo popolo.
«Il sentimento pacifista è innanzitutto un sentimento di indignazione contro Gheddafi. Per me lo slogan è "no a Gheddafi no alla guerra". Nelle prossime ore si può costruire una mobilitazione su questi due pilastri. Spero però che a differenza di altre volte lo spirito di guerra non si traduca in spirito di intolleranza».
Verso chi?
«Verso il pacifismo che non è una ridotta di estremisti o di utopisti. È un punto di osservazione che ha svelato la menzogna diventata sistema delle guerre».
Senza fermarle.
«La seconda potenza mondiale, come il New York Times definì il pacifismo, è stata sconfitta. Ma questo risultato lo stiamo pagando tutti in maniera dolorosa. È stata sconfitta la possibilità di entrare in un´epoca che capovolgesse l´azzardo della guerra infinita nella sfida della pace infinita».
La Stampa 21.3.11
“Libertà di coscienza” I cattolici Pd mettono in difficoltà Bersani
Ex popolari ed ex margheritini contrari all’intervento
Se Veltroni chiedeva su Facebook, «se non ora, quando scendere in piazza per i patrioti libici?», oggi Pier Luigi Castagnetti domanda se «l’ora x» sulla situazione libica non sia già passata. «Già, perché a mio avviso», aggiunge l’ex segretario del Ppi, «un intervento di questo genere sarebbe stato, probabilmente, più efficace se messo in atto nella prima fase della ribellione libica nei confronti del Raiss». Quando, insomma, i ribelli esultavano e apparivano come vittoriosi nei confronti del colonnello Gheddafi. «Oggi è tardi, e comunque, molto più complicato», spiega Castagnetti. «Con Gheddafi in difficoltà, forse, si sarebbe trattata anche una sua resa, evitando così le iniziative repressive portate avanti nei confronti della popolazione dal regime». Parole di buon senso, che sintetizzano in un certo senso l’essenza degli sms notturni transitati sui telefonini della componente popolare del Pd, quella cattolica per intenderci, che intercetta pure i malumori degli ex margheritini. Tant’è che il dissenso pacifista manifestato da Enrico Gasbarra, arriva proprio per rimarcare le differenze interne al Pd.
Con il leader Pier Luigi Bersani, che tra distinguo e premesse si dice «pronto a sostenere un ruolo attivo dell’Italia», mentre l’ex presidente della Provincia di Roma attacca: «Il cammino della pace è fatto di scelte difficili e tormentate, ma l’uso delle bombe e dei missili non potrà mai avere il mio voto».
Certo, tutti rilanciano sul «Gheddafi tiranno che va fermato», ma molti appuntano, anche Gasbarra, che «i vertici del Pd dovrebbero lasciare libertà di coscienza ai parlamentari, così come in questi anni è stato permesso a chi come me non ha mai sostenuto le missioni militari». E così, se Bersani accusa il governo di doppia linea sulla Libia, pure nel Pd le differenze non mancano. E Castagnetti infatti aggiunge, che le «posizioni del Pd devono sempre essere prudenti». Così come pure fanno molti siti e blog. C’è chi scrive sulla pagina di Bersani che «questo evento bellico è una mostruosità», chi sottolinea, «non mi siete piaciuti per niente, avete un atteggiamento ambiguo. Dovevate insistere sulla mediazione».
Ma parlare di spaccature è esagerato. «Non ne vedo», spiega Marco Follini. «Che ci possano essere obiezioni di coscienza, questo è nello stato delle cose, ma la scelta fatta sino ad oggi mi pare fosse obbligata. Semmai il nodo resta quello delle alleanze, a destra ma anche a sinistra. Perché il problema nella maggioranza aperto dalla Lega è perfettamente sovrapponibile a quello che c’è tra Pd e Idv (sulla Libia), che anche in passato sulla questione-Afghanistan ha votato in maniera contraria alla nostra». Sintesi finale: «Queste alleanze divise conclude Follini nel pieno di una crisi rappresentano ancora una volta il trionfo del provincialismo italiano».
Di fatto, però, «l’intervento è necessario e legale», sostiene Pier Luigi Bersani che poi spiega: «Ma il nodo è la subalternità, fino al rischio che il nostro Paese debba partecipare molto e decidere poco». E il presidente del Copasir, Massimo D’Alema aggiunge: «La comunità internazionale è intervenuta per proteggere la popolazione civile, non per sconfiggere Gheddafi. Ora accanto all’azione militare si lavori per un cessate il fuoco, per una transizione pacifica». [PAO. FES.]
Corriere della Sera 21.3.11
Destra e sinistra si scambiano i ruoli
di Pierluigi Battista
I ruoli si ribaltano. Le parole si rovesciano. Leggi gli editoriali e i commenti dei giornali di destra (i guerrafondai di Bagdad) e senti di immergerti nel fervore pacifista di chi ha in orrore i rombi della guerra su Tripoli e Bengasi. Vai in quelli di sinistra (i pacifisti di Bagdad) e vieni travolto da un ardore bellicoso non confrontabile nemmeno con l’umanitarismo a suon di bombe che mostrò i muscoli nella guerra del Kosovo del ’ 99. Per dire: Maurizio Belpietro con Gino Strada e Concita De Gregorio che inneggia all’intervento armato contro il dittatore Gheddafi. Il governo va alla guerra di Libia controvoglia, malvolentieri, obtorto collo: e si vede. L’opposizione versa invece il carburante ideologico dell’interventismo armato: diritti umani, odio per il tiranno di Tripoli, simpatia per il popolo vessato e massacrato. La destra è ostile alla guerra perché considera l’umanitarismo un orpello che serve a nascondere corposi interessi. La sinistra, invece, si libra sul cielo dei valori. Tutto il contrario di ciò che accadde per l’Iraq. Saddam Hussein non massacrava forse il suo popolo e forse ancora peggio di Gheddafi, non gasava i curdi, non sterminava gli sciiti del Sud? Eppure la sinistra non sentì il dovere morale di intervenire militarmente per fermare la mano del boia. Anzi, accusava la guerra di Bush di dare una veste democratica alla brutale e spietata logica degli interessi, non solo petroliferi. Anche la destra non si mostrava insensibile all’appello bushiano dell’ «esportazione della democrazia» . La democrazia che si propaga sulla punta delle baionette? Stavolta no, la destra non è più disposta ad estendere la missione di Bagdad nel cuor della Libia. Ora la destra, sebbene costretta dalla forza degli eventi a entrare da protagonista nel gioco rischioso di una guerra a un passo da casa, preferisce la stabilità a scapito della democrazia, un partner dispotico ma efficace al linguaggio dei diritti umani. La sinistra, paladina dei tentativi diplomatici, refrattaria al linguaggio sbrigativo della guerra, ripudia la religione della trattativa a oltranza. Non dice più che la guerra è «la sconfitta della politica» , ma idealizza la guerra come continuazione e compimento della politica. Dire che questo rovesciamento si realizza perché al posto dell’odiato Bush c’è l’amico Obama è troppo semplicistico: non è che Sarkozy e Cameron siano esattamente di sinistra. Ma che almeno destra e sinistra evitino di rinfacciarsi incoerenze e contraddizioni: la guerra dei boomerang.
Corriere della Sera 21.3.11
Il sottile confine tra conflitti giusti e ingiusti
di Armando Torno
C’è una guerra giusta? O tutto ciò che necessita di violenza è ingiusto? Al di là di ogni risposta possibile, è il caso di ricordare che le ragioni e le obiezioni hanno la stessa età dell’uomo. Nel primo conflitto del Golfo si diffuse il concetto di «bombe intelligenti» e nel 2002 il presidente George W. Bush parlò di «guerra preventiva» , ma questi termini non erano nuovi: li utilizzò Joseph Goebbels nel 1940 e ’ 41 per i bombardamenti su Londra — «soltanto» dove c’erano arsenali — e per l’attacco alla Russia, sferrato per prevenire l’offensiva di Stalin. Due millenni di cristianesimo hanno posto in luce mille argomentazioni, ma è certo che nel 1947 il cardinale Alfredo Ottaviani, da taluni chiamato «il carabiniere della fede» , nella terza edizione delle sue Institutiones iuris publici ecclesiastici inserì un nuovo paragrafo dal titolo «Bellum omnino interdicendum» , ovvero «La guerra va vietata del tutto» . Questo non chiuse la questione, tanto che Vincenzo Paglia, vescovo di Terni, ricorda che il tirannicidio — fortunata idea dei gesuiti — venne ancora accettato nella Populorum progressio, l’enciclica di Paolo VI del 1967: si può capire una insurrezione rivoluzionaria «nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese» . Del resto, Agostino nella Città di Dio ammette che la Chiesa possa usare la forza «per ricondurre al proprio seno i figli che essa ha perduti» . Insomma, è lecita una costrizione al bene; e dove c’è guerra con ingiustizia e oppressione il cristiano può ristabilire la pace ricorrendo alla violenza. Anche Martin Lutero non si allontanò da tali concezioni. Nello scritto Contro le saccheggiatrici e assassine bande di contadini l’ex monaco esorta i principi tedeschi alla repressione di quei delinquenti, da «scannare come cani arrabbiati» . Giovanni Reale, filosofo credente, sottolinea: «La guerra di per sé è un male, ma talvolta è una difesa necessaria. Lo è non tanto per l’individuo singolo, ma nel caso ci siano dei popoli e un tiranno, il quale considera proprietà sua personale uno Stato di cui dovrebbe essere il tutore» . Precisa: «Sovente per difendere se stesso questo tiranno attacca i sudditi: allora la guerra è socialmente giustificata, giacché evita un male che colpisce la maggioranza per ottenere il contrario» . Infine: «Quando c’è concordia tra gli Stati come nel caso attuale e, come ora, si sono registrate titubanza, attesa e ripensamenti, significa che non è una guerra improvvisata e a suo modo è giustificata; o, quanto meno, le ragioni sono state correttamente valutate» . Il filosofo Emanuele Severino, invece, propone una lettura di metodo: «La distinzione tra giusto e ingiusto presuppone che l’etica, soprattutto quella tradizionale, sia viva. Ma poiché ci troviamo nel tempo in cui la crisi della verità porta con sé la crisi dell’etica, ne viene che "guerra giusta"può essere soltanto quella vincente. Il problema si sposta a questo punto sul significato della parola "vincere"» . Ma l’ultima osservazione contiene una problematica complessa, con la quale si misurano non poche opinioni attuali. D’altra parte, Niccolò Machiavelli nelle Istorie fiorentine ne aveva messo a nudo una parte sostanziosa: «Coloro che vincono, in qualunque modo vincano, mai non ne riportano vergogna» . Monsignor Paglia, dopo l’osservazione fatta, confida: «Ogni guerra è una sconfitta. È una sconfitta della ragione che mostra il suo fallimento. Le armi sono più forti delle parole» . Poi, riprendendo il filo dell’attualità: «Nel caso libico, e non solo, non possiamo non esaminare i comportamenti scorretti del passato che hanno indebolito la ragione: c’è quindi bisogno di un serio esame di coscienza. Non si doveva forse intervenire prima? I ritardi non complicano la situazione?» . Vi è dell’altro. Il vescovo tocca nervi scoperti partendo da una riflessione della sapienza rabbinica: «Subito dopo l’uscita dal Mar Rosso, gli ebrei cantarono vittoria e gli angeli, udendo quegli inni di gioia, si avvicinarono a Dio chiedendo di parteciparvi. Ma Dio disse: "Come posso esultare mentre alcuni miei figli sono travolti dal mare?"» . E poi Vincenzo Paglia non dimentica il costo umano: «Non si può non essere preoccupati delle sorti dei civili e della cura dei feriti» . Anche Giovanni Reale: «Occorre vedere come si fa la guerra. Questo richiederebbe ulteriori approfondimenti; comunque, anche in tal caso, si dovrebbe usare lo stretto necessario, il minimo possibile. Che diventa dal punto di vista del valore il massimo» . Aristotele afferma nella Politica— e lo riprese in altre opere— che la guerra è strumento al servizio della pace, rampognando le potenze militariste come Sparta. Per von Clausewitz è «una continuazione della politica con altri mezzi» , mentre lo spagnolo Francisco de Vitoria nel De iure belli (1539) impostò la problematica della guerra giusta in termini ancora utili. Tito Livio ne intuì la natura: «Bellum se ipse alet» , ovvero «La guerra nutre se stessa» (Ab urbe condita, XXXIV, 9); forse per questo la giusta e l’ingiusta a volte si confondono. Ma è altresì vero che molta filosofia moderna non si pose il problema e preferì lasciarlo alla teologia. Il socialista Proudhon vi vedeva un «fatto divino» e l’influente Hegel aveva insegnato— nelle lezioni di filosofia del diritto— che essa è un bene, giacché conserva la «salute etica dei popoli» , utile come lo spirare dei venti che preserva il mare dalla putrefazione. Il futurista Marinetti aggiungerà che è «igiene del mondo» . Ma, tra i possibili esempi, non va dimenticato l’acutissimo Hobbes: si accorse della complessa natura della guerra, giacché in essa legalizziamo quella violenza che ci giunge dalla natura. Dostoevskij risponderà disperato ne I demoni: «Gli uomini sono cattivi perché non si accorgono di essere buoni» .
Corriere della Sera 21.3.11
Il colonnello e le donne emancipate per forza
di Viviana Mazza
Mentre la «coalizione dei volonterosi» bombarda la Libia, centinaia di donne e di bambini si sono dichiarati pronti ad immolarsi come scudi umani per proteggere la caserma di Gheddafi a Tripoli. E il Raìs, in un messaggio audio alla comunità internazionale, ha detto di puntare sulle donne per la propria protezione. «Abbiamo armato tutti gli uomini libici. Non solo: anche le donne sono state addestrate a combattere. Anche se ucciderete l'ultimo uomo, scenderanno in campo le nostre donne. E sarete costretti a combattere contro di loro. Vergogna! Sarà un’onta sulla vostra fronte aver combattuto contro delle donne» . Negli anni, Gheddafi ha esaltato spesso il ruolo delle donne nella società, anche come sfida agli integralisti religiosi. Ma con forti contraddizioni. Su sua indicazione, il governo ha vietato la poligamia e istituito l’obbligo di servizio militare per le donne. Però, nel suo Libro Verde, che viene studiato a scuola in Libia, c’è scritto: «La donna è femmina e l’uomo è maschio. La donna ha le mestruazioni, quindi almeno per un giorno al mese non dispone della sua vitalità completa. Ed è per questo che gli uomini hanno dominato nella Storia» . In certi casi, il Colonnello ha usato le donne per fare il «lavoro sporco» . Nel 1984, fece organizzare ad una giovane di famiglia povera, Huda Ben Amer, l’esecuzione di un ingegnere, Hamed Al-Shuwehdy, tornato dagli Usa e accusato di complotto contro lo Stato: fu impiccato nello stadio di Bengasi di fronte a migliaia di studenti che lei aveva provveduto a convocare dalle scuole della città. E’ diventata sindaco di Bengasi. Allo scoppio della rivolta, è fuggita a Tripoli, e appare al fianco di Gheddafi in un video recente. Negli anni Novanta, il Raìs aveva mostrato segnali di voler dare— un giorno— il potere alla figlia femmina, Aisha, avvocato 44enne, laureata alla Sorbona, già parte del team di difensori di Saddam Hussein, poi ambasciatrice di buona volontà dell’Onu (titolo che ha perso dopo la repressione delle rivolte). La Tv di Stato libica ha mandato in onda immagini di Aisha alla guida dei cortei pro Gheddafi. Ma il successore del padre emerso negli anni è il secondogenito Saif Al Islam, più abile nel tessere una trama di rapporti con l’Occidente utile al padre. Aisha s’è sposata, ha avuto dei figli. In Libia c’è una forte separazione tra i sessi, a partire dalle scuole. Dalle medie in poi, maschi e femmine sono separati, fino all’università. L’istruzione è gratuita e la scolarizzazione abbastanza alta, già durante la monarchia, il che ha garantito alle donne molte chance di lavoro. Ma le donne che lavorano sono una minoranza, e quando ci sono i figli, la madre smette di lavorare. La separazione tra i sessi si ritrova all’interno delle mura domestiche. Nei villaggi beduini, che vivono di pastorizia, invece, le donne hanno avuto più libertà perché l’economia ha bisogno di loro. Però, le donne hanno saputo sfruttare come un’opportunità il modo in cui vengono viste nella società. Erano in prima linea in piazza e come organizzatrici delle proteste che ogni sabato dal 2008 si tenevano a Bengasi (e in misura minore a Tripoli) per chiedere giustizia sulle uccisioni dei detenuti nel carcere di Abu Salim nel 1996. Quelle donne erano le mogli, le madri, le figlie dei detenuti. Sfruttavano il fatto che un poliziotto non colpirebbe una donna che manifesta, per cercare di ampliare le libertà di espressione. Dal 17 febbraio in poi, Al Jazeera ha mostrato le donne ribelli che mandano cibo agli uomini al fronte e chiedono la no-fly zone. In piazza non erano più del 10%dei manifestanti, ma hanno avuto un ruolo nella retroguardia. Sono tre (su 31 membri) nel governo provvisorio di Bengasi. Naima Rifi, 46 anni, madre di due figli, era la leader delle Amazzoni di Gheddafi. Con il velo sul capo, appare ben diversa dalle Amazzoni sexy del Colonnello. E’ passata con i ribelli, rifiutando di sparare sulla folla e sperando di garantire un futuro migliore alla nipote Amina. «Credo che se la rivoluzione avrà successo, avremo una redistribuzione più equa della ricchezza — ha detto a El Paìs —, un’educazione di qualità per i nostri figli, più libertà e lavoro per noi e per le generazioni future. Mia nipote potrà viaggiare, conoscere altri Paesi» . (ha collaborato Farid Adly)
Corriere della Sera 21.3.11
Le hostess italiane di Gheddafi: pronte al corteo
MILANO— «Avrà le sue colpe, ma Gheddafi non è un tiranno, fa solo gli interessi del suo Paese» . Rea Beko è la ragazza albanese di 28 anni che nel febbraio 2009, con altre 500 hostess, incontrò a Roma il Raìs nel corso di quelle lezioni sul Corano che all’epoca scatenarono polemiche. Da allora Rea si è convertita all’Islam e oggi ha scelto da che parte stare: «Con lui abbiamo visitato quasi tutta la Libia — racconta con altre tre ragazze, Miriam, Francesca e Valentina —. Tutti ci hanno trattate da regine, con un rispetto enorme per la nostra femminilità» . Al fianco del Raìs si schiera anche tutta Hostessweb. it, il sito che ha pianificato incontri e viaggi di Gheddafi con le ragazze italiane e che sta organizzando a Roma, per sabato prossimo, una manifestazione in suo favore: «Siamo indignati dal comportamento degli Stati che stanno usando una scusa vergognosa per colonizzare nuovamente un Paese prima considerato "amico"» , dice il fondatore Alessandro Londero.
Repubblica 21.3.11
La lunga marcia in difesa dei diritti
L’esperienza degli ultimi anni ci mostra insieme conquiste e resistenze
di Stefano Rodotà
Pubblichiamo parte dell´introduzione al libro di Diritti e libertà nella storia d´Italia in uscita in questi giorni per l´editore Donzelli
Libertà e diritti sono iscritti in testa alle costituzioni. La storia di ieri e di oggi, tuttavia, ci parla di sospensioni delle garanzie costituzionali, di ragion di Stato e di emergenze che giustificano la limitazione o la cancellazione di diritti fondamentali, di pieni poteri concessi ai governi, di tentativi continui di considerare le libertà riconosciute «eccessive» rispetto a esigenze di controllo sociale o di sviluppo economico. La lotta per i diritti non può mai concedersi appagamenti, pause o distrazioni.
L´esperienza del Novecento ci ha poi mostrato come la sola proclamazione costituzionale di libertà e diritti possa risolversi in un inganno, in un´inesistente barriera contro l´oppressione. Seguendo la traccia delle costituzioni dei paesi a "democrazia socialista", a cominciare da quella sovietica del 1925, ci si avvede agevolmente dello scarto enorme – e crescente, via via che si consolidavano le logiche autoritarie – tra altisonanti promesse di diritti e pratiche oppressive d´ogni libertà individuale e collettiva. Quelle proclamazioni, comunque, rimangono lì come una pietra di paragone, come la testimonianza continua d´una cattiva coscienza (...).
Come testimonia, in particolare, la storia di quest´ultimo quindicennio, le vicende delle libertà e dei diritti mostrano la lenta inclusione di un numero crescente di cittadini nel demos e le diverse modalità attraverso le quali si costruisce la moderna cittadinanza, nel succedersi delle diverse "generazioni" dei diritti. Ma rivelano anche tenaci resistenze all´effettività dei diritti proclamati, difficoltà materiali nelle apparenze invincibili, sconfitte. Serve una grande fede per affermare i diritti nei tempi difficili. E di questo la vicenda delle libertà, che è poi vicenda concretissima di donne e di uomini, è testimonianza continua.
Il Novecento è stato anche il secolo nel quale ai diritti civili e politici si sono affiancati quelli sociali, così giungendo a connotare una forma di Stato, appunto lo Stato «sociale». Anche qui dati formali e materiali si intrecciano, e la crisi dello Stato sociale spinge ora a revocare in dubbio la natura di «diritti» di molte delle situazioni alle quali i poteri pubblici avevano esteso la loro garanzia. Altri interrogativi si affacciano, la stessa «grammatica dei diritti» viene messa in discussione, ci si chiede fino a che punto il diritto statuale, sia pure con l´intento di accrescere la tutela degli individui, possa penetrare nei «mondi vitali». L´età dei diritti sarebbe avviata verso il tramonto?
Intanto, però, non si arresta la marcia dei diritti, e da tempo si parla di una loro «quarta generazione», dove confluiscono la sensibilità planetaria per i temi ambientali, i dilemmi della vita e della morte che accompagnano la bioetica, la «cittadinanza elettronica» associata alle tecnologie dell´informazione e della comunicazione. Non si tratta soltanto di allungare un «catalogo», ricorrendo magari a una logica compensativa che vedrebbe i nuovi diritti prendere il posto dei non più sostenibili diritti sociali. Proprio la ricostruzione storica, sia pure sintetica, ci mostra, da una parte, che il tema delle libertà e dei diritti fa corpo con l´intera vicenda dei soggetti che concretamente l´incarnano; e, dall´altra, che il loro riconoscimento formale può rappresentare prima il consolidamento di risultati ottenuti grazie all´azione politica e sociale e, poi, il punto d´avvio per una nuova e più esigente rivendicazione di diritti. Oggi l´intero fronte dei diritti ci appare in movimento, tanto da identificare il vero terreno di scontro politico agli inizi del nuovo millennio. Come per la democrazia, così per le libertà e i diritti non vi sono esiti o confini segnati una volta per tutte.
l'Unità 21.3.11
Diritti civili e codice Rocco
Eutanasia, una battaglia di lunga durata
di Carlo Troilo
Da anni combatto una battaglia per la legalizzazione della eutanasia. Molti familiari e amici mi dicono che è una battaglia senza speranza. E tra i pessimisti ci sono anche diversi giovani. Per questo voglio dedicare a loro un breve ragionamento e un piccolo ripasso di storia patria. Il codice penale non prevede un reato di eutanasia ma un reato di suicidio assistito, per il quale l’articolo 579 commina pene fino a 12 anni.
Ma il “codice Rocco”, dal nome del suo autore – è stato varato nel 1930, ottanta anni fa ed in pieno regime fascista. Non a caso, con il mutare del comune sentire, numerosissimi articoli sono stati aboliti, sull’onda di “scandali” e di battaglie politiche e civili durate spesso decenni, perché “l’erba cattiva non muore mai”, o è molto dura a morire. Ricordo, per dar coraggio ai giovani ma anche a noi stessi, vecchi combattenti, i casi emblematici di tre articoli del codice penale.
Il primo riguarda l’articolo 560, il reato di “concubinato”. Nel 1958 il vescovo di Prato Pietro Fiordelli, pronunciando la sua omelia nel Duomo della città, definì “pubblici peccatori e concubini” due giovani il cui peccato era quello di aver contratto matrimonio civile. I due querelarono monsignor Fiordelli, che fu condannato solo ad una piccola ammenda finanziaria. Il che non impedì al Vaticano di ordinare a tutte le chiese italiane di suonare le campane a lutto. I due giovani furono isolati dalla comunità e videro il loro negozio, prima fiorente, sulle soglie del fallimento. Solo nel 1969, oltre dieci anni dopo, l’articolo 560 fu abolito. Il secondo è il “delitto d’onore”, previsto dall’articolo 587. In questo caso, la prima condanna della opinione pubblica nacque non da una semi-tragedia ma da una commedia, il bellissimo film di Germi “Divorzio all’italiana”. Il film, di cui tutti conoscono la trama, è del 1961. L’articolo 587 fu abolito, anche in questo caso dopo memorabili lotte, esattamente venti anni dopo, nel 1981.
Il terzo caso è quello del “matrimonio riparatore”. L’articolo 544 prevedeva che le pene previste per la violenza carnale esercitate su una donna fossero condonate se lo stupratore era disposto a “rimediare” con il matrimonio. In questo caso la vicenda che aprì gli occhi agli italiani fu quella di Franca Viola, una ragazza di Alcamo che nel 1966 fu rapita, violentata e segregata per otto giorni da un da un bossetto locale, Filippo Medodia. Franca rifiutò il matrimonio riparatore e Melodia fu condannato a 11 anni di carcere. Franca, negli anni successivi, fu isolata dai suoi compaesani e trattata come una prostituta, fin quando decise di emigrare all’estero. L’articolo 544 fu abolito nel 1981, 15 anni dopo la vicenda. Dunque, vincere le battaglie difficili richiede tempo e impegno. Soprattutto, richiede di crederci. Ma si può fare.
La Stampa 21.3.11
Intervista
“Andate in piazza e chiedete cultura”
Andrea Jonasson, vedova Strehler, nominata Grande Ufficiale “Fate come in Germania, la crisi c’è ma nessun teatro ha chiuso”
«E a Vienna per incoraggiare i giovani se la sala non è piena vendono i biglietti a 7 euro»
di Maria Giulia Minetti
Può anche darsi che ce ne siano in giro di più emozionati, più felici e stupiti di essere stati così onorati dallo Stato, ma sembra assai improbabile. Grande Ufficiale al merito della Repubblica è un titolo che difficilmente un’artista del palcoscenico si aspetta (pure Commendatore, del resto, anche se Mariangela Melato lo divenne, nel 2003), e dunque Andrea Jonasson, italiana d’adozione, tedesca di nascita e crescita, s’è davvero commossa ricevendolo. Titolo non raro, va detto, e generosamente distribuito sono migliaia i Grand. Uff. che popolano l’elenco degli insigniti dal 1951, anno d’istituzione dell’Ordine, a oggi -, ma a rendere speciale, o almeno fuori del comune, quello attribuito a Jonasson è il giorno in cui l’ha avuto, lo scorso 10 marzo. Per legge, le onorificenze vengono concesse il 2 giugno (fondazione della Repubblica) e il 27 dicembre (promulgazione della Costituzione), non si sfugge a queste date. Ammenocché non intervenga il Presidente con un «motu proprio». Nel qual caso ogni momento è buono.
E che Napolitano abbia deciso di decorare la grande attrice compagna di Strehler e protagonista di suoi celebri spettacoli (L’anima buona di Sezuan, Minna von Barnhelm) proprio a ridosso dell’ultimo taglio al Fondo Unico dello Spettacolo, solo un eremita himalayano potrebbe ritenerlo una coincidenza fortuita. Ma la signora Jonasson vive tra Milano e Vienna, non sul tetto del mondo, la scelta presidenziale l’ha capita benissimo, perciò la sua emozione è così intensa: «In Italia la cultura, a livello governativo, è disprezzata. Per questo sono felice del gesto di Napolitano. A Roma è venuto a trovarci all’Argentina (dove il Piccolo Teatro ha appena portato Donna Rosita nubile di García Lorca, protagonista appunto Jonasson), ci ha fatto i complimenti in scena. Era come se ci dicesse: tenete duro». Lei lavora molto in Austria e Germania. Che succede da quelle parti? «La crisi c’è anche lì. Ma la parola d’ordine è: non dobbiamo abbandonare la cultura. Tutte le città in Germania hanno diversi teatri, solo le più piccole ne hanno uno, e nessuno ha chiuso. A Vienna, la capitale di uno Stato certo non ricco come lo Stato tedesco, funziona benissimo anche il Burgtheater, il più grande della città, una capienza di 1400 posti. A Vienna, per incoraggiare i giovani, fanno una cosa importante: quando la sala, a poche ore dallo spettacolo, non è esaurita, danno i biglietti ai ragazzi per 7 euro, come al cinema». Che la cultura, in particolare il teatro, sia sempre stato meglio nei territori germanici non è cosa nuova, però. «No di certo. “Anche una città tedesca minuscola, Tubinga, per esempio, ha più sovvenzioni del Piccolo di Milano”, mi ripeteva sempre Giorgio (Strehler)». Se c’era già poco denaro ai tempi d’oro di Strehler, si capisce come mai ora siamo alla canna del gas. In fondo c’è una logica, una continuità. «Forse una logica, non una continuità. Vede, nonostante la penuria la penuria rispetto a teatri più ricchi, più stimati e foraggiati dai rispettivi governi -, un po’ di soldi c’erano e, soprattutto, c’era un pubblico, c’era la voglia di produrre arte che viene dalla richiesta del pubblico». C’è meno richiesta di qualità, oggi, in Italia? «Mi pare di sì, decisamente di sì. Credo che abbia preso il sopravvento un certo gusto televisivo, una certa assuefazione al disimpegno, alla volgarità spicciola. In questo senso, è vero che fino agli Anni 80 si può parlare di anni d’oro». È il ventennio berlusconiano che lei mette sott’accusa? «Giorgio, anche nei “tempi d’oro”, era spesso deluso. Lavorava molto all’estero, faceva i confronti con l’Italia. “Per dirti la verità diceva siamo un po’ un Paese da operetta”. Da operetta! Ma l’operetta è anche allegra, nell’operetta si sorride. Io non la riconosco più, l’Italia. Vedo una gran mancanza di dignità, un’incapacità di reagire alle bassezze... I miei amici tedeschi non capiscono: “Perché lavori con chi non rispetta né l’arte né il popolo? Come fai a resistere?”».
Come fa? «Sono legata a questo Paese. Finché mi capita ancora un lavoro al Piccolo non mi sento di lasciarlo. Recito però sempre più a Vienna». Cosa le dà più fastidio, nell’andazzo italico? «Mi indignano quelle troiette che fanno la tv e poi si chiamano e vengono chiamate attrici. Ne ho sentita una l’altro giorno, un’ex velina. “Adesso sono un’attrice”, diceva all’intervistatore, serio e compunto. Per noi è un’offesa. Recitare è un mestiere difficile, com’è difficile il mestiere di falegname, di sarto. Ci vuole tempo, impegno, talento, applicazione. Tutto quello che la tv berlusconiana ci dice che non serve. E infatti, basta guardare la robaccia che produce».
Che fare? «Il pubblico dovrebbe riaversi dal torpore, andare in piazza e chiedere cultura. In piazza a chiedere cultura come si chiede la libertà, come si chiede un diritto. Una persona mi ha detto: “Signora, voglio che i miei figli crescano vedendo begli spettacoli come una volta”. E m’ha fatto un’infinita tristezza risponderle: “Non so se sarà possibile, purtroppo”».
La Stampa 21.3.11
Il film della settimana. “Sorelle Mai” di Marco Bellocchio
Il fascino discreto del racconto familiare
di Gianni Rondolino
È un film che non è facile da classificare, Sorelle Mai di Marco Bellocchio, e forse non è nemmeno facile da interpretare. Nel senso che il racconto di vari episodi della vita sua e dei suoi parenti si mescola a una narrazione che evidentemente si basa sulla fantasia. Non solo, ma più che un racconto si tratta della rappresentazione di diversi modi esistenziali, che si intrecciano e si contrappongono fra loro sullo sfondo di una casa (quella dei Bellocchio) e d’un paese (Bobbio) che sono rimasti sostanzialmente i medesimi nel corso del tempo. È lo stesso Bellocchio che disse: «È un film per caso. Un film che non poteva essere più condizionato (non c’era una lira e poi un euro) e nello stesso tempo più libero». Ed è proprio questo duplice aspetto, il condizionamento finanziario e la libertà espressiva, a costituire il limite ma anche il fascino di Sorelle Mai . Che è la continuazione e l’integrazione del precedente Sorelle , realizzato nel 2006, che comprendeva i primi tre episodi dei sei attuali. Ma, a ben guardare, non si tratta tanto di episodi quanto piuttosto di situazioni ambientali, in cui i personaggi le due sorelle Mai, il nipote Giorgio, la nipote Sara e soprattutto sua figlia Elena, oltre all’amico amministratore Gianni si incontrano o si scontrano lungo il tracciato esile quanto coinvolgente del passare degli anni e del mescolarsi delle vicende personali. Le immagini, a volte molto belle, ma il più delle volte tecnicamente povere e trascurate, si susseguono come in un film amatoriale, con tutti i limiti ma anche il fascino di una ripresa cinematografica che non si preoccupa del risultato estetico finale. Come se Bellocchio si limitasse a guardare attraverso l’obbiettivo della cinepresa ciò che accade davanti ai suoi occhi, senza preoccuparsi del pubblico. E invece, se la si osserva con attenzione e partecipazione emotiva, la storia dei rapporti fra le vecchie zie, i nipoti adulti e la piccola nipotina (che cresce dai 4 ai 13 anni) diventa a poco a poco sempre più avvincente, con un sottofondo di tristezza e malinconia, di pessimismo non privo di barlumi positivi, che cresce col passare del tempo e le complicazioni della vita. D’altronde non v’è dubbio che il film mescola con delicatezza le questioni fondamentali dell’esistenza umana, mettendo a confronto, da un lato, la vita quieta, tradizionale e provinciale delle zie, e dall’altro, quella complessa, turbolenta e contraddittoria dei due nipoti: al centro l’evoluzione psicologica della piccola Elena. La quale Elena, a ben guardare, si può considerare tanto il filo conduttore del racconto quanto la chiave della sua interpretazione morale ed esistenziale.
Corriere della Sera 21.3.11
Una «Commedia» tanti commenti
di Cesare Segre
Q uella dei commenti alla Commedia di Dante è una delle più importanti imprese culturali dei primi secoli della nostra letteratura. Consacrare alla Commedia, pochi anni dopo la sua definitiva pubblicazione, nel 1321, annotazioni di carattere teologico, allegorico, storico, linguistico, stilistico, così come da tempo ne venivano dedicate ai classici latini, significava riconoscere che quest’opera veniva già considerata, appunto, un classico. Nessun testo s’impose mai con tanta autorità, e nessuno ha mai avuto un corredo d’interpretazioni così ampio. I commentatori moderni di Dante sono ben consapevoli che il tesoro di annotazioni e interpretazioni costituito dall’insieme dei commenti antichi è la base fondamentale per qualunque ulteriore ricerca. E chiunque prenda in mano un commento moderno, trova ad ogni momento un richiamo a Graziolo de’ Bambaglioli o a Benvenuto da Imola, a Iacomo della Lana o all’Ottimo. Purtroppo, solo una minima parte di questi testi gode di un’edizione attendibile, sicché è una lacuna ancora grossa quella che da poco ha cominciato a riempire l’Edizione Nazionale dei Commenti danteschi della Fondazione Pio Rajna, raggiungendo in pochi anni l’ampiezza di 28 tomi e 18 mila pagine. Sarebbe una vergogna se ottusi ed erronei criteri di risparmio da parte delle istituzioni bloccassero la realizzazione dell’impresa. Ma intanto può perimetrare esattamente la situazione il Censimento dei commenti danteschi, a cura di Enrico Malato e di Andrea Mazzucchi (Salerno, tomi 2, pagine LXXXIV-1.180). Esso è dedicato ai commenti dell’epoca preguntenberghiana, cioè sino al 1480: che sono davvero i più importanti. di fatto, il vero e proprio Censimento è lo «Schedario» , che costituisce la seconda sezione di questi due tomi. Vi sono infatti elencati, biblioteca per biblioteca, tutti i manoscritti di ognuno dei commenti, con descrizioni e notizie storiche. Ma, allo stato attuale, la parte più leggibile e già matura di quest’opera di sintesi è costituita dai medaglioni dedicati, nella prima sezione, a ogni commento: lunghi anche decine di pagine. Dai medaglioni apprendiamo l’essenziale sulla vita e il metodo di lavoro dei diversi autori, e perciò veniamo forniti di quelle conoscenze di base che poi si integreranno quando i commenti saranno editi. Ogni notizia sui commentatori è benvenuta: sapere se erano notai o funzionari o traduttori, aver notizia della loro conoscenza diretta di Dante (evidente per Andrea Lancia) e del resto della sua opera; essere informati delle loro competenze di letteratura latina o di poesia volgare. Importante poi orientarsi tra le varie redazioni di questi commenti, in cui spesso venivano inserite nuove annotazioni, solo che i compilatori le trovassero utili. Perché è un dato fondamentale: nella storia di tutti i commenti si intrecciano da una parte il senso dell’autorialità e dell’originalità, dall’altra l’impegno alla completezza dell’interpretazione, a prescindere dalla paternità delle note. I manoscritti di uno stesso commento si allargano o si restringono in base a queste due aspirazioni. Si noti poi che le cantiche incominciarono a essere commentate prima ancora della conclusione dell’opera: sicché i primi commenti si fermano all’Inferno o al Purgatorio. Interessante anche la distribuzione geografica dei commenti. Perché se le Chiose di Jacopo, figlio di Dante, sono evidentemente «fuori concorso» (1322), vengono primi i commenti bolognesi come quello di Graziolo de’ Bambaglioli, in latino, del 1324, subito seguito da Giacomo d e l l a Lana (1324-1328), il primo a commentare le tre cantiche, e forse il più importante di tutti, mentre quelli fiorentini subentrano solo in un secondo tempo: al 1333-40 risale l’Ottimo, forse da identificare con Andrea Lancia, autore di un altro commento del 1341-1343; infine il Comentarium di Pietro, altro figlio di Dante, è del 1340 circa. Non c’è poi da stupirsi se i commenti bolognesi hanno un carattere più dottrinale, consapevole del sapere universitario, mentre quelli fiorentini sono più attenti allo stile e ai contenuti narrativi. È certo che l’Ottimo, sia o no da identificare con Andrea Lancia, ha già in programma di offrire una summa di quanto hanno detto i principali commenti a lui anteriori. E lo stesso Ottimo (o Andrea Lancia) può perfino appellarsi ad affermazioni di Dante stesso, per esempio in questa luminosa frase: «Io scrittore udii dire a Dante, che mai rima nol trasse a dire altro che quello ch’avea in suo proponimento; ma ch’elli molte e spesse volte facea li vocaboli dire nelle sue rime altro che quello, ch’erano appo gli altri dicitori usati di sprimere» . Dunque, nessuna licenza poetica, ma la capacità di estrarre dalle parole significati nuovi: insomma, l’uso creativo della rima. È proprio quanto un grande critico come Ernesto G. Parodi avrebbe dimostrato ampiamente sei secoli dopo.
Corriere della Sera 21.3.11
Il processo che decide se Pablo Picasso era avaro o generoso
A giudizio l’elettricista: in dono 271 opere
di Stefano Montefiori
I familiari del grande scomparso — invece di difenderne la memoria — lo dipingono come un uomo arido e calcolatore, mentre gli estranei ne lodano la generosità senza pari: una strana polemica, a parti invertite come in uno dei suoi celebri ritratti. Chi era, dunque, Pablo Picasso? Il genio che portò all’infelicità le sue donne, immenso pittore e pessimo uomo incapace di slanci, o il più grande artista del XX secolo, attraversato da mille contraddittorie passioni tra le quali il gusto di donare, a tutti e senza pensarci, riscattando così i tempi duri degli inizi quando frugava nei bidoni della spazzatura a Montparnasse? C’è l’identità e la personalità stessa dell’autore di Guernica in gioco— oltre a 271 opere del valore di 120 milioni di euro — nel processo che a Grasse vede opposti gli eredi di Picasso e il suo elettricista in pensione. Il 9 settembre scorso il 71enne Pierre le Guennec e la moglie Danièlle si presentano a Parigi da Claude Picasso, figlio del pittore e a capo della «Picasso Administration» , la società che amministra l’eredità del maestro. Nel trolley, opere mai viste prima, che i due pensionati vogliono fare autenticare. Sbalordito, Claude li lascia tornare a casa in Provenza assicurando loro che li terrà al corrente. Poi li denuncia per ricettazione di opere d’arte, e Pierre le Guennec passa due giorni in custodia cautelare. «Mio padre era estremamente geloso delle sue opere — spiega Claude Picasso —, non ne avrebbe mai regalate così tante a degli estranei. Era solito firmare ogni quadro che lasciava il suo atelier, e invece quelli in possesso dei le Guennec sono senza nome, anche se chiaramente dipinti da lui» . L’elettricista e la moglie continuano invece a sostenere la solita versione: un regalo di quaranta fa, rimasto finora in garage. Possibile? No, secondo gli eredi Picasso, che vogliono riprendersi i nove collage cubisti che da soli valgono 40 milioni, un acquerello del periodo blu, tempere su carta, alcuni studi di mani dipinti su tela, una trentina di litografie, dei ritratti della prima moglie Olga, una caricatura del giovane critico Andrè Salmon, e tutto il resto. Secondo i le Guennec, Picasso era straordinariamente generoso. Con loro, e con molti altri. «È stata Jacqueline, l’ultima moglie di Picasso, a dare tutto a Pierre le Guennec mentre il maestro era ancora in vita, con il suo accordo— dice l’avvocato dei le Guennec, Evelyne Rees —. Erano una coppia che provava piacere a fare regali. Da quando è scoppiato il caso sono entrata in contatto con altre persone che hanno ricevuto regali simili, ma non vogliono venire allo scoperto per paura di venire processati come i miei assistiti» . Provare la generosità dei Picasso significherebbe scagionare i le Guennec. Ecco quindi il fiorire di aneddoti: Picasso che, quando lavora alla tipografia di Henri Deschamps, offre una litografia a ogni operaio; uno di loro non sa che farsene, dice di preferire del formaggio, e Picasso ritorna portandogli del port-salut. Ancora, alla padrona di un ristorante catalano di Marsiglia dove gusta un’ottima bouillabaisse Picasso regala il disegno di uno scampo con la scritta Merci, e ai camerieri lo schizzo di un pesce ogni volta diverso. Al suo cardiologo 66 acqueforti, ai bagnini di Juan-Les-Pins dipinti vari e al suo barbiere Eugenio Arias 60 opere, tanto che ne farà un museo. La moglie Jacqueline non è da meno: morto il maestro nel 1973, regalerà un ritratto ad Antonio Sapone, figlio del sarto di Picasso, e un altro dipinto al figlio di Guy, il suo autista. Geneviève Laporte, a 17 anni, è stata la modella e amante dell’allora 69enne Picasso. Ha sentito del processo alla radio, e ha raccontato a Le Point che è vero, il maestro amava fare doni e la storia dei le Guennec è del tutto verosimile. «Una volta eravamo nel suo studio di quai des Grand Augustins, a Parigi, e degli operai spagnoli suonarono alla porta chiedendogli dei soldi. Lui staccò subito un assegno, ma si infuriò quando quelli pretesero anche un quadro» . Un’altra volta, Picasso regalò un disegno a una ragazzina per strada, e quando quella esultò con i genitori «guardate, vale milioni!» , lui glielo riprese e lo strappò davanti ai suoi occhi. Generoso, ma pur sempre Picasso.
Corriere della Sera 21.3.11
I Quarantottini
Il sogno risorgimentale di una generazione che sconvolse il mondo in Cinque Giornate
«N onostante tutto, qui s’è fatta l’Italia» , disse Alessandro Manzoni, all’indomani della umiliante pace di Villafranca e ben prima della nascita della nostra nazione. Perché un embrione di quella che sarà l’Italia unita nacque proprio in Lombardia: nelle campagne che si ribellavano per il prezzo del pane; nei caffè milanesi dove si leggevano scritti proibiti; nei salotti delle signore bene e nei circoli aristocratici. Nacque da persone così diverse eppure così unite. Li chiameranno i «giovani ribelli del ’ 48» . E si intitola così la mostra, organizzata dalla Regione Lombardia, che a Palazzo Reale ricostruisce questo microcosmo eterogeneo, di studenti e contadini, nobildonne e pensatori, che provarono a immaginare un Paese diverso. «Allora era difficile anche solo immaginare un Paese» , dice la curatrice, Elena Fontanella. Però in Lombardia si incrociavano gli scritti di Manzoni e le riflessioni di Cattaneo; il progetto di Mazzini (almeno fino all’episodio dei Martiri di Belfiore, quando poi se ne presero le distanze) e le arie di Verdi. Le Cinque Giornate nacquero così. «Non solo con le armi— spiega la curatrice—: ci si serviva dell’intelligence e della resistenza passiva» . E non a caso, ad aprire la mostra è un quadro di Francesco Hayez, «Gli abitanti di Parga» che abbandonano la loro patria. Il riferimento è all’oppressione ottomana sulla Grecia, ma l’allusione all’ «austriaco sovrano» è evidente. Come faceva Manzoni, nei Promessi Sposi, disegnando epoche diverse ma gioghi attuali. E il percorso continua con il ritratto dello scrittore, firmato da Carlo Gerosa. «Questa mostra— dice Massimo Buscemi, assessore regionale alla cultura —, al di là dell’intento celebrativo, vuol ricostruire l’intera portata dello spirito lombardo nel Risorgimento» Spirito che va oltre Milano, che arriva nelle campagne (dove i contadini, leali ai signori, imbracciarono le armi) e nelle province. Seguendo le memorie del rivoluzionario Giovanni Visconti Venosta, ci si addentra in un mondo dove le barricate cancellano le differenze di ceto e cultura. Scettici e devoti, per esempio, si ritrovarono tutti a Porta Romana quando Pio IX concesse la Costituzione e un ritratto del papa «liberale» firmato da Haase conduce per mano verso quelle Cinque giornate che sconvolsero l’Europa, elogiate da Lord Palmerston come un evento unico al mondo. La «Veduta di piazza Duomo dai Figini» di Angelo Inganni restituisce la sensazione di euforia e insieme di speranza di quei giorni. Il «Combattimento a Porta Tosa» di Carlo Canella invece ne dipinge la drammaticità. Poi venne la sconfitta di Novara. Ma anche l’insurrezione gloriosa di Brescia. «In Lombardia— dice Fontanella— si formò un fortissimo spirito unitario» . Le città si ritrovarono alleate nella rivoluzione, come illustra «Galleria delle Battaglie» , un’altra mostra in corso a Palazzo Reale, voluta dal Comune, antologia degli scontri memorabili per recuperare, come spiega l’assessore Massimiliano Finazzer Flory «il senso più autentico dell’epica» . Per Fontanella, fu come se una mano invisibile «avesse armato l’artigiano di Novara e il commerciante di Brescia. Si facevano prove di democrazia» . I ribelli furono quelli della «Battaglia della Sforzesca» , tela di Giovanni Fattori. Quelli della «Battaglia di Novara a Villa Mon Repos» , di Prina. I «Profughi di un villaggio incendiato» di Induno. Ma anche quelle nobildonne che, al gala organizzato da Francesco Giuseppe alla Scala, inviarono le serve (in mostra il ritratto dell’odiato imperatore proveniente dal Castello di Miramare). I ribelli furono quelli del Circolo della Peppina e della Cecchina, studenti e artisti che si scambiavano informazioni inventando filastrocche. Ribelle fu Cristina di Belgiojoso, fiera nel ritratto di Hayez, che armò centinaia di volontari. E come definire se non ribelle Il Crepuscolo di Carlo Tenca, rivista dove si combatteva la censura parlando di tutto, tranne che di Milano? Non solo quadri: in mostra anche ricostruzioni plastiche degli assedi e video. Documenti, come l’atto di esproprio dei beni dei nobili che appoggiarono le rivolte. Infine, un bacio. Quello più famoso, dipinto da Hayez. Perché anche l’amore è un atto rivoluzionario.
Corriere della Sera 21.3.11
Un 30enne su due ancora a casa
Un (brutto) primato nazionale
di Enrico Marro
Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell’Economia del governo Prodi scomparso di recente, aveva parlato di «bamboccioni» , suscitando un vespaio di polemiche. Successivamente la Banca d’Italia, col governatore Mario Draghi, ha sottolineato che ci sono circa due milioni di ragazzi (tra i 15 e 29 anni) «Neet» (Not in education, employment or training), cioè che non studiano e non lavorano. Adesso l’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale che fa capo al ministero del Lavoro, rileva che in Italia quasi un trentenne su due vive a casa dei genitori e che meno della metà dei giovani è disponibile a trasferirsi per trovare lavoro. Si tratta di definizioni, valutazioni e analisi diverse e non sempre sovrapponibili, ma che confermano l’esistenza di una questione giovanile, che riguarda quindi il futuro del Paese. Per rendersene conto basta fare i confronti internazionali. Prendendo, come fa l’Isfol nel primo numero del suo Osservatorio, i dati dell’Europa a 27 per i giovani tra i 25 e i 34 anni, si vede che in Italia ben il 47,7%degli uomini vive ancora con i genitori, contro una media del 32%. Per le donne, che escono dalla casa d’origine prima, si scende al 32,7%contro una media del 19,6%. Pur non volendo fare paragoni con Paesi troppo diversi come la Danimarca, dove solo il 2,8%dei maschi e appena lo 0,5%delle giovani vive ancora con i genitori, o la Svezia e la Norvegia che non si discostano molto da questi livelli, fa riflettere la distanza dalla Germania, con il 18,7%di uomini e il 9,2%di donne conviventi con papà e mamma, e ancora di più dalla Francia (13%e 8%). Per trovare tassi di dipendenza dai genitori simili a quelli italiani bisogna andare in Grecia, Portogallo e Spagna. Ora è chiaro che non vanno tirate conclusioni affrettate, perché tra i giovani che restano a casa andrebbero distinti quelli che lo fanno volontariamente (anche se superati i 30 anni è difficile crederlo) e quelli che invece vi sono costretti per mancanza di lavoro. Ci sono quindi i bamboccioni ma anche le vittime — tante — di un sistema educativo, scolastico e produttivo che non favorisce l’indipendenza economica dei giovani. Risolvere questo problema dovrebbe essere una priorità.
ARTICOLI STORICI:
Il Messaggero 9.11.1977
Un analista che rifiuta Freud
Intervista a Massimo Fagioli
di Fulvio Stinchelli
Quarantasei anni, faccia scavata e sguardo ardente dietro le lenti fumè un passato di rissoso eretico freudiano alle spalle, Massimo Fagioli è oggi lo psicoanalista italiano di gran lunga più seguito e ascoltato. Da due anni , nello spazio universitario concessogli dall’il- luminato pluralismo del professor Reda per l’intercessione del suo amico e collega Nicola Lalli, tiene seminari bisettimanali sempre più affollati. Terapia di gruppo? Psicodramma? L’autore di “Istinto di morte e conoscenza” respinge seccamente queste definizioni-etichetta che “lo soffocano”, dice, “senza appartenergli”. Mezzo scienziato e mezzo profeta, rinnega paternità, filosofie e ideo-logie: Freud? Un pasticcione. Lacan? Un altro che non ha capito niente. La psicoanalisi? Si, purché sia quella che passa per l’ “in-conscio marecalmo”, la “fantasia di sparizione” e l’ “istinto di annul-lamento”. Sono questi i tre cardini della “scoperta” su cui ruotano ossessivamente la dottrina e la “predicazione” di Fagioli. Lo incontriamo nel suo quieto studio di Via Nomentana, in una cornice rigorosamente freudiana: pochi libri , quadri anonimi, scrit toio modesto, poltrone comode e il sacro divanetto. Osserviamo. “Qual cosa di Herr Professor comunque rimane”. Risponde: “Restano le analisi individuali che continuo a fare, perché i seminari sono gratuiti, ma il mio vero campo d’azione è l’analisi collettiva, una cosa che Freud non ha mai fatto”. Prima di arrivare all’analisi collettiva, che è il successo del giorno, vogliamo soffermarci un attimo sul punto di partenza? “Per me tutto cominciò al liceo, quando, vivendo in ambiente medico, feci la prima osservazione: Le malattie psichiche distruggono più di quelle fisiche. Una gamba rotta o una broncopolmonite tro- vavano soluzione mentre i pazienti depressi venivano liquidati col manicomio. Decisi allora di fare medicina e specializzarmi in psichiatria. Dopo la laurea, la pratica presso l’ospedale psichia- trico di Venezia. Per un anno e mezzo mi attenni al ruolo e alle disposizioni: non dovevo far altro che girare la chiavetta e zac: elettroshock.. Allora mi chiesi: ma cosa sto facendo? Sto alla catena di montaggio? Avvito le teste? Me ne andai e cominciò un periodo duro per me. Prima Verona, dove mi cacciarono perché ero “rosso”, poi approdai a Padova, dove un minimo di ricerca si faceva. E lì mi venne la prima ispirazione. Dissi: l’istinto di morte è l’istinto di morte, d’accordo, ma questi, i malati, non muovono un dito. Dov’è tutta questa aggressività? Un esempio? Reparto agitati: trenta ricoverati, due infermieri. Mai accaduto un incidente. Allora, quest’istinto di morte non è distruzione. In-cominciai così a studiare questo istinto passando e andando sempre più a fondo nel rapporto con l’inconscio. Mi trasferii in Svizzera, dove ebbi modo di superare la sindrome del malato per vedere cosa ci fosse dietro. Nel ’64 feci la mia analisi personale, la svolta fondamentale”. C’è un episodio cui puoi legare questo del passaggio dalla psichiatria alla psicoanalisi? “Si, ed è connesso a un paziente il quale, un giorno, mi rimproverò di non averlo assistito in una de-terminata circostanza e di avergli, quindi, “fatto del male”. Ma se quel giorno, mi dissi, io ero in ospedale, come posso avergli fatto del male? Fu un’illumina-zione: è l’assenza che fa del male. Cos’è l’assenza? E’ una pulsione attiva di annullamento”. Qui spunta Lacan…. “No. Lacan dice che è una man-canza. La mia, ripeto, è pulsione attiva di annullamento. La si può verificare nel “Non visto” e nel gioco infantile del “Bubù settete”, dove il bambino appare e sparisce. Di qui mille passaggi, verifiche e confronti. Una storia lunga, che comincia, però, qui: dalla scoperta dell’annullamento”. Arrivando a questa scoperta e nel lavoro successivo, l’inse-gnamento di Freud l’ha tenuto presente? “L’ho rifiutato e lo rifiuto total-mente”.
Anche tu, però, in questa ricerca , pratichi “l’arte del sospetto”? “Ma nemmeno per idea. Il sospetto parte da una verità precostituita e accertata: Io mi metto in sospetto se temo che tu mi dia un pugno: La mia ricerca non ha condizionamenti di questo tipo”. E’ importante, secondo te, che Freud sia nato”? “Io, sulla nascita delle persone, evito di intervenire. Giusto che sia nato, lo sbaglio è che si è messo a fare lo psicoanalista. Se avesse fatto il medico generico sarebbe stato molto meglio. Diciamo le cose come stanno: esiste una bibliografia enorme, opera di predecessori di Freud, che sta a dimostrare che Freud non ha scoperto niente.
Se una certa società e una certa cultura lo idealizzano tanto ciò è dovuto al fatto che con Freud l’analisi non si fa e questa società ha paura che la gente faccia l’analisi, perché fare l’analisi sul serio significa vederci chiaro, rendersi conto dei “mucchi di sabbia” di tanta cultura, significa imparare a dire si no. E chi sa dire di no rimette tutto in discussione: affare scomodo. Freud, invece, è comodo perché finge di fare l’analisi. Infatti, non ha metodo, si limita a codificare la non-trasformazione umana. La sua è un’analisi interminabile, perché parte dal punto di vista che non c’è niente da fare e allora ricade nella vecchia psicoterapia di sostegno. Roba dei tempi di Ippocrate.
Non c’è trasformazione…..”. Invece, nella tua c’è, a quanto lasci capire. ma prima di te? “C’è Marx. Ecco uno che aveva intuito la psicoanalisi, parlando di trasformazione. Mi riferisco al giovane Marx, quello dei “Mano-scritti” e dell’ ”Ideologia tedesca”. Meno male che anche tu ha i un padre, ma veniamo ai tempi nostri: quando ti sei deciso a rompere con la Società di Psicoanalisi Italiana? “E’ una storia risaputa. Comunque, fu nel ’68. Sentii che i tempi erano matura per tirar fuori quel che avevo scoperto e già praticavo. Pubblicai il mio primo libro e fu l’innesco della reazione a catena che mi ha portato agli attuali seminari basati sull’analisi collettiva”. Anche qui c’entra Marx? “Eh, sì. Perché tutta quella gente raccolta intorno a me parla, rac-conta, domanda, ascolta e domanda ancora. E torna, puntualmente, sen-za che nessun le abbia fissato un appuntamento né un programma d’analisi.
Tutti insieme, senza pudori né resistenze. Indub-biamente, trovano quel che stavano cercando. Tutti insieme, collet-tivamente. Siamo dunque lontano dall’analisi individuale. Un po’ co-me la presa di coscienza nella fabbrica, Per me è la conferma di essere sulla via giusta. Io non uccido il paziente come fa l’analista dall’alto del suo ruolo e del suo diploma, nel chiuso dello studio. Io li affronto, lì, seduto in mezzo a a loro che sono centinaia, pronti a rimbeccarmi se dico stupidaggini. Perché la gente conosce l’analisi più di quanto comunemente si creda”. Qual’è la differenza tra analisi individuale e analisi collettiva? “ All’analisi individuale si presenta, quasi sempre, un uomo che sta molto male: è confuso, annullante, depresso. In quel caso deva fare quasi tutto l’analista, cogliendo il problema e cerando di risolverlo, direi a dispetto dello stesso ana-lizzando che vuol distruggere l’ana-lista. Questo, in un certo senso si verifica anche al seminario, ma lì la risposta è collettiva. A volte io non faccio che interpretare il sogno di uno per rispondere a quello di un altro. E’ la conferma che l’uomo è un essere sociale. Vedi che Marx torna sempre? Voglio dire che il problema della ragazza la cui madre le dà della puttana perché esce la sera è problema di migliaia di persone, non è il problema per-sonale di quella singola ragazza con quella madre. Questo è il mio la-voro, in poche parole. E allora si capisce perché tutto ciò rappresenta la distruzione di Freud”.
Il Giorno 20.1.1978
La psicoanalisi da privilegio per pochi ad attività terapeutica di gruppo
Freud non è più lusso
di Adele Cambria
I giovani della nuova sinistra, in rottura con la psichiatria tradizionale, si riuniscono sempre più numerosi a Roma intorno a un transfuga della Società Psicoanalitica Italiana, il professor Massimo Fagioli - L'analisi non si fa più individualmente, è una ricerca collettiva degli equilibri perduti - Terapia scientifica o psicodramma? - Parla il promotore del nuovo movimento
"Si potrebbe dire - scriveva Gramsci nei "Quaderni del carcere" - che l'inconscio incomincia solo dopo tante decine di migliaia di lire di rendita". Insomma, per Gramsci l'inconscio ce l'avevano i ricchi, i poveri no. Problemi di lusso, quindi, i problemi dell'inconscio, e già Lenin del resto nelle sue conversazioni con Clara Zetkin (1921), s'era riferito alla psicoanalisi come a qualcosa che "fiorisce con esuberanza sul terriccio della società borghese".
Dopo sessant'anni, oggi nessuno potrebbe sostenere quelle tesi. Il bisogno di investigazione di sé, si conoscenza e di aiuto è diventato, se non bisogno di massa, certo una domanda che avanza e si fa drammatica, specie tra i giovani e le donne; le risposte istituzionali sono largamente inadeguate: da una parte, e nei casi più gravi, la psichiatrizzazione (manicomio o clinica per malattie mentali) e dall'altra psicofarmaci più o meno rimborsati dalle mutue, qualche CIM (Centro di Igiene Mentale) assediato da richieste cui non può rispondere, e le sedute di analisi individuale, inabbordabili da chi, pur proletario o proletarizzato (operai, disoccupati, studenti, donne), l'inconscio che l'ha, ma non ha i soldi per occuparsene. Nel silenzio delle istituzioni nascono allora i gruppi, più o meno spontanei, più o meno "selvaggi", in cui la gente si aggrega e parla di sé.
Come esempio e campione, traverso il quale svolgere questo primo tema, mi pare cronisticamente corretto scegliere una realtà terapeutica che emerge, nel paesaggio a volte confuso della "analisi di gruppo", con caratteristiche non ordinarie. Alcune di esse sono percettibili, per così dire, ad occhio nudo: la gratuità assoluta e il numero dei partecipanti, complessivamente valutabile a circa seicento persone, divise in tre gruppi, che si riuniscono in tre giorni diversi della settimana, con lo stesso analista. La qualità dei partecipanti pur non essendo esclusiva di questa situazione è, qui, sottolineata da una forte omogeneità,; è quello che, a partire dal febbraio scorso, si definisce come il "Movimento", a formare la popolazione di base in questa sede (una piccola aula dell'Istituto di Psichiatria dell'Università di Roma, diretto dal professor Giancarlo Reda). E' dunque la folla giovanile - maschi e femmine - diventata protagonista, anche drammaticamente, della scena politica italiana negli ultimi dieci mesi.
Su questo strato di fondo si innestano poi iscritti al PCI (ma sempre giovani), molte donne, alcuni medici (non soltanto psichiatri o psicoanalisti) qualche "nome" del mondo dello spettacolo, ovviamente più politicizzato (il regista Marco Bellocchio, la sua compagna, l'attrice Gisella Burinato).
Fin qui gli elementi esteriori che pure distinguono questo gruppo dagli altri. Gli elementi invece più profondi di diversità sono da rintracciare nella persona dell'analista, Massimo Fagioli, e nel fatto che in questa sede si sperimenta una teoria che Fagioli rivendica come originale. Qui non si fa analisi secondo Freud, Jung, Lacan, ecc.. o attraverso una miscellanea di teorie e pratiche diverse: si fa analisi secondo quanto è scritto nei testi di Massimo Fagioli, che sono tre: "Istinto di morte e conoscenza", "Psicanalisi della nascita e castrazione", "La marionetta e il burattino".
Per capire serve intanto sapere chi è Massimo Fagioli. Buon rieducatore o guru?
Professionalmente ha tutte le carte in regola, Medico psichiatra, prime esperienze "manicomiali" a Venezia e quindi a Padova, primi tentativi (metà degli anni sessanta) di gestione diversa del manicomio, poi trasferimento in Svizzera, nella clinica dell'antropsichiatra Ludwig Binswanger, dove vive per un anno in una comunità terapeutica (malati di mente, medici, infermieri).
Tornato in Italia costituisce egli stesso una comunità di questo tipo, ed incomincia a fare analisi didattica con il freudiano Nicola Perrotti. Ammesso nella Società Psicoanalitica Italiana (Spi), esercita la professione privata, e comincia ad elaborare le teorie oggi contenute nei suoi testi, attraverso le quali si pone come "eretico" rispetto a tutt'intera la tradizione e la prassi psicoanalitica (con l'esclusione parziale di Wilhelm Reich, come l'unico che abbia tentato la saldatura tra psicoanalisi e politica).
Scrive "Istinto di morte e conoscenza" e nel cerchio chiuso dei freudiani ortodossi viene allora considerato un talento; Franco Fornari, tra gli altri, parla di "scoperta" nella psicoanalisi (Congresso di Vietri 1971). Dal momento in cui il libro è pubblicato sopravviene l'ostracismo: nel febbraio del 1976 lo si costringe ad uscire dalla Spi. Già alla fine del '75, però, erano incominciati i suoi seminari.
Sentiamo, adesso, ciò che dice Massimo Fagioli.
Si può essere psicoanalisti e non freudiani (né junghiano, né lacaniani)?
"Non è nuova la psicoanalisi, è nuovo Freud. Così come non era nuova l'America, era nuovo Colombo". Questo lo scriveva il romanziere Arthur Schnitzler, nel primo decennio del secolo. Oggi, a quarant'anni dalla morte di Freud, si può e si deve dire la verità: non era nuovo neanche Freud. La psicoanalisi è sempre esistita: è esistita in Shakespeare, nella tragedia greca. Si tratta di tradurre in scienza, utilizzabile da tutti, ciò che per gli artisti è intuizione."
Ci sono alcuni concetti-chiave della teoria che tu hai formulata, e che pratichi nei gruppi di analisi collettiva. Essi sono, mi pare, quelli di "Istinto di morte, fantasia di sparizione, inconscio mare calmo, investimento sessuale", tutto un meccanismo, se ho capito bene, che si mette in moto nell'istante della nascita e poi, ancora, "invidia e bramosia". Puoi spiegare di che si tratta?
"Dell'istinto di morte Freud ha parlato tardi, nel 1920: ma, oltre ad essere stato preceduto, su questo argomento, almeno da due dei suoi allievi, Adler e Steckel (il "furto", in Freud, è sempre presente), c'è da dire che, ancora una volta, non si inventava nulla: l'istinto di morte appartiene al nichilismo russo, si profila già nell'Ottocento. Per me istinto di morte, non è necessariamente, tendenza negativa, distruttività: è piuttosto la prima pulsione del neonato a tornare da dove è venuto, nell'utero materno..."
Ma perchè, nascendo, si dovrebbe avere voglia di tornare indietro? Perchè dare per scontata questa situazione di "pessimismo esistenziale"?
"E' una questione di pura e semplice sopravvivenza: Il contatto con la realtà esterna, la realtà inanimata (luce, freddo, ecc.) è ostile al bambino, che finallora se n'è rimasto immerso beatamente nel liquido amniotico.
Il contatto sessuale, stabilito attraverso la cute, con il corpo della madre, produce nel bambino appena nato, il ricordo di ciò che io chiamo inconscio mare calmo. Il meccanismo della nascita è il seguente: il bambino nasce e in lui opera immediatamente l'istinto di morte, come pulsione a ritornare nel ventre della madre: per sopravvivere, egli ha bisogno di annullare la realtà esterna, ostile, che lo circonda (fantasia di sparizione): però, nello stesso momento, si forma in lui il ricordo dell'inconscio mare calmo, e il bambino, esprimendo la propria libido, cerca un investimento sessuale nel rapporto umano: cerca la madre, il seno materno.
Se questo primo rapporto fallisce, fallisce anche l'uomo come essere sociale (secondo la definizione di Marx). Quindi depressione, schizofrenia, ecc.
Ma con questa teoria non ti pare di rafforzare la pressione che l'intera cultura dominante (maschile) ha fatto fino ad oggi sopra la donna, responsabilizzando soltanto lei dell'eventuale infelicità del figlio? L'inconscio mare-calmo, il seno materno ... Tutto dipende da noi, l'aborto - come del resto aveva scritto Pasolini - è un'aggressione all'eden pre-natale, al tuo, quindi, "inconscio mare calmo..." O no?
L'aborto è comunque un fallimento, ma il rapporto col corpo della madre è qualcosa che si stabilisce gradualmente - non prima, senza dubbio, del 180esimo giorno dal concepimento - e, ci tengo a sottolinearlo, ha importanza soltanto dopo la nascita del bambino. In questo, davvero, siamo tutti uguali, e tutti, quindi, potenzialmente felici , al contrario di ciò che diceva Freud, perchè tutti disponiamo di un identico inconscio-mare-calmo, al sicuro da qualsiasi aggressione, anche dalle eventuali nevrosi delle madri incinte...
E il rapporto col seno materno, come primo rapporto da cui dipenderanno tutti gli altri?
Non è importante che la madre allatti, è importante l'investimento sessuale della madre nei confronti del figlio: perciò una maternità felice è soltanto quella della donna realizzata sessualmente, che conosce il piacere del proprio corpo, che gioca col proprio corpo e con quello del bambino.
"Invidia, bramosia, frustrazione positiva" sono altre nozioni portanti della tua teoria. Che significano?
L'invidia non ha niente a che fare col desiderio, come diceva Freud. Ha a che fare con l'odio: la bramosia è il voler introiettare l'altro, mangiarlo, divorarlo: amore come possesso e distruzione, e quindi non-amore. La frustrazione positiva è invece un atteggiamento da assumere da parte di chiunque voglia, o debba, "fare l'analista" nei confronti di un altro: e significa saper dire no all'altro, nel suo stesso interesse. Esempio: quando il bambino infila le dita nella presa di corrente, tu lo strappi via dal pericolo; lo fai nel suo interesse, e gli dimostri, così, di avere interesse per lui.
Tu infatti l'adoperi nei tuoi gruppi di analisi collettiva; qual è l'obiettivo di questa attività?
L'analisi ha sempre come obiettivo la cura della psiche; è la trasformazione della psiche, che sottintende, nella maggior parte dei casi, la cura di essa. L'analisi è: interpretazione (strumento) - trasformazione (obiettivo) - cura (effetto).
Che significa per te "interpretazione"?
Significa che io, analista, debbo interpretare, cioè rendere esplicito il significato di ciò che tu mi porti in analisi : sogni, associazioni di idee, fatti tuoi, ecc.
Ma questo rigore - interpretare e basta, non dar consigli, non intervenire - non è in contraddizione con la tua polemica contro gli analisti che ascoltano, tacciono e intascano l'onorario del paziente?
Ma quelli non ascoltano neppure. Ricevono telefonate, pensano ai fatti proprio. Fanno, insomma, fantasie di sparizione sulla persona che hanno davanti. E questo succede perchè l'analista, spesso, è più malato del paziente: malato di invidia, di bramosia, di istinto di morte/annullamento. L'analisi buona è quella che realizza interamente il rapporto umano, per incominciare, tra analista ed analizzando...
Un altro dogma freudiano che tu stai abbattendo è quello del pagamento. I tuoi gruppi sono gratuiti. Allora non è vero quello che diceva Freud che, se non si paga, l'analisi non funziona, no riesce?
Il fatto del pagamento ha attinenza con la cura soltanto quando il rifiuto di pagare - se se ne hanno i mezzi - esprime la bramosia del paziente nei riguardi dell'analista. Se tu guadagni tre milioni al mese, e mi vuoi dare mille lire a seduta, questa tua bramosia va frustata, e me ne devi dare venti. Nella società di domani, comunque, l'analista dovrebbe essere retribuito dalla collettività e
quindi, gradatamente, scomparire.
Il Messaggero 29.3.1978
Psicanalisi e politica.
Si espande il fenomeno dell'"analisi collettiva", da noi già segnalato fin dal novembre scorso. Ma i suoi fondamenti teorici sono molto fragili. E il senso politico di questa moda è abbastanza equivoco. Vediamo perché.
Psiche e Fagioli
Di Sergio De Risio
Il corriere della sera del 12 marzo ha ripreso, con un articolo apologetico di Giuliano Zincone, il discorso su di uno psicoanalista cui già Il Messaggero aveva, nel novembre scorso, dedicato una pagina intera di interventi impostata criticamente. Massimo Fagioli, lo psicoanalista di cui si tratta, appare nell'ultima intervista di Zincone, se possibile, ancora più violento, in ogni caso ancora più deciso e preciso nel suo attacco radicale al pensiero di Sigmund Freud. Certamente eravamo già abituati al puntuale ricorrere nel tempo, con l'insistenza delle cose sciocche, di quelle mescolanze di discorsi oggi dette pasticci fraudo-marxisti: da Marcuse a Guattari, per menzionare solo i più recenti. Tuttavia Massimo Fagioli presenta caratteri di tale originalità nelle dichiarazioni rilasciate ai giornali (dal presentare Freud come un imbecille al presentare Marx come il legittimo inventore della psicoanalisi) che ci ha sollecitato il desiderio di andare a rivedere i temi della famosa trilogia che sostanzia la sua produzione: Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino, Psicoanalisi della nascita e castrazione umana.
Quali profonde innovazioni vi sono contenute, quali visioni inedite dell'uomo e dell'inconscio, tali da rimettere totalmente in questione metodologia e teoria psicoanalitiche, non solo ormai secondo lui banalmente borghesi, ma addirittura sadico-assassine? Deve essere senz'altro necessario leggere e meditare lungamente ed essere pronti ad abbracciare, se risulta ineluttabile, la "psicocosa" detta "collettiva" o "d'assemblea", giacché ciascuno avrebbe il dovere di sottrarsi, se mai vi fosse per qualunque ragione incappato, al compito di trucidazione della mente che l'esercizio della psicoanalisi rappresenta per Massimo Fagioli.. Deve essere senz'altro necessario prepararsi a spazzar via senza indugio il cumulo di imbecillità formulato da Freud e accogliere i suggerimenti di Fagioli, se ne dovessero conseguire una pratica di cura non dico più efficace ma almeno meno disastrosa, e un sistema teorico più ricco, più chiaro, più coerente.
Macché. Va subito detto che Massimo Fagioli non rappresenta nient'altro, dal punto di vista per così dire teorico, che un'aberrante mistura di teosofiche ingenuità lanciate lì senza pensarci su due volte, tra le pagine come tra le persone, in uno stile che risulta da un uso degradante della terminologia freudiana spinta fino ai confini dell'insignificanza più totale. Che dice dunque Fagioli? Che Freud è un imbecille perchè non avrebbe capito che la pulsione di morte è " pulsione attiva di annullamento"; che l'imbecillità si raddoppia perchè Freud non ha mai usato il termine fagioliano di "Fantasia di sparizione"; che il ruolo del concetto di castrazione nella teoria è troppo scomodo e che sarebbe meglio rimpiazzarlo col concetto di "Nascita"; che non esiste scissione nell'essere dell'uomo; che il "super-io" tanto varrebbe fosse chiamato per esempio "Andreotti" ( rapito anche quello, chi sa, scomparirebbe pure la nevrosi); che è importante la "separazione" da mamma e papà, e se la cosa dovesse comportare un poco di dolore, sarebbe allora opportuno sbrigarsi a diventare collettivista. La separazione infatti (egli crede di scoprire) è la dinamica fondamentale di quattro momenti: la nascita, lo svezzamento; la visione dell'essere umano diverso, la pubertà.
Che cosa ne hanno fatto, di questa separazione, Freud, Klein, Winnicott, Bion, Lacan? Non ne hanno mai parlato? Ma si, qualcuno ne ha parlato, però giocava a fare il Re, l'Imperatore, forse l'imperialista, insomma tutti si sono schierati come un esercito compatto, crudele, cieco e perfidamente mirante a trucidare ogni possibilità di nascere e di crescere; a metà strada tra la strage di Erode e l'uso del preservativo.
Solo lui Fagioli, promuove la nascita: Egli la promuove nel "collettivo".
Questo termine va dunque approfondito perchè rivela, nell'uso che Fagioli ne fa per la pratica e per la teoria, il senso esatto della sua operazione. Il Collettivo è per Fagioli lo strumento per attaccare la "scientificità", la "Teoresi", che, come in questo caso giustamente egli intravede, costituiscono la forza della psicoanalisi stessa. Nella trentacinquesima delle lezioni introduttive allo studio di tale disciplina Freud scriveva: "Il pensiero scientifico è ancora troppo giovane tra gli uomini, non ha potuto ancora risolvere troppi dei grandi problemi. Una Weltanchaung costruita sulla scienza, oltre che accentuare il mondo esterno reale, ha essenzialmente tratti negativi, come il richiamo alla verità, il rifiuto delle illusioni. Chi tra i nostri simili è malcontento di questo stato di cose, chi chiede di più per potersi momentaneamente consolare, se lo procuri dove lo trova. Noi non ce ne avremo a male, non lo possiamo aiutare, ma non possiamo nemmeno, in onor suo, pensare diversamente".
E' chiaro che Fagioli è uno di questi malcontenti, ed è un grave errore che ciò di cui ha bisogno se lo vada a cercare in maniera tanto maldestra; affogando cioè la psicoanalisi nella modalità sciatta della ideologizzazione. Che cosa tanto affanno gli consente di trovare? " La nostra dizione, realtà non materiale - scrive Fagioli - si riferisce ed intende proporre un pensare e un discorso sulla realtà dell'uomo che si costituisce come totalità". " La realtà non materiale umana - scrive altrove - una volta che sia vista e pensata come verità umana di essere per essere in rapporto con l'altro e realizzata per essere stati in rapporto con l'altro, si costituisce come essere dell'uomo totale, senza scissione di anima e di corpo, di ragione e sessualità". In sostanza dunque ciò che trova è schematicamente enunciabile così : "La prassi di essere insieme restituisce l'uomo ad una Totalità"
Credo che non valga la pena di scomodare teologia o metafisica per qualificare in qualche modo la mescolanza di osservazioni che costituiscono il corpus fagioliano: teologia e metafisica, sotto i colpi del pensare di Nietzsche o di Heidegger, rivelano una capacità speculativa che non può comunque essere ridotta a qualche accenno di farneticazione.
Per poter costituire questa credenza immaginaria nella Totalità, Fagioli abbandona la scienza, quella di Freud, "che non considera tutto, è incompleta, non ha la pretesa di essere chiusa in sé e di formare un sistema", e si lascia andare a qualche slogan alla moda. Crede che basti magari evocare il fatto che la scienza non è neutrale e pretende che questa magica formula diventi un buon lasciapassare per ogni tipo di sciocchezza. Qui è davvero l'anti Freud.
Il progetto freudiano infatti mina, pur nella sua gigantesca compattezza, metodicamente ogni tentativo di "totalizzazione". La struttura della metodologia freudiana si presenta come continuamente costruibile, anticipando di fatto alcune delle formalizzazioni più importanti della moderna epistemologia circa lo statuto della scienza. Se quest'ultima, e con essa la psicoanalisi, ha da tempo abbandonato le ingenue fantasie positiviste, non è certo per cadere nelle subdole reti di un nuovo Tutto inesistente. Si capisce bene, a questo punto, perchè Fagioli intende liquidare in psicoanalisi i concetti di castrazione, di limite, di mancanza, e ammorbidire in modo completamente narcisistico il difficile problema di ciò che Freud designava come " Narcisismo Primario"
Vale ora la pena di chiedersi in che rapporto stanno le idee così tracciate di Fagioli con la pratica della cosiddetta " psicoanalisi di assemblea". Cosa vi vanno a desiderare i giovani della Nuova Sinistra, cosa lo stesso Fagioli? "Cercano tutto " si potrebbe dire parafrasando un altro slogan di ormai decennale memoria. Cercano tutto, senza fare niente, se non qualche esercizio spirituale. Incapaci di risolvere vere e proprie frustrazioni nate da un certo impegno nel politico, si ritrovano insieme a lamentare. Sono seicento? Data la natura delle cose direi che sono ancora pochi: è assai probabile che diventino presto di più. Quanti sono oggi coloro che cercano, per riprendere Freud, di potersi momentaneamente consolare?
Un'ultima parola sul tipo di legame che probabilmente tiene uniti assemblearmente seminarista e seminarizzati. In Psicologia della masse e analisi dell'Io, fin dal 1921 veniva messo in primo piano il ruolo specifico del capo nel contesto di qualsivoglia formazione collettiva. Il capo va ad occupare, nel soggetto, il posto dell'ideale. Come è noto, innamoramento e ipnosi sono le condizioni che Freud sinotticamente o in parallelo pensava di evocare, ed è già di per sé più che significativo. Più tardi Bion mostrava come questo posto di capo o leader, qualora fossero sufficientemente sviluppati un vertice ed un'attenzione analitica, si rivelasse prezioso osservatorio delle tensioni interne alla formazione collettiva e delle tensioni tra la formazione collettiva e il leader stesso. Si poteva cioè sviluppare, con il concorso collettivo, una funzione analitica nel gruppo. Cosa accade dove vertice ed attenzione analitica sono così palesemente soppiantati? Personalmente propendiamo per l'ultima ipotesi che Guarini indicava nell'intervento da lui dedicato all'argomento, quella più derisoria: Il politico che rispunta, travestito da Psicomante, proprio nel luogo in cui il gregge, forse senza saperlo, progetta di abolirlo!
Corriere della Sera 9.3.1978
Psicoanalisi d'assemblea all'Università
A Roma è scoppiato l’anti Freud
di Giuliano Zincone
Roma – "Ho sognato che rimproveravo mio figlio. Poi stiravo un suo grembiule, usando acqua distillata, e il grembiule diventava un fazzoletto. Cambia scena, ci sono dei bambini che giocano. Parlo con uno di loro, il suo muco mi va in bocca. Penso alla nascita". Siamo in un’aula dell’istituto di psichiatria dell’università di Roma, assistiamo a uno dei tre seminari settimanali tenuti dal professor Massimo Fagioli. La stanza è affollata da duecento persone, arrivate con due ore di anticipo per assicurarsi i posti migliori. Per curarsi collettivamente, raccontando i propri sogni, Fagioli risponde: "Tu annulli la nascita. Al tuo bambino dai un fazzoletto per piangere, invece di dargli investimento sessuale (interesse). La madre tenta sempre di annullare la nascita, l'Io del bambino". Gli analizzandi sono quasi tutti giovani: studenti, psicanalisti in crisi, casalinghe, gente del cinema, intellettuali. I seminari sono gratuiti, il metodo analitico è fondato sulle teorie di Massimo Fagioli, contenute nei suoi tre libri, Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino. Psicoanalisi della nascita e castrazione umana (Ed. Armando), Freud non è solo rifiutato, ma severamente sbeffeggiato. Senza il minimo riguardo, Fagioli lo definisce come "il vecchio imbecille sadico". Jung, invece, è paragonato a un "manicomio medioevale". I pazienti vengono da esperienze di estrema sinistra, molti sono tuttora militanti. Il loro atteggiamento, nei seminari, non manifesta, in genere, disturbi gravi o disperazioni, ma una specie di ansietà, una scontentezza profonda e diffusa. La fame di benessere mentale sta diventando un fenomeno di massa, tra i giovani e gli intellettuali delle nostre città. Le radio private trasmettono sempre più spesso conversazioni, sfoghi, interpretazioni selvagge dei sogni. Si moltiplicano i gruppi d'incontro, i gruppi reichiani, si importa dall’America la "terapia dell’urlo", la "terapia del contatto". Le istituzioni psichiatriche sono screditate, i movimenti dell’antipsichiatria, i "manicomi aperti", oscillano tra la negazione della malattia mentale e la ammissione della propria impotenza. Molti psicoanalisti confessano candidamente di non credere nell’efficacia terapeutica del proprio mestiere. Fagioli, invece, ci crede. Ha comunicato nel 1975 questo lavoro all’università, con un piccolo seminario per colleghi sfiduciati. E adesso ha in cura tre grossi gruppi, seicento persone in tutto, legate a lui (e tra di loro) dalla voglia di liberarsi della "corazza caratteriale" del "linguaggio della razionalità cosciente" di "debellare le tre streghe che rendono pazzi gli uomini: "invidia, bramosia, fantasia di sparizione" e di riscoprire il proprio Io, "l’inconscio mare calmo". La famiglia e la coppia, istituzioni che i rotocalchi danno per sepolte, sono al centro dei sogni e delle ansie degli analizzandi: Le interpretazioni di Fagioli tentano costantemente di recuperare i racconti e le preoccupazioni individuali alla dimensione collettiva, al rapporto con l'esperienza analitica e col gruppo. "Sogno che la mia ragazza è incinta". Nasce un bambino. I preparativi per il parto comprendono l’uso di sacchi di plastica: dentro ci mettiamo carne, latte". Risponde Fagioli:" All’inizio non riuscivi a capire il lavoro di analisi, perché l’analisi è frustrazione. Ma non è vero che non hai capito: il bambino è nato. Vorresti metterlo nella plastica, come per dire che non ha un Io. E invece lo ha: il vecchio Imbecille (Freud) non ci convince. Ti fa rabbia che il bambino, cioè l'Io, venga fuori a tuo dispetto. Ma in una situazione di analisi collettiva è proprio così: che tu lo voglia o no, l’inconscio reagisce". Un altro giovane: "Per motivi materiali mi riesce difficile separarmi dai miei genitori. Tento di farlo, ma con odio e desiderio di vendetta": Fagioli: "No, l’odio e la rabbia li hai nei nostri confronti, perché il seminario ti impedisce di fare i tuoi giochetti furbastri". Certo, per un osservatore esterno, molte allusioni (come questa sui "giochetti furbastri") sono incomprensibili. Chi partecipa, invece, non solo capisce tutto, ma stabilisce con gli altri dei rapporti molto particolari, fino a sognare soggetti analoghi. Alcuni analizzandi provano a mettersi (o a rimettersi) in proprio, a "curare" a pagamento altre persone. Ma incorrono nella scomunica: con estrema durezza, Fagioli accusa in pubblico i rei confessi di seminare ansia e paralisi nella assemblea, di derubare e rovinare i loro "pazienti". Ecco un’analista selvaggia ammettere in lacrime la propria colpa: "La settimana scorsa hai detto cose terribili sul mio conto. Ho sognato tanto sangue che usciva da tutte le aperture del mio corpo". Fagioli le risponde seccamente di restituire alle sue vittime i soldi che ha rubato. "I miei genitori si separarono quando avevo quattro anni – racconta una ragazza -. Mio padre sparò a mia madre, tentò di uccidere anche me, mi rincorse con una pistola. Adesso sogno ancora che mio padre vuole uccidermi. Sogno un bambino sgozzato. Molto sangue. Sogno che un giudice mi chiede di raccontare i momenti belli della mia vita. E io mi sento in colpa: non posso rispondere, perché di momenti belli non ne ho avuti mai". Interpreta Fagioli: "il bambino sgozzato è l’Io. Per recuperarlo devi superare l’identificazione con tuo padre e con tua madre. Devi mettere la tua storia personale in un discorso sociale, in un rapporto. Non sei sola. Molti padri, molti psicoanalisti tentano di ammazzare i figli, pazienti". Prevalgono nei seminari, la fede nel maestro e l’ansia di esserne gratificati. Ma ci sono anche casi di scetticismo. "Massimo, mi chiamo Emilia, devo assolutamente parlarti. E’ la prima volta che vengo, non mi convinci, a sentire tutti questi sogni non mi sono divertita per niente…..". La interrompe un’altra donna, piangendo: "Quando neghi il ruolo di Massimo uccidi i bambini. Ho sognato che ero a Parigi, in una situazione di post-sessantotto, al pronto soccorso, vedo una testa e le tolgo il cervello. Ho fatto cose tremende nella realtà materiale, faccio male ai bambini, lunedì scorso mi hai detto quel che mi merito, mi sono sentita una delinquente, e mia figlia mi dice sempre vaffanculo. L’unico che aiuta sei tu". Il marito di questa signora è riuscito a scrivere una sceneggiatura e lei lo invidia. Il giorno dopo, Fagioli dirà al marito: "Ieri tua moglie Caterina ha avuto una crisi di invidia nei tuoi confronti. Lei non ammette che una persona possa realizzarsi, fare progressi". No, Fagioli non è certo un analista permissivo, non usa la bacchetta magica per far sparire i sentimenti di colpa dei pazienti. Ma questa, forse, è una delle cause del suo successo, nei confronti di un gruppo sociale per il quale la contestazione del principio d’autorità ha coinciso con la caduta di un intero sistema di valori. A noi sembra che (al di là dei suoi compiti specifici) Fagioli interpreti in modo piuttosto "contemporaneo" un ideale di società fraterna (non gerarchica) capace di darsi discipline e regole del gioco orientate verso finalità comuni. "Bisogna prima far l’amore con la madre, e poi uccidere il padre", dice Fagioli, capovolgendo la storia di Edipo. Il che significa (se interpretiamo correttamente) che, prima di abbattere l’autorità, è necessario esser certi della propria identità e dei propri fini. Molti giovani e molti intellettuali, orfani di utopie e delusi dall’azzeramento culturale generato dalle loro esperienze recenti, vogliono sentirsi dire proprio questo. E, in attesa della "società fraterna" accettano di buon grado l’autorità ("liberante" ma ben presente) di Massimo Fagioli. Parliamo col professore. E’ molto severo. Condanna l'omosessualità ("è annullamento, è legata alla pulsione di morte"), condanna la masturbazione ("è fantasticheria sadomasochista"), condanna i suoi colleghi che negano il loro ruolo ("ma poi ricorrono ai farmaci"). "Io – dice – credo nella cura, credo nella conoscenza e nella trasformazione, come Marx. Individuo le dimensioni disumane (indifferenza, invidia, bramosia) e le frustro. La frustrazione genera interesse, desiderio di cambiare, di guarire. Con l’analisi collettiva il salto di qualità è enorme, il lavoro è molto più efficace. Ma alla base ci sono le mie teorie. Io ho avuto il coraggio e la capacità di rifiutare Freud, l’imbecille che non aveva capito niente, che era al livello di un medico che crede che il fegato sia nella coscia sinistra". La teoria di Fagioli è abbastanza complicata da riferire. L’analista ce ne offre uno schema: "La malattia mentale non è congenita. Tutti gli uomini nascono sani. Trasformano l’esperienza materiale del loro rapporto col liquido amniotico in "inconscio mare calmo". La prima fantasia-ricordo (Io) è l’inconscio mare calmo che corrisponde a interesse e desiderio. Questo sentimento dovrebbe trovare risposta nella madre, che invece non lo soddisfa. Anzi, la madre tratta il bambino con fastidio, come un oggetto vile da plasmare, educare. Il desiderio infantile di ricevere latte e interesse diventa delusione. Il desiderio delusione si scinde in odio, rabbia, invidia, bramosia. Genera rapporti sadomasochisti o indifferenza. Eliminare l'indifferenza e frustrare il sadomasochismo porta alla scoperta dell’inconscio mare calmo, al recupero dell'Io, alla guarigione". Una teoria come questa, fondata sui "rapporti", privilegia necessariamente la dimensione collettiva e sociale. "Per me – dice Fagioli – non c’è sessualità senza socialismo, e non c’è socialismo senza sessualità. La società borghese è masturbatoria, divide nettamente il comportamento pubblico da quello privato. Nella società borghese, uno può essere un buon cittadino anche se violenta la moglie e picchia i figli, basta che rispetti il codice penale. Ci si meraviglia se i bambini diventano pazzi. Ecco, questa cose bisogna combatterle, non rassegnarsi, non assumere un atteggiamento consolatorio. Un analista che consola, condanna a morte il paziente. Viviamo in una società dove la famiglia ha ancora un enorme potere distruttivo, dove c’è una miseria sessuale tremenda. La gente, a casa, si annulla, assume dei ruoli astratti: i genitori, i figli, non sono più persone con le quali stare bene, ma autorità, sudditi, maschere"" Fagioli è severo anche con quei gruppi di psichiatri che privilegiano l’azione politica rispetto alla terapia. "Loro – dice – pensano che tutti i mali vengano dalla società e che quindi o si fa la rivoluzione o non si può curare nessuno E invece non è vero, non è automatico che tutto si aggiusti, dopo aver risolto i problemi politici ed economici. Ci vuole un interesse specifico per la dimensione psichica. Questo è il nostro compito. La trasformazione politica spetta ai partiti di sinistra. E, nel frattempo, rassegnarsi è un delitto, bisogna lavorare nonostante le istituzioni, nonostante la società. Altrimenti si finisce in un vicolo cieco: devo fare la rivoluzione perché la società mi condiziona, ma siccome la società mi condiziona non posso fare la rivoluzione. Troppo comodo". G. Zi.
Repubblica 17.3.11
Il male oscuro
Quella lotta di Ellen contro il suo corpo
Lo psichiatra Binswanger racconta un caso clinico: è la drammatica storia di una ragazza anoressica e dei tanti tentativi di cura
Aveva dimenticato i suoi primi dieci anni di vita Aspirava a qualcosa di straordinario
Aveva l’ossessione del pane. Era sempre combattuta tra la brama di divorare e quella di assottigliarsi
di Pietro Citati
Ludwig Binswanger, nato in Svizzera nel 1881, è una delle figure più significative della psicologia e della psichiatria moderna. Da un lato, era amico e collaboratore di Breuer, di Bleuler e di Freud, che inviavano malati nella sua clinica di Kreuzlingen: dall´altro, per tutta la vita lesse e meditò profondamente i libri di Husserl e di Heidegger. Tutto ciò che scrisse è imbevuto di questa doppia influenza: psicologia analitica e filosofia esistenziale si intrecciano e si fondono, entrano ognuna nel campo dell´altra, provocando ambiguità e sottigliezze. Qualche volta, le sottigliezze sono troppe; e ci troviamo smarriti in un linguaggio cifrato. Ma i suoi "casi clinici" sono bellissimi, specie quelli raccolti nel 1957 nel volume Schizofrenia: vi è attenzione, scrupolo, morbidezza, talento narrativo e una specie di disperato azzardo, che lo porta dovunque alla ricerca della verità che si nasconde. Il principale di questi testi è Il caso Ellen West, appena pubblicato da Einaudi a cura di Stefano Mistura (traduzione di Carlo Mainoldi, p. LVII-205, euro 18).
Ellen West apparteneva a una famiglia ebraica, nutrita di ansia, depressione e angoscia, dove abbondavano i suicidi. Quando Binswanger la interrogò a Kreuzlingen, Ellen aveva dimenticato i suoi primi dieci anni di vita. Tutto era avvolto in una oscurità quasi completa: o emergeva soltanto il suo istinto di negazione: «Questo nido non è un nido»: «Questo latte non è latte», ripeteva da bambina. Aspirava a qualcosa di straordinario; "Aut Caesar aut nihil". Voleva la gloria, la tensione, la violenza. A vent´anni immaginò di conoscere la felicità. Ma, subito dopo, fu assalita da una crisi profondissima e cadde nell´apatia. «Tutto per me si equivale, sono completamente indifferente, – scrisse – non conosco sentimenti di gioia e nemmeno di angoscia». «Io sto di fronte a me stessa come di fronte a una straniera». Le sembrava di camminare su una costa marina vertiginosa, in un difficile equilibrio sopra le rocce; e poi di sprofondare sempre più in basso, sempre più in basso. Attorno a lei, c´era il vuoto: la miseria dell´anima le sedeva accanto: gli uccelli tacevano e fuggivano: se apriva bocca, i fiori appassivano: dovunque, spettri erano in agguato; e il mondo diventava a poco a poco una tomba.
Quando compì ventitre anni, venne violentemente assalita dal timore di diventare grassa. «Mi sento ingrassare, diceva, ne tremo di paura, vivo in una condizione di panico». Pensava esclusivamente a dimagrire: a trentadue anni era uno scheletro; e avrebbe voluto morire, come l´uccello a cui il canto si spegne nel pieno della gioia canora, o consumarsi selvaggiamente nel proprio fuoco. «Quando vedo i cibi, e cerco di portarli alla bocca, tutto si chiude nel mio petto, e mi fa soffocare e mi brucia». Ma il suo desiderio era doppio. Il desiderio di dimagrire era un aspetto del suo desiderio di allargarsi, di estendersi e di dilatarsi. Aveva l´ossessione del pane: vagava di continuo intorno al pane chiuso nella credenza: nella sua mente, nel sonno e nella veglia, non c´era posto per nessun altro pensiero; non poteva concentrarsi né nel lavoro né nella lettura. Pensava di essere diventata come un assassino, che ha continuamente davanti agli occhi l´immagine dell´uomo che ha ucciso, ed è irresistibilmente attratto dal luogo del delitto. Così era combattuta: la brama di divorare contro la brama di assottigliarsi; e restava spossata, esausta, coperta di sudore, con le membra doloranti.
Non dobbiamo credere che il suo caso fosse una semplice forma di anoressia. Con le sue forze scatenate, andò molto più lontano: penetrò nella tragedia fondamentale del corpo, la sua apparenza, la sua sostanza, il suo rapporto con gli altri esseri umani e il resto del mondo. Si rivoltava contro la propria corporeità: ma questa rivolta aveva la conseguenza di far emergere la corporeità in primo piano, come se non ci fosse nient´altro né in lei né altrove. Si mascherava dietro la vergogna, cercando di nascondere agli occhi e agli orecchi tutto ciò che era visibile e udibile. Più tentava di celarsi, più era visibile, dava nell´occhio, o cercava drammaticamente di dare nell´occhio. Era lì, sempre, davanti agli sguardi di tutti.
Col passare dei mesi e degli anni, Ellen West si costruì un immenso campo di prigionia: una Siberia di solo ghiaccio; e desiderava la morte con lo stesso ardore con cui un soldato prigioniero tra i ghiacci desidera ritrovare la patria; «Io sono in Siberia – ripeteva: il mio cuore è una morsa di ghiaccio». Si sollevavano mura, sia pure lievi come l´aria ed il vetro. E, sulle mura, c´erano folle di nemici. Dovunque si voltasse, un uomo con la spada sguainata le impediva di fuggire. Le sembrava di essere su un palcoscenico. Cercava scampo, ma qualche oscuro nemico le si parava davanti. Se si precipitava verso la seconda, la terza, la quarta uscita del palcoscenico, trovava ogni volta un muro oscuro di cartone o di sasso. Non le restava che stramazzare su sé stessa, incapace di qualsiasi fuga. Viveva chiusa in un globo di vetro. Vedeva gli uomini attraverso una paratia trasparente, e le loro voci le giungevano fioche e attutite. Si sforzava di arrivare sino a loro, protendendo le braccia verso di loro, ma le mani continuavano ad urtare contro le opache pareti di vetro.
Verso la fine di marzo del 1921, dopo quasi tre mesi di soggiorno nella clinica di Kreuzlingen, Ellen West chiese di venire dimessa. Ludwig Binswanger era incerto: non ignorava quali rischi incombessero sulla sua fragilissima malata. Poi decise. Il 31 marzo 1921, Ellen West ritornò a casa, insieme al marito. Dapprima si sentì incapace di vivere. I vecchi sintomi si ripresentarono. Era prostrata. Tre giorni dopo, quasi all´improvviso, la sua vita si trasformò. Si alzò: fece la prima colazione con burro e zucchero; e a mezzogiorno – per la prima volta dopo tredici anni – si sentì soddisfatta, nutrita e placata. A merenda, mangiò cioccolatini e uova di pasqua. Il cibo le dava gioia, rinforzava le sue energie, alimentava il suo amore, nutriva le sue speranze, illuminava il suo intelletto. Dopo aver passeggiato col marito, lesse poesie di Rilke e di Storm, di Goethe e di Tennyson; e rise percorrendo il primo capitolo delle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain.
La durezza, la violenza, la caparbietà, la furia, lo spirito di negazione, il senso di solitudine e di prigionia, il carcere di pietra e di vetro, l´odio del corpo, il disgusto e la fame – tutto ciò che aveva reso la sua vita un inferno – scomparvero. Il mondo le svelò, dopo tanti anni, il suo volto festoso e leggero, che lei aveva appena intravisto. La sera, senza che nulla lasciasse prevedere la sua decisione, senza dubbi e incertezze, prese una dose mortale di veleno. Poi scrisse una lettera al marito: gli domandava perdono, lo ringraziava per il suo amore, lo pregava di non piangere, e infine gli spiegava che qualsiasi lotta ulteriore contro il male sarebbe stata inutile. Tutto era finito: ma lei si sentiva finalmente libera. La mattina del 5 aprile Ellen West morì. «Apparve allora, come mai nella sua vita, serena e felice e in pace con sé stessa». Possiamo dire che Ellen West fu sopraffatta dal veleno della morte? Non è certo: la morte, anche la morte volontaria, può essere un compimento, una liberazione, una pienezza.
il Riformista 11.4.07
Saggio. Il diario della donna ebrea
II caso Ellen West. L'Anne Frank della psichiatria?
di Annelore Homberg e Cecilia Iannaco
Una tragedia in due atti: suicidio e rilettura heideggeriana
L’obiettivo è “eliminare” la malattia, non il malato
Ellen West è il nome che lo psichiatra Ludwig Binswanger inventò nel 1943 per raccontare il caso clinico di una giovane donna ebrea, di probabile nazionalità americana e origini tedesche; un caso che diventerà paradigmatico per la sua psichiatria fenomenologica o daseinsanalisi e che si era concluso tragicamente più di vent'anni prima, nell'aprile del 1921.
Se il saggio di Binswanger è ben noto ai lettori italiani, non altrettanto lo è la ricerca, dai risultati a dir poco sorprendenti, che lo storico della medicina Albrecht Hirschmüller ha condotto su questo caso clinico. Il lavoro di Hirschmüller - del quale abbiamo curato l'edizione italiana per la rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla - si basa sul diario di Ellen e su un ricco carteggio, entrambi inediti, che permettono di ricostruire la storia della donna in modo assai più ampio e veritiero di quanto non abbia fatto lo stesso Binswanger. Pochi sanno infatti che il caso West si articola in due momenti.
Il primo atto di questa pièce desolante si svolge in un solo anno, tra il 1920 e il 1921, e si conclude con il suicidio della paziente. Tutto inizia quando Ellen - che stava molto male e per la quale le diagnosi future andranno dall'anoressia alla schizofrenia - si rivolge allo psicoanalista Victor von Gebsattel, che più tardi si occuperà anche lui di psichiatria fenomenologica. Questo trattamento finisce dopo sei mesi quando Gebsattel, in piena crisi mistica, manda Ellen dal suo santone; Ellen si rifiuta e prova con un altro analista, a sua volta ossessionato dal tema dell'erotismo anale. Visibilmente peggiorata, nel gennaio 1921, la donna giunge alla famosa clinica di Kreuzlingen sul Lago di Costanza. di proprietà dei Binswanger. Il giovane direttore Ludwig la riceve amabilmente ma è contrario ad ogni tipo di trattamento approfondito. Come consulente chiama il professor Hoche, stimato docente universitario, che proprio l'anno precedente aveva elaborato quel micidiale progetto di «annientamento di vita indegna di essere vissuta» che sarà poi alla base dello sterminio nazionalsocialista dei malati di mente. In tre mesi Binswanger, Hoche e il marito di Ellen giungono al verdetto che per lei non c'è alcuna speranza di miglioramento; "sanno" che è destinata al suicidio e decidono di dimetterla. È probabilmente il marito stesso a fornirle il veleno con cui la giovane donna, tornata a casa, docilmente si uccide.
Il secondo atto della tragedia - se possibile ancor più sconcertante del primo - si svolge invece dopo un silenzio di oltre vent'anni, quando Binswanger decide di riprendere la storia della paziente non per comprendere come un simile fallimento terapeutico era potuto accadere, ma per rileggerlo con le lenti di quella filosofia heideggeriana che nel frattempo ha fatto sua, e alla luce della quale la morte di Ellen diventa «una realtà inevitabile», il «necessario adempimento del senso della sua vita».
Si rimane feriti dal cinismo - ma sarebbe meglio dire dalla fatuità - con cui Binswanger riconverte la storia dell'ebrea Ellen West in una teoria del suicidio come «gesto autentico», proprio negli anni in cui, sull'altra sponda del Lago di Costanza, altri ebrei vengono condotti verso i campi di sterminio. In realtà, un'attenta analisi del materiale raccolto da Hirschmüller fa emergere l'ipotesi che questo «essere per la morte», più che della paziente, fosse piuttosto un problema dello stesso Binswanger e della filosofia che aveva adottato.
La West al contrario, chiedendo insistentemente aiuto, aveva sperato di poter guarire e vivere. Il suo cupo diario ritrae una persona drammaticamente braccata su due fronti: all'interno dalla grave malattia ed all'esterno dalle persone che la circondavano. Proprio quest'ultimo aspetto, insieme agli slanci improvvisi di speranza ed alla gioia di vivere che le pagine, in alcuni momenti, comunque trasmettono, fa apparire nella mente un'immagine che vorremmo cacciare: l'immagine di un altro diario, quello di Anne Frank.
Ricordare oggi la vera storia di Ellen West è importante per sottolineare l'esigenza di una psichiatria che, per essere tale, deve innanzitutto rifiutare un'impostazione teorica che nega l'idea di curabilità se non addirittura quella stessa di malattia mentale. Una psichiatria che al contrario tiene ben saldi i concetti medici di diagnosi, cura, guarigione anche se vengono applicati alla mente e non al corpo. Solo così si arriva a una prassi che, diversamente da quella nazista e purtroppo anche da quella di Binswanger, è volta ovviamente ad "eliminare" la malattia, e non il malato.
Saggio. Il diario della donna ebrea
II caso Ellen West. L'Anne Frank della psichiatria?
di Annelore Homberg e Cecilia Iannaco
Una tragedia in due atti: suicidio e rilettura heideggeriana
L’obiettivo è “eliminare” la malattia, non il malato
Ellen West è il nome che lo psichiatra Ludwig Binswanger inventò nel 1943 per raccontare il caso clinico di una giovane donna ebrea, di probabile nazionalità americana e origini tedesche; un caso che diventerà paradigmatico per la sua psichiatria fenomenologica o daseinsanalisi e che si era concluso tragicamente più di vent'anni prima, nell'aprile del 1921.
Se il saggio di Binswanger è ben noto ai lettori italiani, non altrettanto lo è la ricerca, dai risultati a dir poco sorprendenti, che lo storico della medicina Albrecht Hirschmüller ha condotto su questo caso clinico. Il lavoro di Hirschmüller - del quale abbiamo curato l'edizione italiana per la rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla - si basa sul diario di Ellen e su un ricco carteggio, entrambi inediti, che permettono di ricostruire la storia della donna in modo assai più ampio e veritiero di quanto non abbia fatto lo stesso Binswanger. Pochi sanno infatti che il caso West si articola in due momenti.
Il primo atto di questa pièce desolante si svolge in un solo anno, tra il 1920 e il 1921, e si conclude con il suicidio della paziente. Tutto inizia quando Ellen - che stava molto male e per la quale le diagnosi future andranno dall'anoressia alla schizofrenia - si rivolge allo psicoanalista Victor von Gebsattel, che più tardi si occuperà anche lui di psichiatria fenomenologica. Questo trattamento finisce dopo sei mesi quando Gebsattel, in piena crisi mistica, manda Ellen dal suo santone; Ellen si rifiuta e prova con un altro analista, a sua volta ossessionato dal tema dell'erotismo anale. Visibilmente peggiorata, nel gennaio 1921, la donna giunge alla famosa clinica di Kreuzlingen sul Lago di Costanza. di proprietà dei Binswanger. Il giovane direttore Ludwig la riceve amabilmente ma è contrario ad ogni tipo di trattamento approfondito. Come consulente chiama il professor Hoche, stimato docente universitario, che proprio l'anno precedente aveva elaborato quel micidiale progetto di «annientamento di vita indegna di essere vissuta» che sarà poi alla base dello sterminio nazionalsocialista dei malati di mente. In tre mesi Binswanger, Hoche e il marito di Ellen giungono al verdetto che per lei non c'è alcuna speranza di miglioramento; "sanno" che è destinata al suicidio e decidono di dimetterla. È probabilmente il marito stesso a fornirle il veleno con cui la giovane donna, tornata a casa, docilmente si uccide.
Il secondo atto della tragedia - se possibile ancor più sconcertante del primo - si svolge invece dopo un silenzio di oltre vent'anni, quando Binswanger decide di riprendere la storia della paziente non per comprendere come un simile fallimento terapeutico era potuto accadere, ma per rileggerlo con le lenti di quella filosofia heideggeriana che nel frattempo ha fatto sua, e alla luce della quale la morte di Ellen diventa «una realtà inevitabile», il «necessario adempimento del senso della sua vita».
Si rimane feriti dal cinismo - ma sarebbe meglio dire dalla fatuità - con cui Binswanger riconverte la storia dell'ebrea Ellen West in una teoria del suicidio come «gesto autentico», proprio negli anni in cui, sull'altra sponda del Lago di Costanza, altri ebrei vengono condotti verso i campi di sterminio. In realtà, un'attenta analisi del materiale raccolto da Hirschmüller fa emergere l'ipotesi che questo «essere per la morte», più che della paziente, fosse piuttosto un problema dello stesso Binswanger e della filosofia che aveva adottato.
La West al contrario, chiedendo insistentemente aiuto, aveva sperato di poter guarire e vivere. Il suo cupo diario ritrae una persona drammaticamente braccata su due fronti: all'interno dalla grave malattia ed all'esterno dalle persone che la circondavano. Proprio quest'ultimo aspetto, insieme agli slanci improvvisi di speranza ed alla gioia di vivere che le pagine, in alcuni momenti, comunque trasmettono, fa apparire nella mente un'immagine che vorremmo cacciare: l'immagine di un altro diario, quello di Anne Frank.
Ricordare oggi la vera storia di Ellen West è importante per sottolineare l'esigenza di una psichiatria che, per essere tale, deve innanzitutto rifiutare un'impostazione teorica che nega l'idea di curabilità se non addirittura quella stessa di malattia mentale. Una psichiatria che al contrario tiene ben saldi i concetti medici di diagnosi, cura, guarigione anche se vengono applicati alla mente e non al corpo. Solo così si arriva a una prassi che, diversamente da quella nazista e purtroppo anche da quella di Binswanger, è volta ovviamente ad "eliminare" la malattia, e non il malato.