l’Unità 4.2.11
Bersani attacca: «Colpo di mano» E su Ruby «voto umiliante»
Positiva, secondo il leader dei Democratici, la compattezza delle opposizioni che sia in Aula che in Commissione hanno votato no. Ma la tenuta è a rischio, con l’Idv che invoca la piazza e l’Udc corteggiato a destra
di Simone Collini
Un grave «colpo di mano» e una «vicenda umiliante». Pier Luigi Bersani tira le somme alla fine di una lunga giornata che rende ancora più urgenti le dimissioni di Berlusconi e i passaggi per arrivare a un nuovo governo. Non c’è solo la forzatura istituzionale sul federalismo, con il voto espresso in un organismo parlamentare che di fatto viene annullato poche ore dopo con un atto del governo: «Un inaudito schiaffo al Parlamento dice il leader del Pd una lesione senza precedenti delle prerogative delle commissioni parlamentari fissate per legge. Un vero atto di arroganza. Il governo Berlusconi-Bossi, dopo tanta propaganda, finisce per approvare con un colpo di mano il federalismo delle tasse». C’è anche una Camera usata per consentire al premier di sfuggire ai giudici, come spiega Dario Franceschini dopo aver chiesto nel suo intervento le dimissioni di Berlusconi «per il bene dell’Italia»: «Contro un parlamentare, cioè l’onorevole Berlusconi, si può andare a processo senza autorizzazione a procedere dell’Aula. Contro un ministro, davanti al tribunale dei ministri, invece, si può procedere soltanto con l’autorizzazione». Che non ci sarà, come fa prevedere anche il voto sul Ruby-gate.
Bersani guarda al fatto positivo che tutte le forze di opposizione hanno compattamente votato contro, sia in Commissione bicamerale sul federalismo che in Aula sul rinvio delle carte ai magistrati milanesi: «Il voto del 14 dicembre non è stato inutile». E nonostante sia stato certificato che a Montecitorio il centrodestra è a quota 316 deputati (due in più rispetto al voto di fiducia di due mesi fa) il leader del Pd dice di non credere alla tenuta della maggioranza: «Siamo alle tecniche di sopravvivenza». Racconta ai giornalisti che incrocia nel Transatlantico subito dopo il voto sul caso Ruby: «Mentre si discuteva e si votava avevo un solo pensiero, l’umiliazione di un Paese che con quello che succede in Egitto vota su questo. È una vicenda veramente umiliante. E se si compra un voto in più o in meno la sostanza non cambia. Ho ascoltato argomenti veramente avvilenti». Dello stesso stato d’animo Rosy Bindi, che parla di un voto che «rende vergogna all’Italia, perché il presidente del Consiglio si serve ancora una volta della sua maggioranza per non andare dai giudici, sebbene sia sospettato di reati gravissimi».
Il problema è che l’obiettivo che si sono prefissate le forze di opposizione, cioè costringere il premier alle dimissioni, appare ancora molto difficile da raggiungere. Anche il tentativo di Bersani, subito dopo il voto sul federalismo, di aprire un tavolo negoziale con la Lega a fronte di un passo indietro del premier («in queste condizioni il federalismo non si fa, Berlusconi faccia un passo indietro e possiamo discutere di federalismo cominciando dalle proposte che noi abbiamo avanzato») cade nel vuoto di fronte a un asse Pdl-Lega rinsaldato dallo scambio Ruby-decreto sul federalismo.
OGGI L’ASSEMBLEA NAZIONALE
A rischiare a questo punto è anche la tenuta delle forze d’opposizione, con Di Pietro da una parte che punta a «manifestazioni di piazza che blocchino questa deriva antidemocratica» e l’Udc dall’altra che riceve avances anche da parte della Lega. Bersani lo sa e all’Assemblea nazionale di oggi e domani lancerà un appello alla «riscossa del Paese» (dedicherà più di un passaggio del suo intervento alle donne, come protagoniste in grado di smantellare il predominio culturale del berlusconismo), presentando il «progetto» del Pd come contributo per costruire insieme alle altre forze d’opposizione (Terzo polo e non solo) un vero e proprio programma di governo. La precondizione per fare del Pd il polo attrattivo a cui pensa Bersani è però che il partito si dimostri unito. E se c’è l’incognita su come si muoveranno i componenti di Napoli dell’Assemblea (Bassolino chiede di proclamare Cozzolino vincitore e Ranieri va all’attacco), è certo che l’area Marino presenterà diversi ordini del giorno per chiedere un pronunciamento sul biotestamento (materia che si vota alla Camera il 21 e Fioroni ha già annunciato che per lui vale la libertà di coscienza), sulla sanità, sul nucleare e sui diritti civili.
Corriere della Sera 4.2.11
Nel progetto c’è Vendola ma non Di Pietro. D’accordo Veltroni
di Maria Teresa Meli
ROMA — E ora che Silvio Berlusconi per l’ennesima volta ce l’ha fatta, il Partito democratico si interroga sulla propria strategia. Che fare? Andare avanti così o cambiare linea? «Innanzitutto — osserva Beppe Fioroni — dovremmo smetterla di caricare di grandi significati politici i voti che vengono dati alla Camera, visto che il premier ha la maggioranza e che di fronte a tutte queste sconfitte parlamentari i nostri elettori si scoraggiano. Poi dovremmo smetterla di seguire pedissequamente il soviet supremo delle Procure» . Questo per l’oggi. Ma c’è il domani e la non ancora sopita speranza del Pd che si vada alle elezioni anticipate. Temute e demonizzate fino a un mesetto fa, ora le consultazioni sono diventate per i dirigenti del Partito democratico un oggetto del desiderio. Il cambio di passo nasce dai quasi quotidiani contatti con il terzo polo. Negli ultimi tempi Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani si sono andati convincendo che la santa alleanza anti-Berlusconi non è più una chimera, né è soltanto lo spauracchio con cui fare pressioni sul presidente del Consiglio. Pier Ferdinando Casini questa volta ha lasciato aperta la porta e non ha detto di no all’ipotesi di andare assieme al Pd alle elezioni. È una strada percorribile, ha spiegato ai colleghi dell’Udc e agli ambasciatori del Partito democratico. Raccontano che la svolta del leader centrista sia nata dopo che, con l’esplodere del caso Ruby, la Conferenza episcopale ha cambiato atteggiamento su Berlusconi. Ora il primo obiettivo di Casini è quello di fare fuori— politicamente, s’intende— il Cavaliere. E se per questo bisogna imbarcarsi in un’avventura con il centrosinistra, il numero uno dell’Udc è disposto a farlo. «Vi avevo detto che piano piano Casini si sarebbe convinto» , è il ritornello che in questi giorni un Massimo D’Alema soddisfatto ripete nelle sue conversazioni con deputati e senatori del Pd. E Gianfranco Fini? Potrebbe mai l’ex leader di Alleanza nazionale finire in uno schieramento di questo tipo? Al Partito democratico sono convinti di sì: il presidente della Camera non si staccherà da Casini, farà quello che fa lui. Dunque la sortita di D’Alema, che ha rilanciato l’intesa con il terzo polo in un’intervista a Repubblica la settimana scorsa, non era un’uscita estemporanea. Era il frutto dei contatti che si sono intensificati in questi ultimi tempi. Da questa alleanza resterebbe fuori il solo Di Pietro: «C’è il rischio che prenda più voti, ma non è un problema» , ha spiegato il presidente del Copasir. Non è un problema perché nei due sondaggi commissionati di recente dal Partito democratico uno schieramento che va da Fini a Vendola, passando per Bersani e Casini, avrebbe ottime probabilità di successo sulla coalizione formata da Pdl e Lega. Insomma, al Pd sono assolutamente sicuri che con la santa alleanza la vittoria sarebbe scontata. Tant’è vero che anche gli esponenti della minoranza interna, i cosiddetti Modem di Walter Veltroni, Paolo Gentiloni e Beppe Fioroni hanno deciso di non mettere i bastoni tra le ruote alla maggioranza. Pure loro sono pronti a giocare la partita politica secondo questo schema. «Del resto — spiegava l’altro giorno Gentiloni a un compagno di corrente— se andassimo alle elezioni con questa formazione Berlusconi perderebbe di sicuro. Ed è per questo motivo che lui non vuole assolutamente il voto anticipato. E per la stessa ragione non lo vuole più nemmeno la Lega» .
il Riformista 4.2.11
Su diritti civili è guerriglia
Marino all’assemblea Pd
Non solo Pacs. L’area di minoranza guidata dal senatore-chirurgo prepa- ra la sorpresina: quattro ordini del giorno da presentare in sede plenaria: «Cop- pie di fatto e biotestamento sembrano inesistenti per noi. Così salta tutto».
di Ettore Colombo
qui
http://www.scribd.com/doc/48162959
il Riformista
Le primarie di coalizione sono un rito in cui il Pd mostra autolesionismo puro
di Pietro Larizza
http://www.scribd.com/doc/48162959
l’Unità 4.2.11
Assemblea Fiom La confederazione respinge la richiesta di mobilitazione di tutti i lavoratori
La minoranza riformista delle tute blu: «Servono passi verso gli altri sindacati e Confindustria»
Cgil: «Lo sciopero generale non è all’ordine del giorno»
di Luigina Venturelli
All’assemblea nazionale della Fiom in corso a Cervia, la confederazione di Corso d’Italia respinge le ulteriori richieste di piazza delle tute blu: «Lo sciopero generale non è all’ordine del giorno della Cgil».
Niente sciopero generale. Almeno per il momento, «la questione non è all’ordine del giorno della Cgil». Nonostante le insistenze della Fiom e dei tanti lavoratori metalmeccanici che si sono mobilitati nei giorni scorsi per protestare contro gli accordi separati della Fiat, contro la strategia di Federmeccanica per colpire il contratto nazionale, e contro la mancanza nel paese di una politica industriale degna di questo nome.
UNA DIVERSA SCELTA STRATEGICA
Da settimane ne discutevano a distanza le tute blu e la confederazione di Corso d’Italia, tra richieste di piazza e reazioni prudenti, spesso accolte da contestazioni, come quelle rivolte a Bologna alla segretaria generale Susanna Camusso, rea di non aver affrontato l’argomento nel suo discorso al la manifestazione del 27 gennaio.
Ieri, infine, all’assemblea nazionale della Fiom in corso a Cervia, il botta e risposta in termini espliciti e motivati. Davanti ai funzionari e delegati della categoria, il leader Maurizio Landini ha ribadito le molte ragioni a sostegno di una mobilitazione generale di tutti i lavoratori italiani: la disoccupazione giovanile al 30%, gli attacchi alla Costituzione e alla democrazia, e un governo che «sarebbe utile fermare» per uscire dall’attuale crisi economica. Insomma, «non si tratta di problemi dei metalmeccanici, ma di tutti i lavoratori». Per questo la Fiom chiede lo sciopero generale, e «non c’è nessuno in Italia, se non la Cgil, che possa farlo».
Ma la scelta presa dai vertici di Corso d’Italia è per ora diversa. All’assemblea delle tute blu l’ha spiegata con chiarezza e determinazione il segretario confederale Vincenzo Scudiere: «La Cgil sta cercando un ruolo che ci sposti dall’angolo in cui siamo, noi vogliamo fare l’accordo sul tavolo della crescita e sulla rappresentanza. L’accordo va fatto prima con Cisl e Uil, poi con Confindustria per evitare che si arrivi poi gli accordi separati». Definito l’obiettivo, stabilita la strategia: «Se dichiariamo lo sciopero generale non andiamo avanti neanche di un millimetro su questa strada. È interesse dei lavoratori italiani che si ricostruisca una posizione unitaria».
Sulla stessa linea anche Fausto Durante, leader dell’ala riformista delle tute blu: «Dobbiamo avere il
coraggio di scelte difficili e dolorose per riconquistare il contratto, passi verso gli altri sindacati e verso le associazioni datoriali, perchè difficilmente da soli avremo la capacità di cambiare il quadro di fronte a noi».
Alla Fiom che oggi pomeriggio chiuderà l’assemblea nazionale senza una piattaforma da approvare, ma lanciando una discussione interna sulle sfide all’orizzonte dell’organizzazione spetta ora tirare le somme sul da farsi. C’è da «riconquistare il contratto nazionale» disdettato da Federmeccanica. E c’è la vertenza Fiat «ancora aperta» da affrontare «con tutte le iniziative più opportuno». I toni di chiusura del Lingotto non mostrano variazioni. Anche ieri Sergio Marchionne ha ribadito: «Non posso fermare Chrysler per aspettare altri. È impossibile».
l’Unità 4.2.11
Camusso: tra noi, Cisl e Uil la rottura non è sindacale è sui rapporti con il governo
Botta e risposta tra Fassina (Pd) e Camusso (Cgil) sull’unità sindacale. Per il primo «la politica non può aspettare» di fronte al disgregarsi della rappresentanza. Per la leader sindacale oggi a dividere è proprio la politica
di Bruno Ugolini
«Le rotture, una volta, erano di natura sindacale. Così quella sulla scala mobile, nel 1984. Così nelle dispute sull’accordo del 1992, sulla contrattazione. Oggi la rottura è sul governo, sulla sua politica». Sono parole chiare e pesanti di Susanna Camusso. Siamo alle battute finali di un convegno organizzato nell’ambito della Mostra romana dedicata al Pci. Il tema riguarda il passato, il rapporto tra i comunisti e l’unità sindacale. Sfilano così, negli interventi di Giorgio Benvenuto, Franco Marini, Cesare Damiano, Stefano Fassina, Carlo Ghezzi, ricordi e riflessioni. Con Benvenuto, tra i leader principali dei metalmeccanici, negli anni 70, che rimpiange il non aver fatto a suo tempo la cosiddetta “unità a pezzi”, mentre Franco Marini lo rimbrotta: «sareste rimasti da soli». Molti i riferimenti alle paure e ai freni del Pci. Sui consigli di fabbrica che soppiantavano le commissioni interne, sul fondo di solidarietà, sul superamento della scala mobile. Con Marini che rivendica il «primato della politica» teorizzato dal Pci ma anche dalla sua Dc, senza per questo affondare l’autonomia sindacale. Un tema che riprende Fassina, oggi a capo del dipartimento economia e lavoro nel Pd. La politica, spiega «non può aspettare», di fronte al disgregarsi della rappresentanza. E quindi intende agire nel piano legislativo anche in riferimento ad un possibile salario minimo. Un modo per ridare al Pd una funzione sui temi decisivi del lavoro.
IERI E OGGI
Gli risponde Susanna Camusso spiegando come la differenza tra il passato e oggi, consiste nel fatto che un tempo i partiti (il Pci, il Psi, la Dc) erano radicati nei luoghi di lavoro. E temevano che i sindacati togliessero loro uno spazio. Oggi in quei luoghi la politica non c’è più. La situazione si è rovesciata: i nuovi partiti si gettano nella legislazione ai danni della contrattazione, del sindacato. È successo così sui problemi del mercato del lavoro. La stessa scelta del salario minimo può alla fine nuocere all’iniziativa contrattuale tesa a far passare i vari contratti temporanei a contratti stabili.
Una serena ma decisa confutazione quella del segretario della Cgil. Che spiega anche, nella sostanza, come chi predica oggi un astratta unità sindacale non abbia capito, come dicevamo all’inizio, che quel che divide non riguarda materie sindacali. Riguarda il rapporto con l’attuale governo, la sua volontà fatta di “divide et impera”. I tanti accordi unitari decentrati dimostrano che dove è in gioco il merito sindacale, la divisione non passa.
l’Unità 4.2.11
La scuola non è uguale per tutti
Il divario nord sud e le proposte del Pd
di Francesca Puglisi
Itest Invalsi e i dati Ocse-Pisa parlano chiaro: il rendimento scolastico è più alto in quelle regioni dove si investe in educazione di qualità sin dalla tenera età e dove è più diffuso il modello educativo del tempo pieno nella scuola primaria. L’Eurispes denuncia che «tra tutte le realtà del degrado meridionale quello della scuola è quello che richiederebbe l’intervento pubblico più urgente e incisivo». Ovviamente il governo Berlusconi prende atto dei divari, ma non fa nulla per colmarli. Anzi, taglia a man bassa il bilancio dell’Istruzione. Il fenomeno dell’abbandono scolastico nel 2009 coinvolge ancora il 23 per cento dei giovani che vivono nel sud Italia. In Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna, almeno un giovane su quattro non porta a termine il percorso scolastico dopo la licenza media. Secondo gli indicatori Ocse-Pisa gli studenti del Nord nascono con un vantaggio di 68 punti nelle competenze, a prescindere dalle proprie capacità. Non è solo un problema di giustizia sociale. La dispersione scolastica e la mancanza di equità costano, perché abbassano le potenzialità di successo, riducono la competitività, aumentano l’emarginazione sociale. La Fondazione Agnelli calcola che se in Italia si riuscisse a eliminare il fenomeno dell’abbandono scolastico, ci sarebbero 1 milione e 300 mila occupati in più e un reddito aggiuntivo di 70,7 miliardi di euro. La rassegna Starting Strong, condotta dall’Ocse, ha sottolineato l’importanza di servizi educativi 0-6 anni di buona qualità per il successo scolastico e ha indicato, come priorità per il nostro Paese, il loro inserimento tra le politiche per combattere la povertà e l’esclusione sociale. L’obiettivo è anche quello di favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Invece la percentuale di bambini che frequenta l’asilo non raggiunge il 3 per cento in Calabria e in Campania. Nel sud il modello educativo del tempo pieno con le compresenze degli insegnanti nella primaria è una rarità, eppure produce i più alti livelli di apprendimento degli alunni. Per colmare i divari economico sociali tra nord e sud del Paese dobbiamo realizzare un piano straordinario di investimenti nell’istruzione. Nel Mezzogiorno le scuole devono essere aperte tutte il giorno, come luogo di aggregazione e come presidio sociale. Scuola, lavoro, diffusione della cultura della legalità, sono motore per lo sviluppo e favoriscono la sicurezza. Vogliamo promuovere una scuola tecnica e professionale di qualità per rilanciare il sistema produttivo e il made in Italy. Serve infine un piano straordinario per l’edilizia scolastica. Possono essere utilizzati i fondi Fas, togliendo le scuole dagli “appartamenti” in locazione ed edificando nuovi poli scolastici dotati di palestre, biblioteche e laboratori. Dare avvio a centinaia di nuovi cantieri, avrebbe un impatto positivo sull’economia e l’occupazione. Altro che ponte sullo stretto di Messina.
il Fatto 4.2.11
Alla destra della destra del Pd
risponde Furio Colombo
Caro Furio Colombo, ho notato che il Governance Poll, sondaggio annuale
sugli amministratori locali, ha dato il seguente esito per quanto
riguarda i sindaci di Capoluogo: 1 - Renzi, sindaco di Firenze, 2 -
Chiamparino, sindaco di Torino, 3 - De Luca,sindaco di Salerno. Viene da
chiedersi: è ineluttabile, oggi, per essere popolari a sinistra, essere
di destra?
Franco
CREDO che si possa tentare una risposta alla domanda proposta dal
lettore senza passare per una misurazione del quanto di destra sia il
tratto distintivo di questi tre sindaci. Infatti si tratta di persone
molto diverse e anche di politici molti diversi. Renzi è un uomo di
comunicazione, di trovate destinate a sorprendere, di messe in scena a
volte incomprensibili, come quando si oppone alla cittadinanza onoraria a
Beppino Englaro, ora politicamente umilianti e sbagliate, come quando
si reca a casa di Berlusconi per chiedere, da sindaco, dei fondi dovuti
per la sua città. Ha mostrato anche una grande bravura nello scansare
ogni responsabilità per il disastro della neve, in cui tutto ciò che
dipende da un sindaco è apparso non preparato, non fatto o fatto male.
Se ricordo bene non sono seguite scuse ai cittadini e alle migliaia di
persone rimaste bloccate in strada intorno alla città. Chiamparino è
persona austera, silenziosa, che dice meno di quello che fa e fa
abbastanza bene in città mentre è certamente discutibile il suo
filo-leghismo quando si presenta come possibile leader nazionale. Di De
Luca so poco, salvo il linguaggio, che è sempre di persona decisa a
tutto, sprezzante con gli avversari e pesante nei giudizi su ciò che non
approva. Non sempre conosco le ragioni di ciò che il nostro uomo
condanna con durezza, ma conosco il suo progetto di costruzione di un
Colonnato imperiale in una mite e gradevole piazza di Salerno e farei
qualunque cosa (da ex direttore della rivista “Architettura-Cronache e
Storia”) per persuadere De Luca a rinunciare al tremendo progetto. Ma
c’è qualcosa che lega i tre personaggi e spiega l’attenzione che si
concentra su di loro, mentre molti altri sindaci bravi e laboriosi
onorano il nostro Paese. E’ la forte visibilità mediatica. E si capisce
perchè in questa terna Renzi risulti in testa. Renzi ha un incalzante,
incessante progetto di se stesso e per se stesso. Difficile dire se si
tratta anche di un piano per Firenze. Però funziona. Quanto alla destra
come posizione vincente, o almeno preferibile, benché la politica
economica di destra sia responsabile di tutto il peggio degli ultimi
trent’anni, dalle guerre al disastro economico, che dire? E’ una
ossessione che passerà, dopo avere lasciato altre macerie, ma per ora a
molti, come la guerra, come l’energia atomica, continua a sembrare la
strada giusta, anzi la strada maestra. Forse perchè chi ha ammassato
ricchezze continua a trovarsi bene a destra e e ha i mezzi per
persuadere i poveri che – se vanno a destra – si troveranno bene anche
loro.
La Stampa 4.2.11
Il tribunale: La legge 40 viola il diritto a formare una famiglia
Fecondazione assistita, è scontro anche Milano ricorre alla Consulta
Una coppia si rivolge ai giudici: era stata rifiutata da alcune strutture
di Fabio Poletti
«La legge 40 sulla fecondazione assistita viola il diritto a formare una famiglia inclusa la scelta di avere figli». Lo scrivono i giudici della Prima sezione del Tribunale civile di Milano che hanno trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale perchè esprima un giudizio definitivo. Il caso sollevato dai giudici milanesi non è il primo. Davanti alla Consulta pendono altri due ricorsi sollevati dalla procura di Firenze e da quella di Catania, che mettono il discussione la legittimità della legge varata nel 2004 e che pone limiti assai restrittivi in materia di fecondazione assistita. In sostanza la legge vieta la possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa e prevede sanzioni alle strutture che dovessero praticarla.
Contro la legge 40 aveva fatto ricorso davanti ai giudici di Milano una coppia di Parma che si era vista precludere ogni possibilità di procreare vista la accertata «completa e irreversibile infertilità del marito affetto da azoospermia». Sulla base di una diversa disciplina a livello europeo, la coppia aveva deciso di ricorrere ai giudici di Milano chiedendo un pronunciamento della Corte Costituzionale, dopo che le strutture sanitarie a cui si era rivolta avevano rifiutato l’intervento sulla base del divieto di donazione del gamete maschile. Dopo lunghe disquisizioni giuridiche la coppia di Parma ha ottenuto un primo successo.
Nella sentenza che manda gli atti alla Corte Costituzionale, il Tribunale di Milano ha sollevato l’ipotesi che la legge 40 sia in contrasto con i «diritti inviolabili della persona» sanciti dalla Costituzione che prevedono pure il diritto alla famiglia. Il Tribunale ha poi eccepito una diversa legislazione a livello europeo e non da ultimo il rischio che non si tuteli «l’integrità fisica e psichica delle coppie in cui uno dei due componenti non presenta gameti idonei a concepire un embrione». Secondo l’avvocato Ileana Alesso che insieme ad altri quattro legali assiste la coppia di Parma, c’è un ulteriore rischio di discriminazione: «Chi è affetto da patologie di minore gravità può avere invece il conforto della medicina».
La decisione del Tribunale di Milano divide il mondo politico che già si era diviso nel votare la contestata legge. Per Antonio Palagiano responsabile nazionale Sanità di Italia dei Valori quella dei giudici di Milano è solo una conferma: «L’invio degli atti alla Consulta dà speranza a quelle coppie che sono costrette ad andare all’estero per realizzare la loro vita privata e famigliare». Per Dorina Bianchi responsabile Sanità dell’Udc si stravolge così il senso della legge 40: «E’ una legge fatta soprattutto per tutelare il nascituro». Forti della ennesima decisione di un giudice che ha sollevato il problema, l’Associazione Luca Coscioni si dice pronta a «ricorrere alla giustizia internazionale per far cadere una legge antiscientifica e lesiva dei diritti delle persone».
l’Unità 4.2.11
Intervista a Abu Al Izz Al Hariri
«Il regime in agonia uccide il popolo. Usa e Ue alzino la voce»
Il segretario del Comitato dell’opposizione unita:
«Vogliono fermarci ma la nostra Intifada continuerà Favorevoli al dialogo solo se Mubarak esce di scena»
di U.D.G.
Hanno sparato da auto in corsa. Erano addestrati a farlo. Pagati per uccidere. Miravano alla strage. E la mattanza continua: dai tetti dei palazzi che danno su Piazza Tahrir cecchini stanno sparando sulla folla...Squadracce armate di spranghe e coltelli danno la caccia ai giornalisti stranieri...Così un regime in agonia reagisce alla rivolta di un popolo che chiede libertà». A denunciarlo è Abu Al Izz Al Hariri, neoeletto segretario del «Comitato politico dell'opposizione unita». E al vice presidente Omar Suleiman che ha annunciato l'avvio di negoziati con forze dell'opposizione, Al Hariri ribatte: «Continueremo l'intifada popolare fino alla partenza di Mubarak. Noi vogliamo un dialogo vero». E alla Comunità internazionale, il dirigente dell' opposizione egiziana lancia questo messaggio: «C'è solo un modo per sostenere una transizione pacifica verso la democrazia: rompere ogni rapporto con un regime che uccide la sua gente».
Dopo una notte di sangue, Il Cairo resta una polveriera. Mubarak è tornato a invocare l'unità nazionale... «Se davvero voleva dimostrare di godere ancora di un sostegno popolare, Mubarak avrebbe dovuto organizzare una manifestazione di massa all'altezza della marcia dei due milioni...».
Invece?
«Invece ha prezzolato bande di provocatori arruolandoli a 100 dollari a testa per sparare contro i dimostranti di Piazza Tahrir. Su questo stiamo preparando un dossier che inchioderà il regime alle sue responsabilità. Per screditare la protesta, hanno scatenato i saccheggiatori. I primi a difendere il Museo egizio sono stati gli studenti che manifestavano a Piazza Tahrir. Poi hanno scatenato la caccia ai giornalisti stranieri, minacciandoli di morte, malmenandoli perché testimoni scomodi di una realtà che Mubarak e i suoi fedelissimi vorrebbero oscurare. Per avere mani libere. Mani insanguinate...E ora le squadre di killer, delinquenti che godono del sostegno di agenti della sicurezza, la “guardia repubblicana” di Mubarak. È la polizia di Mubarak a seminare il terrore. Agiscono sulla base di un piano preordinato: vogliono gettare il Paese nel caos. E per farlo usano ogni mezzo. Chiunque si oppone è diventato un obiettivo da eliminare. Al vice presidente Suleiman che vuole avviare il dialogo con le opposizioni, diciamo: anche noi vogliamo il dialogo, ma un dialogo vero. Ed oggi non è pensabile dialogo con un regime che uccide la sua gente.
Il primo ministro Ahmed Shafiq, si è detto pronto ad andare in piazza Tahrir per discutere con i manifestanti...
«Quei manifestanti divenuti bersaglio delle squadracce prezzolate dal regime...Lo ripeto: il dialogo può partire solo dopo la partenza di Mubarak e l’arresto dei suoi fedelissimi, coloro che stanno orchestrando la mattanza di Piazza Tahrir».
Il premier Shafiq ha confermato che l'altro ieri a Piazza Tahrir c'erano «elementi armati» e ha ammesso che c'è stato “un vuoto” nella sicurezza...».
«Un “vuoto” che è stato utilizzato per scatenare le squadracce prezzolate. Un crimine che ha mandanti che non vanno ricercati nelle sentine del Cairo ma nei palazzi del potere».
Il vice presidente Suleiman ha annunciato in un discorso alla Tv di Stato che né Mubarak né il figlio Gamal si presenteranno alle prossime elezioni presidenziali...
«Mubarak faccia un altro passo: raggiunga Gamal a Londra...».
C'è chi parla di un'opposizione che comincia a dividersi... «Chi lo dice lo spera. E lavora per questo. Ma non riusciranno nell' impresa. A unirci è una richiesta di libertà, verità e giustizia che ha animato la protesta, che connota la rivoluzione in atto. Al di là delle ambizioni personali, è la piazza a pretendere l'unità. Tradirla significa chiamarsi fuori da una rivolta che sta disegnando il futuro dell' Egitto».
C'è chi teme un effetto domino in Medio Oriente... «A temerlo devono essere solo coloro che hanno governato contro gli interessi dei loro popoli».
A temerlo è anche Israele...
«Noi non siamo nemici d'Israele, non abbiamo nulla a che fare con chi vaneggia la sua distruzione. Ma siamo convinti che la sicurezza d'Israele non può fondarsi sull' oppressione esercitata contro il popolo palestinese. Israele non può considerarsi al di sopra della legalità internazionale».
l’Unità 4.2.11
«Vogliono riforme, Mubarak non riuscirà a restare al potere»
Lo studioso: «La piazza non si fermerà davanti a concessioni simboliche, chiede democrazia El Baradei può farcela ma decisivo sarà l’esercito»
di Anna Tito
Mubarak ha annunciato che non si ricandiderà, ma la folla scesa in strada annuncia di voler continuare l’Intifada fino alle dimissioni. «Le tensioni non si smorzeranno facilmente: i manifestanti non si accontentano di concessioni simboliche, andranno fino in fondo. Non ne possono più, vogliono le riforme e soprattutto la democrazia. Le dimissioni di Mubarak sono soltanto rinviate, potrà guadagnare al massimo qualche settimana, non certo mesi, come lui sperava, ma sa che il suo destino è segnato. E’ ormai in atto una guerra psicologica, di usura, in cui ciascuno intende mettere alla prova i nervi dell’avversario». Questa ostinazione a rimanere, da parte del Presidente, è dovuta realmente al desiderio di garantire una transizione ordinata e pacifica, come vuole Obama?
«È consapevole di essere giunto al capolinea, e cerca di guadagnare tempo per venire incontro alle preoccupazioni di Israele, Stati Uniti e Arabia Saudita, per i quali è indispensabile che gli succeda un uomo forte, che assicuri la continuità nel posizionamento strategico. Ma vuole andarsene quindi dopo aver assicurato una successione tranquilla, e salvando l’onore, non costretto a fuggire come Ben Alì. Ha pronunciato martedì un discorso affettivo, facendo leva sulle emozioni e affermando di voler morire in terra egiziana».
Il dopo Mubarak non appare ancora chiaro, anche se gli Stati Uniti accetterebbero un governo di Mohammed El Baradei. Cosa ne pensa?
«Può darsi che El Baradei riesca a imporsi, poiché incarna quanto esigono i manifestanti e la società civile egiziana: l’opposizione a Mubarak e la non provenienza dall’esercito. Ma, per governare, El Baradei o chiunque altro necessita del sostegno dell’esercito, che svolgerà un ruolo fondamentale nella transizione, in particolare per via della posizione strategica dell’Egitto. Agli Usa, più che la democrazia, sta a cuore la stabilità del Paese, con i suoi 80 milioni di abitanti, i confini con Israele, il canale di Suez, la presenza dei Fratelli Musulmani».
Ma non le sembra che queste esigenze contrastino con la volontà chiara, espressa da una parte non indifferente delle persone scese in piazza, di non essere governata dagli Stati Uniti?
«In effetti si riscontra, oltre alla necessità di riforme e di democrazia, anche un malessere dovuto all’allineamento di Mubarak sugli Stati Uniti, a più decenni di militari al potere: gli slogan scanditi martedì parlavano chiaro. Per questo, contrariamente a quanto chiedono Usa e Unione europea, prevedo una transizione lunga e difficile: da una parte i manifestanti che vogliono una rottura totale con il vecchio regime, non certo che un altro militare prenda il posto di Mubarak, o che un vice presidente assuma la presidenza, e Stati Uniti e Israele dall’altra che auspicano il mantenimento della stabilità. Inoltre non sappiamo quale posizione assumerà l’esercito».
Quali possibilità ha di imporsi e di raccogliere tutti i frutti della caduta di Mubarak una grande forza di opposizione, quella dei Fratelli Musulmani?
«Oggi costituiscono l’opposizione più strutturata e più influente, utilizzano slogan semplici, alla portata di tutti, ma al momento non sono in grado di prevaricare. Anch’essi rappresentano un ‘partito dell’opinione’, così come l’opposizione laica, e prevedo un ‘braccio di ferro’ fra le due correnti, non certo un accordo, poiché i Fratelli Musulmani rifiutano i compromessi. L’opposizione laica non avrà vita facile, dovendo dotarsi di un pro-
L’opposizione
«I laici non avranno vita facile, sono forti i Fratelli Musulmani»
gramma laico, creare, mettere in atto nuove politiche economiche e sociali, di mostrarsi capace di rivolgersi alle masse. La grande sfida consisterà nel proporre al popolo un programma alternativo a quello dei Fratelli Musulmani».
A opporsi ai Fratelli Musulmani verrebbe anche il movimento femminista, che ha un peso non indifferente, e che costituisce una specificità dell’Egitto, come lei ha ricordato di recente.
«Non vi è alcun dubbio. Il movimento femminista egiziano, nato nel 1929, è il più antico del mondo arabo. Lo fondò Huda Shaarawi, la figlia di Mohamed Sultan Pascià, invitò le donne a togliere il velo ed ebbe un grande seguito. Anche adesso, nei movimenti d’opposizione, le donne hanno svolto un ruolo di tutto rispetto».
Ritiene plausibile l’ipotesi di ‘effetto domino’, delle rivolte in altri Paesi quali il Marocco, lo Yemen, l’Algeria?
«Certamente qualcosa è accaduto, ma l’impatto avverrà a media scadenza, fra uno, due decenni. Insomma, non avremo una caduta del muro di Berlino nei Paesi del mondo arabo.
La Stampa 4.2.11
Ahmed Zewail:
La corruzione ha logorato il mio popolo
La rivolta scoppiata in Egitto è per molti aspetti storica. Inatteso, anche dagli stessi egiziani, è poi il fatto che questa Intifada sia guidata dai giovani, i cosiddetti figli di Facebook, senza agende religiose o ideologiche, ma con un unico programma: un futuro migliore per tutti. In questo momento difficile, l’esercito si è guadagnato il rispetto delle masse agendo in maniera professionale per mantenere la sicurezza e la stabilità. Reclamando il futuro e contemporaneamente mantenendo la stabilità, queste due forze - la gioventù e l’esercito - offrono la speranza di una transizione ordinata al nuovo Egitto.
Chiaramente, è ora che in Egitto avvenga un cambiamento radicale, i ritocchi cosmetici non bastano più. Ci sono diverse ragioni per l’attuale sollevazione, e devono essere tenute ben presenti per capire la direzione da prendere. Gli egiziani hanno finalmente perso la pazienza con i giochi di potere per garantire la successione al figlio di Mubarak, Gamal; con la mancanza di trasparenza tra chi detiene il potere; con i brogli elettorali che hanno portato in parlamento la maggioranza del partito di Mubarak, praticamente senza opposizione.
Sebbene l’Egitto negli ultimi anni abbia visto qualche progresso economico, le masse dei poveri sono state lasciate indietro e la classe media è di fatto retrocessa. Solo l’élite al vertice ha avuto benefici - esagerati - sfruttando il matrimonio tra la loro influenza politica e il capitale. La corruzione che ne è risultata e le continue richieste di bustarelle da parte dei funzionari hanno esaurito la pazienza della gente. Infine, il sistema educativo, che è centrale per le speranze di progresso sociale di ogni famiglia egiziana, si è deteriorato fino a raggiungere un livello ben al di sotto del rango dell’Egitto nel mondo.
E adesso, dove andiamo? Ci sono quattro passi importante da fare. Primo: mettere insieme un consiglio di saggi, uomini e donne, che elabori una nuova visione nazionale e abbozzi una nuova costituzione basata sulla libertà, i diritti umani e un ordinato trasferimento di potere. Secondo: garantire l’indipendenza dei giudici. Terzo: organizzare elezioni libere e corrette per le due Camere del Parlamento e per la presidenza, su cui sovraintenda il potere giudiziario indipendente. Quarto: un nuovo governo di transizione dell’università nazionale da formare al più presto. Ma perché questo piano abbia successo, il presidente deve ritirarsi. Adesso. Mubarak è arrivato al potere come eroe delle guerre d’Egitto. Può agire di nuovo eroicamente lasciando subito il potere.
l’Unità 4.2.11
La svolta 1989. Democratici, però di sinistra: quella resta l’idea giusta
di Achille Occhetto
Le celebrazioni della ricorrenza dei 90 anni di storia del Pci hanno messo in evidenza come quella vicenda abbia rappresentato un pezzo rilevante della storia d’Italia, un architrave della costruzione dello stato democratico e della medesima ricostruzione del paese.
Lo stesso si può dire dell’ultimo atto della vita di quel partito, della svolta e del passaggio dal Pci al Pds. In continuità con la funzione nazionale esercitata dai comunisti italiani anche la fine e il nuovo inizio non si presentano solo come un evento interno, un affare dei comunisti e della loro crisi, bensì come un passaggio di fase nella stessa storia del paese. Infatti, come dicemmo nei giorni della svolta, la campana del nuovo inizio non suonava solo per noi, avrebbe suonato per tutti i partiti e per l’insieme del sistema politico. Tuttavia la grandezza di quella storia, la sua ineludibile funzione nazionale che ha contraddistinto la capacità di un blocco sociale e della sua classe dirigente di orientare il corso storico del paese conviveva con i germi della sua crisi.
Uno degli aspetti più rilevanti di quella vicenda sta in quel particolare connubio tra revisionismo socialista democratico, apertura intellettuale e un giustificazionismo storico, una doppiezza tra la funzione democratica esercitata in Italia e quello che lo stesso Togliatti aveva chiamato il legame di ferro con l’Urss, che, in una fase rilevante della sua storia, lo aveva portato a forme di favoreggiamento se non di copertura dei delitti staliniani. Successivamente il Pci spingerà, in modo particolare con Berlinguer, fino alle estreme conseguenze la sua sofferta trasformazione democratica, pur rimanendo invischiato dentro il vecchio involucro. Da queste sommarie considerazioni si possono ricavare due riflessioni.
La prima, è che la tesi contraria alla svolta secondo cui non c’era bisogno di cambiare un partito che non aveva più niente a che vedere con i paesi dittatoriali dell’Est, in realtà, può essere presentata come la tesi più favorevole alle ragioni della mutazione, in quanto solo all’interno della contraddittoria e incompleta evoluzione del Pci l’idea stessa della svolta avrebbe potuto trovare il proprio terreno di coltura.
Ciò non poteva accadere, e non a caso non è accaduto, dentro gli altri partiti comunisti europei ampiamente compromessi con gli errori e gli orrori del socialismo reale. Solo una formazione politica che portava dentro di sé la metamorfosi poteva sentire l’esigenza di spaccare il vecchio involucro nel quale si sentiva costretta.
La seconda riflessione è che lo stesso processo di continua evoluzione che stava alle spalle del nuovo inizio smentisce l’altra tesi critica, quella secondo la quale con la svolta si sarebbe compiuto un atto di coraggio, ma isolato, improvviso e privo di cultura politica. In realtà la cultura della svolta va ricercata in tutto il corso di revisione critica di cui abbiamo parlato, e ha il suo momento di precipitazione nell’insieme degli atti politici assunti nell’89’ e nello stesso 18 ̊ congresso di quell’anno, alla fine del quale si diede allo stesso partito l’appellativo di «nuovo Pci»: una prima pudica voglia di cambiamento del nome, la timida confessione che tra i contenuti e la forma del vecchio partito c’era una discrepanza. Una parte della cultura della svolta è già contenuta lì. Infatti il 18 ̊ congresso aveva innovato profondamente la cultura politica almeno su quattro punti: 1) l’affermata centralità della questione ecologica come nuovo fondamento della critica del modello di sviluppo e non come mero ambientalismo a sé stante; 2) il riconoscimento del valore del mercato nel contesto di una ridefinizione del rapporto tra pubblico e privato: 3) la sostituzione del dirigismo con il sistema delle regole: 4) il primato della libertà, che sarà ulteriormente rafforzato e definito nella carta di intenti del nuovo partito.
Da allora francamente non si sono visti altri significativi apporti innovativi che si muovessero, beninteso, sul terreno della sinistra. La stessa ipotesi di una nuova formazione politica fondata sulla contaminazione dei diversi riformismi di cui è ricca la nostra storia sta alla base del nuovo inizio.
Le diversità tuttora in campo nella sinistra con la stessa nascita della Sel si riferiscono più ai modi di tale contaminazione che alla sua necessità. E sui modi si fanno sentire anche sensibili differenze nel medesimo Pd.
Purtroppo quando si arriva al momento del congresso di Rimini avevamo alle spalle un anno di logoramento, perché malgrado lo splendore del precedente congresso di Bologna, che aveva sancito il cambiamento del nome, il dibattito interno invece di aprirsi sul come, si era ancora attardato sul se. Al punto che prima del congresso fu presentato all’opinione pubblica il nuovo simbolo corredato da una carta di intenti. Il simbolo fece grande clamore, la carta di intenti, a proposito di cultura politica, non fu discussa. Eppure in quel testo si trova il meglio delle tesi innovatrici presenti al tempo nella elaborazione della socialdemocrazia europea assieme alle novità dei nostri apporti.
Ma allora chiediamoci: alla Bolognina e successivamente al congresso di Rimini nella sostanza che cosa è successo?
Se si guarda al fatto storico nella sua essenzialità è successo che con la svolta si è spostato il più grande partito comunista dell’occidente dal campo teorico e politico dell’Internazionale comunista e del marxismo leninismo al campo dell’Internazionale socialista. Punto e a capo. Questo, al di là dei sofismi della cronaca corrente, è quello
che è successo. Ed è successo malgrado il disappunto di molti socialisti che non possono negare quel fatto storico solo perché non abbiamo accettato il tipo di unità socialista propostoci da Craxi.
Il 4 febbraio del 1991 la maggioranza del Pci è passata all’area del socialismo democratico dopo alcuni anni di intenso lavoro ideale e politico. Io stesso, assieme a Napolitano e a Fassino, ho incontrato i grandi della socialdemocrazia, da Willy Brandt a Kinnock passando per Moroy, Gonzales fino a Mitterand per chiedere loro l’ingresso nell’Internazionale socialista. Io stesso sono cofondatore del Partito del socialismo europeo.
L’essenzialità di quella scelta va ancor oggi ricordata perché lo stesso congresso di Rimini si trovò a fronteggiare due insorgenze: quella che veniva da una parte di coloro che non avevano accettato la svolta e che approderanno alla scissione, e le differenti valutazioni sulla situazione internazionale e sul craxismo. Se si aggiunge che proprio in quei giorni si è nel pieno della guerra del Golfo, si può meglio capire la tensione e la cupezza del momento. Momento sicuramente sfortunato, ma che non muta la sostanza di alcune scelte di fondo. Come abbiamo visto, i rapporti da tenere con il Psi di Craxi hanno costituito una differenza anche tra i fautori della svolta, differenza che tuttavia non poteva indurre a considerare le posizioni critiche verso Craxi come posizioni di per sé antisocialiste. Si è trattato di una legittima differenza politica, che merita il massimo rispetto, ma che non contraddice il dato fondamentale: il 4 febbraio del 1991 il Pds nasce come partito dell’Internazionale socialista, collocato nel gruppo socialista del parlamento europeo e cofondatore del Pse.
Il vero problema oggi sarebbe quello di giudicare la cultura politica che è seguita nel corso degli anni successivi. Si tratta di un giudizio complicato e difficile, reso ancora più difficile dalla diversità di intenzioni presenti negli stessi protagonisti del congresso di Rimini.
Una prima differenza va riscontrata tra chi voleva uscire da sinistra dalla crisi del comunismo e chi si muoveva nella direzione di un riformismo più moderato, a cui facevano seguito tre fondamentali differenti visioni della prospettiva. La prima, come abbiamo visto, muoveva sostanzialmente nella direzione dell’unità socialista, proposta che la maggioranza del partito considerò allora come una sorta di annessione che ci avrebbe fatto fare un duplice salto mortale, dalla fuoriuscita dalle rovine dal comunismo per entrare sotto le rovine del pentapartito. La seconda, era quella di dare immediatamente vita al partito democratico, particolarmente caldeggiata da Veltroni, a cui risposi dicendo che concordavo con il riferimento forte e centrale a democratico obiettando però che ci potevano essere diversi partiti democratici, di orientamento moderato o cattolico. E risposi: democratico sì, ma di sinistra. Nasce così la proposta di chiamare il nuovo partito «Partito democratico della sinistra». Di qui la terza visione, da me caldeggiata, quella della costituente di una nuova formazione politica, che andasse oltre le culture del ‘900, pur riconoscendo che nello scontro storico tra comunismo e socialismo democratico aveva vinto quest’ultimo.
Diverse erano le passioni che la svolta fece sprigionare da quel vaso di Pandora che era il Pci. Ma al di là di queste, ancora una volta appare un altro fatto storico incontrovertibile: la svolta si inserisce nel contesto di una gigantesca mutazione geopolitica. Non si presenta come un problema dei comunisti, neppure come un atto provinciale. Cambia il mondo, cambiano i partiti, mutano i soggetti nazionali e internazionali legati allo scontro centrale del secolo, muta la lotta per l’egemonia planetaria, si passa dal bipolarismo al monopolarismo per approdare, con Obama, al multilateralismo. Si affollano nuovi problemi planetari (l’Islam, il terrorismo), due grandi rischi di distruzione del pianeta: quello nucleare e quello ecologico. In tutto questo c’è del progresso, ma ci sono anche delle perdite secche.
Molte sono le acquisizioni positive sul terreno della nostra liberazione interiore: il faro della libertà è diventato più nitido nelle nostre menti. La liberazione dalle idee oppressive del collettivismo autoritario, del conformismo e monolitismo di partito, della contrapposizione dell’uguaglianza alla libertà, del terrore di sbagliare davanti al dogmatismo dell’ideologia e ai suoi rappresentanti autorizzati: il capo, la direzione, il comitato centrale. Non c’è più tutto questo, ma il nuovo rischio è il vuoto. Il rischio di buttare via con l’acqua sporca anche il bambino.
Dio è morto, ha gridato un grande filosofo a cavallo tra l’800 e il 900; le ideologie sono morte, abbiamo gridato noi. Ma attenzione, non vanno sostituite con il potere per il potere, con la mancanza di senso e di un sistema di valori. Occorre alimentare e aggiornare un sistema di valori, ma anche di idee che mantenga limpida la differenza tra destra e sinistra. Solo cosi, tutta quella sofferenza, la fatica dell’innovazione, avrà avuto un significato positivo.
La Stampa 4.2.11
L’ultima notte del Pci un pasticciaccio brutto
1991, al congresso dopo la svolta della Bolognina il partito cambia nome Vengono a galla i vizi che hanno segnato la sinistra fino a oggi
di Fabio Martini
D’ALEMA «Il papero è morto lo rimetto in sella e gli do il colpo di grazia»
Iginio Ariemma, ultimo portavoce del Pci e primo del Pds, autore di un
bel libro su quegli anni, La casa brucia : «La mancata elezione di
Occhetto fu il preannuncio di vizi che si sarebbero dilatati nel corso
degli anni successivi: qualcuno voleva dare un colpo a Occhetto che uscì
da Rimini come un’anatra zoppa e non si creò quel gruppo dirigente
aperto che sarebbe servito per far decollare un moderno partito della
sinistra».
Quella notte cambiò la sinistra italiana e la cambiò - nel costume dei suoi dirigenti - più di quanto non fossero riusciti eventi epocali nella storia comunista. In poche ore - tra il 3 e il 4 febbraio del 1991, nei padiglioni della Fiera di Rimini - si consumarono eventi destinati a far da spartiacque più di quanto non si capì in quelle settimane. Si sciolse, a 70 anni di età, il Pci. Fu battezzato un nuovo partito, il Pds, che però, appena nato, rimase senza testa: Achille Occhetto, l’artefice della svolta, non poté essere eletto segretario perché alla votazione partecipò meno del 50 per cento dei delegati del «parlamentino». Lui, Occhetto, se la prese assai, fuggì dal congresso, si rifugiò con la moglie Aureliana in un casolare della Maremma circondato da un muro di neve e soltanto quattro giorni più tardi poté essere eletto segretario del Pds. In quelle settimane si ripeté che la mancata elezione di Occhetto era stata determinata da seri disguidi organizzativi (e ve ne furono), ma nei venti anni successivi un rosario di testimonianze, tra loro autonome, ha consentito di ricostruire il quadro del puzzle: nella notte a cavallo tra il 3 e il 4 febbraio il flop di Occhetto fu preceduto - e dunque determinato - da piccoli tranelli, vanità personali, trucchi invisibili. Una serie di vizi che, almeno quelli, non avevano appartenuto alla storia, rigida ma composta, del Pci e si iniziarono a manifestare proprio in quelle ore, anticipando una trasfigurazione, quasi antropologica, che avrebbe segnato la vita dei partiti filiati dal Pci: il Pds, i Ds e infine il Pd.
La sera del 3 febbraio il primo ad accorgersi che qualcosa non va è Luciano Barca, che pure era stato uno dei nemici della svolta: il vecchio dirigente del Pci si accorge che nelle hall degli alberghi ci sono troppe valigie: gli ricordarono quelle lasciate dai parlamentari nei guardaroba delle Camere poco prima dell’ultima votazione, quella che prelude al ritorno a casa. Scrive Barca nel suo Cronache dall’interno del vertice del Pci (Rubettino, 2005): «Torno in presidenza, espongo i miei timori per la tenuta fisica del congresso» e «poiché Occhetto è andato a dormire, mi rivolgo a D’Alema, che non mi crede, ma almeno manda a chiamare il segretario dell’Emilia...». Barca consiglia di convocare il Consiglio nazionale nella notte ed eleggere subito il nuovo segretario perché l’indomani rischia di non esserci il numero legale. Ed è eloquente la risposta di D’Alema: «Occhetto non vuole essere eletto nella confusione della notte senza giornalisti e senza televisioni». Primo comunista col senso dello spettacolo, Occhetto vuole le telecamere e i suoi nemici si muovono di conseguenza. Nella notte si deve eleggere il «parlamentino» e l’affresco di Claudio Petruccioli nel suo Rendi conto (Il Saggiatore, 2001) è eloquente: «Scorro la lista del nuovo Consiglio nazionale e mi rendo conto che ci sono più nomi di quelli stabiliti». E il motivo è sbalorditivo per un partito che è ancora comunista nelle vene: i rappresentanti delle correnti, d’accordo tra loro e senza avvertire nessuno, hanno «immesso altri nomi, dettandoli direttamente all’operatore del computer». Un imbroglio che, perquanto scoperto, sarà momentaneamente sanato e più tardi replicato con esiti grotteschi: prima di salire sul palco, a Petruccioli (che aveva la regia del congresso) viene consegnato un elenco «definitivo» che però, a sua insaputa, verrà nuovamente manomesso nei minuti successivi. Un imbroglio. «Legalizzato» dalle nascenti correnti, che negli anni successivi sarebbero diventate strutture portanti dei nuovi partiti nati dalle costole del Pds.
Sulla scia di quella notte così travagliata, dopo qualche giorno i massimi dirigenti del partito vanno a parlare con Occhetto, rifugiato a Capalbio, per convincerlo ad accettare la leadership e alla fine di quell’incontro, tornando a Roma in macchina, Massimo D’Alema (secondo quanto raccontato senza ipocrisie da Claudio Velardi a Luca Telese nel suo Qualcuno era comunista ) esporrà un piano hard: «E’ morto, il papero è morto! Io adesso vado lì, faccio un bel discorso, lo rimetto in sella e gli do il colpo di grazia». Commenterà Velardi: «D’Alema voleva portare a consunzione Occhetto, cancellarlo per restare l’unica alternativa. In questo un inarrivabile professionista», secondo un modello «che ripeterà con Prodi e con Veltroni».
La Stampa 4.2.11
Good bye Palmiro nostalgie riformiste
La rivista di Macaluso rilegge i 90 anni del Pci e Rino Formica celebra il “metodo” Togliatti
di Marcello Sorgi
Parola d’ordine: niente rimpianti. Eppure, tra le righe del supplemento dedicato dalla rivista Le ragioni del socialismo ai novant’anni del Pci, si riaffaccia a sorpresa la nostalgia canaglia. Nostalgia dei partiti, in un’epoca tutta giocata sullo scontro personale, e della loro classe dirigente, passata attraverso severe selezioni interne. Nostalgia della sinistra, anche solo della parola, espunta dal moderno vocabolario politico che prevede solo di essere «democratici» o «popolari» o «a vocazione maggioritaria», ma ha rinunciato del tutto all’idea di una sinistra di governo che si presenti per quel che è. Nostalgia, infine, di un leader come Togliatti, al quale, dopo le mille condanne e archiviazioni fatte già in epoca comunista, adesso si vuol restituire dignità.
Fa una certa impressione leggere tutto questo sulle pagine della rivista diretta da Emanuele Macaluso, alla quale fa capo quel che rimane dell’area «migliorista» e filosocialista del Pci. Gli eretici che già dagli Anni Sessanta venivano bacchettati per la discussa proposta del loro leader, Giorgio Amendola, di creare un partito unico della sinistra fondendo Psi e Pci, la minoranza che ebbe il coraggio di contestare Berlinguer e fu definitivamente emarginata con l’avvento di Occhetto, prima, e poi di D’Alema e Veltroni, proprio loro che del comunismo italiano potrebbero dichiararsi vittime, invece lo rivalutano.
Scrive Macaluso che non si può cancellare il ruolo di «motore della modernità» assolto dal Pci nel dopoguerra e negli Anni Cinquanta e Sessanta, quando la Dc coniugava la propria supremazia con l’immobilismo: senza il Pci non ci sarebbero state la prima modernizzazione del Paese, l’introduzione di diritti fondamentali dei lavoratori, le grandi trasformazioni sociali, le conquiste dei diritti civili, l’uscita della sinistra dal campo sovietico e la piena adesione all’Occidente e alla Nato.
Aggiunge Claudio Petruccioli, a lungo senatore e braccio destro di Occhetto, che la scelta di passare dal Pci al Pds e al Pd non era affatto obbligata. Al momento del crollo della Prima Repubblica, la Dc e la somma di Pci e Psi raccoglievano più o meno la stessa quantità di voti e sarebbe stato tranquillamente possibile impostare un’alternativa, simile a quella che si svolge in molti paesi europei, tra cattolici e socialisti. Invece la strada scelta nel ’94 fu quella dei popolari e della sinistra che si presentavano separatamente ma dalla stessa parte e aprivano la strada a Berlusconi. Secondo Petruccioli l’adesione incondizionata alla campagna contro la partitocrazia, l’illusione di avvantaggiarsi degli effetti di Tangentopoli, oltre all’incapacità di credere nella sinistra di governo, una sinistra come quelle che competono e vincono nel resto d’Europa, hanno portato alla crisi attuale. Crisi di sistema e non del solo Pd, perché un Paese non può vivere per vent’anni appeso solo a Berlusconi e Prodi.
L’insieme delle analisi di Ragioni del socialismo è dichiaratamente provocatorio. Nessuno arriva a sostenere che si stava meglio quando si stava peggio (e anzi c’è una severa ricostruzione storica di Luciano Cafagna del duello infinito tra socialisti e comunisti). Ma è come se dicessero che i comunisti, con tutti i loro limiti, erano molto più bravi degli attuali campioni del centrosinistra. Ciliegina sulla torta di questa rivalutazione è il saggio di Rino Formica su Togliatti costituente. Stiamo parlando dello stesso Formica, già ministro di Craxi, che fu il più sulfureo e imprevedibile protagonista del nuovo corso socialista e il più vivace combattente di polemiche simmetriche con i due giganti della Prima Repubblica, Dc e Pci. Bene: non colpisce solo il fatto che Formica riscopra Togliatti e spieghi che il modello costituzionale al quale il leader comunista aveva contribuito comportava fin dalle origini il rischio, poi verificatosi, di un progressivo scivolamento verso uno strapotere della magistratura. La novità sta anche nel recupero del metodo costituente del confronto e del compromesso, nella ricerca della soluzione più vicina all’interesse generale.
Certo, i senatori di Ragioni del socialismo portano ancora tutte le cicatrici di decenni di scontri nel loro campo. Ma se hanno deciso di rivalutare pubblicamente il Pci è perché pensano che la crisi del sistema politico italiano sia giunta ormai al livello di guardia. E la sinistra, che non è certo estranea a tutto quel che è successo finora, farebbe bene a rendersene conto.
Corriere della Sera 4.2.11
Morta Maria Schneider Star di «Ultimo tango»
Bertolucci: non ho fatto in tempo a chiederle scusa
di Stefano Montefiori
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI — Alla prima parigina di Ultimo Tango, dopo i titoli di coda nella sala piena di attori e registi, l’unica a congratularsi con Maria Schneider è Jean Seberg. L’incantevole e fragile Jean, che morirà suicida pochi anni dopo, si alza per baciare Maria sulla guancia, unico gesto di affetto in un cinema raggelato, dal quale Jean-Luc Godard è andato via dopo soli 10 minuti. Forse Jean ha capito quel che sta per succedere a Maria: lo scandalo, il successo, la rovina. Maria Schneider nel 1972 è una ragazza di 20 anni, ma non si riprenderà più da quelle scene erotiche nell’appartamento vuoto di Passy. È morta ieri di cancro, a 58 anni, «prima che io potessi riabbracciarla teneramente e, almeno per una volta, chiederle scusa» , ha detto Bernardo Bertolucci. Chiedere scusa per che cosa? Bertolucci scelse la sconosciuta Maria tra 200 candidate dopo averla notata su una foto, fece di lei la protagonista femminile di un film con l’immenso Marlon Brando, che aveva appena finito di girare Il Padrino, ne immortalò la spregiudicatezza e l’allegria con quel cappello e gli stivali che camminavano svelti sotto il metrò aereo di Bir-Hakeim, ma non è per questo che la Schneider resterà nella storia del cinema. «È incredibile, ho recitato in 50 film nella mia carriera, ma tutti mi chiedono solo di Ultimo tango— diceva —. La scena del burro non era prevista nella sceneggiatura, avrei potuto chiamare il mio agente o il mio avvocato e rifiutarmi, ma ero troppo giovane. Mi avvertirono un minuto prima di girarla, mi misi a litigare ma alla fine accettai. Era un’idea di Marlon, che mi disse: "Non preoccuparti, è solo un film". Ma durante la ripresa, anche se stavamo fingendo, le mie lacrime erano vere. Mi sono sentita umiliata e anche un po’ violentata, sia da Marlon sia da Bertolucci» . Gli uomini, nella vita di Maria Schneider, sono stati spesso presenze difficili. A cominciare dal padre, l’attore Daniel Gélin, che la concepì durante la relazione durata sei mesi con la modella di origini romene Marie Christine Schneider. Gélin non riconobbe mai Maria, neanche quando a 16 anni la ragazza lasciò la madre in Alsazia e venne a Parigi per i primi ruoli da comparsa. Nella capitale non fu Gélin a occuparsi di lei ma Brigitte Bardot, scandalizzata per l’indifferenza dell’uomo: per due anni B. B. ospitò Maria a casa sua. Lì incontrò Warren Beatty, che la raccomandò al suo agente William Morris e le spalancò le porte del grande cinema. «Marlon mi disse di sentirsi manipolato da Bertolucci — raccontò poi Maria —. Immaginate come devo essermi sentita io» . Ultimo tango a Parigi diventa un caso internazionale, ma a Maria spettano solo i 5.000 dollari del contratto. Viaggia in tutto il mondo per la promozione del film, ma a lei non fanno certo domande sulla splendida tonalità arancione della fotografia di Vittorio Storaro. «Decisi di stare al gioco, dissi al New York Times di avere avuto già 50 uomini e 20 donne. Non era vero, ma sentivo che era quello che volevano da me. Entrai nel personaggio della donna liberata sessualmente. E poi erano gli anni Settanta, l’Aids non esisteva, la trasgressione era quotidiana» . Come le droghe. Maria percorre tutte le tappe: marijuana, cocaina, lsd, eroina, «che però mi faceva vomitare» . A Roma si fa internare in un ospedale psichiatrico per stare vicina alla sua compagna, l’ereditiera fotografa Joan Townsend, affetta da schizofrenia. Seguono un paio di overdose— «forse era un modo per uccidermi, ma all’arrivo dell’ambulanza mi risvegliavo sempre» —, un soggiorno mistico nelle riserve Navajo e Hopi dopo lo sbarco fallito a Hollywood, e un solo giorno di riprese per Quell’oscuro oggetto del desiderio di Buñuel. Maria con gli anni imparò a scherzarci su, raccontando di odiare ormai il burro, ma il suo declino è stato lento e crudele. Alla fine si dedicava a The Wheel Turns: un’associazione di aiuto alle ex stelle del cinema.
Corriere della Sera 4.2.11
Trasgressiva e tormentata, un simbolo per molte donne
di Maria Laura Rodotà
«Mi sento come se fosse morta mia zia» , mi dice G. Poi specifica: «Una zia acquisita, di quelle giovani e sexy e pure un po’ strane, di quelle che intrigano i ragazzini e diventano protagoniste delle loro fantasie sessuali» . G. non ha detto proprio «protagoniste delle fantasie sessuali» ; nel commemorare Maria Schneider ha usato termini sinceri e non riferibili. Gli stessi, più o meno, di tutti i maschi etero dai quarantacinque anni in su, ieri. Avevano rimosso Schneider e le scene di Ultimo tango; le rievocavano appena venivano a sapere della sua morte, insieme alla loro adolescenza passata da un po’. O da tanto: «Marlon Brando mi sembrava un anziano vizioso, in quel film; adesso guardo le foto e vedo un coetaneo interessante» , dice F. C. aggiunge: «Mi raccomando, scrivi del seno (non ha usato la parola "seno", ndr) della Schneider, quanto ci ha fatto sognare, quasi quanto la scena del burro» . Detto fatto. Schneider aveva poco a che fare con i canoni di bellezza da primi anni Settanta, non era androgina, non era slavata. Era una ricciolona dal reggiseno abbondante; una ragazza di città curiosa e pericolosa specie per se stessa, masochista e indipendente. Vederla nuda mentre si esprimeva con Marlon Brando era, per i tempi, trasgressivo. E nello stesso tempo familiare: Schneider ricordava la compagna di scuola carina, la ragazza del collettivo, e la zia evoluta e tormentata. E la sua storia personale è stata simile a quella di tante ragazze che dagli anni Settanta non si sono mai riprese. Era parigina, figlia di un’ex modella, la tedesca Marie Christine Schneider, e di un attore, il francese Daniel Gélin, che non la riconobbe mai. Era quello che ai tempi si chiamava una fricchettona, una ragazzina alternativa, sessualmente libera e molto sperimentale. Aveva girato Ultimo tango nel 1972, a vent’anni, era diventata un sex symbol post-sessantottino, anzi una delle più apprezzate figure dell’immaginario post-sessantottesco; l’amante contestatrice (si diceva così) favoleggiata da uomini maturi come da studenti delle medie. Nel 2007 Schneider ha raccontato che la storica scena del burro, su cui ieri disquisivano i suoi ammiratori in lutto, per lei era stata un trauma. Non era nel copione, non l’avevano avvertita, le sue lacrime erano vere, «lacrime di umiliazione» . Non le portarono bene, in effetti. La sua vita personale diventò sempre più complicata, si diceva facesse un intenso uso di eroina. Finì ricoverata in una clinica psichiatrica. Poi si riprese, si rimise a lavorare: in media un film all’anno, fino al 2008, ma mai un ruolo memorabile. Ogni tanto, nelle interviste rievocative, malediva Bernardo Bertolucci, poi lo perdonava, perché l’aveva «fatta entrare nella storia del cinema» . Del cinema e della cultura popolare. Specie in Italia. Dove, se si giudicasse Ultimo tango in base a parametri recenti, si loderebbe la condotta di Schneider in quanto improntata ad apprezzabile riserbo istituzionale. Ma dove, quarant’anni fa, Schneider diventò donna del peccato estrema, espressione dello spirito del tempo, battistrada di molte personali liberazioni. Poi, va da sé, i simboli erotici invecchiano con fatica, e rischiano derive stravaganti. Nel 2005 Schneider incise un disco con Cristiano Malgioglio. Le foto dei due insieme sono reperibili online, ma i fans preferiscono ricordarla con le immagini dei tempi d’oro, quando era una ragazzina provocante e vulnerabile (la stesura di questo pezzo è stata più volte interrotta da telefonate e messaggi di detti fans, testimonianze di un lutto autentico quanto imbarazzante per chi ascolta; in certi casi capita).
Corriere della Sera 4.2.11
Dopo quel film Antonioni e il quasi nulla
di Maurizio Porro
C ome Anita Ekberg per la Dolce vita o Daniela Rocca per Divorzio all'italiana, Maria Schneider è stata una di quelle attrici che si sono prenotate un posto nella memoria con un solo film. Che fu per lei, appena ventenne, Ultimo tango a Parigi, quando a Parigi fu scelta da Bertolucci per affiancare Marlon Brando nella più sofferta storia di sesso e di solitudine del cinema. Figlia d’arte irregolare di Daniel Gélin, lei diventò improvvisamente e obbligatoriamente scandalosa, e da quel momento iniziarono i rapporti di odio-amore col regista che le ha dato per sempre un ruolo: al di là della scena «cult» , il film parlava del bisogno di affetto e la Schneider, con quella sua aria da ribelle dai sentimenti zingareschi, esprimeva bene e in modo naturale un disorientamento divenuto biglietto da visita di una generazione. Maria è stata però un'attrice soprattutto italiana, come successe ad altre «straniere» come la Spaak o la Cardinale e, tre anni dopo l'exploit per Bertolucci (e Cari genitori di Salerno), fu scelta da un altro grande, Antonioni, che la volle con Jack Nicholson in Professione reporter. Ancora un personaggio di ragazza senza identità, uno sguardo desolato sul mondo di una cittadina sicuramente non felice né riconciliata: dal volto della giovane e già vissuta attrice esce come una richiesta d’aiuto. Il resto della sua carriera è tutto tra parentesi, e da allora in discesa: la terrorista di Cercasi Gesù di Comencini, la babysitter in un film di René Clément e poi la moglie pazza nel '96 per Jane Eyre di Zeffirelli. E le occasioni mancate: fu lei a rifiutare Caligola di Brass, stufa delle proposte rivolte sempre all'erotico-porno, ma fu Buñuel a protestarla dopo un giorno sul set di Quell’oscuro oggetto del desiderio. Il resto è, silenzio a parte, qualche apparizione in tv (Il cuore e la spada), il film tolstoiano di Sciarra Quale amore, fino al Cliente di Josiane Balasko (2008). Aveva anche riscoperto la musica, pur di uscire dall’impasse di un successo mediatico extralarge che le aveva lasciato un chiacchierato alone, incidendo con Malgioglio un disco dedicato all'amore.
La Stampa 4.2.11
“Sesso estremo la maledizione delle attrici”
Bellocchio e Zeffirelli: era molto fragile
di Fulvia Caprara
È la maledizione della scena hard, l’arma a doppio taglio che, da una parte ti scaraventa nell’olimpo della celebrità e dall’altra ti inchioda per sempre a quel personaggio, quel momento, quel fotogramma. Per Maria Schneider la sequenza del burro in Ultimo tango a Parigi era sempre rimasta un incubo, una violenza da cui fuggire. Non c’era intervista in cui, anche molti anni dopo, non trovasse il modo di prendere le distanze da quel film. Franco Zeffirelli, che in Jane Eyre le aveva affidato il ruolo della prima moglie del protagonista, la ricorda così: «Mi sembrò molto carina, molto buona, molto triste. Rispondeva benissimo a tutte le mie indicazioni, ma soffriva di un certo impaccio, mi sembrava una creaturina indifesa, che nascondeva, dentro, qualcosa di molto fragile». In Ultimo tango , dice l’autore, «era stata meravigliosa, ma certo non doveva essere stata un’esperienza facile. Avere accanto Brando, poi, capriccioso e imperativo com’era, non doveva averla aiutata». Il marchio le era rimasto impresso per sempre: «Poverina - prosegue Zeffirelli -, era vulnerabile, per me nutriva un grande affetto, avvertiva il mio amore per gli sfortunati, ma forse anche il fatto che la mia natura contadina mi spinge a tenermi lontano da persone complicate come lei».
Il rifiuto verso un’interpretazione sofferta, quasi subita, avvicina la storia di Maria Schneider a quella di Maruscka Detmers, lanciata da Marco Bellocchio nel Diavolo in corpo . Quella volta la scena clou era una fellatio, sui giornali se ne parlò a non finire, e la Detmers si ritrovò nell’occhio del ciclone: «Da allora - dice Bellocchio - si rifiutò di interpretare film che prevedevano scene di nudo o simili. Era un modo per esprimere la sua ribellione». Di recente, per il dvd del film di prossima uscita, Detmers ha concesso un’intervista in cui ha spiegato che «anche se in dimensioni più contenute rispetto alla Schneider, la sequenza di sesso orale del Diavolo in corpo l’aveva fortemente condizionata». Oggi Detmers «si rimprovera per non aver accettato, a causa di quel trauma, proposte di autori importanti, solo perché avrebbe dovuto fisicamente esporsi». Le reazioni possono essere diverse, riflette Bellocchio: «Ho fatto parte, con Maria Schneider, della giuria di un’edizione del festival di Annecy, mi è sembrata una persona intelligente, colta, ma anche estremamente riservata». Bellocchio la ricorda «senza trucco, austera, come se volesse cancellare ogni tipo attenzione verso il proprio corpo. Certe volte accade, ci sono donne che assumono, per reazione, un’attitudine quasi religiosa». Verso Bertolucci, l’ex-eroina di Ultimo tango aveva sempre avuto parole dure: «Il tempo, in genere, crea distanza - osserva Bellocchio - il suo era un risentimento ingiustificato, forse più legato a se stessa che ad altri».
Repubblica 4.2.11
Maschi e femmine a distanza in Cina c´è il muro anti-flirt
Vietato ogni contatto fisico anche involontario Quindi niente baci e strette di mano
Chi supererà il "confine del rispetto tra i sessi" sarà escluso dalla corsa al successo
di Giampaolo Visetti
Si cercava anche in Cina, da lungo tempo, la giusta distanza tra maschi e femmine. Il ministero dell´educazione di Pechino, almeno a scuola, l´ha scoperta: mezzo metro. Per la precisione: cinquanta centimetri è il limite massimo della vicinanza. Lo spazio di sicurezza, ossia l´interstizio appropriato fra studente e studentessa, allarga invece la lontananza tra gli ottanta centimetri e il metro. Vietato, per abbondanza di esattezza, ogni contatto fisico, anche involontario. La guerra delle autorità cinesi all´intimità scolastica non ammette deroghe.
Chi supererà il «muro del rispetto tra i sessi», come è stato definito da un comunicato del governo, sarà escluso dalla corsa al successo. Il primo sconfinamento nell´atmosfera altrui si risolverà con una comprensiva predica dell´insegnante. Per la seconda invasione è prevista la sospensione dalle lezioni. Oltre c´è l´espulsione dalla scuola. In Occidente è una medaglia dell´adolescenza da esibire nel corso della senilità. In Cina è una macchia indelebile: impedisce l´accesso alle università migliori, compromette il sogno di studiare all´estero, preclude l´iscrizione al partito comunista. Violare i cinquanta centimetri di pertinenza della compagna o del compagno di classe, su ogni lato, spalancherà dunque le porte della disoccupazione, o della miseria. Un internauta di Shanghai, scosso dalla «legge anti-flirt», ha sintetizzato così: «Se non stai alla larga dalle ragazze sei fottuto». Per testare a livello nazionale la divisione nella promiscuità, è stata scelta una scuola media di Chengdu, nel Sichuan. Non è un caso. Tre mesi fa una scolara di tredici anni, durante il cambio di lezione, ha partorito sotto il banco: una femminuccia. Sarebbe una buona notizia, in una nazione spinta all´aborto selettivo dalla legge del figlio unico. Per i cinesi invece, attenti al divieto di tenersi per mano a scuola, o di baciarsi in università, in fabbrica e in ufficio, è stato uno choc. Nove regioni hanno subito adottato il mezzo metro scolastico precauzionale, mentre tutte, «per moralizzare il comportamento dei giovani», hanno introdotto «lezioni di galateo». Il nocciolo della questione resta che negli istituti «l´altra metà del cielo non si sfiora nemmeno con un fiore di ciliegio», come ha titolato il Quotidiano del Popolo. Alla "generazione.it" verrà in realtà insegnato di tutto: come vestirsi «con decoro», come versare il tè, come impugnare i bastoncini, come conversare e perfino come «lasciare in condizioni accessibili» la toilette. L´allarme di Pechino è chiaro: i figli della seconda potenza del mondo, allevati in solitudine e viziati dai nonni a cui vengono affidati da genitori emigrati nelle metropoli, sono maleducati e si credono «imperatori». Conoscono magari l´obbedienza confuciana. Infilano però il naso nella zuppa, spingono, ignorano il contatto con l´altro sesso e se un maschio scolarizzato incontra nel corridoio una "dragon lady", peggio per lei. Petizioni, qualche suicidio, l´eroismo di un autista di Suzhou che ha cacciato dal tram due studenti incapaci di rinviare le effusioni, hanno smosso infine il potere. Per ricordare che l´autoritarismo è pur sempre fondato sull´armonia, è intervenuto anche sugli adulti: niente scatti di carriera a chi non potrà dimostrare di prendersi cura dei genitori. Complicato ma gestibile. A scuola invece è come con il fuorigioco: questione di centimetri. Un docente di matematica, a Shanghai, ha chiesto un metro al direttore. Eccesso di zelo: licenziato.
Repubblica 4.2.11
Anna Mazzanti, storica dell’arte, curatrice dell’esposizione
Così Caravaggio ha fatto scuola tre secoli dopo
di Raffaella De Santis
«L´arte del Seicento ha avuto una grande influenza sulla pittura del Novecento, ma spesso la sua importanza è stata trascurata», spiega Anna Mazzanti, storica dell´arte, curatrice con Lucia Mannini e Valentina Gensini di "Novecento sedotto".
Perché proprio il Seicento? In fondo negli anni tra le due guerre si guardava soprattutto alla pittura del Quattrocento e al Rinascimento.
«Volevamo rivalutare un periodo meno studiato, ma comunque presente nelle opere del tempo, anche nelle tele giovanili di Annigoni. Inoltre la mostra è stata ideata nel 2010, ovvero nell´anno delle celebrazioni caravaggesche».
A che si deve il ritorno al gusto seicentesco?
«A diversi fattori, ma fu soprattutto l´esposizione che si tenne nel 1922 a Palazzo Pitti a Firenze, promossa da Ugo Ojetti, a riabilitare l´arte del Seicento. L´impatto fu grandioso. Le nature morte con brocche e ceste di frutta, i paesaggi, le grandi tele sul modello caravaggesco, i chiaroscuri violenti, divennero oggetto di una vera e propria mania».
Cosa seduceva di Caravaggio?
«Lo stile, ma soprattutto la carica di umanità. La grande capacità di Caravaggio è proprio quella di rendere umani anche i temi sacri. Così gli Apostoli di Felice Carena sono contadini con le guance annerite dal sole che richiamano alla memoria il Cristo nell´orto degli ulivi. Quadro che influenza anche il Riposo dei cavatori sul Monte Ceceri di Baccio Maria Bacci».
E le avanguardie hanno avuto un ruolo in questa operazione di recupero del passato?
«Certo, non si tratta di citazionismo puro, ma di rielaborazioni. Sono artisti che guardano il ´600 con spirito novecentesco. In Dopo il bagno di Primo Conti si riconoscono elementi della composizione seicentesca come i drappi e le brocche, ma la geometria pittorica rimanda a Picasso e al cubismo. La spazialità è moderna».
Quali elementi iconografici di novità sono introdotti nel passaggio al Novecento?
«Ad esempio alcune varianti attuali nelle nature morte, dove compare la frutta coloniale, datteri e banane. Il quadro di Gregorio Sciltian Bacco all´osteria è emblematico: abbiamo figure simili a quelle della "Vocazione di San Matteo" di Caravaggio, ma invece delle tipiche bluse a righe indossano magliette da giocatori di calcio».
Un posto privilegiato spettava ai pittori barocchi spagnoli?
«Velázquez o Ribera, furono un riferimento per i pittori della realtà come i fratelli Bueno o Sciltian. Annigoni aveva una devozione verso la pittura seicentesca, il ritratto del mendicante Cinciarda ne è un esempio. Il senso della mostra è in questo gioco continuo di rimandi tra passato e presente».