Corriere della Sera 5.1.11
Bersani: ora confronto con tutta l’opposizione. Sì a una fase costituente
Unioni di fatto: D’Alema firma, Veltroni no
di Andrea Garibaldi
ROMA— C’è l’assemblea nazionale del Pd, laggiù, alla Nuova Fiera e, dopo
l’inno di Mameli, la linea emerge chiara. «Presenteremo il nostro
programma — dice il segretario Bersani — e chiederemo un confronto a
tutte le forze di opposizione, moderate, di centro e radicali, e alle
forze sociali» . Il Pd vuole essere la guida per uscire dal
berlusconismo. E chiede una risposta. Al terzo polo Bersani spiega: «Non
siamo interessati alla riorganizzazione del centrodestra, ma ad una
fase ricostruttiva, costituente» . Alla sua sinistra, dopo aver lodato
il ruolo di garanzia istituzionale di Napolitano, avverte: «Attenti a
non ritrovarvi Berlusconi presidente della Repubblica» . Se poi
prevarranno sterili tattiche, «chiederemo che sia restituito agli
elettori il compito di indicare la strada da prendere» . E c’è un
messaggio per la Lega: «Con Berlusconi non farete il federalismo...» .
Bersani parla neanche per un’ora. Lo precede Rosy Bindi e lo introduce
il video del gruppo rock inglese Kaiser Chiefs, «I predict a riot» ,
prevedo una rivolta. Il video finisce con una giovane donna che riemerge
dopo lunga apnea. La platea dei delegati eletti dalle primarie di fine
ottobre regala al segretario un lungo applauso, in piedi, quando lui
annuncia che il partito sarà in piazza con le donne, il 13 febbraio. E
l’ 8 marzo «porteremo a Palazzo Chigi dieci milioni di firme, dieci
milioni di "Vai a casa, Berlusconi"» . Poi c’è il repertorio sulla
situazione mesta del Paese, assente sul piano internazionale,
sull’Egitto e nella Ue: «Al carnevale di Rio si preparano a divertirsi
su di noi. Ma gli italiani, perbacco, non sono quelli delle
barzellette!» . È il momento di stare vicini, così c’è un coro di
approvazione: Veltroni, Franceschini, il veterano Marini. Tiepido il
cattolico Fioroni. Ironico il «rottamatore» Civati: «Siamo all’assemblea
dell’Udc?» . Ma qualche ostacolo naturalmente esiste, qualche mina
viene innescata. Ignazio Marino e Paola Concia preparano un ordine del
giorno in cui si impegna il Pd a promuovere il riconoscimento delle
unioni civili. Firmano D’Alema, alcuni dalemiani, Sergio Chiamparino, si
arriva a quasi 70 nomi. Non firma l’area di Veltroni, boccia
l’iniziativa Fioroni. Oggi su questo si prevede tensione e ci saranno
sul tavolo altri tre documenti delicati, sul testamento biologico,
contro il nucleare, sulle primarie. Bersani ha istituito una commissione
(presidente Rosy Bindi) che affronti i temi «etici» , ma rischia lo
scavalcamento. Dai veltroniani arriva un’altra segnalazione: nel
programma sulle politiche sociali si parla di «spostare il carico
fiscale dal lavoro ad altre basi imponibili» . Una specie di «imposta
patrimoniale» , nella scia di quella proposta da Veltroni al Lingotto e
colpita da critiche nel partito. Bersani, però, giura: «Nessuno di noi
propone patrimoniali» . Ad ascoltare il segretario ci sono tutti i
dirigenti, in prima fila. Meno uno, Massimo D’Alema, che siede nella
fila numero nove, leggendo Le Monde, fra due delegati semplici: «Sono
arrivato tardi, non c’era posto...» . Più tardi, a proposito dei
«rottamatori» , rievocherà i tempi di Berlinguer: «Se avevi gli
attributi, riuscivi ad emergere anche da giovane, questa è la differenza
con quello che accade oggi» .
«All´ingiunzione del compagno Bersani, che esibisce una sua inedita e simpatica faccia feroce, suggerisco di farsi prima uno spinello o carduccianamente un bel bicchier di vino»
Repubblica 5.2.11
Scossa di Bersani alle opposizioni "Uniti o rischiamo Berlusconi al Colle"
Ma il tema diritti agita il Pd. D´Alema: sì alle unioni gay
di Giovanna Casadio
Il segretario: niente patrimoniale. Ma un documento: spostare il carico fiscale dal lavoro
ROMA - «C´è umiliazione». «I problemi del paese «marciscono». «Siamo uno dei dieci paesi più ricchi del mondo ma dalla scena internazionale siamo scomparsi, siamo invece entrati nelle barzellette dei giornali del mondo, al carnevale di Rio si preparano a divertirsi...». Pier Luigi Bersani all´Assemblea del Pd disegna con pochi tratti l´emergenza democratica italiana. Che è istituzionale, sociale, morale, civica e «chi la ignora - incalza il segretario - la aggrava». Per questo ci vuole una grande alleanza e un patto di tutta l´opposizione. E nessuno si perda in chiacchiere o illusioni, se non vuole trovarsi con Berlusconi al Colle.
Una stoccata doppia: alle tentazioni dei moderati di centro («Sappiano che Berlusconi non è condizionabile») e alle «forze radicali», alle quali chiede: «Cosa pensano del rischio di cavarsi il gusto di una presunta coerenza per poi trovarsi Berlusconi presidente della Repubblica?». Si rivolge a Vendola ma anche a Pannella. Il leader storico dei Radicali - che una settimana fa ha incontrato il premier per parlare di giustizia - reagisce: «All´ingiunzione del compagno Bersani, che esibisce una sua inedita e simpatica faccia feroce, suggerisco di farsi prima uno spinello o carduccianamente un bel bicchier di vino». Ma le polemiche restano tutto sommato a margine. Compresa quella che innesca, con un´intervista radiofonica, Matteo Renzi, il sindaco "rottamatore": «Meglio se il Pd raccoglie meno firme e ha più idee».
Tra i Democratici monta piuttosto la maretta sui diritti civili. Non era prevista la discussione nelle sei commissioni al lavoro. Perciò Marino, Gozi, Concia, Scalfarotto e Meta presentano due ordini del giorno con oltre 60 firme. Quello sulle unioni civili gay, lo sottoscrive anche Massimo D´Alema: «Questo tema era già all´ordine del giorno del governo Prodi». Divisioni e rassicurazioni. Gozi pensa a un emendamento ad hoc nel documento sulle politiche sociali. Il cattolico Beppe Fioroni si appella alla libertà di coscienza: «Io non lo voto». Barbara Pollastrini ne rivendica la necessità; Rosy Bindi annuncia il forum sulla laicità.
Però nel giorno dello scontro istituzionale tra Palazzo Chigi e il Quirinale sul federalismo, le questioni sono altre. Bersani, che aveva sentito al telefono il presidente Napolitano, gli rende omaggio. E poi scandisce: «Un passo indietro del premier o si va al voto. A Berlusconi diciamo vai a casa dieci milioni di volte, quante sono le firme che raccoglieremo e porteremo a Palazzo Chigi l´8 marzo, per il giorno delle donne». Le donne. «Noi saremo con le donne in piazza - dice il segretario - perché conosciamo le nostre mogli, compagne, figlie, amiche e non accettiamo che siano merce da vendere». È una standing ovation e sono i delegati uomini che si alzano per primi.
Sullo schermo alle spalle del palco va un videoclip dei Chemical Brothers: una donna emerge dall´acqua dopo una lunga apnea. Lo slogan del Pd è "Andare oltre". Sul pasticcio del federalismo, ad esempio. Qui, Bersani si rivolge alla Lega: «Fermatevi, non si può forzare la mano su un tema tanto delicato. Bossi si renda conto che con Berlusconi il federalismo non lo fa, che il premier vuole solo i voti leghisti per il legittimo impedimento e le leggi pro cricca». Andare oltre le promesse di finte liberalizzazioni: «Invece della modifica dell´articolo 41 della Costituzione, 41 liberalizzazioni, una megalenzuolata segnalata online dagli italiani». Sui temi economici le tante bugie di Berlusconi, come quella di accusare il Pd di volere la patrimoniale. Al Lingotto, Veltroni ne ha parlato come contributo straordinario dei più ricchi; nel documento del partito si legge: «Spostare il carico fiscale del lavoro ad altre basi imponibili». Oggi conclusioni sul programma. E si vede se l´unità del Pd regge.
«Noi maschi saremo con le donne in piazza perché conosciamo le nostre mogli, le nostre compagne, le nostre amiche, le nostre figlie. Le rispettiamo come persone e non accettiamo che siano merce da vendere. Non è accettabile dare questo messaggio alle giovani generazioni, qui non c’entra la magistratura: non è accettabile!»
Bersani: «Cosa ne pensano i radicali?», Pannella: «Prima di rivolgersi a noi, Bersani si faccia uno spinello»
La Stampa 5.1.11
“La riforma si fa solo con noi”
Bersani attacca la Lega e avvisa il Terzo polo: attenti che ci ritroviamo Berlusconi al Quirinale
di Car. Ber.
Al padiglione nove della nuova Fiera di Roma Pierluigi Bersani arriva bello carico dopo lo stop giunto all’ora di pranzo dal Colle al decreto del governo sul federalismo. Un buon viatico per cominciare nel migliore dei modi quest’assemblea programmatica con cui il Pd intende lanciare la sua «proposta al paese». Tanto più che dalla minoranza di Veltroni il segretario non si aspetta troppi sgambetti in una fase così scivolosa dal richiedere il massimo di unità sotto l’ombrello della «ditta». E dunque ha buon gioco Bersani a lanciare la domanda retorica su «cosa succederebbe in Italia se sul Colle non ci fosse una persona consapevole della sua funzione istituzionale come lo è Napolitano». Così come ha buon gioco nel lanciare l’appello «Fermatevi! Non si può forzare la mano su un tema così delicato». Attaccando subito la Lega che sulla Padania ha fatto pubblicare le foto di tutti i parlamentari del Pd e del Terzo Polo che hanno votato contro il federalismo, sotto il titolo minaccioso ed eloquente «Ecco chi ci ha tradito».
«Se la Lega - reagisce il segretario - pensa di intimorirci, ci metta pure la mia di foto, perché noi abbiamo respirato autonomia fin da piccoli e le lezioni non le accettiamo, tanto meno da chi da 10 anni puntella palazzo Grazioli». Con una chiosa che vuole essere un avvertimento, «il federalismo non lo farete mai con Berlusconi, perché a lui non interessa il federalismo, ma i vostri voti, e li userà per il processo breve o per difendere la cricca di Roma. E dunque il federalismo non si fa senza di noi e senza le nostre proposte». In realtà a stemperare la baldanza del leader ci pensa un altro dei leader della minoranza Pd, Beppe Fioroni, convinto invece che «l’atto dovuto di Napolitano» non si trasformerà in uno stop alla riforma, che sarà varata lo stesso nei passaggi in aula con i voti della maggioranza. Con quelli che il costituzionalista Stefano Ceccanti vicino a Veltroni definisce «otto spot per la Lega alla Camera e al Senato per i quattro decreti sul federalismo da qui al prossimo autunno».
Ma al di là della controversa riforma, il leader del Pd alza i toni quando mette il dito nella piaga del caso Ruby, sfoderando una serie di battute che infiammano la platea dei mille delegati. Fino alla standing ovation quando annuncia «noi maschi saremo con le donne in piazza perché conosciamo le nostre mogli, le nostre compagne, le nostre amiche, le nostre figlie. Le rispettiamo come persone e non accettiamo che siano merce da vendere. Non è accettabile dare questo messaggio alle giovani generazioni, qui non c’entra la magistratura: non è accettabile!». Un passaggio obbligato per lanciare il messaggio che il Pd è pronto a chiedere le elezioni, perché «se ci fosse un passo indietro di Berlusconi, tutti dovrebbero garantire responsabilità, perché oltre Arcore si potrebbe vedere finalmente vedere l’Italia. Se invece prevarranno arroganti tattiche di arroccamento, allora, data l’emergenza, noi chiederemo di restituire agli elettori la parola». E in quel caso per battere l’asse Pdl-Lega, l’unica strada è quella che la Bindi chiama «una grande alleanza civica e democratica». Quindi, avverte Bersani, i terzopolisti «siano responsabili», perché altrimenti il rischio è che Berlusconi poi vada al Quirinale (la domanda «Cosa ne pensano i radicali?», provoca Pannella che risponde: «Prima di rivolgersi a noi, Bersani si faccia uno spinello»).
«Voglio una risposta da queste forze politiche e non la devono dare a me, la devono dare al Paese. Si assumano le loro responsabilità e noi tireremo le somme», spiega Bersani annunciando che dopo questa assemblea il Pd presenterà il suo programma e chiederà un confronto «a tutte le forze di opposizione».
Ma sulla stesura di questo programma pesano alcune iniziative non di poco conto: come quella dei laici che fanno capo a Ignazio Marino che hanno presentato un documento sul riconoscimento delle unioni di fatto firmato anche da Massimo D’Alema. Il quale definisce questo testo «un contributo alla ricerca di una posizione condivisa», ricordando che il tema era già all’ordine del giorno del governo Prodi e che la Bindi ha annunciato che il Pd avvierà un gruppo di lavoro su laicità e diritti. E se invece sul caso Mirafiori Veltroni già ha detto la sua al Lingotto, stavolta toccherà invece all’ex leader Cgil Cofferati che oggi dovrebbe intervenire dal palco per esporre con forza le ragioni del «no». Al punto che dietro le quinte si vocifera che il «cinese» sarebbe pronto a dar vita ad una corrente della sinistra del Pd più incline a dialogare con Vendola.
Corriere della Sera 5.1.11
E Vendola apre a Casini
di Maria Teresa Meli
ROMA— Nichi Vendola scruta con attenzione il tentativo del Partito democratico di tessere la tela della Santa Alleanza. Il presidente della Regione Puglia ha capito di essere uno dei bersagli di questa operazione. Vendola sa che l’obiettivo di Massimo D’Alema e di Pier Luigi Bersani è quello di farlo trovare di fronte al fatto compiuto, costringendolo così ad accettare l’alleanza con Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, pur di non passare come il responsabile della rottura di quest’alleanza anti-Berlusconi e, di conseguenza, come il colpevole di un’eventuale nuova vittoria elettorale del premier. E Vendola sa anche che a quel punto le primarie sparirebbero come d’incanto perché Casini, com’è noto, non le ama e non le vuole. Per questa ragione il presidente della Regione Puglia ha deciso di muoversi per tempo e di calcolare le sue prossime mosse: «Figuriamoci se mi faccio incastrare e se rinuncio a uno strumento di democrazia come le primarie» , ha spiegato ad alcuni colleghi della Sel. Perciò Vendola non farà l’errore di dire un no preventivo al leader dell’Udc. Anzi, dirà di essere pronto al «confronto di programma» con Casini. E persino su Fini non scaglierà un anatema anti-fascista, pur sottolineando le differenze e le distanze. Si mostrerà conciliante nei modi, disponibile a intavolare una trattativa: «Nessun veto» . Ma una richiesta. Quella sì irremovibile: va bene allargare l’alleanza, dialogare con tutti, ma poi per scegliere il candidato di questo nuovo schieramento «si faranno le primarie» . Su questo punto Vendola non si muove neanche di un millimetro ed è convinto che per il Partito democratico sarà complicato opporgli un no solo perché Casini non vuole le primarie. «Come faranno a spiegarlo alla loro gente?» è la domanda che si ripetono nelle riunioni i dirigenti della Sel: Vendola, Franco Giordano e Gennaro Migliore. E di questo sono consci anche al Pd, a dire il vero. C’è il timore che una parte dei militanti e degli elettori si opponga alla cancellazione delle primarie, la preoccupazione che i prodiani duri e puri salgano sulle barricate, la convinzione che i veltroniani non possano dire addio a questo strumento senza combattere. Però la tentazione di evitare delle consultazioni in cui Vendola possa provare a «lanciare un’Opa sul Pd» , come ha detto Bersani nei giorni scorsi, è altrettanto forte. Finora, comunque, si tratta di manovre di posizionamento, in attesa di capire se la legislatura si interromperà davvero anzitempo e si andrà al voto. Su questo non vi è certezza alcuna nelle opposizioni. Nel Pd c’è chi è convinto che le urne saranno uno sbocco inevitabile, e chi, invece, pensa che si andrà avanti. Il senatore veltroniano Stefano Ceccanti, per esempio, è convinto che la seconda ipotesi sia la più probabile: «Ora in Parlamento si voteranno per otto volte, di qui a maggio, i decreti attuativi del federalismo, com’è possibile pensare che la Lega faccia saltare tutto: saranno mesi di spot elettorali gratis per loro, perché farne a meno?» . Nel frattempo gli occhi dei leader delle opposizioni sono fissi ai sondaggi. Quello che però forse non sanno né D’Alema né Bersani è che Silvio Berlusconi è convinto di una sua particolare teoria. Che ha spiegato l’altro giorno a qualche amico: «Se fanno la Santa Alleanza la vittoria è sicura. La mia, non la loro»
La Stampa 5.1.11
E il partito si sente preso nella tenaglia tra Nord e Sud
E c’è chi ironizza sulle minacce fisiche
di Carlo Bertini
C’ è un buon motivo che spinge Roberto Calderoli a sbandierare urbi et orbi la sua intesa con i comuni sul federalismo: quando in primavera si andrà a votare alle amministrative in ottomila campanili, buona parte dei quali al nord d’Italia, sarà ben chiaro a tutti che malgrado l’Anci guidata da Chiamparino abbia detto ok, il Pd a braccetto con i «sudisti» Fini e Casini abbia invece provato a stoppare la «grande riforma». Con la motivazione che farà aumentare le tasse, ma obbedendo in primis alla necessità di non dare alcun assist a Bossi e Berlusconi. Accollandosi così il rischio di essere messo sulla graticola dalla gente del nord quando sarà il momento di affrontare la campagna elettorale, magari estesa anche per le politiche se la situazione precipitasse. Lo sa bene Chiamparino e con lui molti amministratori del nord-est che hanno già fatto sentire la loro voce, come ha fatto l’altra sera all’assemblea del gruppo di fronte a Bersani Simonetta Rubinato sindaco di Roncade nel trevigiano. E ne sa qualcosa il varesotto Daniele Marantelli, un piddì sui generis per le sue molteplici amicizie con i leader del Carroccio. Il quale giovedì andava raccontando come i suoi amici padani lo abbiano già avvertito di stare attento, «perché ora dalle nostre parti dovrai girare con la scorta». Per questo molti Democrats avrebbero preferito che il partito optasse per una più morbida astensione. Temendo che sarà difficile presentarsi alle urne senza passare per quelli della conservazione, ostili ad una riforma che anche negli auspici del Colle andava concordata con spirito bipartisan. E ovviamente, dietro le quinte della convention del Pd, gli unici ad ammetterlo sono i dissidenti della minoranza. «E’ vero, anche se ragioni di merito giustificano un no a questo federalismo, il messaggio che passerà purtroppo sarà quello», dice un alfiere del veltronismo come Giorgio Tonini. «E anche l’avviso di Bersani alla Lega che il vero federalismo lo si può fare senza Berlusconi sarà interpretato alla fine solo come un no alla riforma...»
E se poi si sposta il tiro sull’ altro versante dello stivale, si capiscono i buoni motivi che hanno spinto il vertice del Pd a riconvocare l’assemblea programmatica non più a Napoli e tantomeno in un’altra città del sud, bensì nella capitale. In tutte le regioni del meridione, a ben vedere, il partito di Bersani correrebbe seri rischi di veder funestata la sua kermesse dalle proteste e dalle contestazioni dei suoi residui militanti: in Sicilia la base è furiosa per l’appoggio al governo Lombardo e se venisse organizzato un referendum regionale tra gli iscritti Bersani sarebbe costretto a staccare la spina al governatore. In Calabria il partito è commissariato da mesi per le faide interne, non si riescono a nominare i gruppi dirigenti e l’ex governatore Loiero ha strappato la tessera in segno di sfida. A Napoli, il commissario Andrea Orlando inviato da Roma dopo lo scandalo delle primarie «truccate», non riesce a sedare gli animi dei duellanti e non è dato sapere chi correrà come sindaco alle amministrative. In Puglia le cose non vanno meglio con Vendola che ormai ha lanciato un’opa sul partito locale dopo la sua schiacciante vittoria alle primarie e alle regionali del 2010.
Basta questo elenco, in rapida successione, a trasmettere la fotografia di un partito «imprigionato» nel centro dello stivale, ormai interdetto oltre i confini delle ben note roccaforti rosse. Per giunta bombardato quotidianamente anche da quei fortilizi, dove regnano i «rottamatori» come Matteo Renzi. O bersaniani critici come il presidente della Toscana Enrico Rossi, che da settimane incita il segretario a «cambiare tutto, a cominciare dalla sua squadra, altrimenti non andiamo lontano». Sarà pure determinato dunque Bersani nella convinzione di riconquistare l’attenzione degli italiani con la sua proposta per l’Italia che lancerà oggi su diversi punti come politiche sociali e pubblica amministrazione. Ma un primo banco di prova per verificare quanto sia forte la capacità di penetrazione del Pd sul territorio sarà la raccolta di firme per far dimettere Berlusconi, visto che entro l’otto marzo il Pd dovrà adempiere alla promessa impegnativa di raccoglierne 10 milioni in tutta Italia. «Per quello non c’è problema - assicura l’emiliano Gabriele Albonetti - per il resto la storia ci insegna che appena cambia il vento le tensioni interne si sgonfiano sempre...».
il Riformista 5.1.11
Bersani ora punta tutto sulle urne
Chiamata alle armi. Il segretario cerca di mantenere l’unità (a serio rischio).
di Tommaso Labate
qui
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/339333/
l’Unità 5.2.11
Intervista a Susanna Camusso
«Mi aspetto la reazione degli uomini al dilagare di un Paese sessuofobo»
di jolanda Bufalini
Al quarto piano di Corso d’ Italia, nell’ ampio ufficio con il ritratto di Giuseppe Di Vittorio così come lo vedeva Carlo Levi, dalla finestra un panorama mozzafiato: la galleria Borghese, i viali alberati della Villa, il segretario generale della Cgil concentra gli occhi azzurri sull’ IPhone. Veloci scambi di messaggi, Susanna Camusso è reduce dall’ accordo separato sulla Funzione pubblica, frutto di un incontro che doveva restare clandestino a Palazzo Chigi. «È evidente, evidente». Hanno letto un documento «di cui sapevano a memoria ogni parola e anche le virgole». Un accordo che «non è efficace per i lavoratori ma fa da stampella al governo, per far venire meno gli emendamenti al mille -proroghe». Noi siamo qui per un altro motivo. Perché Susanna Camusso ha messo la sua firma sotto l’ appello «se non ora quando»?
«È insopportabile la discussione sui comportamenti privati. Chi è sulla scena pubblica, donna o uomo, ha il dovere di tenere un comportamento etico. Fare politica è una scelta non un obbligo che si fa al servizio del paese e al di là degli schieramenti, ciò impone comportamenti esemplari e trasparenti. E questo è tanto più vero per un governo che ha preteso di mettere il naso nella vita privata degli italiani».
A cosa pensa?
«A Eluana Englaro, alla legge 194, per fare due esempi. Tutte iniziative contro le femmine. Da laica mi chiedo anche quale coerenza ci sia fra i comportamenti del premier e la rivendicazione su cui non sono d’accordo delle radici cristiane dell’ Europa»
Serpeggia l’accusa ‘donne di sinistra bigotte’. «Invece io trovo non accettabile come si è svolto il dibattito, soprattutto nell’ informazione televisiva. Si è fatto spettacolo di queste ragazze e delle loro aspettative».
Lei cosa pensa di loro?
«Sbagliano, nella vita non ci sono scorciatoie e le scorciatoie portano guai. Alla fine, si sono fatte imbrogliare: la sessualità consapevole è il contrario di una giovane che va con 74enne, il principe azzurro si è rivelato un barbablu. Però portare loro in primo piano nasconde l’ essenza di un vecchio che va con le minorenni. Per salvare i potenti si getta la responsabilità sulle donne e, per i comportamenti di alcune, si getta alle ortiche una storia di lotte che hanno modificato i rapporti fra donne e uomini».
Le donne, ha scritto qualcuno, “sono sedute sulla loro fortuna” «Più di tutto mi ha disturbato il titolo di un giornale di sinistra, “la fabbrica del bunga bunga”, perché per me la fabbrica è una cosa seria e il lavoro una cosa molto importante. C’ è uno slittamento grave del linguaggio maschile. Berlusconi riduce tutto a barzelletta, cerca la solidarietà maschile e alimenta i sentimenti più bassi. Però intorno c’è il silenzio dei maschi, forse condizionati da certe atmosfere da bar. Mi piacerebbe che gli uomini si indignassero e si mobilitassero, gridassero ‘io non sono così, la mia non è una sessualità malata’, perché questo spettacolo indecoroso ferisce la dignità e il rispetto delle relazioni fra i sessi. I comportamenti del capo del governo sono del tutto lesivi della dignità delle donne, anche minorenni». Non c’’è la presunzione di innocenza? «Il nostro è un paese sessuofobo, c’è una legge per cui un minore che va con una coetanea/o è punibile e se è entrato nella maggiore età da qualche mese non ho dubbi che sarebbe punito. In Italia sono stati attaccati i presidi per la distribuzione dei preservativi nelle scuole come educazione anti hiv, e l’educazione sessuale non deve essere materia di studio. Invece è consentito a un vecchio di 74 anni di frequentare ragazze minorenni, come testimoniano tanti fatti? Mi è indifferente, a questo punto, se ci sia la consumazione materiale. E poi..»
E poi?
«Gli argomenti della difesa: invece di dire ‘vi spiego come è andata’ parlano di persecuzione dei giudici. Ma quale persecuzione i?. E la storia della nipote di Mubarak? Non credo alla favola del destino cinico e baro». Come parteciperà la Cgil alla manifestazione del 13?
«Ho aderito a livello personale, è un’ iniziativa trasversale su cui nessuno deve mettere il cappello». Lei è diventata segretario generale in un momento molto difficile. Pensa che abbia influito la tendenza a fare largo alle donne quando si tratta di portare una patata bollente?
«In parte è vero ma sarebbe ingiusto verso le donne e gli uomini che hanno fatto la storia del sindacato e del movimento delle donne non vedere che è anche il risultato di tante battaglie e progressi fatti».
l’Unità 5.2.11
«Nessuna dittatura è invincibile
Siamo noi il futuro»
Il leader dei giovani per la democrazia:
«L’altra notte ci hanno sparato addosso, ho visto morire un mio compagno ma non ci fermeremo»
di U.D.G.
La sua lucidità di analisi è quella di un veterano della politica. La sua determinazione è quella dei giovani protagonisti della rivolta di Piazza Tahrir: «In questa piazza dice il popolo egiziano sta riscattando se stesso e dimostrando a tutto il mondo arabo che il “rais è nudo”, che non esistono dittature invincibili. Non accetteremo alcun dialogo con il regime fino a quando la nostra principale rivendicazione non sarà soddisfatta: il presidente Mubarak deve lasciare». A parlare è Amr Salah, leader dei «Giovani militanti per la democrazia», una delle componenti più attive nella rivolta popolare che sta scuotendo l’Egitto. Amr ha visto in faccia la morte: «L’altra notte racconta a l’Unità ero con i miei compagni sul punte quando da un auto in corsa hanno aperto il fuoco contro di noi. Il ragazzo che avevo vicino è stato colpito a morte, il suo corpo mi ha fatto da scudo. Questi assassini sono pagati dal regime e godono della protezione della polizia. I giornalisti stranieri lo hanno denunciato e per questo sono diventati bersagli da abbattere». Mentre l’Egitto torna in piazza, gli Stati Uniti negoziano un’uscita di scena immediata di Mubarak. «Obama osserva Salah sa che l’America si gioca oggi la sua credibilità agli occhi delle masse arabe. Coprire ancora un regime che uccide la sua gente significherebbe per l’America affondare con esso e per Barack Hussein Obama il discredito personale». Nonostante la giovane età, Amr, ricercatore all'Istituto per gli Studi sui Diritti Umani (Idsu) del Cairo ha già conosciuto cosa significhi essere nel mirino della polizia del «Faraone». Nel settembre scorso, l'Idsu denunciò il pestaggio e il ferimento, compiuti da agenti in abiti borghesi. Gli aggressori, che si sono identificati come agenti dei servizi segreti del regime di Mubarak, hanno atteso Salah davanti alla sua abitazione al Cairo e lo hanno picchiato duramente. Subito dopo lo hanno arrestato e portato in un località sconosciuta. Il giovane attivista dei diritti umani venne liberato il giorno successivo. Salah e i suoi compagni hanno trascorso la notte che ha preceduto il «Venerdì della partenza» in Piazza Tahrir: «Mentirei confessa se dicessi che tra di noi non c’è un po’dipaura, ma il sentimento che domina è l’orgoglio per quello che stiamo realizzando. Contro il popolo che prende coscienza dei suoi diritti non si governa, neanche schierando i carri armati o prezzolando bande di killer...». E all’Occidente alla ricerca di un leader riconoscibile della rivolta, un politico “affidabile”, il giovane Salah consiglia. “Non guardate alla vecchia generazione, questa rivoluzione ha il volto giovane. Non dimenticate che il 60% degli egiziani, 40 milioni di persone, ha meno di 25 anni...». Il nuovo che avanza, avverte Amr Salah, “è destinato a travolgere non solo il vecchio regime ma anche la “vecchia” opposizione».
Qual è il segno di questa rivoluzione in corso? «È il segno di un popolo che si è rivoltato contro un regime che aveva fatto della repressione e della corruzione i suoi tratti identitari. È la ribellione dei tantissimi giovani come me che sanno che questa gerontocrazia al potere distrugge il nostro futuro...».
Mubarak ha affermato che non si è dimesso per evitare il peggio per l’Egitto... «Il peggio è il suo voler restare al potere. Il peggio sono le bande armate pagate dal regime che in suo nome seminano il terrore. Oggi (ieri, ndr) lo abbiamo gridato in due milioni: “Mubarak, Vattene”. Solo dopo la sua uscita di scena sarà possibile aprire un dialogo di riconciliazione nazionale...».
Un dialogo condotto con il vice presidente Suleiman? «Non c’è alcuna pregiudiziale su di lui, così come è importante il ruolo che l’Esercito potrà svolgere nella fase di transizione».
C’è chi teme che la rivolta possa aprire la strada all’integralismo... «Non stiamo combattendo un regime liberticida per realizzare un regime della sharia (la legge coranica, ndr). La nostra è una rivoluzione dei diritti. Vogliamo essere finalmente liberi, e pensiamo che libertà, diritti, pluralismo, giustizia non siano incompatibili con l’Islam». Quanto ha pesato la rivoluzione «jasmine» tunisina?
«Ci ha dato coraggio, dimostrando che non esistono regimi invincibili, ma la nostra rivolta nasce da un malessere profondo e da un desiderio di cambiamento che attraversano da tempo la società egiziana. La misura era colma: ci siamo liberati della paura, e ora ci libereremo di un dittatore».
Repubblica 5.2.11
Intervista
Camusso: "Pronti al referendum contro questo vulnus democratico"
di Roberto Mania
Non in tutti i Paesi sono state ridotte le retribuzioni e se davvero ci sono delle risorse aggiuntive andrebbero utilizzate per stabilizzare i precari
L´intesa è un soccorso al governo. Non può esistere una riforma senza contrattazione e senza il coinvolgimento dei lavoratori
ROMA - Segretario Camusso, perché non ha firmato l´accordo sulla produttività nel pubblico impiego?
«Non abbiamo firmato innanzitutto perché questo accordo non costituisce una soluzione alla priorità del pubblico impiego che ha un nome preciso: precarietà».
Infatti non era questo lo scopo dell´accordo.
«Non abbiamo firmato per tante altre ragioni. Perché la premessa all´intesa era la stessa sottoscrizione dell´accordo separato del 2009 che coincide con la condivisione del blocco della contrattazione. Non abbiamo firmato perché è la prima volta che un accordo sindacale serve, come è stato detto al tavolo, per impedire che in Parlamento si presentino emendamenti al cosiddetto Milleproroghe per far slittare la cosiddetta riforma Brunetta. E ancora abbiamo detto no a un pasticcio tra la riforma e la manovra estiva che, proprio come la Cgil denunciò isolata, riduceva di fatto gli stipendi dei dipendenti pubblici. Non abbiamo firmato perché c´è un vulnus democratico anche nel pubblico impiego dove si cerca di non far rinnovare le rappresentanze sindacali, questione che, in maniera davvero audace, il governo ha pensato di superare con un accordo separato. Infine non abbiamo firmato perché in quell´intesa c´è pure un atto di imperio nei confronti delle Regioni che sulla sanità avevano firmato un contratto unitario e che ora l´intesa di Palazzo Chigi vorrebbe nei fatti modificare».
Lei ha detto che con l´accordo si prendono in giro i lavoratori. Vuol dire che Cisl e Uil prendono in giro i lavoratori?
«Quest´intesa è un soccorso al governo. Non può esistere, e i fatti lo dimostrano, una riforma della pubblica amministrazione senza contrattazione e senza il coinvolgimento dei lavoratori».
Dovrà riconoscere che, nonostante la grave crisi, ai dipendenti pubblici italiani non è stata tagliata la retribuzione. In altri paesi è stato fatto.
«A parte il fatto che non in tutti i paesi sono state ridotte le retribuzioni, se davvero ci sono delle risorse aggiuntive andrebbero utilizzate per stabilizzare i precari».
Lei crede che ci sia quello che Brunetta chiama il "dividendo dell´efficienza"?
«Nella Finanziaria del 2008 c´era una norma secondo la quale il 50 per cento dei risparmi ottenuti attraverso una maggiore efficienza sarebbe dovuto andare alla contrattazione. Secondo alcune voci ministeriali per il biennio 2009-2010 ci sarebbero 23-24 milioni. E sempre secondo le stesse voci pare che quando si è parlato di "dividendo" il ministro dell´Economia abbia detto: «Non se ne parla nemmeno». In ogni caso, se la cifra è quella vuol dire che non potrebbero essere premiati nemmeno i 600 mila lavoratori interessati all´accordo su 3,5 milioni di dipendenti pubblici. D´altra parte il ministro dell´Economia non c´era al tavolo con i sindacati pur essendo stato invitato».
Insomma: un accordo bluff?
«Un´operazione politica finalizzata a far vedere che il governo si occupa di economia e lavoratori. In realtà è un ritorno al passato, alla pratica degli accordi separati».
Considera Cisl e Uil alla stregua di due stampelle che sostengono il governo? È un´accusa grave.
«Non so se sia nelle loro intenzioni. Ma oggettivamente è così».
Il segretario della Cisl, Bonanni dice che così alimentate un clima di violenza, addirittura vi ha indirettamente paragonato ai naziskin.
«Bonanni sa bene cosa pensi la Cgil della violenza. Per questo credo che debba evitare di utilizzare questi argomenti per impedire una dialettica. Dovrebbe essere lui il primo a non usare il termine naziskin nei confronti della Cgil e delle sue categorie».
Farete lo sciopero generale del pubblico impiego?
«Lunedì decideremo le forme di mobilitazione».
Proporrete il referendum sull´accordo?
«Proporremo innanzitutto di verificare la rappresentatività di chi ha firmato, come prevedono le norme sul pubblico impiego. Poi, nel caso, chiederemo il referendum abrogativo. Anche questo è previsto dalla legge. O l´hanno abrogata?».
La Stampa 5.1.11
La Spagna si tiene la scala mobile
Sindacati e imprenditori uniti: non cambiamo sistema
di Gian Antonio Orighi
Legare i salari alla produttività e non alla scala mobile, come propone la Merkel? No grazie, risponde compatta la Spagna. Dal premier socialista Zapatero ai principali sindacati, il socialista Ugt ed il filo-comunista Comisiones Obreras (CC.OO), dal ministro del Lavoro Goméz ed addirittura dalla Ceoe, la Confindustria locale, c’è stata una levata di scudi contro la proposta già operativa in Germania e riproposta l’altro ieri durante il vertice bilaterale Madrid-Berlino.
Ma la Cancelliera ha un potente alleato, il Banco de España, che ieri ribadiva: «È imprescindibile mantenere la moderazione salariale per migliorare la competitività».
In Spagna, da 30 anni, esiste la scala mobile, che viene accordata nei contratti nazionali di lavoro e che riguarda, nel 2010, il 45 per cento degli occupati (prima, il 70 per cento). Imprenditori e sindacati concordano nei contratti e su base triennale l’Ipc, l’inflazione prevista dal governo, che rivaluta automaticamente i salari. Finito il triennio, se i prezzi sono cresciuti più di quanto previsto, gli stipendi ricevono la differenza.
Solo nel 2010, con un Ipc del 3 per cento e quella previsto dell’1%, i salariati ci hanno perso( per il momento). Prima, invece, ci guadagnavano, colpendo così gli utili delle imprese in un Paese che gode del triste primato Ue dei disoccupati (il 20,3 per cento, in Germania i disoccupati sono il 7,7 per cento).
«Sono i sindacati e gli imprenditori che devono trattare i contratti nazionali», ha tagliato corto Zapatero. Gómez, da parte sua, ha sparato: «Il modello di scala mobile non è stata una cattiva esperienza. E serve anche per recuperare le perdite delle aziende» (temporalmente, perché poi pagano la differenza a fine triennio, ndr). Toxo, leader di CC. OO, ha rivendicato: «La Spagna a poco da imparare dall’estero».
Ma non dice che, con questo modello criticato anche dal Fondo monetario internazionale e dall’Ocse, l’aumento del costo nominale per unità di prodotto spagnolo, tra il 1999 ed il 2009, è stato il secondo più alto d’Europa (+33%, preceduto da quello delll’Italia con il +35%). Incredibile ma vero, anche la Ceoe si unisce al coro. Chiosa il vice-presidente dell’associazione degli industriali a Ceoe, Fernández: «Legare i salari alla produttività ed agli utili delle imprese sarebbe un cambio molto radicale e complicato».
La Stampa 5.1.11
Egitto. Una partita cruciale per tutti noi
di Marta Dassù
A giudicare dal Consiglio europeo, l’Ue sembra rimuovere la realtà: ciò che è in gioco, nella sollevazione delle piazze arabe, non è solo il futuro dell’Egitto e dei suoi cittadini. E’ anche il nostro futuro.
Non perché Silvio Berlusconi sia l’ultimo Faraone Mediterraneo, come si ostina a sostenere qualcuno.Né perché la protesta dei giovani arabi, come sostengono altri, «faccia parte» di un ciclo di tensioni connesse alla disoccupazione e alle frustrazioni delle nuove generazioni che si estenderà progressivamente in Europa. La ragione mi sembra un’altra, più netta: è un interesse vitale delle democrazie europee - in cui includo Israele - che la crisi delle vecchie satrapie arabe non prepari future dittature islamiche. Come ha scritto giustamente Tim Garton Ash, «se questo non è un interesse vitale europeo, non è chiaro cosa lo sia».
L’illusione, anche italiana, è che questo scenario possa essere evitato affidandosi a un passato che sta crollando: perché non tenersi Hosni Mubarak? Perché, risponde anche per noi l’amministrazione americana, il prezzo da pagare sarebbe di avallare una repressione sanguinosa e violenta nel nostro cortile di casa. Un’Europa che pretenda di fondarsi su principi e valori democratici non è più in grado di farlo, neanche se lo volesse.
Quali altri scenari restano, allora? Il primo è che l’esercito egiziano - l’unica vera forza organizzata del Paese - sia in grado di gestire il dopo Mubarak mettendo al potere un volto nuovo ma in sostanza controllato dalle Forze Armate. La rivolta d’Egitto, innescando una successione forzata, sfocerebbe così in una modernizzazione autoritaria, più accettabile di quella precedente. Se l’economia riprendesse e se ci fossero passi verso una redistribuzione sociale, la cosa potrebbe riuscire. Anche perché ciò che ha veramente motivato la protesta egiziana è l’emarginazione di larga parte della popolazione dai benefici della crescita: l’apartheid economico dell’Egitto, per riprendere il termine utilizzato da Hernando De Soto.
Il secondo scenario è che la protesta egiziana produca una democrazia di facciata, illiberale. Questa è la ragione per cui Israele avverte Barack Obama che l’analogia vera non è con le rivoluzioni democratiche europee ma con il 1979 iraniano: in Egitto, come in Iran, una protesta popolare con molte anime potrebbe essere alla fine scippata dalla sola struttura politica consistente nell’opposizione, i Fratelli Musulmani. Qui il dilemma, naturalmente, è di decidere cosa vogliano realmente i Fratelli Musulmani. Ha ragione chi sottolinea la loro netta distanza dagli ayatollah persiani o chi insiste sul rischio di una deriva iraniana? Io propenderei per la prima di queste due ipotesi; e ci sono molte ragioni per cui è difficile pensare che l’Egitto, Paese che si considera il «primo Stato arabo moderno», possa mai diventare uno Stato islamico. Ma è un’ipotesi da dimostrare. E va evitato un ragionamento troppo semplice: il fatto che il regime di Mubarak abbia usato strumentalmente la lotta al fondamentalismo islamico, non significa che un rischio del genere non esista.
Il terzo scenario è che il 2011 possa davvero segnare un primo passo verso le aspirazioni democratiche del principale Paese arabo. E’ una grande occasione per il Medio Oriente, che George W. Bush avrebbe voluto imporre dall’esterno partendo dall’Iraq; e che si verificherebbe, invece, come effetto della scossa interna egiziana. Ma come tutte le occasioni della storia, contiene dei rischi evidenti. Anche per Barack Obama. Il quale viene accusato, alternativamente, di essere un G. W. Bush riciclato (di puntare anche lui sull’esportazione della democrazia, rinunciando al realismo) o un Jimmy Carter di ritorno, con le stesse debolezze e con lo stesso problema di fondo: il rischio di perdere l’Egitto - alleato essenziale degli Stati Uniti e unico Paese in pace con Israele - come Carter perse l’Iran nel 1979.
Esiste un modo per sostenere le aspirazioni degli egiziani senza perdere l’Egitto? Questa è la partita essenziale: per i giovani egiziani, per l’America, per la sicurezza di Israele e per noi europei. L’Europa, se non riuscirà a parlare in nome del proprio interesse vitale, dovrebbe almeno aiutare Barack Obama a sottrarsi al dilemma di Carter: non per tornare a una «real-politica» fuori tempo massimo o per riciclarsi come nuovo Bush. Ma per riuscire, con un mix di realismo e idealismo, a vincere una partita cruciale e che riguarda anche noi.
l’Unità 5.2.11
«Nessuna dittatura è invincibile
Siamo noi il futuro»
Il leader dei giovani per la democrazia:
«L’altra notte ci hanno sparato addosso, ho visto morire un mio compagno ma non ci fermeremo»
di U.D.G.
La sua lucidità di analisi è quella di un veterano della politica. La sua determinazione è quella dei giovani protagonisti della rivolta di Piazza Tahrir: «In questa piazza dice il popolo egiziano sta riscattando se stesso e dimostrando a tutto il mondo arabo che il “rais è nudo”, che non esistono dittature invincibili. Non accetteremo alcun dialogo con il regime fino a quando la nostra principale rivendicazione non sarà soddisfatta: il presidente Mubarak deve lasciare». A parlare è Amr Salah, leader dei «Giovani militanti per la democrazia», una delle componenti più attive nella rivolta popolare che sta scuotendo l’Egitto. Amr ha visto in faccia la morte: «L’altra notte racconta a l’Unità ero con i miei compagni sul punte quando da un auto in corsa hanno aperto il fuoco contro di noi. Il ragazzo che avevo vicino è stato colpito a morte, il suo corpo mi ha fatto da scudo. Questi assassini sono pagati dal regime e godono della protezione della polizia. I giornalisti stranieri lo hanno denunciato e per questo sono diventati bersagli da abbattere». Mentre l’Egitto torna in piazza, gli Stati Uniti negoziano un’uscita di scena immediata di Mubarak. «Obama osserva Salah sa che l’America si gioca oggi la sua credibilità agli occhi delle masse arabe. Coprire ancora un regime che uccide la sua gente significherebbe per l’America affondare con esso e per Barack Hussein Obama il discredito personale». Nonostante la giovane età, Amr, ricercatore all'Istituto per gli Studi sui Diritti Umani (Idsu) del Cairo ha già conosciuto cosa significhi essere nel mirino della polizia del «Faraone». Nel settembre scorso, l'Idsu denunciò il pestaggio e il ferimento, compiuti da agenti in abiti borghesi. Gli aggressori, che si sono identificati come agenti dei servizi segreti del regime di Mubarak, hanno atteso Salah davanti alla sua abitazione al Cairo e lo hanno picchiato duramente. Subito dopo lo hanno arrestato e portato in un località sconosciuta. Il giovane attivista dei diritti umani venne liberato il giorno successivo. Salah e i suoi compagni hanno trascorso la notte che ha preceduto il «Venerdì della partenza» in Piazza Tahrir: «Mentirei confessa se dicessi che tra di noi non c’è un po’dipaura, ma il sentimento che domina è l’orgoglio per quello che stiamo realizzando. Contro il popolo che prende coscienza dei suoi diritti non si governa, neanche schierando i carri armati o prezzolando bande di killer...». E all’Occidente alla ricerca di un leader riconoscibile della rivolta, un politico “affidabile”, il giovane Salah consiglia. “Non guardate alla vecchia generazione, questa rivoluzione ha il volto giovane. Non dimenticate che il 60% degli egiziani, 40 milioni di persone, ha meno di 25 anni...». Il nuovo che avanza, avverte Amr Salah, “è destinato a travolgere non solo il vecchio regime ma anche la “vecchia” opposizione».
Qual è il segno di questa rivoluzione in corso? «È il segno di un popolo che si è rivoltato contro un regime che aveva fatto della repressione e della corruzione i suoi tratti identitari. È la ribellione dei tantissimi giovani come me che sanno che questa gerontocrazia al potere distrugge il nostro futuro...».
Mubarak ha affermato che non si è dimesso per evitare il peggio per l’Egitto... «Il peggio è il suo voler restare al potere. Il peggio sono le bande armate pagate dal regime che in suo nome seminano il terrore. Oggi (ieri, ndr) lo abbiamo gridato in due milioni: “Mubarak, Vattene”. Solo dopo la sua uscita di scena sarà possibile aprire un dialogo di riconciliazione nazionale...».
Un dialogo condotto con il vice presidente Suleiman? «Non c’è alcuna pregiudiziale su di lui, così come è importante il ruolo che l’Esercito potrà svolgere nella fase di transizione».
C’è chi teme che la rivolta possa aprire la strada all’integralismo... «Non stiamo combattendo un regime liberticida per realizzare un regime della sharia (la legge coranica, ndr). La nostra è una rivoluzione dei diritti. Vogliamo essere finalmente liberi, e pensiamo che libertà, diritti, pluralismo, giustizia non siano incompatibili con l’Islam». Quanto ha pesato la rivoluzione «jasmine» tunisina?
«Ci ha dato coraggio, dimostrando che non esistono regimi invincibili, ma la nostra rivolta nasce da un malessere profondo e da un desiderio di cambiamento che attraversano da tempo la società egiziana. La misura era colma: ci siamo liberati della paura, e ora ci libereremo di un dittatore».
Corriere della Sera 5.1.11
Perché Togliatti aprì alla monarchia Svelato il mistero della svolta di Salerno
Il governo Badoglio chiese ai sovietici di far cambiare posizione al Pci
di Antonio Carioti
A l sardo Renato Prunas, segretario generale del ministero degli Esteri dal novembre 1943 al novembre 1946, tutti riconoscono il merito di aver rimesso in piedi la diplomazia italiana dopo la catastrofe dell’ 8 settembre. Ma ora un libro dello storico Marco Clementi sui rapporti fra Italia e Urss dal 1943 ai primi anni Cinquanta, L’alleato Stalin, getta nuova luce sul ruolo che lo stesso Prunas ebbe all’origine della «svolta di Salerno» , l’apertura verso la monarchia operata dal leader comunista Palmiro Togliatti al suo ritorno in Italia dall’Urss, nel marzo del 1944. Quella mossa colse di sorpresa le altre forze antifasciste, che fino ad allora avevano rifiutato di collaborare con il governo guidato dal maresciallo Pietro Badoglio e avevano reclamato l’uscita di scena del re Vittorio Emanuele III. In seguito all’iniziativa del Pci, nell’aprile 1944 si formò un nuovo governo, sempre guidato da Badoglio, in cui entrarono tutti i partiti del Cln, senza che vi fosse l’abdicazione formale del sovrano. La scelta di Togliatti venne a lungo presentata dalla storiografia marxista come il primo passo della «via italiana al socialismo» perseguita dal Pci, che lo avrebbe caratterizzato sempre più come un partito d’indirizzo nazionale e democratico, tendenzialmente autonomo dai sovietici. Una versione dei fatti che perse credibilità quando fu possibile accedere agli archivi di Mosca, perché emerse che in precedenza Togliatti si era pronunciato per una posizione d’intransigenza verso Badoglio, che venne poi scartata in seguito a un incontro che il leader del Pci, poco prima di partire per l’Italia, ebbe al Cremlino con Stalin. Era dunque al dittatore sovietico che andava attribuita, scrissero Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky nel libro Togliatti e Stalin (Il Mulino), la responsabilità decisiva della svolta. Ora però il saggio di Clementi evidenzia un altro elemento importante. A suggerire e sollecitare il cambio di rotta del Pci era stato alcune settimane prima proprio Prunas, nel corso di un colloquio del 12 gennaio 1944 con l’inviato di Stalin Andrej Vishinskij, il famigerato inquisitore dei processi di Mosca. In quell’incontro non solo vennero poste le basi per il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’Urss, avvenuto il 13 marzo, ma Prunas sottolineò l’esigenza di «un mutamento nell’atteggiamento del Partito comunista italiano, oggi violentemente antigovernativo» . Se il Pci avesse abbandonato quella posizione «sterile» , disse, ciò avrebbe influenzato anche gli altri movimenti antifascisti. E si sarebbe probabilmente arrivati alla costituzione di un «largo governo democratico» . Le parole di Prunas, nota Clementi, prospettano «esattamente i passaggi politici che sarebbero culminati nella svolta di Salerno» . E non meno significativa appare la disponibilità mostrata da Vishinskij, il quale gli rispose che a Mosca vi erano «alcuni comunisti italiani intelligenti e competenti» . Se a questo si aggiunge che, come risulta dal registro delle persone ricevute da Stalin al Cremlino, Vishinskij era presente, con il ministro degli Esteri Vjaceslav Molotov, all’incontro che Togliatti ebbe con il despota sovietico, nella notte tra il 3 e il 4 marzo 1944, prima di partire per l’Italia, sembra di poter concludere che alla svolta di Salerno Prunas diede un grosso contributo. Clementi non ha dubbi: scrive che in tutta la vicenda il ruolo del Pci «appare secondario non solo rispetto a quello di Mosca, ma anche rispetto a quello del governo italiano, che fu il vero ispiratore della nuova politica» . Ci fu insomma, secondo l’autore, una convergenza d’interessi tra l’esecutivo guidato da Badoglio e rappresentato da Prunas, che voleva consolidarsi sia all’interno sia sul terreno delle relazioni internazionali, e il Cremlino, che vedeva di buon occhio un rafforzamento politico del regno del Sud, per non lasciare l’Italia liberata totalmente alla mercé degli angloamericani. Quanto a Togliatti, in sostanza «funse da garante per la politica sovietica in Italia» . Un dato sorprendente è che il resoconto del colloquio tra Prunas e Vishinskij non è affatto inedito. Uscì nel 1974 in una pubblicazione della Farnesina e venne poi riprodotto nella raccolta ufficiale dei documenti diplomatici italiani. Eppure nessuno studioso ha mai prestato particolare attenzione al passaggio in cui Prunas auspicava quella che sarebbe stata la svolta di Salerno. Come mai? Interpellato dal «Corriere» , Clementi risponde così: «Dopo l’apertura degli archivi di Mosca, che schiudeva un mondo fino allora impenetrabile, l’interesse degli storici si è concentrato sui documenti sovietici e sul rapporto tra l’Urss e il Pci, mentre le carte italiane e le relazioni tra gli Stati sono rimaste un po’ in ombra. Al contrario gli specialisti di storia diplomatica, seguendo una linea di ragionamento internazionalistica, hanno trascurato il legame tra quel contesto e le scelte di Togliatti. D’altronde ricordo una lezione di Paolo Spriano, autore di una famosa storia del Pci, in cui spiegava a noi studenti che nulla è più inedito dei documenti già pubblicati, perché allo studioso può sempre sfuggire qualcosa» . Il libro di Clementi non si esaurisce nel riesame della svolta di Salerno, ma tratta molte altre questioni, dalla sorte dei prigionieri italiani in Russia al nodo di Trieste, con un approccio piuttosto comprensivo verso l’Urss, anche sul patto Molotov-Ribbentrop. Ma non manca di sottolineare la mentalità censoria dei sovietici, che non solo chiesero ripetutamente al governo italiano di far sparire dalle librerie i volumi a loro sgraditi, ma imposero al vicesegretario del Pci, Luigi Longo, di rimaneggiare pesantemente l’edizione russa del suo libro sulla Resistenza, Un popolo alla macchia: dopo lo scoppio della guerra fredda, quel testo appariva troppo generoso verso gli angloamericani e gli antifascisti non comunisti. © RIPRODUZIONE RISERVATA R Il libro: Marco Clementi, «L’alleato Stalin. L’ombra sovietica sull’Italia di Togliatti e De Gasperi» (Rizzoli, pp. 395, € 20), in uscita mercoledì 9 febbraio.
Repubblica 5.2.11
Un Paese paranormale
Ma è possibile una parascienza?
di Angelo Aquaro
La "extrasensory perception" a sorpresa è tornata di prepotente attualità, sdoganata negli Usa anche da un´autorevole rivista di psicologia sociale
Il misterioso richiamo dell´invisibile si è fatto più forte del morso della realtà. Tanto che anche un disincantato come Clint Eastwood ha dedicato all´aldilà il suo ultimo film
Anche le applicazioni dell´iPhone si adeguano e vanno a caccia degli spiriti. Ma registrare l´attività magnetica non significa trovare i fantasmi
Dai registi agli psicologi, perché all´improvviso tutti parlano del mondo extrasensoriale
Non c´è solo il successo del film di Clint Eastwood o il ritorno in libreria di bestseller dedicati all´aldilà: ora persino le riviste scientifiche dedicano articoli alle esperienze extrasensoriali e gli psicologi conducono esperimenti sulla preveggenza, scatenando liti nel mondo accademico. Ecco perché all´improvviso il mondo "Esp" vive un boom e va a caccia di una nuova legittimazione
NEW YORK. Sarete anche bravissimi a districarvi tra messaggi e messaggini però no, spiacenti, la parapsicologia non c´entra. Se il telefonino fa bip bip e già sapete che sarà l´amore vostro, la scienza ha stabilito che non è parascienza. Trattasi soltanto di probabilità statistica non elevabile al livello di eccezionalità. Punto.
Non è uno scherzo: più di settemila utenti di Twitter sono stati testati in uno dei più grandi esperimenti di parapsicologia mai tenuti, l´ultimo condotto dal più bizzarro professore di psicologia del mondo, Richard Wiseman. E bizzarro, come tutti gli esperimenti del genere, era il test: riuscite a indovinare, via Twitter, dove abbiamo spedito uno dei partecipanti? A Londra, a Liverpool, a Glasgow? I risultati hanno dimostrato non tanto l´impossibilità di "predire" la destinazione, quantomeno in un senso statisticamente rilevante, ma soprattutto il fatto che anche quei partecipanti al test che reclamavano le doti di "vista a distanza" hanno clamorosamente fallito. Il professore, naturalmente, non se ne cura: «Andiamo avanti». Mica per niente Wiseman vuol dire Uomo Saggio.
Con prudente saggezza lo studioso s´è infilato nel tunnel della conoscenza più insidiosa dei nostri tempi: quella, appunto, della parascienza, del paranormale, della parapsicologia.
La sigla in inglese recita Esp: ExtraSensory Perception. E a sorpresa, anche per i preveggenti fan, la pseudoscienza che fiorì in Occidente soprattutto negli anni 60 e 70 - prima che i miti della New Age riempissero quel vuoto spirituale che nessuna escalation tecnologica è stata mai capace di riempire - è adesso tornata di straordinaria attualità. È l´Esp-explosion. Sdoganata da un articolo sul Journal of Personality and Social Psichology, la più autorevole rivista di psicologia Usa, che ha scatenato un paraputiferio nell´ambiente accademico.
Dalle stelle della scienza a quelle di Hollywood, perfino un vecchiaccio disincantato come Clint Eastwood ha dedicato al paranormale il suo ultimo film, Hereafter, quello in cui un bravo operaio con la testa sulle spalle, Matt Damon, nasconde dentro di sé la capacità di parlare con i morti. Una storia che in altri tempi sarebbe stata confinata in quelli che a Hollywood chiamano B-movie. E che invece è stata partorita dalla penna di uno sceneggiatore, Peter Morgan, che ha costruito il suo successo sempre su storie vere, da The Queen a Frost/Nixon. Il richiamo dell´invisibile, evidentemente, è più forte del morso della realtà. Anzi: spesso è proprio quel morso a riaprire la ferita della conoscenza mai sanata. «Ho cominciato a pensare al film dopo la perdita di un amico carissimo» dice Morgan. «Un incidente. Era successo così all´improvviso. Non aveva alcun senso. Al suo funerale mi ritrovai a fantasticare: il suo spirito deve trovarsi da qualche parte, qui intorno a noi. Ma dove?».
Il dolore ci può scaraventare nell´abisso delle domande senza fine. Ma le storie sull´aldilà non hanno mai smesso di fare la fortuna degli editori nell´aldiqua. Dopo aver sbancato ogni record due anni fa, Heaven is for real, il Paradiso esiste, è tornato ora in testa alla classifica dei tascabili Usa. Storia vera o paravera? Todd Burpo, un pastore battista del Nebranska, racconta del figlioletto andato e tornato dal mondo dei morti, dato per spacciato durante un´operazione e invece riapparso per rivelare di aver parlato con la sorella abortita di cui nessuno gli aveva mai detto.
Scienza o parascienza? Storia vecchia. Già ai primi del ´900 fiorivano gli Spiritualisti contro cui si scagliò nientemeno che il principe di tutte le illusioni: Erik Weisz, in arte Henry Houdini. Anche nel suo caso, proprio la perdita di una persona cara, la mamma, lo spinse a cercare una via per mettersi in contatto con lei. Scoprendo, lui figlio di un rabbino, che quelle brave signore che giuravano di parlare con i morti erano in realtà delle simpatiche truffatrici. Ci scrisse su anche un libro, il re dei maghi: Miracle Mongers and Their Methods, Trafficanti dei miracoli e i loro metodi. Cioè trucchi. Che, da allora, non è che siano cambiati molto.
Basta affacciarsi su quello schermo della quotidianità che è diventato l´Apple Store, il negozio virtuale dove c´è sempre una risposta, o quantomeno un´applicazione, per tutto. Paranormal Activity Locator: l´applicazione che localizza l´attività paranormale intorno a voi. Paranormal State Meter: l´applicazione che misura l´attività magnetica. E via di seguito per una decina di app che si sfidano solo nel nome. Ovviamente registrare attività magnetica non vuol dire registrare presenze extrasensoriali. Ma l´offerta risponde, come si sa, alla domanda. E su ehow. com, il sito che ti spiega come diventare di tutto, puoi seguire ovviamente anche le istruzioni per trasformarti in un cacciatore del paranormale.
Ma attenti a incamminarvi per quella che potrebbe sembrare la conclusione, manco a dirlo, più logica: sciocchezze. A metà tra scienza e parascienza, per esempio, c´è l´Institute of Neotic Sciences che Dan Brown ha resto famoso in tutto il mondo nel suo Simbolo perduto e i cui esperimenti - alcuni esperimenti - sono stati benedetti anche dall´Università di Princeton.
In fondo il paranormale nasce da una costola del normale. La stessa parola "parapsicologia" viene tenuta a battesimo in una facoltà di psicologia, Duke University, North Caroline, 1930. E lo stesso, saggissimo professor Wiseman, che sta per pubblicare l´attesissimo Parapsicology, frutto di vent´anni di lavoro, ha cominciato i suoi studi in quell´Università di Edimburgo che all´interno della facoltà di psicologia sbandiera la Koestler Parapsicology Unity: un dipartimento nato per onorare il testamento dello scrittore Arthur Koestler, quello di Buio a mezzogiorno, che divise la sua opera tra denuncia dello stalinismo e - lo ricordate? - la predica del paranormale.
Proprio a Richard Wiseman s´è rivolto il New York Times quando la polemica esplosa tra gli psicologi ha tracimato il confine dell´Accademia. Il motivo del contendere? Uno dei più autorevoli studiosi americani, Daryl Bem, ha pubblicato una ricerca in cui si ipotizza la possibilità di risposte extrasensoriali: la capacità, per esempio, di indovinare dove comparirà una determinata immagine in un computer - che sarebbe un po´ la versione aggiornata dei primi esperimenti di Esp, quelli con le "carte Zener" di cui bisognava mentalmente pre-leggere il segno.
Dov´è lo scandalo?, si chiede Wiseman. Anche la parapsicologia è una scienza, come le altre: e quindi se gli esperimenti rispondono a un certo requisito metodologico vanno pubblicati. Bestemmia, replica un filosofo come Anthony Gottlieb: come si fa a dimostrare "scientificamente" il miracolo? E cita, il professore, nientedimeno che David Hume, che già 300 anni fa avvertiva: «Nessun testimone è sufficiente a stabilire un miracolo, a meno che la sua testimonianza sia tale per cui la dimostrazione della sua falsità sarebbe più miracolosa del fatto che vuole dimostrare il vero».
Vi siete incartati? Tranquilli. In fondo è più o meno la versione filosofica di quella vecchia barzelletta. Un tizio finalmente si decide di andare da un preveggente. Bussa alla porta. Il veggente, da dentro: «Chi è?». E il tizio: «Cominciamo bene...».
Repubblica 5.1.11
In questo sistema globalmente comunicante ci affascina l´idea che esistano le premonizioni Perché se ne è convinto qualcuno alla fine ci credono tutti. Come è accaduto per gli Ufo
Tranquilli, l´ESP è solo un bisogno in laboratorio non ci sono prove
di Giovanni Bignami
Per un attimo, il New York Times aveva fatto tremare i cultori di Smorfia, a Napoli. Da un suo recente pezzo, forse un po´ troppo sensazionale (anche i ricchi piangono…), sembrava che prevedere i numeri del lotto fosse più un geloso privilegio di specialisti partenopei. Perché potevano essere molti quelli capaci di leggere nel futuro. Anzi, la previsione del futuro apriva la strada, secondo "All the news that´s fit to print", allo sdoganamento della ESP (percezione extrasensoriale). No, per fortuna possiamo dire agli "smorfiosi" di dormire sonni tranquilli (e ricchi di sogni): le news riportate dal Nyt sulla ESP sono del tipo STB (Sono Tutte Balle).
Vediamo i fatti. Un rispettato prof di psicosociologia (dotato di grande humor, pare) riesce a pubblicare su una importante rivista che alcuni suoi soggetti sanno prevedere correttamente un evento di tipo "sì/no" più della metà delle volte. Capite che, se fosse vero, si tratterebbe di persone capaci di prevedere il futuro. Alti lai dalla comunità accademica Usa: la rivista non avrebbe dovuto pubblicare, tutti si sentono offesi e imbarazzati. C´è chi dice che l´autore voleva scherzare (e forse è vero…). Analisi più dettagliata dei dati rivela una statistica risibile: il risultato ha la probabilità del 5% di essere casuale, ottenuto per caso, insomma falso.
A un osservatore superficiale sembra poco, il 5%. In realtà, se si vuole dimostrare qualcosa di eccezionale, come in questo caso, si richiedono statistiche molto, ma molto migliori. Se prendessimo per buono un risultato con una simile validità statistica, avremmo già scoperto il bosone di Higgs, le onde gravitazionali, la fusione fredda e quant´altro (tutti risultati già ottenuti con probabilità più piccole del 5% di essere falsi, ma poi rivelati falsi). Il grande planetologo americano Carl Sagan, spesso interrogato su visite di alieni & C., diceva: extraordinary claims require extraordinary proofs. Giusto, ma qui, davanti a una affermazione straordinaria (previsione del futuro), si portano prove del tutto insufficienti. CVD (come volevasi dimostrare): STB.
E allora? Quid della fascinazione, da sempre presente, per il "paranormale" (ESP o altro), che sembra in aumento? Insomma, esiste una epistemologia della Smorfia? Non credo proprio, ma il fenomeno va analizzato e compreso. Viene in mente la correlazione con le visite degli extraterrestri e con i viaggi spaziali intergalattici. Ho appena scritto un libretto dall´incauto titolo, I marziani siamo noi, che vuole essere solo un bignami dell´Universo, un racconto dal Big Bang alla vita. Sono stato sommerso di domande. Molte, più che sulla vera ricerca spaziale, erano centrate sul colore degli occhi degli extraterrestri che vengono a trovarci su Ufo più veloci della luce. Visite spesso vissute in prima persona e tutte basate su fenomeni irripetibili e comunque non verificabili. Anche qui, la spiegazione STB, purtroppo l´unica possibile, sembra ogni tanto scivolare come l´acqua sul marmo.
Anche persone colte, laureate, sembrano aver bisogno di credere in ESP o Ufo, ne sono attirati e affascinati. Perché hanno questo bisogno? Perché ci credono gli altri, essenzialmente. Perché non posso non andare a quell´outlet se ci è andata la mia amica, e comunque è figo fare branco. Se credo all´oroscopo (che è sempre uguale a un altro, vedi Bersani e Berlusconi, stesso compleanno il 29 settembre) ho meno paura del futuro. Il fenomeno è vecchio come il mondo, forse oggi viene solo amplificato. E ci sono da sempre ondate di moda. Gli Ufo sono stati visti quasi solo dagli anni 50, prima niente, e oggi sono molto più rari, preferiscono non farsi vedere ma tagliare artisticamente i campi di grano.
In un mondo globalmente comunicante diventa inevitabile che qualcuno sia tentato, certo in buona fede, di provare uno sdoganamento, una epistemologia della Smorfia. Non si può dare un giudizio negativo su ogni sforzo di capire, anche se confuso o privo di metodo (purché in buona fede). Ma il metodo scientifico, quello vero, ce l´abbiamo da più di quattro secoli. Il suo uso incorretto o insufficiente sembra essere alla base della tempesta-in-un-bicchiere del New York Times. Ma il fatto che se ne parli tanto, ci dice qualcosa, anche se non so cosa. Forse ci manca l´ABC dello STB.
(L´autore è professore di astronomia e astrofisica allo Iuss di Pavia, membro dell’Accademia dei Lincei, è stato direttore scientifico dell´Agenzia Spaziale Europea)
Repubblica 5.2.11
Per la prima volta va in scena a teatro il celebre film di Marco Bellocchio del 1965 che lo stesso regista ha adattato. Con Ambra Angiolini e Piergiorgio Bellocchio
Orrori di famiglia crudeli ma non troppo
di Rodolfo Di Giammarco
Visione senza alcuna speranza nei confronti dell´uomo di oggi, e catastrofica profezia del deserto emozionale che incombe, il film di Marco Bellocchio I pugni in tasca fu nel 1965, e lo resta ancora oggi, un capolavoro cui riferiamo una ricerca lucida e spietata sul crollo dei costumi, delle relazioni domestiche, dei ruoli in società. Ora a quasi mezzo secolo di distanza, con una parte di pubblico che conosce il titolo di culto ma magari non possiede dimestichezza con la pellicola, sarebbe pedante fare il confronto tra il film e l´adattamento teatrale dello stesso Bellocchio, con regia di Stefania De Santis, e con un cast dove emergono Ambra Angiolini e Pier Giorgio Bellocchio nei panni dei fratelli crudeli, ovvero la Giulia apatica e complice e l´Alessandro due volte omicida (di madre cieca e bigotta, e di fratello con handicap). Ed è giusto parlare solo dello spettacolo d´adesso, prodotto da Roberto Toni, del suo tentativo di proporsi come teatro angoscioso e duro tra quattro mura, con orrori cui ormai la cronaca nera ci ha assuefatti.
Faremmo un´unica eccezione citando il solo elemento comune al grande schermo d´allora e all´allestimento d´adesso, le musiche ben presenti e ossessive di Ennio Morricone con l´aggiunta potente del finale "liberatorio" del primo atto della Traviata quando, in chiusura, entra in crisi e stramazza il deus ex machina Alessandro, sotto gli occhi impassibili (gelidi) della sorella. Poi c´è però da fare il punto con la teatralità de I pugni in tasca. La trascrizione ambientale, il colpo d´occhio risponde a un impianto farraginoso, che nell´intento di accorpare più luoghi ha le sembianze di uno spazio a più livelli e più comparti come s´usava in modo storico e antiquato per i drammi di Tennessee Williams (scene di Daniele Spisa). Al di là della diretta parentela col film, il copione di Bellocchio ha una sua forza verbale che in parte sostituisce (e in parte no) i quadri muti ed emblematici che restano patrimonio del cinema, ma in sostanza regge all´impatto dei rapporti fisici, delle schermaglie dal vivo.
Vale a dire che l´inferno a porte chiuse dove ad affermarsi sarebbero la catatonia della madre e la malattia del fratello più alienato svela anche ora, sulla ribalta, i meccanismi per cui, dopo il formale distinguersi di Augusto (e della sua fidanzata), a fare piazza pulita con due mosse criminali è il fratello malato ma perverso, con la connivenza postuma della sorella. Manca, forse, quel clima d´aridità morbosa e patologica con disincanto fraterno che poi ha immaginato Houellebecq ne Le particelle elementari. Ma Bellocchio ha riletto Bellocchio. Il problema è che, pur in presenza di un testo forte, non si rintraccia un disegno registico emotivo e disperato d´insieme di Stefania De Santis. Va detto che Pier Giorgio Bellocchio è ben teso come ci si aspetta dal suo Alessandro, e che Ambra Angiolini contribuisce con fermezza, ambiguità, toni risoluti e versatilità di figura impersonando Giulia. Poi c´è l´ordinario senso delle convenzioni dell´Augusto di Fabrizio Rongione, la mitezza matriarcale della Madre di Giulia Weber, l´infermità del Leone di Giovanni Calcagno, e la quotidianità estranea e osservatrice della Lucia di Aglaia Mora. Ma è un Dies Irae, questa versione scenica de I pugni in tasca, cui manca spesso la struttura dell´insopportabilità, dell´intolleranza, dell´ossessione di persone innocenti e guaste allo stesso tempo.
Il Messaggero 5.2.11
Quirino/“I pugni in tasca” di Marco Bellocchio
Il seme del dolore
di Rita Sala
qui
http://carta.ilmessaggero.it/view.php?data=20110205&ediz=20_CITTA&npag=20&file=CC_538.xml&type=STANDARD
Avvenire Agorà 5.1.11
Eugenio Borgna, la solitudine che vince il rumore
Accettare lo stare da soli come un segno della Grazia. Un’arte difficile che esige di saper ascoltare il silenzio. Parla lo psichiatra italiano
intervista di Marina Corradi
«Emily Dickinson, Etty Hillesum, Madre Teresa: donne con la nostalgia dell’infinito. Una ricerca che è anche nella poesia e nella preghiera»
«Solitudine» è parola usata quasi sempre in un’accezione negativa. Normalmente è sinonimo di emarginazione e esclusione. Ma l’ultimo saggio dello psichiatra Eugenio Borgna (La solitudine dell’anima, Feltrinelli) osa parlare anche di un’altra solitudine. Della ricercata solitudine di chi sceglie di sfuggire al rumore cui quotidianamente siamo consegnati. Della 'bella' solitudine dei mistici; della creativa solitudine dei poeti. Su questa parola dunque Borgna indaga e ne trae un’altra, oggi oscurata, dimensione. «Occorre distinguere – dice Borgna – la solitudine dall’isolamento, che ne è la faccia negativa: la condizione cioè imposta da dolore, malattia, povertà, o dalla nostalgia feroce di un lutto. Anche l’isolamento però può essere scelto: è il rifiuto intenzionale dell’altro, o il vassallaggio delle proprie pulsioni egoistiche, che rompe ogni comunione con il prossimo».
Ma l’altro volto, luminoso, della solitudine è appunto la solitudine scelta: «Per cercare – dice Borgna – il proprio cammino di vita interiore: In interiore homine habitat veritas, noli foras ire…, ammonisce Agostino ». E tuttavia i due aspetti, l’isolamento afflitto e la ricerca di sé, non sono regni divisi da invalicabili confini: «Esistono sconfinamenti, e correnti carsiche, che fluiscono dall’una all’altra condizione. Perché ogni forma di isolamento può essere riscattata».
La nostalgia c’entra dunque con la solitudine, come eco di qualcosa che conoscevamo e abbiamo perduto?
«Certo. La 'bella' solitudine di Teresa d’Avila è domanda di attingere a qualcosa di non più tangibile, come in una memoria perduta. In Teresa, la solitudine è apertamente chiamata 'grazia'; e 'disfatta', è quando questa solitudine scompare. In una sfolgorante intuizione: solitudine è lo spazio vuoto che può essere colmato da Dio. Come suggerisce anche un verso di Emily Dickinson: 'Forse sarei più sola/ senza la mia solitudine'».
Ma un’altra Teresa, Teresa di Calcutta, che lei cita, in diari straziati dice di una notte di solitudine interiore, del suo 'sorridere sempre', mentre dentro si avverte completamente vuota. Che razza di solitudine è, questa? Non potrebbe essere quasi come una talpa che scava un vuoto più grande, per fare spazio a un altro che preme?
«Ogni solitudine è ritorno in se stessi, e ascolto dei motivi di dolore in noi. Se viviamo esposti al rumore, senza mai staccarci da questa terribile elisione di ogni relazione vera, ecco che la solitudine, pur aprendoci orizzonti senza fine, ci ferisce, perché ci fa conoscere esperienze che nella vita immersa nel rumore non possiamo nemmeno immaginare».
D’altronde il 'rumore' è lo stato in cui la maggioranza di noi vive.
«Sì, viviamo nel terrore del silenzio, e nella angoscia del confronto con noi stessi, e con il senso. Teresa di Calcutta, nella sua solitudine di ghiaccio, aveva una nostalgia straziata di Dio e dell’infinito».
Chi si affaccia sul silenzio di una clausura ne resta spesso affascinato e insieme spaventato. Che cosa nella solitudine monastica ci sbalordisce, e però ci fa paura?
«Da una parte il fatto che in clausura ci si sottrae al mondo, e agli affetti. Scompare quasi completamente la parola, nel silenzio che sigilla. Chi non ha una fede altissima e un’acuta nostalgia dell’infinito percepisce in tutto questo un’eco di morte – morte delle cose contingenti. Ma quando assisti, come a me è capitato nel monastero di San Giulio a Orta, ai voti di giovani donne che con voce ferma e dolce rispondono al vescovo: sì, abbandono il mondo, allora intuisci che la clausura è il luogo di un incontro assolutamente concreto.
Queste donne sono la testimonianza di una nostalgia di infinito che vive in noi. E tutto questo è grazia, come diceva Bernanos».
Nel libro lei cita Etty Hillesum, la giovane ebrea morta a Auschwitz che scriveva: 'Innalzo intorno a me le mura delle preghiera come le mura di convento'.
«Nel mezzo dello sfacelo delle persecuzioni naziste la preghiera per la Hillesum è scudo, è invisibile cortina che la salva dal nulla. Ma da dentro quelle mura vedeva tutto, concependo un senso anche alla morte e allo strazio».
E tra solitudine e poesia, che rapporto c’è?
«Siamo sempre dentro alla nostalgia dell’indicibile. La solitudine affranca, ringiovanisce, è premessa, come la malinconia, della genesi della esperienza poetica. Solitudine, anche qui, è un rientrare in sé, e ascoltare gli abissi».
Allora poesia e preghiera si assomigliano?
«La grande poesia difficilmente si distingue dalla preghiera. Penso a Petrarca, a Dante. Il luogo di comunanza è che entrambe attingono alla più profonda domanda, e che entrambe nascono più abbaglianti dalla disperazione. Certo l’ultimo orizzonte della santità è Dio, che incendia e trasfigura tutta la vita; mentre la poesia è maieutica per gli altri. In un certo senso, i poeti sono dei messaggeri. E però quali affinità tra l’ostinato bussare di Leopardi contro una porta che apparentemente non si apre, e lo strazio oscuro di madre Teresa».
Anche la psichiatria, lei scrive, è incontro fra due solitudini.
«Da un anno mi confronto con due pazienti ad alto rischio di suicidio. È come parlare con qualcuno che minacci di buttarsi da un cornicione; è la disperata tensione a stabilire una relazione con il malato, a non sbagliare una parola. È allora che uno psichiatra avverte la sua impotenza, e si comprende egli stesso solo: in una solitudine che è emblema di uno scacco senza fine».
La Stampa 5.1.11
Il fascino del deserto dei filosofi La Farnesina: meglio non andare
Poche strutture turistiche, viaggi massacranti E predoni in attesa
di Raffaello Masci
"10 mila turisti italiani in Algeria ogni anno La meta preferita è Tamanrasset la città in mezzo al deserto
77 mila i posti letto negli hotel in Algeria Un terzo di quelli in Tunisia e un quarto di quelli in Marocco"
Chi fa il libero turista in Algeria, si espone a un rischio certo. Lo si evince leggendo il sito viaggiaresicuri.it che il ministero degli Esteri, insieme all’Automobile Club, gestisce e mette a disposizione di tutti gli italiani che vogliono o debbono spostarsi in Paesi stranieri.
Il 10 gennaio scorso, nella pagina dedicata all’Algeria, si leggevano i seguenti consigli: «Si raccomanda particolare prudenza, negli spostamenti all’interno di Algeri e delle altre principali città, alla luce dei disordini verificatisi dai primi di gennaio 2011 in vari quartieri della capitale, di Orano e di altre città del Paese. Vanno pertanto evitati i luoghi di eventuali manifestazioni e assembramenti di protesta, tenendosi informati in loco attraverso i mass media sulla situazione».
E questo vale per le città, Algeri in testa, che sono considerate luoghi se non sicuri almeno monitorati. Figurarsi le aree desertiche del Sud, tipo quella in cui la nostra sfortunata connazionale si è avventurata: «Si registra una accresciuta instabilità della regione saheliana - dice ancora il sito - confermata dagli episodi di sequestro, registrati nel corso del 2010, a danno di cittadini occidentali perpetrati da gruppi legati al movimento terroristico di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Si sconsiglia fortemente pertanto di intraprendere viaggi turistici nelle regioni confinanti con Mali, Niger, Mauritania e Libia». E proprio al confine con il Niger si trova l’area di Djamet, probabile teatro del rapimento.
Insomma, non è aria. Tant’è che il turismo europeo verso l’Algeria è pressoché nullo, e i dati dei flussi non vengono neppure considerati in quanto statisticamente (ed economicamente) marginali (con l’eccezione di quelli dalla Francia). «Gli italiani che vanno in Algeria - dice Stefano Landi, il maggiore esperto italiano di marketing turistico - sono all’incirca 50 mila l’anno. Di questi, però, 40 mila sono i cooperanti di grandi aziende, soprattutto petrolifere, che agiscono nel Paese. I turisti veri e propri, quindi, non superano i 10 mila e scelgono in gran parte, oltre che la capitale, l’area di Tamanrasset, la città dei Tuareg in mezzo al deserto». Bella e suggestiva zona, indubbiamente, ma gravata (anche questa) dalla tragica memoria della morte violenta del filosofo e monaco francese Charles de Foucauld, nel 1916.
Tra Algeri a Tamanrasset ci sono circa 1.300 chilometri che richiedono un viaggio a tappe, relativamente sicuro, ma al di fuori di questo percorso può accadere di tutto. «Peraltro - aggiunge ancora Landi - l’Algeria, a differenza degli altri Paesi del Maghreb, non è affatto attrezzata per il turismo. Se nella vicina e piccola Tunisia, per esempio, ci sono 240 mila posti letto in hotel, e nel Marocco siamo sui 350 mila, in Algeria arriviamo a malapena a 77 mila, di cui la metà nelle grandi città dove alloggiano tutti gli uomini d'affari. Un altro terzo si trova lungo la costa ma è sostanzialmente destinato ad un turismo interno. Solo il 15% si trova lungo i percorsi turistici del Sahara». Pochi alberghi, dunque, e standard qualitativi bassissimi. Conviene andare in Algeria?
La Stampa Tuttolibri 5.1.11
La matematica è poesia grazie a Calvino
Scienza e fantasia Una logica rilettura delle «Lezioni americane»
di Federico Peiretti
Nell’estate del 1985 Calvino stava preparando una serie di lezioni che avrebbe dovuto tenere all'Università di Harvard. Sei lezioni per mettere in evidenza «alcuni valori della letteratura - scriveva Calvino - che mi stanno particolarmente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio». Scelse per questo sei parole, ognuna delle quali, secondo lui, evidenziava un carattere essenziale della letteratura: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza. Stava terminando il suo lavoro, quando improvvisamente morì, il 19 settembre 1985, all’età di 62 anni, e la sesta parola rimase incompiuta.
Le sue Lezioni americane sono la testimonianza di uno dei più grandi scrittori del Novecento sull’essenza del lavoro dello scrittore. Calvino vuole dimostrare che matematica e poesia hanno praticamente la stessa struttura. «L'atteggiamento scientifico e quello poetico coincidono - scrive - entrambi sono atteggiamenti insieme di ricerca e di progettazione, di scoperta e di invenzione».
Gabriele Lolli, docente di Filosofia matematica alla Normale di Pisa, logico eccellente, nel suo nuovo libro, Discorso sulla matematica , parte dalle Lezioni di Calvino per proporre un percorso inverso: dalla letteratura alla matematica. Questo per dimostrare che l'analisi di Calvino, sui fondamenti della letteratura, ben si adatta all'analisi del pensiero matematico. «Le Lezioni sono un racconto filosofico sulla matematica - osserva Lolli - un racconto che, grazie alla raffinatezza di Calvino, trasmette alla matematica tutta la bellezza e il fascino della letteratura».
E Lolli parte proprio dalle sei parole scelte da Calvino: «Vogliamo parlare della matematica - afferma - usando le stesse parole che Calvino ha rivolto alla letteratura». E questo per convincere il lettore che la matematica è poesia. Un lettore non prevenuto naturalmente, che non abbia avuto con la matematica soltanto un rapporto scolastico conflittuale. A facilitare il compito di Lolli c'è sicuramente l'interesse per la scienza e in particolare proprio per la matematica di Calvino, la sua amicizia con Primo Levi e la sua adesione, negli Anni Sessanta, quando si trasferì a Parigi, al gruppo dell’Oulipo, fondato da alcuni scrittori e matematici francesi, che perseguivano l'obiettivo di una scrittura che fosse «immaginazione scientifica, linguaggio logico e struttura matematica». E’ originale e seducente il lavoro di Lolli: «Convivono nella matematica - scrive - il fascino dell’esattezza scientifica e dell’infinita indeterminatezza del mondo dell’anima». Un bel teorema, Lolli ne è convinto, ha lo stesso valore e la stessa attrazione di una pagina di un grande scrittore, con una parte indefinita, aperta verso nuovi mondi, verso nuove dimostrazioni, solo intuite.
Per seguire le sue riflessioni sono sufficienti le conoscenze di uno studente delle superiori. Ma il modo migliore per affrontare la lettura del libro è quello di mettere da parte i nostri ricordi scolastici, per scoprire le meraviglie del mondo matematico lungo i percorsi suggeriti da Lolli. Si prenda, ad esempio, uno dei teoremi che ci propone di analizzare, molto semplice, la dimostrazione dell’uguaglianza degli angoli alla base di un triangolo isoscele. Dimentichiamo la dimostrazione meccanica che si trova sulla maggior parte dei testi scolastici e seguiamo il suo consiglio di «lasciar vagare la fantasia», inventando noi una nostra personale dimostrazione. Forse meno bella di quella di Euclide, ma solo così scopriremo che il procedere del ragionamento scientifico segue le stesse regole del racconto e della poesia: «Nessuno ha il coraggio di dire agli studenti che la matematica è come le fiabe - scrive Lolli - perché non sembrerebbe serio, ma se si vuole entrare nel mondo della matematica bisogna essere consapevoli che ci si deve atteggiare come nei confronti delle fiabe, o dei miti».
Il libro di Lolli presenta una serie straordinaria di spunti e riflessioni, alla ricerca della vera natura della matematica. Alla fine il matematico dovrebbe essere portato a chiedersi che cosa stia facendo, di che cosa si occupi e lo stesso dovrebbe fare l'insegnante di matematica, cercando di capire che cosa stia insegnando e anche lo studente dovrebbe chiedersi che cosa stia studiando. Solo se riusciremo a liberare la nostra fantasia scopriremo che un teorema di Pitagora o di Euclide, di Hilbert o di Gödel sono belli quanto una poesia di Leopardi o un racconto di Calvino. E per questo sarebbe necessario partire dalla scuola, con una rivoluzione didattica copernicana, che metta al centro lo studente e non un programma di formule e calcoletti, sovente inutili. Ma qual è la scuola disposta a liberare la fantasia?
"Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza: sei parole per definire il mondo dei numeri Gabriele Lolli propone un affascinante viaggio fra problemi e teoremi, affrontati come fiabe o miti"
La Stampa Tuttolibri 5.1.11
Giusta o ingiusta, siamo figli dell’Ira
Bodei. Un viaggio affascinante e inquietante da Achille a Mosè, da Kant a Giovanni Paolo II
di Lelio Demichelis
«La passione furente»: nobile, se rivolta contro le ingiustizie; temuta, se implica perdita di autonomia e giudizio
Si dice: è stato uno scatto d’ira; oppure: è accecato dall’ira. In realtà, l’ira ha molte facce, molte gradazioni. E’ ira contro se stessi e contro gli altri. Nasce da un’offesa o dal sentirsi traditi e ingannati. E’ l’ira funesta di Achille, che «infiniti addusse/lutti agli Achei». E’ l’ira di Dio, quando Mosè torna al suo popolo dopo avere ricevuto le Tavole della Legge e lo trova a danzare attorno al Vitello d’oro, e il Signore gli dice: «Che la mia ira si infiammi contro di loro». E Mosè prima chiede al Signore di desistere, poi è lui stesso a scatenare la sua ira (politica, non divina) per ricostruire la comunità e la sua dipendenza dal Signore: spezza le Tavole, distrugge il Vitello e invocando Dio dice ai figli di Levi: «Metta ognuno la sua spada al fianco. Passate e ripassate per il campo, da porta a porta e uccida ciascuno il suo fratello, ciascuno il suo prossimo e ciascuno il suo parente».
All’ira dedica un libro bellissimo - Ira. La passione furente - il filosofo Remo Bodei, nel penultimo volume della serie dedicata, per la cura di Carlo Galli, ai sette vizi capitali. L’ira: una passione alla quale, «fin dall’antichità si imputa la perdita temporanea dei beni più preziosi: il lume della ragione e la capacità di autocontrollo». Una «forma di cecità o di follia provvisoria». Passione irrazionale, preda della dismisura, «dal sapore amaro»; ma con una sua logica: perché «a stravolgere non è il singolo episodio da cui trae immediatamente origine, ma tutte le frustrazioni, le attese tradite, le speranze non realizzate o mal pagate, le irritazioni accumulate che si condensano, collassano ed esplodono simultaneamente perché, avendo raggiunto una massa critica, si scaricano sul bersaglio più vicino».
Passione triste per Spinoza, l’ira può anche produrre un certo piacere (Aristotele). Bifronte, per l’Occidente: nobile, se rivolta contro le ingiustizie; temuta, se implica perdita di autonomia e di giudizio (generando diverse alternative di senso e di ira). E’ un peccato per i cristiani, giustificato però se è a vantaggio del prossimo (per Gregorio Magno o i domenicani) e praticato dalla Chiesa e dai pontefici (e nella memoria ritroviamo l’ira pubblica e minacciosa di Giovanni Paolo II, nel 1983, su Ernesto Cardenal, teologo della liberazione e membro del governo sandinista). E l’ira - ancora di Dio e di Mosè, e dei rivoluzionari e degli uomini di potere - di chi «si sente tradito nella sua missione». E gli ebrei (ma in realtà la pratica è molto comune) che cercano di dirottare altrove l’ira di Dio (oggi dell’opinione pubblica, o della comunità): «Riversa la tua ira sulle genti che non ti riconoscono». Diceva invece Gesù: beati i miti, ma anch’egli si adirò contro i mercanti nel tempio (una «giusta ira»; ancor più oggi).
Da Kant a Cartesio, Dante e Shakespeare e Steinbeck, risalendo agli epicurei e agli stoici, tra «civiltà della vergogna» o «della colpa», tra ira giusta e ingiusta, ira maschile o femminile, Bodei ci accompagna in un viaggio affascinante e inquietante.
Con molte connessioni possibili con l’oggi, quando davvero «non si sa più dove dirigere la «giusta ira dei popoli».
«sette studiosi, paleografi, archivisti e storici, che Orietta Verdi e Michele Di Sivo hanno coordinato»
Il Mattino 4.2.11
Caravaggio, saranno esposti i documenti dell'Archivio di Stato: tanti gli inediti
qui
http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=137465
Tre uomini a Cuba
Sesso facile, droga e il sogno morente del socialismo
Girato clandestinamente nel 2009 da tre giovani fiorentini all’Avana con una videocamera nascosta, "Wishes on a falling star" è un documentario che esplora i bassifondo di Cuba tra sesso facile, droga e il sogno morente del socialismo, sul filo conduttore di un’intervista alla oramai famosa blogger dissidente Yoani Sánchez. Anticipato su RaiTre in alcuni spezzoni che hanno avuto un 12 per cento di audience e hanno provocato una protesta dell’ambasciata cubana, il film è stato dato in prima visione il 3 febbraio allo Stetson di Firenze.
Com'è il regno di Castro oggi, cosa c'è per le strade de L'Havana, ce lo racconta un documentario di tre ragazzi italiani. Ecco il video: qui
http://www.wishesonafallingstar.com/