l’Unità 20.3.11
Pd: «Sì alla risoluzione ma governo sia preciso sul nostro ruolo»
I Democratici chiedono chiarezza alla maggioranza divisa fra le posizioni filo-atlantiche del Pdl a quelle isolazioniste della Lega: «Strappo grave» Pistelli: «Da Parigi precedente importante per la gestione delle crisi»
di Simone Collini
Il Pd confermerà la prossima settimana in Parlamento il sì alla risoluzione Onu sulla Libia, ma chiederà al governo indicazioni più precise sull’impegno delle nostre forze armate e anche di assumersi in pieno le proprie responsabilità smettendola di avere due linee di politica estera, una filo-atlantica (Pdl) e una isolazionista (Lega). Mentre a Parigi si svolge il vertice tra Ue, Usa e paesi arabi, mentre gli aerei italiani sono schierati in Sicilia e mentre dall’altra parte del Mediterraneo partono i raid dei caccia francesi, il governo continua a muoversi in maniera ambigua, con il premier che dice di non ritenere necessario un nostro intervento diretto e con il Carroccio che si prepara a mobilitazioni di piazza per dire no alle azioni militari. Un quadro poco rassicurante, per il Pd, che chiede al governo coerenza e senso di responsabilità. «Il Pd apprezza il risultato del vertice di Parigi, che segna un punto di condivisione importante nel metodo e nel merito fra Europa e mondo arabo e crea un precedente importante per la gestione delle crisi, che andrà coltivato anche nel futuro», dice Lapo Pistelli. Il responsabile per le Relazioni internazionali del partito sottolinea che i parlamentari del Pd non hanno fatto mancare il loro «sostegno a un decisione importante e difficile per la vita e la politica estera del nostro paese», votando sì venerdì alla risoluzione Onu nelle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato.
Il Pd è pronto a ribadire il voto favorevole la prossima settimana in Aula, ma vuole «sentire dal governo indicazioni più precise sull’impegno delle nostre forze armate» e anche verificare se l’esecutivo «sarà in grado di tenere tutta la maggioranza sulla medesima posizione». Che sono le condizioni, dice Pistelli, perché l’Italia giochi un ruolo credibile in questa delicata vicenda: «La partecipazione dell’Italia ad azioni coerenti con il mandato delle Nazioni unite deve essere piena e paritaria con gli altri partner internazionali, sia perché il futuro della Libia e del suo popolo è un interesse nazionale prioritario, sia perché occorre correggere l’incertezza dei primi giorni della crisi. E infine perché occorre reinserirsi pienamente nel cuore delle scelte europee dopo anni nei quali a causa della politica seguita dal governo ci siamo ritrovati purtroppo ai margini delle decisioni che dovrebbero coinvolgere paritariamente i principali paesi europei».
Gli scenari che possono aprirsi sono troppo delicati per essere affrontati con ambiguità. C’è il rischio di ripercussioni, la questione degli immigrati e il pericolo di infiltrazioni terroristiche. Tutte questioni all’ordine del giorno, di cui hanno discusso in un faccia a faccia a Palazzo Chigi anche il sottosegretario con delega ai Servizi Gianni Letta e il presidente del Copasir Massimo D’Alema.
Il Pd non cambierà posizione sulla risoluzione Onu, che Walter Veltroni giudica un «deterrente» che ha l’obiettivo «di far finire una guerra che c’è già». Ma vuole una correzione di rotta da parte del governo. «Faremo la nostra parte assicura il vicesegretario del Pd Enrico Letta ma lo strappo della Lega è grave e il governo non ha più la maggioranza in politica estera». Aggiunge il capogruppo del Pd in commissione Esteri al Senato Giorgio Tonini: «Il governo deve venire in aula e deve essere proprio Berlusconi ad assumersi la responsabilità di una scelta del genere. Il governo non può avere due linee di politica estera».
Corriere della Sera 20.3.11
Bersani dà la linea al Pd: «Basta divisioni interne, bisogna parlare ai cittadini»
Il confronto dopo le uscite degli ex popolari al Nord
di Maria Teresa Meli
ROMA— La prossima Direzione del Partito democratico, prevista per il 28 marzo, rischia di diventare incandescente, dopo il preannunciato esodo di molti amministratori locali di area cattolica. I leader della minoranza interna che provengono dall’ex Margherita, come Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni, chiedono al segretario di non minimizzare la situazione. Ma i vertici del Pd sembrano invece decisi non solo a non dare troppa importanza al disagio, ma anche a puntare l’indice contro i fuoriusciti, accusandoli di aprire una discussione tutta interna al partito e incomprensibile all’esterno. In questo modo rinfocolano il sospetto di quanti, come Fioroni e Gentiloni, temono che in realtà l’esodo degli ex ppi non dispiaccia poi troppo alla dirigenza del Pd, quasi tutta di origine Ds. Ieri sulle agenzie di stampa si sono rincorse le dichiarazioni dei vari parlamentari della minoranza. Walter Veltroni, al di là delle vicende specifiche del Veneto e del Piemonte, ha scelto il silenzio ma appare preoccupato per il malessere nel partito, che a suo giudizio merita il massimo rispetto, e spera che il Pd torni al suo progetto originario. Gentiloni, che assieme a Fioroni, si sta impegnando in queste ore per evitare che altri seguano l’esempio dei transfughi del Veneto e del Piemonte, spiega che ora «la sfida è quella di riportare il Pd al suo progetto iniziale che non è quello di ridursi a una tradizionale forza della sinistra» . Per Gentiloni gli abbandoni rappresentano un «rischio per tutto il partito e per questo motivo la questione dovrà essere affrontata nella prossima direzione» . L’esponente della minoranza si rivolge non solo a Bersani ma anche a Bindi e Franceschini, cioè a «quelli che hanno condiviso l’esperienza della Margherita» , e che a suo giudizio sono i primi che «non possono minimizzare» la situazione. È un segnale molto chiaro: una chiamata di responsabilità a quei moderati del Pd che secondo la minoranza si sono troppo appiattiti sulle posizioni degli ex Ds. Molto preoccupato, ma altrettanto polemico con la maggioranza, Fioroni: «Occorre che la dirigenza nazionale si renda conto che non basta più lanciare anatemi o invettive, e tantomeno minimizzare i fatti. Il partito deve cambiare linea politica per far sentire tutti a casa propria. Mi auguro che coloro che ripetono a Bersani che tutto va bene e che i problemi dei cattolici democratici non esistono cambino idea e lavorino per un Pd più accogliente anche per i moderati che vogliono starci, ma con la schiena dritta» . Quello tra maggioranza e minoranza del Partito democratico sembra però un dialogo tra sordi. Bersani, comprensibilmente, non è contento di quanto sta avvenendo: «Il pericolo vero è che gli elettori del Pd non comprendano tutti questi nostri contorcimenti interni» . Per questa ragione ha mandato avanti il responsabile Enti Locali Davide Zoggia per esprimere sì il rammarico per queste fuoriuscite, ma anche e soprattutto per mandare questo avvertimento: «La priorità per il Pd è quella di dare risposte agli italiani» . E, sottolinea Zoggia, Andrea Causin (il consigliere regionale Veneto che l’altro ieri ha annunciato il suo abbandono) non «sembra cogliere questo aspetto del problema, ma si ferma su discussioni tutte interne che probabilmente interessano poco i cittadini» . Una dichiarazione che è apparsa eccessivamente liquidatoria non soltanto ai transfughi ma anche a molti parlamentari del Pd. Enrico Gasbarra, per fare un nome, che dice: «Sottovalutare quello che sta accadendo è un errore gravissimo, tanto più che stavolta questi abbandoni riguardano non deputati e senatori ma amministratori locali. Ci vuole un ritorno pieno alla democrazia interna» . E Gero Grassi critica il vertice che sembra «sordo» ai richiami dei moderati del partito. Tutte queste polemiche si riverseranno nella Direzione del 28, quando i leader di maggioranza e minoranza finalmente si confronteranno direttamente.
Corriere della Sera 20.3.11
Coalizioni, «vincente» l’opposizione tutta insieme
Ma se il Pd rompesse con la sinistra il 40%dei suoi elettori si ribellerebbe
di Renato Mannheimer
Benché la prospettiva di elezioni anticipate sembri sempre meno probabile — ma il clima politico potrebbe cambiare anche radicalmente da un momento all’altro — si succedono i sondaggi sulle intenzioni di voto, con risultati sostanzialmente simili in tutte le ricerche, anche se condotte da istituti diversi. Con un limite rilevante: quasi metà della popolazione evita di rispondere al quesito sulle intenzioni di voto, manifestando la propria incertezza. Buona parte di costoro è indecisa per davvero e tende a rinviare la scelta sino allo svolgimento della campagna elettorale. Ma la percentuale di chi si dichiara indeciso scema notevolmente, se il quesito posto non riguarda l’opzione per i singoli partiti ma quella per le coalizioni che si potrebbero formare, stimolate anche dalla legge elettorale in vigore. Se l’alternativa è costituita da coalizioni, quasi metà di quanti si dichiarano attualmente indecisi su cosa votare si orienta in una direzione o nell’altra. -Ciò suggerisce come, ancora oggi, gli italiani tendano a preferire una competizione tra un numero limitato di contendenti ad una gara tra una più ampia pluralità di partiti, grandi o piccoli. Per la verità, questo atteggiamento era emerso già nel 2008, quando più del 70%dei voti si era diretto verso le due forze politiche maggiori. Oggi questa tendenza si è attenuata, tanto che, nel loro insieme, Pd e Pdl raccolgono solo poco più della metà dei consensi espressi nei sondaggi. Ma questo allontanamento è dovuto più alla delusione suscitata, a torto o a ragione, da questi due partiti che ad una simpatia per la presenza di tante piccole forze. Presentando delle alternative di coalizione potenzialmente innovatrici, molti elettori si sentono nuovamente stimolati verso il voto. Con quali risultati? Abbiamo prospettato tre diverse ipotesi di coalizioni. La prima prevede l’aggregazione in un unico fronte di tutte le forze che attualmente sono ostili al governo e si collocano a sinistra, nel centrosinistra o nel centro. In questo caso, emerge la netta prevalenza della coalizione antiberlusconiana che arriverebbe, forse, a conquistare la maggioranza assoluta dei voti validi. La seconda ipotesi vede la presentazione in un’unica lista delle forze di centrosinistra e di sinistra, ma la scesa in campo separata dei partiti (Udc, Fli, Api) che si collocano oggi al centro. Anche in questo caso sembrerebbe vincere il centrosinistra, con uno scarto però talmente esiguo da rendere incerto il risultato. E da offrire un ruolo determinante alle forze di centro. Da ultimo, si è sperimentata l’eventualità che l’opposizione si separi e che una parte di quest’ultima (in particolare il Pd) si allei con il centro, mentre, a fronte di questa scelta, le forze di sinistra tout court corrano da sole. In questo caso, quasi il 40%dell’elettorato attuale del Pd dichiara di volere abbandonare il partito e di scegliere la coalizione di sinistra. Ciò porterebbe ad una rovinosa frattura all’interno delle forze di opposizione e alla inevitabile netta prevalenza del centrodestra. Insomma, la presenza di aggregazioni più ampie dei singoli partiti solleciterebbe probabilmente la partecipazione al voto e faciliterebbe la decisione per molti elettori. Allo stato attuale, l’esito favorirebbe l’opposizione, nella misura in cui quest’ultima si presenta unita.
l’Unità 20.3.11
Tornano i pacifisti sit in all’ambasciata
Contro i raid si sono esposti Idv e i partiti della sinistra radicale La condanna di Strada e la protesta davanti alla sede francese
di Alessandra Rubenni
Non esistono guerre umanitarie. Onu, Nato assassini», hanno scritto su uno striscione. Su un altro, in francese, «Sarkozy mascalzone, no ai bombardamenti sulla Libia», e ancora: «Fermiamoci, disarmiamoli». Così, tra qualche bandiera di Rifondazione e di Sinistra Critica, a Roma un centinaio di persone si sono ritrovate ieri pomeriggio a piazza Farnese, sotto l’ambasciata francese, per dire «no» ai bombardamenti europei sulla Libia.
È il fronte dei pacifisti, quello che parla la stessa lingua di Gino Strada, che sembra non avere dubbi neanche stavolta. «Io sono contro la guerra. Lo dico da lustri». E allora, anche se l’obiettivo dichiarato è quello di fermare Gheddafi e il massacro dei civili, il fondatore di Emergency con un interrogativo disegna già una scena: «Perché? chiede Chi li fermerà mirerà dritto a Gheddafi? Io sono contrario alla guerra per tante ragioni, una è che sono italiano e ho una Costituzione che ripudia la guerra». Un «no», quello che dei pacifisti, che tra le forze politiche non trova ampia sponda. A condividerlo c’è il segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero, certo, che invita alla mobilitazione, con sit-in davanti al Parlamento in occasione del voto di ratifica la prossima settimana. Ma le altre sono poche voci isolate. «L’Idv non si tirerà indietro per impedire a Gheddafi di massacrare il suo popolo. Ci impegniamo a dare il nostro apporto quando la settimana prossima si voteranno i contenuti della risoluzione dell'Onu dice pubblicamente Antonio Di Pietro e soprattutto ci impegneremo in Parlamento affinché il governo riveda quella scelta scellerata del Trattato di amicizia con Libia, cui l’Idv ha votato contro, che prevede che l’Italia non presti in alcun modo le sue basi contro Gheddafi». Proprio dall’Italia dei Valori, però, arrivano messaggi diversi: «l’Idv appoggia con convinzione la risoluzione 1979 dell'Onu ed è nettamente contraria ad un nostro intervento militare attivo in Libia», hanno fatto sapere Evangelisti, Orlando e Pedica, nelle commissioni Esteri di Camera e Senato. Dal Pd, invece, Enrico Gasbarra si schiera contro i raid in quanto «uomo cattolico» che capisce la «necessità di fermare le violenze del rais», «ma non mi hanno mai convinto gli interventi militari». Dal Pdl, fuori dal coro un Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno, che parlando col Foglio allerta: «è chiaro che ci sarà una guerra e noi ne subiremo soltanto gli effetti negativi, per l’immigrazione, l’energia e il rischio terrorismo».
La Stampa 20.3.11
Libia le piazze vuote
Né mobilitazioni né bandiere i pacifisti soffrono in silenzio
Viaggio nel popolo arcobaleno Tra le denunce di Gino Strada e Paolo Ferrero e i distinguo del governatore della Puglia Vendola che fine ha fatto il movimento?
di Riccardo Barenghi
La contraddizione Tace la sinistra, solo la Lega si oppone all’intervento come contrastò l’azione in Kosovo
Magari è presto per dirlo, forse bisognerà aspettare che le bombe occidentali provochino morte e distruzione, ma certo finora c’è da segnalare l’assordante silenzio di chi contro la guerra "senza se e senza ma" si è sempre fatto sentire forte e chiaro. Da vent’anni, ossia dalla prima guerra all’Iraq nel ‘91, passando per quella nei Balcani nel ‘99, quella in Afghanistan nel 2001 (ancora in corso), la seconda contro l’Iraq nel 2003. Manifestazioni, cortei, appelli, convegni, proteste di ogni genere, marce per la pace una dietro l’altra, milioni di persone nelle piazze d’Italia. Oggi niente, ancora niente.
Assuefazione alla guerra? Difficoltà a mobilitarsi in un periodo di stanca dei movimenti? Imbarazzo perché da una parte ci sono i ribelli che muoiono per la democrazia e dall’altra un dittatore che li reprime ferocemente? Nel mondo pacifista c’è un po’ di tutto questo, anche se nessuno dei protagonisti ha cambiato idea sulla guerra. Nessuno pensa che sia giusto farla. Spiega Sergio Cofferati, ex segretario Cgil, oggi deputato europeo e all’epoca dell’Iraq leader del movimento pacifista: «Scatenare la guerra nel Mediterraneo è un gravissimo errore dalle conseguenze imprevedibili. Tanto più che quelli che oggi appaiono come i più determinati per l’intervento sono stati i più corrivi nel rapporto con Gheddafi, restituendoci la sgradevole sensazione di un sovrappiù, un eccesso di zelo o per rimuovere un passato indecente». Però i pacifisti tacciono, non si mobilitano, non manifestano... «Beh, è evidente che la presenza degli oppositori al regime crea una difficoltà e una contraddizione al movimento per la pace, una contraddizione riassunta in una domanda: come aiutarli senza bombardare?».
Già, il problema è tutto qui, ma la soluzione al momento non ce l’ha nessuno. Neanche Nichi Vendola, che però un passetto in avanti lo fa: «La domanda di libertà non può essere repressa con il terrore nel nome della non ingerenza in un Paese sovrano. Allora io mi chiedo: siamo capaci, noi mondo multipolare, di soccorrere le popolazioni aggredite?». Ovviamente Vendola non si spinge ad appoggiare bombardamenti mirati, ma si capisce che, se fossero proprio mirati, forse non scenderebbe in piazza per protestare. E a proposito di piazze, lui una risposta al silenzio dei pacifisti ce l’ha: «Negli ultimi vent’anni l’Occidente ha fatto della guerra il modello di stabilizzazione del mondo. Ne ha fatte ben quattro di guerre, questa è la quinta. Il pacifismo, quello che il New York Times ha definito la seconda potenza mondiale, si è opposto. Ma è stato sconfitto. E forse è questa la ragione del suo silenzio».
Cofferati, Vendola, ma anche Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, Flavio Lotti, presidente della Tavola della pace (quella della marcia PerugiaAssisi), il fondatore di Emergency Gino Strada pensano tutti che l’Occidente per un mese sia rimasto a guardare quel che accadeva in Libia senza fare nulla, invece bisognava muoversi prima. «Aprendo magari un corridoio umanitario per portare aiuti ai ribelli» (Cofferati). «Non è possibile che l’Onu sia passato dalla totale inerzia alla guerra, senza prendere provvedimenti, l’embargo, le sanzioni, il congelamento dei beni libici sparsi nel nostro mondo... Invece niente» (Vendola). «Si deve aprire una trattativa per una transizione democratica in Libia e in tutti i Paesi dove c’è una rivolta per la libertà. Siamo ancora in tempo» (Ferrero). «E’ incredibile che l’Occidente abbia solo una risposta, e questa sia la guerra. Ed è altrettanto incredibile che il centrosinistra la appoggi» (Strada). «Il tema della pace è stato cancellato dalla politica e dall’informazione, ma questo non significa che non sia radicato nella coscienza di milioni di persone. Se la guerra dovesse scoppiare sul serio, sono certo che si faranno sentire» (Lotti).
Forse, chissà, vedremo domani. Per ora i pacifisti non si vedono e non si sentono. La situazione, spiega ancora Ferrero, ricorda quella della guerra nei Balcani, il famoso intervento umanitario. Allora al governo c’era D’Alema e tutto il centrosinistra era favorevole alla guerra insieme al centrodestra. Non erano d’accordo i «soliti» pacifisti e la sinistra radicale, i quali faticarono a organizzare qualche manifestazione di protesta, peraltro non oceanica. Anche perché, ieri come oggi, il movente dei bombardamenti era fornito dal massacro di civili operato da gente senza scrupoli, Milosevic e Gheddafi. Dunque non era facile opporsi. Chi si oppone invece, ieri come oggi, è la Lega, stavolta accompagnata dai giornali di centrodestra: «Costretti alla guerra» (titola Il Giornale), «Ci mancava solo la guerra al beduino» (replica Libero). E questa è una novità.
Corriere della Sera 20.3.11
La sinistra e la guerra. In Iraq no, in Libia sì
di Paolo Conti
ROMA— L’espressione è diplomatica («il complesso rapporto della sinistra con la guerra...» ). Però ieri Il Foglio ha registrato, in suo editoriale, il «sì» del Pd alla risoluzione Onu sulla Libia («La guerra che piace alla gauche» ). Sottolineando le contraddizioni: no alla cacciata di Saddam Hussein («obiettivo considerato "imperialista"), sì al bombardamento di Belgrado («considerato strumento indispensabile per l’affermazione di ideali umanitari» ). E sì oggi in Libia. Il nodo sinistra-guerra è intricato. Non tutto è lineare come il «no» di Gino Strada, identico a quello pronunciato sull’Iraq. Lo dimostra, mentre la sinistra radicale («Onu-Nato Assassini» ) manifesta davanti all’ambasciata di Francia, la spaccatura a il manifesto tra Rossana Rossanda e Valentino Parlato. Nel 1999 nessuna esitazione: entrambi per il no. Rossanda disse al Corriere della Sera: «Se si arriverà a un intervento di terra nel Kosovo, inviterò alla diserzione e me ne assumerò tutte le responsabilità» . Piero Fassino, allora ministro per il Commercio con l’estero del governo D’Alema pro intervento Nato, le rispose duramente: «Lo ripeta guardando negli occhi i bambini kosovari» . Oggi Rossanda (9 marzo scorso) è su posizioni diverse: «Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista... mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto» . Parlato è furiosamente su un altro fronte: «Questa è una guerra veterocolonialista. Francia e Inghilterra, vista la crisi dell’atomo dopo il disastro del Giappone, restituiscono il dovuto valore al petrolio e vogliono accaparrarsi quello libico» . Sorriso: «Diciamo che da questo punto di vista mi trovo su posizioni filoamericane...» . Se dovesse decidere lei, Parlato? «Al posto di Berlusconi, tratterei con Gheddafi subito e tenterei di mantenere i privilegi dei nostri accordi. Indubbiamente la penso in modo molto diverso da Rossana» . Altro che rapporto solo complesso. C’è persino il tormento. Luigi Manconi, già leader dei Verdi nel 1999, sempre con D’Alema a Palazzo Chigi, considerò «sbagliato in sé» l’intervento contro Saddam in Iraq. Invece nel 1999, sul Kosovo, i Verdi votarono un sofferto sì. Racconta oggi Manconi: «Alla fine la soluzione mi appariva inevitabile e chiara, anche perché eravamo forza di governo» . E oggi, lei che non è più parlamentare ma è l’animatore dell’associazione «A buon diritto» , avrebbe votato sì? «Però un mese fa. Si sarebbe potuto intervenire in maniera più efficace e meno cruenta, riconoscendo gli insorti e sostenendoli. Avremmo potuto farlo persino noi se non avessimo avuto con Gheddafi quel ruolo di subalternità tutto affidato alla politica di respingimenti disgraziatamente basata sulla negazione dei diritti fondamentali della persona» . C’è poi il caso articolato del Pd, maggior partito di opposizione (oggi) e di maggioranza relativa (nel 1999). Ai tempi di Saddam il no fu senza se e senza ma. Nella stagione di D’Alema a Palazzo Chigi, altro senza se e senza ma, però con un sì. Oggi altro sì privo di ombre con Gheddafi. Come si spiega un simile andamento? Dice Nicola Latorre, vicepresidente del gruppo Pd al Senato: «Sinceramente non vedo alcuna contraddizione» . Allora cominciamo da Saddam: «Lì c’era un unilateralismo ideologico degli Stati Uniti, l’assurdo tentativo di "esportare la democrazia"che inevitabilmente portò acqua al mulino della radicalizzazione dello scontro tra civiltà» . E il Kosovo? Non pesava molto, troppo, la presenza di D’Alema a Palazzo Chigi? «Dirò anzi che lì arrivammo in ritardo, a pulizie etniche già concluse, con un Occidente ottusamente lontano e miope» . E ora arriviamo alla Libia. Siamo veramente così lontani da Saddam, scusi? Cicchitto ve lo ha fatto notare. «Nulla a che vedere. Qui si interviene per tutelare i civili, non per "esportare la democrazia"ma per aiutare i libici a riprendersi la loro. Piuttosto vorrei rispondere a Cicchitto che senza di noi il governo sarebbe andato sotto...» . Infine Nichi Vendola, Sinistra Ecologia e Libertà, che non ha cambiato idea in nessuna delle occasioni di guerra: «La logica secondo cui per fermare un massacro bisogna compierne un altro pone dilemmi e prospettive inquietanti. La cosa più saggia è concentrarsi sul cessate il fuoco e puntare sull’isolamento di Gheddafi. Comunque sia, non si può invocare la non ingerenza quando si è in presenza del terrore di Stato. Ma bisogna puntare su azioni che non siano la guerra per riuscire a tenere una cornice internazionale di legalità» .
Corriere della Sera 20.3.11
Se questa (senza sentimenti) è una guerra
di Vittorino Andreoli
Sono un uomo dei sentimenti che in questo periodo assiste alle immagini della guerra in Libia. La vedo dal salotto, davanti a un teleschermo ad alta definizione. Una visione che riporta anche le emozioni e i sentimenti, poiché traspaiono dal volto delle persone, sono esplicitati dalle parole, dai discorsi e anche dai silenzi. Qualche settimana fa la guerra era in Egitto, ma poi è stata declassata appena si è riaccesa quella in Tunisia e poi è entrata nel buio della notte con la Libia. La televisione non passa più di una guerra alla volta. Come per gli omicidi efferati, uno solo per qualche mese, il più intrigante. Del resto, lo so, sono almeno quaranta i conflitti nel mondo e molti non fanno spettacolo, oppure sono troppo lontani per permettere di produrre servizi in diretta con la gente che manifesta rabbia o fa segni di vittoria mostrando l’indice e il medio delle mani a V. La Prima e la Seconda guerra mondiale non potevano diventare televisive e per questo erano più misteriose, non tanto nelle loro cause politiche — dinamiche ordinarie del potere —, ma perché ne giungeva solamente qualche fotografia ed era più facile e più semplice mostrare ancora vivo qualche soldato che aveva perso gambe e speranza. Guerre oggi diverse, combattute con strumenti sofisticati, aerei senza pilota, strategie regolate dai computer, dai computer in guerra. Io credo che non siano cambiati il loro volto, la violenza, la stupidità, ma che invece sia mutato l’uomo. Si potrebbe dire l’antropologia, l’umanesimo. È come se l’uomo del tempo presente considerasse la guerra un fenomeno banale, scontato, atteso persino per consumare le armi accumulate negli arsenali e riempirli di armi più intelligenti — cosi si chiamano. Sono spaventato da come si parla della guerra, in maniera disanimata. Da come si accenna alle imbarcazioni piene di gente che scappa dalla guerra, ridotte a numero e alla capienza dei centri di accoglienza. Sono impaurito dalla freddezza con cui si cancella la parola «rifugiato politico» , come indicasse il modo per rubare un posto in paradiso, a Lampedusa, sulla nostra convinzione che l’Italia sia l’Eden e non un inferno anche senza guerra. Sono incredulo di fronte alle riunioni dei capi di Stato che discutono delle guerre, ovunque siano, con lo stile di un convivio filosofico o peggio di un corso di aggiornamento in scienze diplomatiche. Come se non ci fosse il dolore dei bambini, delle donne, dei soldati, di chi pensa di poter liberare un Paese dalla dittatura, da un capo che tiene nella povertà la gente e si arricchisce investendo nei paradisi fiscali i proventi del petrolio, per sé e la propria famiglia. Come se fare la guerra con i sassi mentre gli aerei lanciano bombe fosse un divertimento. Sembra di trovarsi su Internet, sintonizzati sui videogiochi, su quelli in cui si può diventare un soldato e persino un eroe senza spargere una goccia di sangue. Una guerra di celluloide, un guerra che non c’è, ma più «interessante» . I sentimenti: il dolore per chi soffre, la pena per i bambini e per i vecchi, la perdita di una casa, che anche se vuota era il luogo della propria dimensione sociale. E non importa se è al confine con le zone desertiche. Anche nel deserto devono vivere i sentimenti. Io non li vedo più, tutto è morto. Di fronte al dolore dell’altro si dovrebbe correre e dare un poco di sollievo, di fronte a un bambino insanguinato si deve sentire una stretta al cuore e avvertire le lacrime scendere. La guerra è diventata banale, come la violenza in famiglia, come gli stupri che ormai non fanno più cronaca, e allora si sta a guardare dieci minuti di guerra e poi si cambia canale, si va magari sull’Isola dei famosi. Sono un uomo dei sentimenti ma so che sono morti, sono stati ammazzati. Rimane forse solo la rabbia, quella che esprime bene il potere quando è contrastato. Credevo che la guerra «fredda» fosse quella iniziata negli anni Cinquanta del Novecento, ora c’è la guerra «gelida» , totalmente disanimata. E senza sentimento tutto è banale, e acquista solo un prezzo e le compravendite, pur se di mercenari e di poveretti, non riescono a stimolare più l’umano, ammesso che ve ne sia ancora qualche residuo in quest’uomo. Viene in mente l’interrogativo di Primo Levi: «Se questo è un uomo» .
il Fatto 20.3.11
L’equivoco degli Stati uniti
di Furio Colombo
Se avete sentito parlare della nave traghetto “Mistral Express”, se ne avete seguito la strana vicenda, è più probabile che possiate orientarvi nella storia che sta per seguire, e che è la storia del nostro tempo. Dunque la “Mistral” non doveva partire, non doveva arrivare e non poteva restare nel Mar Mediterraneo che stava attraversando. Siamo a metà marzo del 2011, in una strana coincidenza con i festeggiamenti dell'Italia unita, ma questo, ormai, è solo un dettaglio di colore. È bene non entrare nel merito della triste vicenda (nave di profughi che è stata tenuta ferma e lontana nel timore che quei profughi potessero avere davvero diritto all'asilo che si temeva chiedessero, dunque respinti non perché ritenuti pericolosi vagabondi senza patria, ma perché, in base alla legge internazionale, erano in cerca di una patria e di una legge a cui affidarsi). È inutile anche ricordare che – secondo il codice Le Pen, a quanto pare adottato dal governo italiano – la nave andava tenuta al largo non “benché avesse a bordo molte donne e bambini” ma “perché aveva a bordo molte donne e bambini” che, una volta arrivati, sarebbe stato impossibile respingere.
MA RESTIAMO al fatto, senza interpretazioni. Bisogna ammettere che la nave destinata a non partire, a non arrivare e comunque fermata (abbandonata) in mare, nella notte in cui le Nazioni Unite hanno dichiarato l’intervento militare contro la Libia, è una efficace illustrazione di uno strano periodo della civiltà e della storia, quello in cui stiamo vivendo. Ha come caratteristica principale lo smantellamento, l'abbandono, il rinunciare con fastidio e con disprezzo a fatti, valori, simboli e anche norme e pratiche di diritto che fino a poco fa venivano dati per accettati e condivisi. È una lista lunga, ma basteranno alcune parole che un tempo erano chiave e simbolo. Per esempio: Stato, Patria, Identità. Vagano alla deriva come la nave degli indesiderati. Sono ormai un ingombro da cui liberarsi, o almeno questo è il suggerimento che si raccoglie oggi in Italia. Stato. L’offensiva è cominciata presto, sul terreno della contrapposizione “pubblico-privato” e con il celebre slogan “meno Stato, più mercato” che appariva fondato sul buon senso e invece ha dato inizio a un clamoroso capovolgimento. Su questo capovolgimento è basata la solitudine e l’abbandono dei cittadini americani che hanno bisogno di cure mediche, sono respinti dagli ospedali privati, mentre i centri di cura statale non esistono più. Neppure la “riforma” sanitaria di Obama ha potuto intaccare il primato del privato e riattivare il rapporto di fiducia tra Stato e cittadini.
Nel sistema sanitario americano lo Stato resta in secondo piano rispetto alla forza e ai diritti del privato. Ma persino la privatizzazione delle scorte e missioni militari, l'introduzione di formazioni di mercenari privati accanto e a sostegno degli eserciti di grandi potenze (Stati Uniti, Inghilterra), la privatizzazione dei centri di detenzione e degli specialisti di interrogatori sono un evidente segno del prevalere quasi senza limiti di tutto ciò che è privato visto come migliore o superiore. Ma il lavoro di demolizione è ancora più vasto e arriva da percorsi diversi.
Si realizza in due modi opposti e del tutto sconnessi e in contrasto, ma usati con un grado altrettanto alto di aggressività. Uno è il proclamare l'esistenza di piccole patrie confinate in parti di territorio che si presumono omogenee e storicamente legate, e che prevalgono sullo Stato un tempo ritenuto sovrano. Qui c’è un clamoroso equivoco. Se un Stato federale è vero e spontaneo e fondato dal basso, questo tipo di movimenti localistici chiede di più ma offre di più, perché ha interesse, come garanzia per il piccolo Stato, di rafforzare il più grande Stato comune. È ciò che accade negli Stati Uniti, dove la radice di appartenenza al proprio territorio (lo Stato federato) è molto forte e, al contempo, è molto forte il legame patriottico con lo Stato federale, che è sentito come patria di tutti ma anche come autorità per tutti. La situazione italiana si rappresenta nel paradosso di tanti staterelli che non esistono se non come parte di uno Stato più grande, che però rifiutano. Lo rifiutano al punto da irridere a eventi come gli anniversari di fondazione, al punto da compiere gesti ostentati di disprezzo contro l'inno nazionale (federale).
Il risultato di atti così incoerenti, ma anche protratti negli anni, ma anche praticati e rappresentati da chi è allo stesso tempo, negatore dell'unita dello Stato ma anche ministro dello Stato (il ministro dell’Interno in cravatta verde) non può che portare alla dissoluzione dello Stato stesso o almeno a ferite gravi che peggioreranno nel tempo. Patria. In un Paese come l’Italia, in cui il concetto di patria è stato a lungo giocato come strumento di guerra, non è stato facile rovesciare l'interpretazione fascista. Un grande contributo è venuto dalla Resistenza, prima guerra italiana non contro un paese nemico ma contro un'idea odiosa di persecuzione. Il grande libro della Patria ritrovata degli italiani è stato ed è la Costituzione, dove tutto è ragione di identificazione e di orgoglio e niente esclude o accusa. E, inaspettatamente, è stata la globalizzazione a provocare un risveglio del senso di appartenenza di molti Italiani. In un mondo senza frontiere, dove i prodotti si scambiano con il segno del luogo di provenienza, sono stati costretti a capire che anche i cittadini, nel vagare senza frontiere, restano legati all’immagine del loro Paese.
Purtroppo, per gli italiani, ciò è avvenuto mentre un governo privato (fondato esclusivamente su interessi privati) ha preso il controllo di tutto ciò che è pubblico, piegando, deformando, usando a piacimento anche attraverso una politica estera privata e dissennata (a sottomissione dell'Italia alla Libia di Gheddafi, i rapporti intimi e misteriosi con la Russia di Putin) e rendendo irriconoscibile l'immagine dell'Italia.
QUESTA è la scena su cui si deve trovare un senso alla parola identità. Il totale controllo mediatico creato dal conflitto di interessi ha dato vita a un personaggio unico che non ha scuola, non ha cultura, non si riconosce nella Liberazione e nella Costituzione, considera “comunista” ogni pensiero o forma di vita che non conosce, vive fra l'Isola dei famosi e i programmi tv con premi in danaro. Dopo diciotto anni di egemonia berlusconiana questo italiano standard è un tipo umano che ha delegato la propria identità all'identità di uno che considera la vera rappresentazione di se stesso. Infatti lo spirito critico è stato del tutto assorbito dall'identificazione, che ha preso il posto della identità.
Resta, come unica identità possibile, una opposizione radicata nella estraneità come presa d'atto di un distruttivo tempo d'emergenza che non consiglia e non consente il dialogo. Le piazze degli italiani, donne e studenti, operai e gente dello spettacolo, insegnanti e poliziotti, testimoniano che la gente c'è. Si attendono i partiti.
l’Unità 20.3.11
Berlusconi perde carisma E gli elettori lo salutano
Il calo di consensi del premier è dovuto a due fattori: da una parte l’incapacità di ricompensare i fedeli sostenitori, dall’altra la riscoperta da parte degli italiani di un desiderio di legame nazionale
di Michele Ciliberto
In questi giorni, a leggere i sondaggi, si starebbe cominciando a incrinare in modo significativo il consenso intorno a Silvio Berlusconi. Un giudizio confermato dalle manifestazioni di insofferenza nei confronti della sua persona che si sono avuti il 17 marzo durante le celebrazioni del 150 ̊ anniversario dell’unità nazionale. A questa considerazione farei due postille: la prima, che i sondaggi vanno presi sempre con le molle; la seconda, che Berlusconi è un gatto dalle cento vite. Guai a darlo per sconfitto; è una specie di fenice rinata molte volte dalle proprie ceneri.
Ci sono tuttavia alcuni elementi che inducono a ritenere iniziata una crisi profonda di Berlusconi e del berlusconismo e vorrei provare ad argomentare questa mia tesi muovendo da quel motivo della carismaticità che è stato spesso, e opportunamente, utilizzato a proposito di Berlusconi.
Un tratto costitutivo del potere carismatico è rappresentato dal vincolo di fedeltà e di identificazione che si stabilisce fra il capo e i suoi seguaci; ma questo vincolo funziona ed è l’altro lato della carismaticità finché il capo, il leader, è in grado di soddisfare i desideri, gli appetiti, le aspirazioni dei suoi seguaci. Quando questo non avviene, il potere carismatico crolla.
È ciò che sta accadendo in questo periodo: oggi Berlusconi non è più in grado di soddisfare gli appetiti molto concreti, molto materiali dei suoi elettori, i quali stanno cominciando a distaccarsi perciò da lui. In questo distacco non agisce una critica di ordine morale relativamente al rapporto tra sesso e potere che Berlusconi ha incarnato in questi anni e ha trasmesso come una forma naturale del proprio potere personale. L’Italia è ormai un Paese per larga parte secolarizzato, compresi soprattutto gli elettori di Berlusconi che si sono anzi spesso compiaciuti delle sue prodezze sessuali. Il distacco, se avviene, si produce su un altro terreno: quello degli interessi concreti e materiali dei suoi seguaci i quali insoddisfatti dal loro leader cominciano a prendere in considerazione la possibilità di abbandonarlo.
Ma è un processo tutt’altro che semplice e lineare, tutt’altro che scontato, proprio perché alla sua radice agiscono questi profondi e robustissimi interessi. Come si vede dalle aspettative di voto di questi giorni, resta tuttora alto il voto degli indecisi, come alto resta il numero delle schede bianche. In ciò agisce sicuramente anche una insoddisfazione degli elettori del centrosinistra che non si riconoscono nelle posizioni del Pd e, ad esempio, nelle politiche consociativistiche che il suo segretario continua a proporre ormai da un anno. Ma certamente in quel concentrato di astensione e di schede bianche c’è un ampio numero di elettori che cominciano a prendere le distanze da Berlusconi attestandosi, per ora, nella scelta dell’astensione o della scheda bianca. In questo modo essi si propongono di guadagnare tempo per cercare di capire in quale direzione evolvano effettivamente le cose e se Berlusconi sia in grado di riassumere le sue funzioni, oggi declinanti, di leader carismatico. È dunque una scelta di attesa.
Qualunque sia il giudizio che si vuol dare, quella di oggi appare una situazione più aperta e più dinamica del passato. Ma perché questo movimento si rafforzi e perché quel mare di sale di astensione cominci a sciogliersi è necessaria un’iniziativa politica anzitutto dei partiti del centrosinistra. Essi invece continuano ad apparire statici e comunque non ancora pronti a confrontarsi con una nuova dinamica politica che non può ridursi a “unioni sacre” contro Berlusconi ma deve ricominciare a pensare in termini positivi una nuova prospettiva politica; e non può non incardinarsi in una robusta riaffermazione della dialettica bipolare come predicato imprenscindibile della vita politica, presente e futura, della nostra nazione.
Il secondo aspetto, più importante, concerne la questione dei cosiddetti “legami”. La democrazia dispotica di tipo berlusconiano è incardinata sulla rottura sistematica di ogni vincolo, con l’eccezione di quello di tipo carismatico e con la riduzione di ciascuno in forme di individualismo senza porte e senza finestre. Questa è stata la condizione principale del suo dominio in questi anni. Ciò che invece colpisce nelle celebrazioni per i 150 anni è la ricerca di larga parte degli italiani di nuove forme di legami che si sono espressi in questi giorni nel raccogliersi intorno alle forme e ai miti costitutivi della nostra identità nazionale. Non bisogna naturalmente enfatizzare fenomeni di questo genere, ma certo nelle manifestazioni di questi giorni si è espresso qualcosa di nuovo, da cui deve prendere le mosse una politica che voglia proiettarsi oltre le colonne d’Ercole di Berlusconi e del berlusconismo.
Michele Ciliberto insegna Filosofia moderna alla Scuola superiore della Normale di Pisa. Per Laterza ha appena pubblicato il libro «La democrazia dispotica»
Repubblica 20.3.11
Ecco come nasce la prima parola
Tra scienza e reality caccia al segreto della prima parola
Linguista del Mit filma e registra ogni suono del figlio neonato
Undici telecamere e 14 microfoni sempre accesi, bagno incluso, per tre anni
di Elena Dusi
Giochi, parole, movimenti, direzione dello sguardo, pianti e ridolini: i primi tre anni di vita del figlio di Deb Roy, ricercatore del Mit di Boston, sono stati tutti registrati. Attimo per attimo, dalle otto del mattino alle dieci di sera, in audio e in video, la sua storia di bebè è depositata in un server del MediaLab del Massachusetts Institute of Technology.
Un fotogramma dopo l´altro, il papà e i suoi colleghi stanno ripercorrendo la sua vita in uno sforzo che durerà forse il decuplo dei tre anni di registrazione. L´obiettivo: scoprire come un bambino impara a parlare.
«Nei primi mesi di vita le abilità linguistiche si evolvono di giorno in giorno. Non ha senso effettuare una registrazione ogni tanto, come avviene negli esperimenti normali. Il processo va colto nella sua continuità, nel momento stesso in cui si svolge» spiega Roy, che nei giorni scorsi ha presentato il suo esperimento alla conferenza Ted (Technology, Entertainment and Design) a Long Beach, in California, ripercorrendo in una sequenza audio il progresso da "ga-ga" a "wa-wa" fino alla parola "water". Inconsciamente, sia i genitori che la baby sitter davanti al piccolo Roy pronunciavano le loro parole lentamente, allungando le vocali e con una forte intonazione. Man mano che il bimbo acquisiva padronanza con un vocabolo, correggevano la sua pronuncia e iniziavano a inserire la parola in frasi sempre più complesse. All´età di due anni il bambino aveva imparato 503 termini.
Più che per i risultati - la cui analisi richiederà anni e che non appaiono per ora così rivoluzionari - l´esperimento colpisce per l´invasione totale della privacy che comporta. Casa Roy è stata cablata con un chilometro di fili elettrici, 11 telecamere e 14 microfoni montati sul soffitto di tutte le stanze della casa, bagno incluso. Unica salvezza per moglie e marito: un bottone con la scritta "Oops" sulla parete di ogni camera per cancellare gli ultimi minuti di registrazione.
Nel progetto soprannominato "Speechome" (da "speech" come discorso e "home" come casa), la combinazione di audio e video ha permesso ai ricercatori del MediaLab di collegare la "nascita" di ogni parola all´attività svolta in quel momento, alla stanza occupata, all´atteggiamento di madre, padre e baby sitter e perfino alla direzione del loro volto, per capire quale oggetto stavano inquadrando con lo sguardo durante le interazioni con il bambino.
L´obiettivo finale della ricerca di Roy - dopo aver sbrogliato la matassa dei 10 milioni di parole trascritte finora, solo una parte minoritaria dei 200 gigabyte di dati accumulati ogni giorno per tre anni - sarà quella di insegnare a parlare a un computer. Oltre a un figlio in carne e ossa, il ricercatore del Mit infatti ha anche una "creatura" di silicio chiamata Ripley cui finora, con sforzi enormi, è riuscito a insegnare solo i nomi dei colori e di alcune forme geometriche. Scandagliare il metodo che un bambino usa per imparare a parlare - spera Roy - gli permetterà di applicare la stessa strategia anche a un´intelligenza artificiale. Nel frattempo, tenendo i piedi molto più per terra, lo scienziato americano ha ottenuto un finanziamento per studiare i problemi di linguaggio dei bambini autistici.
Repubblica 20.3.11
Virginia Volterra, ricercatrice del Cnr, sull’origine del linguaggio
"Darwin e Chomsky, teorie opposte ora forse scopriremo chi ha ragione"
ROMA - «Anche Charles Darwin osservava i figli e ne trascriveva le prime parole» racconta Virginia Volterra dell´Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Cnr. «Io stessa ho preparato la mia tesi di laurea con un registratore audio e una bambina da osservare. Ma per un esperimento enorme come quello del Mit sarà decisiva l´efficienza del sistema di trascrizione».
I nuovi dati faranno fare un salto di qualità alle teorie sull´apprendimento del linguaggio?
«Le tesi attuali oscillano fra due grandi teorie, quella di Darwin che sottolinea la continuità fra gesto e linguaggio e quella di Noam Chomsky, secondo cui la capacità di parlare è frutto di una facoltà speciale del cervello umano».
Cosa vuol dire continuità fra gesto e linguaggio?
«Il bambino esegue un movimento (dormire, ballare, fare ciao con la mano). Poi l´adulto dà un nome all´azione. Così il bambino impara a collegare uno schema motorio a una parola, e quindi a dare significati condivisi alle sue azioni».
I bebè capiscono molte più parole di quelle che riescono a pronunciare?
«Sì, questa è una tesi consolidata. Ed è osservabile anche negli adulti che imparano una nuova lingua. Riconoscere le parole in un discorso è molto più facile che non usarle».
Imparare una seconda lingua da piccoli dà un vantaggio anche a tutte le altre capacità cognitive?
«Sì, ma nei primi mesi di vita si usa un accorgimento: una persona, una lingua. Se i genitori hanno nazionalità diverse, è opportuno che la mamma usi una lingua e il papà un´altra. Cambiare idioma confonderebbe il bambino. Ma anche per le famiglie omogenee, allenare un figlio all´ascolto di suoni diversi con cartoni animati o filmati sottotitolati non può che fargli bene». (e.d.)
l’Unità 20.3.11
Cos’è la felicità
Noi, novelli Candide alla ricerca della bellezza nel Giappone ferito
La riflessione A proposito di un saggio di Daniel M. Haybron sul perché gli esseri umani non riescono a conseguire condizioni di felicità: il nostro sguardo sul paese messo in ginocchio dalla recente catastrofe naturale dipende dall’interiorità di quello stesso sguardo
di Nicla Vassallo
Sul Giappone si dovrà riflettere a lungo. Circa Europa e Nord America, invece, gli economisti riportano risultati discordanti: la felicità consegue il livello minimo tra i nostri quaranta e cinquant’anni, non cessa di subire incrementi nel corso dell’intera esistenza, decresce progressivamente. I risultati si spiegano non tanto coi diversi campioni statistici, quanto con la formulazione delle domande che vengono poste, in cui non sempre emerge la differenza tra felicità legata a beni interiori e felicità legata a beni esteriori, felicità congiunta a virtù e felicità congiunta a ragioni e azioni, felicità ancorata al piacere (momentaneo o stabile?) e felicità ancorata epistemicamente alla sospensione del giudizio. Qualcosa di filosofico stride.
Nel caso in cui ci venga chiesto «Tutto considerato, sei soddisfatto, abbastanza soddisfatto, per nulla soddisfatto della vita?», non solo ci troviamo nella necessità di disambiguare un «tutto considerato», verosimilmente punteggiato di felicità e infelicità, sia se riferiamo il «tutto» al presente, lo proiettiamo nel passato, lo calcoliamo sulle aspettative future, ma di equiparare pure felicità e soddisfazione, cosa non affatto scontata. Posso dichiararmi soddisfatto del mio quotidiano, e infelice della mia vita in senso ampio, grazie alla consapevolezza delle catastrofi che si abbattono sui miei simili e oggi il dramma che colpisce i giapponesi deve ricordarci quanto nella consapevolezza si situi la differenza -, mentre posso dichiararmi felice (a causa del mio buon umore, della mia ottima salute, della mia ricchezza esteriore e interiore), e insoddisfatto perché non mi accontento, pretendo senza sosta di più.
Ciò è lungi dall’implicare che non si riesca a indagare con lucidità, serietà, spessore psicologico, oltre che etico lo fa Daniel Haybron (The Pursuit of Unhappiness. The Elusive Psychology of Well Being, Oxford University Press, Oxford & New York, pp. 384) cosa comporti cercare felicità e infelicità, cosa implichi ritenere di conoscere, senza in effetti conoscere, il proprio stato psichico, cosa allontani il benessere materiale da quello emotivo, cosa distingua un buon contesto sociale dalla possibilità di scegliere individualmente quanto si preferisce. Di nuovo, però, occorre fare attenzione: Daniel M. Haybron, che analizza i motivi per cui gli esseri umani non riescono a conseguire condizioni di felicità non va confuso con uno dei tanti supponenti nouveaux philosophes (un nome a caso: Pascal Bruckner) che suggerisce banalmente che saremmo più felici se non insistessimo nel cercare la felicità. La nostra e quella altrui. Saremmo forse più felici se non insistessimo ad adoperarci per i giapponesi, sopravvissuti al terremoto e allo tsunami, minacciati e feriti dalle radiazioni, per prospettare loro una qualche felicità, che riesce a racchiudersi in un gesto, semplice e intimo, come il tenersi mano nella mano? I nouveaux philosophes non devono averci pensato. Neanche gli economisti, però, preoccupati ora più della borsa, di quanto non lo siano della felicità. Importa loro sapere che non vi è età per tenersi mano nella mano e donarsi così un eterno attimo di empatica sintonia nella disperazione?
Se, oltre la felicità, cercassimo la bellezza? Senza alcuna provocazione. Una bellezza che corrisponde a purezza, nitidezza, limpidezza. Un’immagine zen. Nulla di artificiale o artefatto, davvero. Una bellezza che si ritrova in donne e uomini speciali, nei loro corpi, nelle loro mani, nelle loro menti. Ma felicità e bellezza non si intersecano e sovrappongono, forse? Anche nella difficoltà di presentare di esse un’unica definizione capace di istanziarsi solo in alcune entità. Di più: vi sono forme di felicità e bellezza che non abbiamo ancora scoperto, ed è questa una delle ragioni per cui continuiamo a vivere, alla ricerca di queste forme, nella speranza di incontrarle.
È un luogo comune dire che felicità e bellezza stiano negli occhi di chi ci guarda. Dipende, però, da come veniamo guardate/i: come oggetti da possedere, o come persone da amare? Dipende anche da noi, se ci lasciamo guardare, come, da chi, se concediamo a chi ci guarda di guardarci negli occhi, per accedere al nostro mondo etico, al modo con cui ci recepiamo, camminando nel e per il mondo, mano nella mano. Dalla nostra interiorità dipende il nostro sguardo sul Giappone.
Nell’adeguarci agli stereotipi viviamo non di felicità e bellezze reali, bensì contraffatte. Gli stereotipi imprigionano ogni libertà, maschile e femminile, di esprimere noi stessi. Dagli stereotipi occorre fuggire, nonostante ce li portiamo avanti da secoli, limitandoci a rivisitarli: stereotipi semplicisti, incapaci di raffigurare la complessità degli esseri umani, di tutte le loro variegate bellezze, in tutti i loro complessi dolori. Quella terra lontana che a Oriente continua a tremare sta azzerando molti stereotipi (suoi, e, mi auguro, nostri), per restituirci la complessità sofferente degli esseri umani nelle loro individualità. C’è qualcosa di androgino in loro, in quei corpi sopravvissuti, in quei corpi morti, c’è il superamento della bellezza volgare (sempre che si possa dare una tale bellezza), un rifiuto determinato dello spettacolo e della spettacolarizzazione, e, di conseguenza, della differenza sessuale, insieme ad altre differenze, che si rivela non solo attraverso il corpo, ma soprattutto in qualità umane che nulla condividono con la vanità.
Detto questo, il nostro paese rimane forse uno tra i più ciechi: così come insiste sulla differenza sessuale, pare non distinguere tra la bellezza della ricerca scientifica che studia la natura, e quindi pure terremoti, tsunami, cure mediche (ricerca a cui i finanziamenti vengono negati) e alcune sue applicazioni tecnologiche (quelle che, per esempio, si concretizzano nelle centrali nucleari) su cui invece ha trionfalmente scommesso, e solo ora pare tatticamente «frenare». Il dolore dei giapponesi importa in effetti poco. A contare rimangono le logiche illogiche, indiscutibilmente strumentali, del potere. Un peccato, oltre che per la felicità, pure per l’ottimismo razionalista. Anche se Candide ou l’optimisme di Voltaire rimane una lettura appropriata per ognuno di noi, e, soprattutto, per chi parla e agisce senza alcuna istruzione competente. Senza pietas.
il Fatto 20.3.11
Monsignor Ravasi
“Ritroviamo il coraggio di parlare con gli atei”
Il ministro vaticano della Cultura “Una malattia chiudersi in un recinto”
di Marco Politi
Cattolici e atei, credenti e agnostici: faccia a faccia nella Parigi dei Lumi per un vertice inedito promosso dal cardinale Gianfranco Ravasi, ministro della Cultura vaticano. Partner del dialogo, che si svolgerà tra il 24 e il 25 marzo, sono l’Unesco, la Sorbona, l’Institut de France, il “parlamento dei sapienti” che riunisce le cinque grandi accademie francesi. È una pagina nuova nella storia della Chiesa, il tentativo di affrontare il Terzo millennio smettendola di considerare atei ed agnostici come nemici o handicappati spirituali.
“Anticlericalismo e Clericalismo” vanno superati, è l’opinione del porporato. Perché “chiudersi nel proprio recinto è una malattia sia per le religioni che per il mondo laico e per una scienza che pretenda di dare le risposte a tutte le domande”.
L’iniziativa è sorta per impulso di Benedetto XVI, che nel 2009 affermò a Praga che andava stimolato il confronto con i non-credenti e indicò nel Cortile dei Gentili dell’antico Tempio di Gerusalemme lo spazio, dove gli aderenti ad altre religioni potevano accostarsi al Dio Sconosciuto. Sul sagrato di No-tre Dame, dove si terrà uno spettacolo per i giovani, arriverà un videomessaggio del Papa.
Cardinale Ravasi, partite dalla Francia, l’Anticristo dell’Illuminismo.
Sì, ho voluto scegliere Parigi proprio perché è un vessillo di laicità, ma devo dire subito che ho trovato un mondo laico interessato a un confronto vero sui grandi temi.
Voglia di convertire?
Non è questo lo scopo. Non parliamo di evangelizzazione. L’obiettivo è il dia-logo. Il confronto fra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte dell’esistenza. Quando mi trovo di fronte a un ateo come Nietzsche o al discorso marxista o scientista, io ascolto, rispetto, valuto. Le religioni e i sistemi ideologici sono letture del reale e del cosmo ed è bene che si confrontino.
Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anitra zoppa?
Il credente e l’ateo sono ciascuno portatori di un messaggio, che è ‘performativo’ poiché coinvolge l’esistenza. Sono contento di avere come interlocutori a Parigi personalità come Julia Kristeva, semiologa e psicanalista agnostica o il genetista Axel Kahn.
Su cosa ragionare?
All’Unesco si discuterà tra credenti e laici sul ruolo della cultura ma anche delle donne nella società moderna, sull’impegno per la pace e la ricerca di senso in un mondo che è contemporaneamente secolarizzato e religioso. Alla Sorbona il tema è emblematico: Lumi, religioni, ragione comune. All’Institut de France il dibattito sarà su economia, diritto , arte.
Sperando di trovare punti di incontro?
Non interessano incontri o scontri generici né di accordarsi su una vaga spiritualità. E non si tratta nemmeno di un asettico convegno di matematica. Ciò che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative, ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali.
Lei ha detto recentemente che la Chiesa deve imparare ad abbattere i propri muri.
Spesso abbiamo un linguaggio eccessivamente connotato ed escludente. Dobbiamo riconoscere che esistono visioni diverse della realtà e che dal mondo laico ci vengono rivolte domande profonde rispetto alle quali non possiamo essere evasivi.
Quali questioni considera capitali?
Le domande sul senso dell’esistenza, sull’oltre-vita, sulla morte. E ancora, la domanda sulla categoria di verità.
C’è già nel processo a Gesù: cos’è la verità?
È qualcosa che ci precede, che è ‘in sé’? Oppure, come affermano i moderni, è l’elaborazione del soggetto secondo i differenti contesti?
Immagina Parigi come tappa di una ricerca sull’etica universale, quel Weltethos che il teologo Hans Kueng espose a Benedetto XVI a Castegandolfo dopo la sua elezione?
Penso piuttosto che si possa aprire il discorso, senza sincretismi, su ciò che significa Natura e legge naturale.
Vale la pena di indagare sulle radici ultime, che precedono le ragioni delle religioni e delle ideologie. Porre a confronto le differenti concezioni di essere ed esistere significa mettersi autenticamente a ricercare, senza pretendere di sapere a priori.
Troppe volte si è diffusa la sensazione che con l’arrivo del pensiero scientifico moderno sia stato segnato un anno zero, che annulli le elaborazioni della cultura precedente, specie quella greca e cristiana.
Invece?
Trovo tanti scienziati aperti a riflettere sulle categorie filosofiche dell’esistenza.
C’è un tema su cui si dovrebbe riflettere di più nella civiltà contemporanea?
La potenza del male. Bisogna esserne consapevoli. Gli atteggiamenti susseguenti possono essere diversi. Per Albert Camus, nell’assenza di Dio, la risposta finale è il suicidio. Per George Berna-nos, al di là di tutte le difficoltà e fragilità, la presenza divina non abbandona mai l’umano.
La Chiesa è pronta a fare i conti con la decristianizzazione in atto nel continente europeo?
Le categorie statistiche sono insufficienti per misurare il reale. Serve un metodo qualitativo per misurare dall’interno i comportamenti sociali e personali. Harvey Cox, che aveva scritto la ‘Città secolare’, ora sostiene di essersi sbagliato. Assistiamo ad un ritorno del Sacro e a una nostalgia del Religioso, che però non trova una risposta nel istituzioni religiose. Così si manifesta in varie espressioni: movimenti, New Age, devozionalismo, spiritualismo.
Qual via d’uscita propone?
Il cristianesimo deve tornare alle sue grandi risposte. Riuscendo a guarire il palato della società, deformato da una secolarizzazione che cerca spiritualità a basso profilo.
Non pensa che vi sia nella Chiesa ancora troppa paura della modernità?
Io nutro rispetto per la modernità, ma rivendico la legittimità di criticare una modernità superficiale, inodore, incolore, nemmeno immorale bensì a-morale. Come dice Goethe nel Faust: abbiamo dimenticato il Grande Maligno, sono rimasti i Piccoli Mascalzoni.
il Fatto 20.3.11
Dio, le mazzette e il dolore dei matti
di Riccardo Iacona
Gianni Prosperini, l’ex assessore ai Giovani e allo Sport della Giunta guidata da Roberto Formigoni, ha patteggiato una pena di 3 anni e 5 mesi per aver commesso il reato di corruzione e turbativa d’asta. In pratica si sarebbe messo in tasca una mazzetta di 430 mila euro, tutto estero su estero. Tutto dimostrato e provato: ci sono le carte, le prove dei passaggi dei soldi. Ma a Presadiretta Prosperini dichiara che lui ha patteggiato perché “quando sei dentro sei in una condizione di debolezza e non ti puoi difendere”. Insomma, bisognava uscire di prigione ad ogni costo! Angelo Graci, invece, sindaco di Licata, comune della provincia di Agrigento è indagato per corruzione perché avrebbe preso una tangente per autorizzare uno spettacolo musicale per la festa del Patrono. E per questo è stato addirittura messo agli arresti domiciliari ed esiliato per un anno fuori dal comune di Licata, nella sua casa ad Agrigento. Nel frattempo si è dimesso tutto il consiglio comunale. Eppure il sindaco non vuole mollare, contro tutto e contro tutti. Cambia assessori ogni tre mesi e continua a governare, come se non fosse successo nulla. “Dio è con me...” , dichiara ai microfoni di Presadiretta. Poi ci sono i tre ispettori della Asl che in provincia di Caserta, in cambio di mazzette non effettuavano i controlli sulla sicurezza del lavoro in cantieri e aziende della zona. Tra questi anche la Dsm Capua Spa, dove l’11 settembre scorso sono morti dentro una cisterna tre operai. E sentirete stasera le drammatiche e intense parole delle figlie di uno dei tre operai morti, Giuseppe Cecere. E poi Domenico Iannacone e Danilo Procaccianti hanno risalito la Penisola e scoperto la corruzione anche nella civilissima Parma e nel cuore del nord-est. Insomma, quello di stasera è il racconto di una malattia che si allarga, solo l’anno scorso, secondo la Corte dei conti, i casi di corruzione sono aumentati del 30 per cento, di una malattia che ci corrompe tutti, ci ruba soldi e futuro. Ma quella di stasera è una puntata speciale e per questo durerà fino a mezzanotte. Abbiamo preso questo tempo in più per farvi vedere per la prima volta come sono fatti gli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. La Commissione di inchiesta del Senato, grazie ai suoi poteri, è riuscita ad entrare senza preavviso in tutti gli Opg, portandosi una telecamera. Sono immagini mai viste, terribili. Descrivono luoghi di tortura, dove la gente vive dentro celle sporche, su letti lerci, dove si pratica la contenzione e si fa un abuso di psicofarmaci. In studio avremo il presidente della commissione Ignazio Marino che ci racconterà quello che ha visto e quello che si deve fare per chiudere definitivamente questi lager di Stato. Questa è anche l’ultima puntata di questa serie di Presadiretta che tornerà a settembre.
Corriere della Sera 20.3.11
Oggi si vota in Sassonia
L’«annus horribilis» di Frau Merkel
di Danilo Taino
Ogni giorno un nuovo test. Rischia di diventare un annus horribilis il 2011 di Angela Merkel. La cancelliera, sulle cui spalle stanno non solo la Germania ma anche la soluzione della crisi del debito in Europa, domani affronterà — con il suo partito, la Cdu — le elezioni per il Land della Sassonia-Anhalt. In partenza non era un appuntamento politicamente sensibile. Il guaio è che Frau Merkel ci arriva scossa. Questa settimana, in seguito all’emergenza atomica in Giappone, ha bloccato per tre mesi i piani di sviluppo delle centrali nucleari e ha fatto chiudere sette reattori sui 17 in attività. Ma metà dei tedeschi ritiene si tratti di una mossa non credibile, dal momento che la cancelliera-scienziata è una nota sostenitrice dell’energia nucleare. Poi, ha scelto di fare astenere la Germania nel voto che al Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha deciso la no-fly zone sulla Libia: al fianco di Russia e Cina. Ma la scelta sta provocando enormi critiche. In questa situazione, le elezioni nella Sassonia-Anhalt, un Land dell’Est, sono diventate un test politico. Se la Cdu riuscirà a confermare l’attuale maggioranza che guida — una Grande Coalizione con i socialdemocratici della Spd — bene. Ma se domani sera dovessero esserci i numeri per un governo tra la Spd e la Linke, la sinistra estrema, per la signora Merkel si tratterebbe di una sconfitta seria, soprattutto in vista di altre elezioni locali, tra sette giorni, nell’importantissimo Land del Baden-Württemberg, dal 1953 controllato dai cristiano-democratici ma oggi, secondo i sondaggi, in bilico. È che dall’inizio dell’anno la cancelliera passa da una crisi all’altra. A parte nucleare e Libia, c’è stato il ritiro della candidatura del banchiere centrale Axel Weber, sul quale Frau Merkel puntava molto, dalla corsa per la presidenza della Banca centrale europea; ci sono state le dimissioni per plagio del ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg; è arrivata la sonora sconfitta alle elezioni ad Amburgo. La signora Merkel continua a essere insostituibile nella politica tedesca: stress del genere possono però logorare anche le cancelliere d’acciaio.
l’Unità 20.3.11
Hina. Questa è la mia vita Storia di una figlia ribelle di Giommaria Monti e Marco Ventura pagine 304, euro 16,00 Piemme
Hina uccisa perché libera
di Flore Murard-Yovanovitch
È sepolta a Brescia, davanti alla pizzeria dove cercava di diventare libera e indipendente, la giovane pachistana Hina. Sgozzata dal padre a Sarezzo il 12 agosto del 2006, a colpi di 20 coltellate, perché desiderava vivere la propria libertà come voleva; seppellita una prima volta nella buca del giardino di casa, cosi lui l’avrebbe avuta sempre per sé, anche da morta.
Hina, questa è la mia vita è il racconto irrealmente vero, ad opera di due cronisti di razza, Giommaria Monti e Marco Ventura, dell’efferato omicidio che per mesi è stato la «prima pagina» dei media ed è diventato emblematico del «femminicidio» in Italia. Ricostruita senza infarciture né pietismi dal diario della ventenne, dalle pagine processuali e da decine di testimonianze e interviste: la vita di Hina, che voleva volare come farfalla. Portare i jeans e le magliette, ballare come le coetanee bresciane, amare chi le pareva e studiare. Costruirsi una propria identità.
A 17 anni, Hina si ribella al matrimonio combinato con un cugino mai visto, rifiuta le asfissianti norme di un Paese che non sente più suo: «sono musulmana ma non sono più pachistana, non voglio più esserlo. Non voglio neppure essere cristiana, sono italiana e basta». Ma la comunità di origine la addita e la rinchiude nel velenoso cerchio di pettegolezzi e rimproveri al padre, come una di «facili costumi» con «l’ombelico in vista», scavando piano il terreno del dramma. Un dramma dai risvolti bui e complicati. Consumato nel silenzio e la complicità torbida degli altri membri del clan, zii e cognati, tutti d’accordo che «questa» li svergognava; e che se non avesse accettato quell’estate stessa il ritorno in Pakistan, o di farsi «domare», si sarebbe cercata un'altra soluzione... premeditata. Neppure gli affetti e conoscenze del mondo intorno, i vicini, i premurosi carabinieri, i servizi sociali (forse fu sbagliata la scelta della «comunità di recupero», perché lei cercava una vita tutta sua), furono da riparo. Fragili tasselli nella spirale verso la tragedia finale. Persino Beppe Tempini, il suo fidanzato, presentiva che la morte della «sua bambola» era avvenuta per mano del pater familias e che lei giaceva nel giardino di casa. Hina stessa annotava nel suo diario: «Ho paura del papà, qualcosa un giorno pure me lo farà, ma io non torno indietro». Pure la madre Bushra, ambivalente e sottomessa, si era sognata il dramma. Come se la fine fosse stata da sempre, nei meandri dell’inconscio, «intuita» o saputa.
I media, in coro e troppo presto, accreditarono l’eccitante versione dell’«esecuzione islamica», dello «sgozzamento rituale e religioso». Dietro il motivo del delitto, invece, non c’era né Corano, né soltanto un folle «onore» da salvare. Ma pazza e assoluta violenza patriarcale, quella che colpisce ancora centinaia di donne nel mondo e in Italia dove, dopo Hina, ci fu ancora Sanaa e le altre, uccise da mariti, fratelli ed ex fidanzati tra le mura domestiche.
Da questo importante libro-inchiesta spuntano anche nuovi particolari: i ripetuti abusi (addirittura a sfondo sessuale, come Hina aveva denunciato prima di ritrattare) di un padre-padrone che considerava la figlia una sua esclusiva proprietà: la sua cosa. Ben poco c’entra l’origine «etnica» o il «fondamentalismo islamico», come si è troppo detto in un dibattito politico pronto sempre a sfociare in vere campagne sicuritarie per la «scarsa integrazione» di queste comunità chiuse. Il problema semmai è la universale malattia millenaria di un patriarcato che, sotto ogni cielo, e alleandosi con la religione di turno, esercita la sua violenza sulla donna libera. E la «annulla», fino a farla «sparire». In una buca.
Corriere della Sera 20.3.11
La storia di Elsa
Lontana dalla maternità, creò la vita nei romanzi Al suo addio Moravia venne con un’altra donna
di Livio Garzanti
Elsa Morante, la maggiore scrittrice del nostro Novecento, viveva nell’incanto della realtà che portava in sé, e dava una luce di magia alla sua scrittura. Creava nei personaggi la ricchezza di una profonda, dolcissima comprensione femminile. Lei, lontana da ogni maternità, creò Useppe nella Storia, forse perché la mancanza di ciò che non si è avuto fa comprendere il vero di quanto l’esperienza non ci ha dato nell’incontro con la realtà. Ricordo l’amore, quasi di rabbia, di mia madre per me; non riusciva a perdersi nella meraviglia dell’immaginario perché c’ero io, l’oggetto, ed ero ancora io a non lasciarle libera la visione del sogno. Elsa, con Useppe, come in una sorta di visione materna giunse alla conoscenza di quella dolce e tenera carnalità infantile che trascende i limiti dell’esperienza diretta del vivo. Certo fu povero il matrimonio della giovane Morante con Moravia, sempre attento, con la sua mente fredda e senza trascendenze, nel guardare le cose della vita. Elsa, come Alberto, possedeva un’intelligenza con sale ebraico, ma incarnata in una donna del nostro Sud, dove i sogni portano con sé le cose. La sua presenza fisica sembrava non volersi definire nel ricordo di un corpo morbido, infantile. In uno dei nostri primi incontri a Roma, a un tavolino di piazza del Popolo, comparve con lei in attesa, timida, piccola e magra, una donnina che Elsa mi presentò con una brevissima frase affettuosa: «È una lesbica» . Più volte mi chiesi cosa vedesse nell’omosessualità, o se la sentisse con tenerezza materna. Aveva la sapienza dei «semplici» che vivono nella loro verità lontana, in quella dimensione dove anche il suicidio entra nella favola del corpo che si libera da se stesso. Lo aveva tentato, ma riuscirono a destarla quando già si credeva tra le ombre. Era il tempo felice dei barbiturici. «Sei il solo che è venuto» , mi salutò non appena il suo occhio incerto mi riconobbe in fondo alla stanza della piccola clinica romana. Era la sua voce di protesta che ben conoscevo, asprigna, un po’ gracidante: «Non viene mai nessuno» . Era il lamento per il silenzio delle amicizie di un carattere solitario. Era arrabbiata e rattristata perché Moravia aveva venduto— disse— «la mia macchina» . Non potevo nemmeno immaginare che Elsa guidasse. Due grandi sacche di orina giallo rossicce pendevano ai due lati del letto, per l’ultimo viaggio. Le sue parole si fecero rade, lo sguardo si allontanava da me e la vedevo sorridere di un sorriso gentile, quasi scherzoso. Non mi fu immediato capire a chi si volgesse. Non l’avevo quasi notata all’arrivo, piccola, attaccata alla spalliera al fondo del letto. Era quell’antica donnetta di casa che aveva tratto Elsa dal sonno quando, già tra le ombre, vedeva la quiete della morte. Uno scherzo, un sortilegio. Così, in silenzio, comunicavano tra loro. Io ero in visita e presto le lasciai sole. Tornai il giorno dopo, la trovai sulla sedia a rotelle. Scese con me nel piccolo giardino della clinica a prendere fiato, a fissare il sole giallo dell’autunno come ultima stagione di vita. Per i funerali, alla chiesa di piazza del Popolo, c’erano meno di venti persone. Ultimo, sbarcò da un’automobile Moravia, elegante, accompagnato dalla nuova giovanissima Carmen Llera. Un tic nervoso gli scuoteva le spalle in controcampo con la sua zoppia. ©
Corriere della Sera 20.3.11
Sorridere è un bene. Anche quando è ipocrita o forzato
di Gillo Dorfles
A ccade spesso— non sempre— che, a un nostro sorriso nel chiedere un favore, nel domandare la strada, ci si veda rispondere con un analogo sorriso. Anzi— senza troppa malignità— questa reciprocità di atteggiamenti, e forse anche di sentimenti, è alla base di tutta la nostra vita di relazione. Non solo ma, se non esageriamo, è il nocciolo di tutta la nostra vita comunitaria ed è, addirittura, il primo embrione di quel do ut des che costituisce il piedestallo dei nostri rapporti interumani (senza giungere a sostenere che è anche — in senso peggiorativo — il principio base d’un rapporto «mafioso» : «Ti faccio un piacere perché tu faccia altrettanto nei miei riguardi!» ). Naturalmente, senza volere approfondire il problema, ahimè quanto più serio, della mafia, non c’è dubbio che — al di là del vero e proprio atteggiamento mafioso — esiste una «Stimmung» (un’atmosfera patetica) che entra in gioco anche senza nessuna malignità o ritorsione, soltanto come aspettativa di un modo di rispondere del prossimo secondo una istintiva sensazione di «spettanza» circa la restituzione d’un favore e persino d’un sorriso che si rivela anche nelle più futili situazioni, ma che tuttavia può giungere all’esplodere di una totale incomprensione e di offensa, solo per il non aver rispettato la reciprocità del comportamento. Ma anche a prescindere da questa patologica suscettibilità nei propri rapporti, mi sembra davvero decisivo sottolineare il fatto che un simile scambio di atteggiamenti patetici avvenga più spesso di quanto non si pensi, per un innato istinto. È ovvio — si dirà a questo punto — si tratta dei soliti «neuroni specchio» ; ossia di quei neuroni che vengono attivati alla vista d’una azione da parte del prossimo e che sono indotti a copiarla proprio in seguito all’attivazione di quella area corticale sede di queste strutture neuronali, messe in luce come è noto (e come ebbi già a ricordare su queste colonne) da parte di una prestigiosa équipe di neuroscienziati pavesi. Ebbene; è forse un po’ triste riflettere sul fatto che— se non fosse per merito di questo circuito neuronale imitativo — non avremmo la soddisfazione di veder aleggiare, sul volto del nostro interlocutore, quel benevolo sorriso che corrisponde appunto e imita istintivamente quello stesso da noi messo in atto per invogliare a rispondere a una nostra richiesta o comunque a trattarci benevolmente. La maggiore o minore cordialità e affabilità che riscontriamo nel prossimo è uno dei sintomi più indicativi circa i nostri rapporti con lo stesso e anche del modo per giudicarlo tanto più se si tratta di un «forestiero» e non di un connazionale. Questo fatto, tra l’altro, spiega molti dei nostri giudizi, spesso a vanvera, a proposito di popolazioni straniere solo in base a questi episodi di mancata reciprocità mimica. E queste situazioni tendono ancora una volta a farci riflettere su quanto spesso il nostro comportamento venga indirizzato in maniera sbagliata o insufficientemente controllata nel nostro approccio col prossimo. Molti degli equivoci nelle interferenze tra vecchi e giovani, tra datori di lavoro e impiegati, ma anche tra familiari o fidanzati... sono viziati da una insufficiente «consapevolezza» del proprio comportamento di fronte all’Altro: un comportamento che non sempre dovrà essere spontaneo e automatico; quanti, dei sorrisi che abbiamo suscitato nel prossimo (in seguito ai nostri sorrisi) erano genuini? E quante altre volte, per contro, non ci siamo resi conto della benevolenza altrui solo perché il nostro interlocutore non atteggiava al sorriso il suo volto? In definitiva: non fidiamoci troppo dei neuroni specchio (anche se, per dargli più peso, li chiamiamo «Spiegelneuronen» ) e delle loro azioni e reazioni; ma invece sforziamoci, non sempre ma alle volte, di sorridere al nostro prossimo anche se non ne abbiamo voglia. Triste doverlo ammettere: ma credo che molte delle persone più amate e vezzeggiate, lo devono ai loro — più o meno— falsi sorrisi.
La Stampa 20.3.11
“Una targa alla Ferida diva del Ventennio” E Milano si spacca
Un quartiere vuole ricordare l’attrice fucilata nel ’45
di Paolo Colonnello
Fu giustiziata dai partigiani perché considerata amica dei torturatori nazifascisti
Lei era bella, prosperosa, di una bravura istintiva che l’aveva portata a diventare una delle attrici più note del Ventennio, interpretando pellicole a fianco di Amedeo Nazzari e riscuotendo un successo che superò anche quello delle dive dell’epoca, la Calamai, la Durante, la Valli. Luisa Ferida però passò dalla leggerezza sbarazzina dei «telefoni bianchi» alla tragedia del sangue di Salò, perdendosi negli orrori del crepuscolo fascista e dei torturatori della banda Koch. E quando nell’aprile del 1945 si regolarono i conti, l’attrice, appena trentenne, dopo qualche giorno di prigionia e un processo sommario, venne scaricata da un camion davanti ai mitra dei partigiani della Brigata Pasubio in via Poliziano e uccisa, incinta di poche settimane.
Ora di lei si torna a parlare, in clima preelettorale, perché il Consiglio di Zona 8, a maggioranza Pdl, ha votato una mozione per dedicarle una targa: diva del Ventennio fucilata dai partigiani all’indomani della Liberazione. Un po’ troppo, forse, per un personaggio dai contorni ambigui come la Ferida, la cui storia, segnata dal rapporto con il suo compagno e collega Osvaldo Valenti, raccontata al cinema qualche anno fa da un film di Marco Tullio Giordana, meriterebbe un approfondimento se non altro per l’attività comprovata di collaborazionismo.
Subito sono insorte le sinistre e le associazioni dei partigiani: «Le targhe si dedicano a chi è stato un esempio positivo e Luisa Ferida frequentò sempre Villa Triste, la villa delle torture, pur sapendo tutto quello che vi avveniva», osserva Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani. Si dice «sconcertato» anche il candidato sindaco della sinistra, Giuliano Pisapia: «La targa in memoria di Luisa Ferida è un’offesa alla città di Milano, Medaglia d’oro della Resistenza. La delibera di centrodestra della Zona 8 è uno sfregio, un’insopportabile provocazione, l’ultimo di una serie di tentativi di ribaltare la storia. Milano non merita questa vergogna. Chiedo al sindaco Moratti di intervenire immediatamente bloccando la delibera».
Ma il sindaco prende tempo: «Quando si ha la responsabilità di essere sindaco le decisioni vanno sempre molto ponderate, quindi stiamo valutando e vedrò tutti i dettagli con accuratezza». I voti in questo periodo sono importanti, anche quelli di chi vorrebbe riscrivere la storia. Quando nel settembre del 1943 lasciò Roma per Venezia, Luisa Ferida lo fece soprattutto per amore, per seguire il destino del suo uomo, Osvaldo Valenti. Che aveva cominciato a frequentare i personaggi più biechi della Repubblica di Salò, entrando nella Decima Mas e diventando amico del criminale e torturatore Pietro Koch, l’aguzzino di «Villa Triste», come i milanesi avevano soprannominato Villa Fossati, un tempo sede di riunioni patriottiche e ora, nella plumbea stagione del crepuscolo fascista, attrezzata a luogo di sadismo, con cinque stanze di tortura.
Anche la Ferida, diventata cocainomane come il suo uomo, si vedeva ogni tanto varcare la soglia di Villa Triste. Nacque così la leggenda che la voleva ballare nuda davanti ai torturati sanguinanti, per eccitarli e spingerli a chissà quali confessioni. Ma non era vero, come accertò dopo la guerra un’inchiesta dei carabinieri per rispondere alla richiesta della madre di lei di percepire una pensione. La fama di «coppia maledetta» però, ormai li stava accompagnando, e non del tutto a torto vista la stretta amicizia con il «dottor Koch». I due attori vennero giustiziati su ordine, si disse allora, di Sandro Pertini. Ma anche per questa decisione non venne mai trovata alcuna prova.
Corriere della Sera 20.3.11
Ho giustiziato Eichmann. Mai più
Non volevo. Il suo sangue mi schizzò addosso: ho avuto incubi per un anno Sono diventato un religioso, oggi macello polli e pecore secondo la tradizione
di Francesco Battistini
Come vi capivate, Shalom? «Con le mani. Linguaggio del corpo. Lui non parlava yemenita e io non sapevo il tedesco. Allora facevamo così — gesticola nell’aria —, perché non avevamo altro modo. Alla fine, lui capiva me e io capivo lui» . E com’è che toccò proprio a te? «Sono yemenita, la Shoah è una cosa soprattutto degli ebrei europei: all’inizio non sapevo nemmeno chi fosse, Eichmann. L’avevo scoperto solo dopo. Un giorno il comandante venne da me, si chiamava Merhavi, e mi chiese: "Shalom, ti va di schiacciare il bottone"? È il più grande dei comandamenti: "Cancella la memoria di Amalec", di chi vuole sterminare gli ebrei... Però io dissi che non volevo. C’era qualcuno che se la sentiva, io ero l’unico che non voleva. Tirarono a sorte. E il comandante mi disse: "È un ordine. La sorte ha detto che tocca a te. Lo farai tu"» . La macelleria del boia è uno sterrato sotto l’ombra di due eucalipti e d’una lamiera ondulata, periferia di Holon, la città dei Samaritani. Un caldo pomeriggio, ci sono le donne in fila, i polli da strozzare, due occhi di capra su un tavolo e un amico che scherza: «Sembrano gli occhi di Eichmann, eh?...» . La polvere, i gatti, un gancio per appendere e dissanguare. A Shalom Nagar, certi animali viene più facile scuoiarli: «Le capre sono sfacciate. Le pecore, no: loro sono innocenti...» . Distante, discreta, una macchina da presa e una piccola troupe: chi viene qui sa di non trovare solo un religioso yemenita che macella carne come kasherut comanda. Ogni tanto, qualche padre passa in auto e indica dal finestrino: guardate quel vecchio, ragazzi, quel piccoletto col capo coperto e i cernecchi bianchi, è il secondino che ha impiccato Adolf Eichmann e vendicato milioni d’ebrei. Il boia del Boia è stato zitto quasi cinquant’anni: «Mi avevano vietato di raccontare questo segreto, non lo sapeva neanche mia moglie» . Ora ne hanno fatto il protagonista d’un documentario di 62 minuti, The Hangman. L’hanno premiato al Festival di Haifa, magari andrà a quello di Locarno. Lui non è abituato a tanta curiosità: «Alla prima venivano a stringermi la mano, a salutarmi, ero un po’ disorientato. Non immagino che cosa sarà dopo l’ 11 aprile...» . L’ 11 aprile 1961, a Gerusalemme, cominciò il processo Eichmann: la tv israeliana, il cinquantenario, lo celebrerà trasmettendo la storia di Shalom. «La sua vita m’è sembrata subito simbolica — racconta Netalie Braun, 33 anni, regista telavivi che ha filmato il boia per trenta mesi, l’unica che può girargli le domande dei giornalisti —. Voleva raccontarsi da tempo, ma all’inizio aveva paura di qualche vendetta neonazista. Siamo diventati amici. Quest’uomo è un Forrest Gump: uno che per caso s’è trovato in una storia più grande di lui» . La banalità del boia non si trova nei reportage che Hannah Arendt scrisse al processo. E di lui non s’è granché parlato al convegno che Gerusalemme ha appena dedicato al «punto di svolta» , come lo chiama Tom Segev, l’evento che mezzo secolo fa cambiò per sempre Israele: «Prima di allora — dice lo storico — la Shoah era un tabù. Commemorazioni pubbliche, certo, ma un dolore vissuto in privato. Il processo fu una terapia, la catarsi che trasformò tanti traumi privati in un trauma collettivo. L’Olocausto diventò un elemento fondante del nuovo Stato e dell’identità israeliana. Questo non significa che la terapia servì a chiarire tutto. Su Eichmann e su altri criminali nazisti, ci sono migliaia di documenti che la Germania non si decide a rendere noti. Perché? Forse per coprire altre responsabilità. Potremmo fare una domanda simile al nostro Mossad: tutti sanno come fu catturato Eichmann in Argentina, ma che sappiamo dei fallimenti? O del perché non s’è mai riusciti a processare uno come Mengele?» . Nella prigione di Ramla, dove per sei mesi Shalom fece la guardia al general manager della soluzione finale, domande così non si facevano. «Lui era il male racconta il boia— ma si sa com’erano i tedeschi. Dicevano che non ci sarebbero stati arabi o ebrei nel mondo, i bastardi e poi si mostravano così puri, così santi nelle loro azioni quotidiane... Eichmann leggeva tanto, mi diceva sempre "gracias"in spagnolo. L’accompagnavo al bagno e lui stava attento a non farmi sentire la puzza, a lavarsi le mani. Non avessi saputo chi era, l’avrei preso per un santo!» . Uno scrupoloso senza scrupoli, l’ha descritto la studiosa tedesca Irmtrud Wojak. «A sorvegliarlo eravamo in 22, divisi in cinque stanze. Yemeniti, marocchini. C’erano anche tre ebrei europei, ma a loro non era concesso d’entrare. Io stavo nella sua cella, assaggiavo i suoi cibi. La paura era che l’avvelenassero. "Perché devo assaggiare io?". Chiedevo al comandante. Rideva: "Se perdiamo uno yemenita non è una gran perdita. Ma se perdiamo lui... C’è un processo internazionale". Ci stavo io anche perché ho sempre avuto compassione dei carcerati. Non ne ho mai picchiato uno. Si sa: se ti prendi cura di qualcuno, alla fine un po’ t’affezioni» . La pietà della vittima per il carnefice, il giorno in cui schiacciò il bottone, divenne terrore. «Non avevo mai visto un uomo impiccato. Avevo 26 anni, che ne sapevo? Ero davanti a lui. Ho visto la sua faccia bianca, gli occhi fuori. Grandi, fissi, come se mi guardasse. Anche la lingua era fuori, insanguinata. Chiesi d’allontanarmi, ma il comandante disse no: "Non è un gioco, tiralo su e levagli il cappio". Tremavo. Non sapevo che avesse aria nello stomaco, che potesse parlare ancora: è come con una radio, quando le stacchi la spina e per qualche secondo continua a funzionare... Eichmann era impiccato eppure biascicava ancora parole! D’improvviso, l’aria dello stomaco gli uscì col sangue. Mi soffiò in faccia. Pensai: "Oh no, sta per mangiarmi!". Quando lo portammo alla fornace, per bruciarlo e cospargere le ceneri in mare, stavo male. Mi fecero accompagnare a casa. Mia moglie mi vide, ero tutto sporco di sangue. "Ma dove sei stato?". Mi chiese. Lo sentirai fra qualche ora al notiziario...» . Il punto di svolta d’Israele fu il non ritorno per Shalom. «Ho avuto un anno d’incubi: mi ero cosparso del suo sangue, questo è il punto. È da lì che sono diventato religioso. E ho cominciato a sentirmi un po’ meglio» . Il boia ha avuto altri lutti, gli è morto un figlio di cancro. L’hanno mandato a fare la guardia nella prigione di Hebron e pure lì, Forrest Gump, è capitato nel mezzo della strage di Baruch Goldstein, il colono ebreo che negli anni 90 massacrò decine di palestinesi mentre pregavano. «Fu un’altra prova dura. Non me la sentii di stare in un posto del genere. Vedevo le guardie che la notte picchiavano i detenuti: come siamo diventati crudeli, anche noialtri. Io avevo pietà dei miei carcerati, anche se erano terroristi. Gli arabi sono stati creati pure loro a somiglianza di Dio. Sono un popolo, hanno un’anima. Proprio come noi. E la legge ebraica dice che non devi uccidere. Non dice: non devi uccidere Mosè o Maometto. Dice che non devi uccidere. E basta» . Per la regista Netalie, il macellaio di Holon è «l’esempio di che cos’è oggi il buon ebraismo: Israele ha bisogno di questo tipo di persone» . Quando va in sinagoga, in questi giorni di Purim, Shalom ascolta il Libro di Ester. C’è la storia di Mordechai, il carnefice che alla fine diventa vittima: «Se un giorno mi chiamano e mi dicono che hanno appena condannato a morte Demjanjuk, quell’altro nazista che stanno processando, la risposta ce l’ho già: ne ho avuto abbastanza di Eichmann, grazie. Scordatevi di Demjanjuk. E dime. Questa cosa, io non la faccio più» . (Ha collaborato Ariela Piattelli)