martedì 22 febbraio 2011

l’Unità 22.2.11
Il leader del Pd oggi parteciperà al sit-in al Pantheon contro la carneficina in Libia
I sondaggi: Bersani batte Berlusconi di sette punti
di Maria Zegarelli


La variabile del Terzo polo intorno al 15% con Casini, 11% con Fini Sull’immunità il Pd è compatto ma si distingue Chiaromonte

Disposto a tutto non pur di non andare al voto perché i sondaggi stavolta raccontano un’altra storia: Silvio
Berlusconi perderebbe le elezioni inchiodato a percentuali che per la prima volta segnano il crollo dei consensi tra gli elettori. Questo dice l’indagine effettuata da Renato Mannheimer e illustrata ieri a Porta a Porta. Al centrosinistra guidato da Bersani andrebbe il 36% dei consensi, fermando Berlusconi al 29 se a guidare il terzo polo fosse Casini, che si attesterebbe al 15%, mentre il centrosinistra guidato da Bersani avrebbe il 39% e il centrodestra guidato da Berlusconi solo il 30% se a guidare i terzisti fosse Fini. «È la prima volta da mesi che il centrosinistra dimostra di avere delle possibilità», nota Mannheimer. Inoltre, Bersani candidato premier, convince un numero più alto di elettori rispetto alla presidente del partito, Rosy Bindi, che si assesterebbe al 34%, facendo salire il centrodestra al 29.
Conferme del cambio di vento arrivano anche da un sondaggio riservato, arrivato da pochi giorni nei cassetti del Nazareno, effettuato dalla Ipsos subito dopo la manifestazione del 13. Se si dovesse andare oggi al voto il 26,2% degli intervistati sceglierebbe il Pd, il 9,3% Sel e il 6,2 l’Idv, mentre il 28% voterebbe Pdl, l’11,4% Lega, il 6 l’Udc e il 5% Fli. Dati confortanti soprattutto dopo l’affossamento della santa alleanza da parte di Casini: Pd, Sel e Idv potrebbero farcela senza ulteriori allargamenti.
Ma le buone notizie che arrivano dai sondaggi da prendere con le molle ad elezioni neanche annunciate vengono stemperate dalla polemica interna al Pd sul ripristino dell’immunità parlamentare. I democratici sono «assolutamente contrari. Oggi in Italia chiunque venga accusato di prostituzione minorile va a processo e non si possono accettare leggi speciali per il premier. Noi siamo per ribaltare l’agenda e per dire che è ora di mettere all’ordine del giorno non l’immunità ma regole, onestà e sobrietà», dice Bersani mentre il Pdl dà mandato al comitato tecnico di ministri e esperti che si incontrerà oggi per mettere a punto l’attacco finale a magistratura e istituzioni di occuparsi anche dello scudo parlamentare.
Lo stesso capogruppo alla Camera, Dario Franceschini, l’altro giorno su l’Unità e ieri da Montecitorio ha ribadito la linea: «Siamo contrari senza alcuna ambiguità. Non esiste che per bloccare i processi a Berlusconi si dia l’immunità non solo a lui ma anche agli altri 994 parlamentari». Ma nel partito del Nazareno non tutti la pensano allo stesso modo.
Franca Chiaromonte, che ha presentato un Ddl nel 2009 (firmato anche da senatori del Pdl) per reintrodurla «per una profonda convinzione che porto avanti da anni e che si basa sulla preoccupazione che ebbero i padri costituenti quando scrissero l’articolo 68», non torna sui suoi passi. «Non ho nessuna intenzione di ritirarlo dice -, si tratta di una iniziativa personale e trasversale. Poi se e quando dovesse andare in aula vedremo».
Più disponibile, invece, Silvio Sircana, cofirmatario del testo: «A me pareva di poter dare un contributo intelligente per dare un senso diverso ad un dibattito che si trascina ormai da troppo tempo, ma se il partito decide diversamente non ne faccio una malattia, io sono un parlamentare disciplinato». Al Nazareno tagliano corto: «Per noi il discorso è chiuso, quello dell'immunità è un istituto che esiste in altri Paesi, ma non è certo nelle priorità del Pd». Tace, per ora, Beppe Fioroni che deciderà insieme ai parlamentari di Modem durante l’incontro previsto per domani, mentre il parisiano Mario Barbi, in una lettera inviata a tutti i suoi colleghi in parlamento non condivide la linea adottata sul Ruby-gate e ritiene l’immunità «il male minore». «Se la condotta di Berlusconi è riprovevole scrive , l'azione della procura milanese è spaventosa e suscita più di un timore per l'ingerenza nella sfera politica, per la presuntuosa supplenza della società civile e per l'allarmante scivolamento di funzione dal “presidio di legalità” al “presidio di moralità”. Di tutto questo però nel Pd non si parla. Né vi si può nemmeno fare cenno. Perché l'imperativo è sempre e solo uno: liquidare Berlusconi, con ogni mezzo, non importa con quale mezzo». Secco no da Fli: «Non ci sono le condizioni non per approvare ma neanche per proporre ipotesi di immunità parlamentare», fa sapere Fabio Granata, mentre Antonio Di Pietro ironizza: «Ripristinare ora l'immunità sarebbe come consegnare le chiavi della cassaforte alla banda Bassotti». E no anche da Savino Pezzotta, dell'Udc, «sarebbe grave approvare l’immunità».

il Riformista 22.2.11
Operazione premiership, un libro per la candidatura
Democrazia in pericolo e questione morale
Libro-manifesto di Bersani

qui
http://www.scribd.com/doc/49304395

il Riformista 22.2.11
Cambiare gli articoli 41 e 118 vuol dire annullare lo Stato
di Giovanna De Minico

qui
http://www.scribd.com/doc/49304395

il Fatto 22.2.11
Bloccate il Parlamento

Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Dario Fo, Margherita Hack, Franca Rame, Barbara Spinelli, Antonio Tabucchi, Furio Colombo, Roberta De Monticelli e Marco Travaglio

Il governo Berlusconi, e la sua maggioranza parlamentare obbediente “perinde ac cadaver”, è entrato in un crescendo di eversione che mira apertamente a distruggere i fondamenti della Costituzione repubblicana e perfino un principio onorato da tre secoli: la divisione dei poteri. Di fronte a questo conclamato progetto di dispotismo proprietario chiediamo alle opposizione (all’Idv che si riunisce domani, al Pd che dell’opposizione è il partito maggiore, ma anche all’Udc e a Fl, che ormai riconoscono l’emergenza democratica che il permanere di Berlusconi al governo   configura) di reagire secondo una irrinunciabile e improcrastinabile legittima difesa repubblicana, proclamando solennementeesubitoilbloccosistematico e permanente del Parlamento su qualsiasi provvedimento e con tutti i mezzi che la legge e i regolamenti mettono a disposizione, fino alle dimissioni di Berlusconi e conseguenti elezioni anticipate. Se non ora, quando?
Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Dario Fo, Margherita Hack, Franca Rame, Barbara Spinelli, Antonio Tabucchi, Furio Colombo, Roberta De Monticelli e Marco Travaglio

Corriere della Sera 22.2.11
Tutti cambiano opinione anche i comunisti
risponde Sergio Romano


Hanno un bel dire, la maggior parte dei commentatori (e, mi pare, lei con loro), che il comunismo, in specie tra noi, è morto e che parlarne è ridicolo. Certo, difficile oggi in Italia (e starei per dire, purtroppo, dato che era gente seria) trovare un togliattiano. Facilissimo, di contro, incontrare tra i magistrati e soprattutto leggere sui giornali o ascoltare via radio e tv uno di quei comunisti all’italiana, e per questo maggiormente pericolosi, che l’or ora ricordato «migliore» avrebbe eliminato subito (a meno di poterli usare come «utili idioti» ), malissimo sopportando le anime belle e il politicamente corretto. Confermano queste mie parole e l’appartenenza correntizia di molti magistrati e la provenienza di un infinito numero di giornalisti i quali — e chiunque può verificarlo— si sono fatti le ossa sui fogli dell’estrema sinistra se pure non hanno militato in movimenti vicini al terrorismo rosso. «Semel abbas, semper abbas» si diceva e nessuno può farmi credere che un comunista (come un fascista e come confermano i comportamenti) possa cambiare! E avessero almeno studiato invece di crogiolarsi nella loro ben retribuita ignoranza. Mauro della Porta Raffo Varese Caro della Porta Raffo, C redo invece che una persona intelligente possa cambiare più volte nel corso della sua vita. Joseph Henry Newman fu un sacerdote anglicano e divenne un cardinale cattolico. Winston Churchill fu dapprima conservatore, poi liberale e infine, ancora una volta, conservatore. Mussolini nacque internazionalista, divenne nazionalista e morì, probabilmente, socialista. Altiero Spinelli e Leo Valiani furono comunisti, ma «abiurarono» dopo il patto tedesco-sovietico del 1939. Joschka Fischer fu uno scatenato «sessantottino» negli anni della gioventù ed è divenuto un eccellente ministro degli Esteri della Repubblica federale. Chicco Testa fu segretario generale di Lega Ambiente e organizzò le manifestazioni antinucleari del 1986, ma è oggi favorevole allo sviluppo dell’energia nucleare. E potrei citare molti altri casi di persone che hanno cambiato parere e non possono per questo essere considerate voltagabbana. Vi sono naturalmente anche coloro che cambiano opinione per convenienza e opportunismo. Ma non credo che i comunisti rappresentino un caso a sé, diverso da quello di qualsiasi altra famiglia di pensiero. Hanno constatato che le contraddizioni del capitalismo esistono, ma non sono tali da decretarne la morte. Hanno assistito all’implosione dell’Urss, sconfitta non dagli Stati Uniti ma dalla sua incapacità di riformarsi. Hanno toccato con mano, nel 1989, la straordinaria fragilità dei regimi che la «patria del socialismo» aveva edificato nell’Europa centro-orientale dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Hanno dovuto ammettere che il capitalismo asiatico ha creato una nuova borghesia e che la lotta di classe è molto più costosa di un buon accordo sindacale. Dopo uno shock iniziale hanno accettato e assorbito le lezioni della storia. Aggiungo che il comunismo italiano, nelle particolari condizioni del nostro Paese, è stato anche un contropotere, la zona della società in cui si potevano denunciare i vizi del regime democristiano e fare esperienze politiche, sociali e culturali. Lei ha probabilmente ragione quando osserva che vi sono aree della magistratura e del giornalismo in cui sopravvivono riflessi e orientamenti di origine comunista. Ma questi riflessi e orientamenti appartengono alla cultura dei singoli magistrati e giornalisti, non a una forza politica da combattere come tale. Per concludere, caro della Porta Raffo, i comunisti e i fascisti sono un fenomeno paragonabile a quello dei legittimisti borbonici e bonapartisti in Francia dopo l’avvento del Secondo Impero e della Terza Repubblica. La loro presenza nella società può avere effetti politici, ma è fondamentalmente un problema generazionale.

La Stampa 22.2.11
Giustizia. Muro contro muro
Stop di Bersani sull’immunità ai parlamentari
“Ribaltiamo l’agenda del governo”. Il Pdl: servi dei pm
di Francesco Grignetti


Fa discutere la politica, l’intenzione di Berlusconi di tornare all’immunità parlamentare. Un tema che sottotraccia è molto più trasversale di quanto si pensi: è un sogno proibito, a destra come a sinistra, il ritorno all’articolo 68 della Costituzione ante-Tangentopoli. Fatto sta che oggi il tema lo pone il Cavaliere nel pieno della sua battaglia e non è più tempo di dialogo. Di qui Dario Franceschini, Pd: «Non esiste che per bloccare i processi a Berlusconi si dia l’immunità non solo a lui ma anche agli altri 944 parlamentari». Oppure Pier Luigi Bersani: «E’ ora di mettere all’ordine del giorno, non l’immunità parlamentare, ma regole, onestà, sobrietà».
«Purtroppo il Pd è troppo legato ai giudici di Milano. Si rifiuta di prendere in considerazione anche le proposte che arrivano da senatori di sinistra e che potrebbero riportare ad un rapporto più equilibrato tra politica e magistratura», afferma Fabrizio Cicchitto, Pdl. Eppure a sinistra il caso Ruby sta suscitando più di un mal di pancia. «Se la condotta di Berlusconi è riprovevole, l’azione della procura milanese è spaventosa e suscita più di un timore per l’ingerenza nella sfera politica, per la presuntuosa supplenza della società civile e per l’allarmante scivolamento di funzione dal “presidio di legalità” al “presidio di moralità”», scrive Mario Barbi, ulivista, molto vicino a Romano Prodi.
Sul ritorno all’immunità è ferocemente contraria anche la posizione del Fli. «Non ci sono le condizioni scandisce Fabio Granata non per approvare, ma neanche per proporre ipotesi di immunità parlamentare. Il 90% degli italiani è contrario e il collegamento temporale ai guai di Berlusconi e della cricca è fin troppo evidente».
Si moltiplicano, intanto, le riunioni ad Arcore. Berlusconi ha incontrato nuovamente i suoi legali. Sul tavolo ci sono le varie mosse della difesa. E’ sempre dato per certo un conflitto davanti alla Corte costituzionale; l’unica cosa che seriamente può far sospendere (anche se non c’è alcun obbligo di legge) il processo fissato il 6 aprile a Milano. «Dal punto di vista giuridico, il conflitto di attribuzioni può essere sollevato anche da un parlamentare. Sono scelte che toccheranno al presidente del Consiglio e credo che Berlusconi lo farà a breve», ha spiegato ieri il ministro Angelino Alfano.
L’ipotesi più probabile è che il conflitto sia sollevato dalla presidenza del Consiglio. Resta in agenda, anche se per il momento difficile, l’opzione di far sollevare il conflitto alla Camera dei deputati. Cruciali sono gli equilibri dentro l’Ufficio di presidenza (dove la maggioranza è paradossalmente in minoranza) perché è in quella sede che si prendono le decisioni: ma visti i guai che attraversano il Fli, anche la situazione dell’Ufficio di presidenza è in evoluzione. Di qui l’estrema cautela del Pdl. «Tutto è possibile», rispondeva ieri Cicchitto alla domanda se domani la maggioranza possa fare la sua mossa.
Resta in piedi anche l’ipotesi di accompagnare il conflitto con una mozione politica che solennemente dichiari violato l’articolo 96 della Costituzione ai danni del deputato Berlusconi Silvio perché la procura di Milano è andata avanti sulla strada senza girare le carte al Tribunale dei ministri.

Repubblica 22.2.11
Leggi eversive per la Consulta
di Alessandro Pace


La proposta del presidente del Consiglio di elevare il quorum deliberativo delle pronunce della Consulta, dall´attuale maggioranza dei giudici presenti al voto a quella dei due terzi, stravolge una delle caratteristiche essenziali della nostra Carta costituzionale.
Modificare l´articolo 16 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e dall´articolo 17 comma 3 delle Norme integrative della Corte costituzionale, nel senso auspicato da Berlusconi, esplica conseguenze pregiudizievoli non solo sulla funzionalità della Corte, come è stato fin qui autorevolmente rilevato, ma sulla stessa rigidità della nostra Costituzione.
La proposta incide infatti su quella caratteristica delle costituzioni scritte, ormai fatta propria da pressoché tutti gli ordinamenti vigenti, democratici e non, di porsi come atti normativi "formalmente superiori" rispetto alla restante attività normativa e provvedimentale degli organi dello Stato (leggi statali e regionali, decreti-legge, decreti-legislativi, decreti ministeriali, ordinanze, sentenze e così via). Con la conseguenza che tutti questi atti, per definizione "gerarchicamente inferiori", non possono contraddire la Costituzione, essendo questa la "legge fondamentale".
Per contro, qualora il Parlamento, recependo la proposta del premier, decidesse che, per dichiarare l´incostituzionalità di una legge o di una norma di legge, siano necessari i due terzi dei 15 giudici presenti (e quindi almeno 10 giudici su 15 nel caso che tutti i giudici siano presenti alla votazione o almeno 7 giudici su 11, essendo questo il numero minimo richiesto perché la Corte possa deliberare), la conseguenza sarebbe che, nel suo raffronto con la Costituzione, la legge ordinaria si troverebbe paradossalmente in una posizione più favorevole rispetto alla Costituzione ancorché sia questa, e non quella, la legge fondamentale.
Infatti, messa la legge ordinaria su un piatto della bilancia e la Costituzione sull´altro piatto, i 6 voti dei giudici favorevoli alla legge ordinaria peserebbero assai di più dei 9 voti dei giudici favorevoli alla Costituzione (né più né meno come la spada di Brenno…).
Il nodo della questione sta infatti tutto qui. Essendo le percentuali di un terzo e di due terzi in relazione tra loro, se Berlusconi ritiene che un terzo valga più dei due terzi, ciò significa che per lui la Costituzione vale, in linea di massima, meno della legge ordinaria. Il che ovviamente non costituisce una novità nel pensiero dell´attuale presidente del Consiglio, mentre conferma, sotto altro aspetto, la sua insofferenza per le forme e per i limiti che dovrebbero caratterizzare, per disposto costituzionale, l´agire dei titolari degli organi rappresentativi della sovranità popolare (articolo 1 comma 2 della Costituzione).
Un´ultima chiosa. Si è ricordato, all´inizio, che la regola della maggioranza dei giudici presenti per le pronunce della Corte costituzionale è prescritta nella legge n. 87 del 1953 e nelle Norme integrative della Corte costituzionale. Ebbene, ciò tuttavia non significa che basterebbe modificare la legge (ordinaria) n. 87 del 1953 perché l´obiettivo del premier possa essere raggiunto.
Proprio perché, in conseguenza di una siffatta modifica, la Costituzione acquisirebbe un grado di "cedevolezza" nei confronti della legge ordinaria contrastante con la sua "rigidità", è di tutta evidenza che, per introdurre una siffatta norma eversiva dell´attuale sindacato di costituzionalità delle leggi, sarebbe quanto meno necessaria una legge di revisione costituzionale, come tale sottoposta alle speciali procedure di cui all´articolo 138 della Costituzione. A meno che si ritenga, com´è lecito ritenere, che tra i "principi supremi" della nostra Costituzione come tali immodificabili anche con legge costituzionale ci sia anche l´inderogabile superiorità della Costituzione su tutti gli atti del nostro ordinamento.

Repubblica 22.2.11
Il sabotaggio della giustizia
di Nadia Urbinati


Il Consiglio dei ministri ha dunque approvato all´unanimità la relazione del ministro della Giustizia Angelino Alfano sul ddl che contiene la riforma costituzionale della giustizia. Un decreto d´urgenza per riformare (deformandola) la nostra Costituzione in quelle parti che non convengono agli interessi giudiziari del premier. Un comitato formato da ministri ed esperti si riunirà per approfondire i contenuti del testo della riforma e, da quanto è trapelato, pare che all´ordine del giorno del comitato ci sia la proposta di intervenire sulle intercettazioni, riesumando il decreto che è fermo da mesi alla Camera dei deputati. Insomma, la strategia difensiva del presidente del Consiglio di fronte alla giustizia ordinaria consiste nell´usare le sue prerogative per sabotare la possibilità che giustizia sia fatta. Poiché ovviamente lui è l´imputato; imputato di reati penali gravi. Il copione e la regia di questo ddl sono dettati da una pratica di anticostituzionalizzazione, la cui massima è la seguente: la legge ha il compito di favorire, o non danneggiare, chi è al potere.
L´obiettivo che il governo italiano da anni persegue é costituzionalizzare l´incostituzionalitá poiché alla Legge fondamentale Palazzo Chigi contrappone una legge funzionale al suo inquilino. Attraverso la grancassa dei media questa politica dell´anticostituzionalizzazione viene propagandata come liberale, con l´argomento cioè della difesa dei diritti; all´opposto, la divisione e il bilanciamento dei poteri sono presentati come causa di indebolimento dei diritti. Rovesciati quattrocento anni di storia politica e giuridica occidentale in un batter d´occhio e all´unanimità! Il paradosso è dei piú stridenti poiché, come sappiamo, i diritti sono reclamati e rivendicati da chi è debole contro chi è forte, da chi non ha potere contro chi ha potere. Ma l´Italia è maestra del paradosso: da noi chi ha potere si fa i suoi diritti, ritagliati per sé così da sfuggire alla legge. Il diritto come mezzo di tirannia invece che come strumento di difesa contro la tirannia un assurdo che nemmeno Robert Filmer, l´ideologo della monarchia per diritto divino ai tempi della Rivoluzione inglese, avrebbe avuto il coraggio di teorizzare.
La politica dell´inconstituzionalizzazione di questo governo consiste nel rovesciamento della logica e della politica dei diritti fondamentali: il potente invece di piegarsi alla legge vuole stare al riparo dalla legge. Operazione retorica sorprendente, poiché l´uso del linguaggio dei diritti per seppellire i diritti è degno di un mago della sofistica. Ma l´arte del sofismo non pare sorprendere i ministri, i quali si comportano come servitori leali del loro capo: tutti a eseguire ciò che egli chiede, a elogiare ciò che egli ama. E a votare all´unanimitá. Tra loro ci sono dei laureati in legge. Sarebbe interessante sapere su quali testi di diritto costituzionale e pubblico abbiano studiato; dove abbiano appreso a interpretare il diritto come mezzo per aumentare il potere di chi ha potere. Luca Palamara, presidente dell´Anm, ha commentato la decisione unanime del Consiglio dei ministri dicendo che si tratta di «un copione già visto: ogni volta che emergono vicende giudiziarie che coinvolgono il premier, prima arrivano insulti, poi seguono iniziative legislative punitive per i magistrati». Il problema, gravissimo, è che quel copione si è visto per troppo tempo, con il pericolo evidente che sia diventato linguaggio ordinario, accettato da troppi; che l´inconstituzionalizzazione sia a tutti gli effetti una politica di ricostituzionalizzazione della nostra democrazia in chiave anti-liberale e autoritaria. E ha ragione Palamara a osservare che non è soltanto la pratica e la retorica del premier che preoccupano; ciò che preoccupa è che quella pratica e quella retorica siano accettate "senza alcuna remora", senza un´ombra di critica da "ministri in carica, Istruzione, addirittura Esteri e persino Giustizia". Questa assenza di distacco tra sé e il premier li fa a tutti gli effetti ministri non della Repubblica ma del presidente del Consiglio. Un altro macigno nell´opera di anticostituzionalizzazione della nostra democrazia alla quale questo governo si è dedicato con instancabile sistematicitá.

Repubblica 22.2.11
Contro il bavaglio la rete rilancia la protesta il 12 marzo in piazza per la Costituzione
Corteo a Roma e manifestazioni in altre città. Aderisce anche l´Anpi
di Carmine Saviano


In prima fila il gruppo web Valigia Blu che contro la legge sulle intercettazioni rimette in campo i post-it
L´iniziativa formalizzata da Articolo 21 per "una grande giornata di orgoglio costituzionale, col tricolore e Mameli"

ROMA Come in un gioco di specchi. Da un lato la nuova stretta sulle intercettazioni e l´offensiva sulla riforma costituzionale della giustizia annunciata da Silvio Berlusconi. Dall´altro il fronte del No alla Legge Bavaglio, ricompattato e pronto a tornare in azione. Comitati, associazioni, gruppi spontanei di cittadini. I protagonisti della mobilitazione della scorsa primavera. Che rilanciano proponendo, il prossimo 12 marzo, una grande manifestazione nazionale. A Roma, con un corteo che si concluderà a piazza del Popolo. Per "difendere la Costituzione" e affrontare quella che si configura sempre più come una vera e propria emergenza democratica.
La proposta, formalizzata da Beppe Giulietti, deputato e portavoce dell´associazione Articolo 21, e da Vincenzo Vita, senatore del Pd, trova subito numerose adesioni. Da Libertà e Giustizia all´Anpi, l´associazione dei partigiani italiani. «Non possiamo più perdere tempo. Dobbiamo promuovere una straordinaria protesta unitaria contro il bavaglio, per la Costituzione e la legalità repubblicana». Poi, le coordinate: «Il 12 marzo è la data che abbiamo individuato insieme a tante associazioni per un grande giornata di orgoglio costituzionale. Con il tricolore e cantando l´inno di Mameli».
E mentre ci si prepara alla piazza, in rete l´opposizione al bavaglio è già scattata. In prima fila Valigia Blu, il gruppo di web attivisti ideatore della protesta dei post-it. Per la serie: simbolo vincente non si cambia. «Non solo si metterà in moto nuovamente la macchina dei post-it, ma proporremo una mobilitazione permanente», dice Arianna Ciccone. «Andremo anche fin sotto Montecitorio e Palazzo Chigi. L´idea è: un sacco a pelo, il cartello ‘No alla legge bavaglio´ e i social network. Queste saranno le nostre armi di difesa». Perché «si può discutere di tutto, come migliorare, come cambiare. Ma in nome del bene del Paese non nell´interesse di uno solo». Contro la «distruzione dei fondamenti della Costituzione» si mobilita anche Micromega che lancia un appello a tutti partiti dell´opposizione affinché reagiscano con una «legittima difesa repubblicana, proclamando il blocco sistematico del Parlamento con tutti i mezzi che la legge e i regolamenti mettono a disposizione, fino alle dimissioni di Berlusconi e conseguenti elezioni». L´appello è firmato da Camilleri, Flores d´Arcais, Fo, Hack, Rame, Spinelli e Tabucchi.
Il quartier generale del No alla legge Bavaglio è il web. Per esattezza le pagine Facebook "A difesa della Costituzione", e "Manifestazione unitaria in difesa della Costituzione": contano già alcune migliaia di iscritti. E come logo c´è il manifesto che sarà utilizzato per l´iniziativa del 12 marzo. Due mani, "quelle dei cittadini", continua la Ciccone, "che proteggono il tricolore e se ne prendono cura". In poche ore tanti interventi. Altro luogo d´incontro virtuale il sito Costituzione Day. Un portale dal quale saranno forniti materiali e indicazioni per la manifestazione.
Verso il 12 marzo, quindi. Utilizzando un modello di dissenso già sperimentato il 13 febbraio con la manifestazione delle donne: un corteo a Roma e iniziative in decine di piazze italiane, reali e virtuali. E domani una riunione nella sede di Articolo 21. Per elaborare il canovaccio della mobilitazione. E al premier, che aveva dichiarato "stavolta nessuno mi potrà fermare", si replica: "Presidente, stia sicuro: neanche a noi. Sarà una protesta pacifica ma tosta come nemmeno si può immaginare. Perché è ora di dire basta. Se non ora quando?".

il Fatto 22.2.11
Perché l’Italia non alza la testa
di Massimo Fini


Perché non ci ribelliamo? In Italia la disoccupazione giovanile è al 29%, la più alta d'Europa. Tutti noi genitori abbiamo il problema dei figli, quasi sempre laureati, che non trovano lavoro o che devono accettare ingaggi precari molto al di sotto del loro titolo di studio, senza nessuna prospettiva per il futuro (questo è stato uno degli elementi scatenanti della rivolta tunisina innescata da un ingegnere costretto a fare il venditore ambulante e, impeditagli anche la bancarella, si è dato fuoco). 
Tutti gli scandali più recenti, dal “caso Mastella” in poi, ci dicono che la classe dirigente italiana, intesa come mixage di politici, amministratori pubblici, imprenditori, finanzieri, speculatori, esponenti dello star system, piazzano i propri figli, nipoti, generi, amici degli amici, in posti di lavoro ben remunerati e sicuri. Del resto nemmeno un chirurgo, nel nostro Paese, può fare il chirurgo se non ha gli agganci giusti con questa o quella banda di potere. Perché il sistema clientelare di Mastella non è il “sistema Mastella” è il sistema dell'intera classe dirigente italiana. Se non altro Mastella ha lo spudorato coraggio e la spudorata onestà di non farne mistero. 
I CETI POPOLARI sono stati espulsi da Milano e mandati nell'hinterland, in “non luoghi” direbbe Biondillo, che hanno il nome di paesi ma non sono paesi, perché non hanno una piazza, una chiesa, un cinema, un luogo di aggregazione. Le deportazione dei ceti popolari ha distrutto Milano, città interclassista dove nei quartieri del centro, Brera, Garibaldi, Pirelli abitava accanto al suo operaio, il primo, naturalmente, in un palazzo di Caccia Dominioni, il secondo in una casa di ringhiera. Questa interfecondazione dava alla città una straordinaria vivacità che è andata inesorabilmente perduta. Oggi una giovane coppia non può trovar casa a Milano, né in affitto né tantomeno in proprietà nemmeno con mutui che impegnino tre o quattro generazioni. Quando ci si lamenta che certe zone periferiche, come via Padova, sono state   occupate più o meno illegalmente dagli immigrati, si sbaglia perché se non altro hanno restituito un po' di vita, e in particolare una vita notturna a una città che non ne ha più se non in quei quattro o cinque bordelli di lusso, a tutti noti, che ogni tanto vengono chiusi per eccesso di escort e di droga. In questi posti senti uomini fra i quaranta e i sessanta fare discorsi di questo tipo: “Domani parto per New York, poi faccio un salto a Boston e ritorno in Italia via Thailandia dove mi fermerò una decina di giorni”. Se per caso ti capita di parlargli e gli chiedi: “Scusi, lei che lavoro fa?”, le risposte son vaghe. In genere si dicono finanzieri, intermediari, immobiliaristi. Quando agli   inizi degli anni '70 era già cominciata la deportazione dei milanesi verso l'hinterland, lo Iacp, Istituto Autonomo Case Popolari, non dava i suoi appartamenti alla povera gente, ma a politici, amministratori locali, giornalisti, in genere socialisti perché, prima del ribaltone della Lega, Milano, è stata governata da sindaci del Psi (Aniasi, Tognoli, Pilliteri, gli ultimi). È ovvio che il centro di Milano, depauperato dei suoi ceti popolari, sia abitato oggi solo dai ricchi. Noi milanesi le case di piazza del Carmine, di via Moscova, di via della Spiga, di via Statuto possiamo solo sfiorarle e occhieggiarne i lussuosi androni. Meno ovvio è che il Pio Albergo   Trivulzio, la Baggina come la chiamiamo noi, che ha accumulato un ingente patrimonio immobiliare, grazie a dei benefattori che intendevano, con ciò, non solo alleviare la condizione dei vecchi soli e invalidi ma anche che i loro quattrini avessero un utilizzo sociale, svenda questo patrimonio, con affitti o vendite “low cost” come si dice elegantemente oggi, a politici, amministratori, manager, immobiliaristi, speculatori, modelle, giornalisti, che di questo “aiutino” non avrebbero alcun bisogno, sottraendo risorse a chi il bisogno ce l'ha.
Io bazzico bar frequentati da impiegati, da piccoli manager, da lavoratori del terziario e un'antica piscina meneghina, la Canottieri Milano, dove si sono rifugiati, come in uno zoo per animali in estinzione, i cittadini di una Milano che fu, gente anziana. Tutti schiumano rabbia impotente   di fronte a queste storie dei figli delle oligarchie del potere che hanno il posto assicurato o delle case del centro occupate “low cost” da queste stesse oligarchie o dai loro pargoli (nello scandalo del Pio Albergo Trivulzio c'è un nipote di Pilliteri, una figlia di Ligresti). Queste cose li colpiscono più dei truffoni di Berlusconi perché toccano direttamente la loro carne.
SCHIUMANO rabbia ma non si ribellano. Perché? Le ragioni, secondo me, sono sostanzialmente due. In questo Paese il più pulito ha la rogna. Quasi tutti hanno delle magagne nascoste, magari veniali, ma ce l’hanno. Non   che sia gente in partenza disonesta. Ma, com'è noto, la mela marcia scaccia quella buona. Se “così fan tutti”, tanto vale che lo faccia anch'io. Così ragiona il cittadino. Per resistere a quel “tanto vale” ci vuole una corazza morale da santo o da martire o da masochista. La seconda ragione sta in una mancanza di vitalità. Basterebbe una spallata di due giorni, come quella tunisina, una rivolta popolare disarmata ma violenta di-sposta a lasciare sul campo qualche morto per abbattere queste oligarchie, queste aristocrazie mascherate che, come i nobili di un tempo, si passano potere e privilegi di padre in figlio, senza nemmeno avere gli obblighi delle aristocrazie storiche. Ma in Tunisia l'età media è di 32 anni, da noi di 43. Siamo vecchi, siamo rassegnati, siamo di-sposti a farci tosare come pecore e comandare come asini al basto. Solo una crisi economica   cupissima potrebbe spingere la popolazione a ribellarsi. Perché quando arriva la fame cessa il tempo delle chiacchiere e la parola passa alla violenza. La sacrosanta violenza popolare. Come abbiamo visto in Tunisia e in Egitto, come vediamo in Libia o in Bahrein (in culo al colossale Barnum del Circuito di Formula Uno, che è, in sé, uno schiaffo alla povera gente di quel mondo).

il Fatto 22.2.11
Ecco “Indignatevi”


“93 anni. È un po’ l’ultima tappa. La fine non è troppo lontana. Che fortuna poterne approfittare per ricordare ciò che ha fatto da fondamento al mio impegno politico”. Comincia così “Indignatevi!”, scritto dal partigiano Stephane Hessel, diventato un caso editoriale in Francia, e adesso proposto in Italia da Add Editore. Pubblichiamo l’appendice: l’appello dei Resistenti alle giovani generazioni, firmato dallo stesso Hessel nel 2004.
Dal momento che vediamo rimesso in discussione il fondamento delle conquiste sociali della Liberazione, noi, veterani dei movimenti di Resistenza e delle forze combattenti della Francia libera (1940–1945) ci appelliamo alle giovani generazioni perché mantengano in vita e tramandino l’eredità della Resistenza e i suoi ideali sempre attuali di democrazia ed economia, sociale e culturale. Sessant’anni più tardi il nazismo è sconfitto, grazie al sacrificio dei nostri fratelli   e sorelle della Resistenza e delle Nazioni Unite contro la barbarie fascista. Ma questa minaccia non è del tutto scomparsa, e la nostra rabbia contro l’ingiustizia è rimasta intatta.
IN COSCIENZA, noi invitiamo a celebrare l’attualità della Resistenza non già beneficio di cause partigiane o strumentalizzate da qualche posta in gioco politica, bensì per proporre alle generazioni che ci succederanno di compiere tre gesti umanitari e profondamente politici nel vero   senso del termine, perché la fiamma della Resistenza non si spenga mai:
Ci appelliamo innanzitutto agli educatori, ai movimenti sociali, alle collettività pubbliche, ai creatori, agli sfruttati, agli umiliati, affinché celebrino insieme a noi l’anniversario del programma del Consiglio Nazionale della Resistenza (Cnr) adottato in clandestinità il 15 marzo 1944: Sécurité sociale e pensioni generalizzate, controllo dei “gruppi di potere economico”, diritto alla cultura e all’educazione per tutti, stampa affrancata dal denaro e dalla corruzione, leggi sociali operaie e agricole ecc. Come può oggi mancare il denaro per salvaguardare e garantire nel tempo conquiste sociali, quando dalla Liberazione, periodo che ha visto l’Europa in ginocchio, la produzione di ricchezza è considerevolmente aumentata? I responsabili politici, economici, intellettuali e la società nel suo complesso   non devono abdicare, né lasciarsi intimidire dall’attuale dittatura internazionale dei mercati finanziari che minaccia la pace e la democrazia.
Ci appelliamo quindi ai movimenti, ai partiti, alle associazioni, alle istituzioni e ai sindacati eredi della Resistenza affinché   superino le poste in gioco settoriali, e lavorino innanzitutto sulle cause politiche delle ingiustizie e dei conflitti sociali, e non soltanto sulle loro conseguenze, per definire insieme un nuovo “Programma della Resistenza” per il nostro secolo, consapevoli che il fascismo continua a nutrirsi di razzismo, di intolleranza e di guerra, che a loro volta si nutrono delle ingiustizie sociali.
CI APPELLIAMO infine ai ragazzi, ai giovani, ai genitori, agli anziani e ai nonni, agli educatori, alle autorità pubbliche perché vi sia una vera e propria insurrezione pacifica contro i mass media, che ai nostri giovani come unico orizzonte propongono il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti. Non accettiamo che i principali media siano ormai nella morsa degli interessi privati, contrariamente a quanto stabilito   dal programma del Consiglio Nazionale della Resistenza e dalle ordinanze sulla stampa del 1944. A quelli e quelle che faranno il secolo che inizia, diciamo con affetto: Creare è resistere. Resistere è creare.

il Fatto 22.2.11
A domanda rispondo
Come salvare il Paese
di Furio Colombo


Caro Colombo, io credo che la gravità della crisi dovrebbe indurre chi ha un minimo di saggezza a perorare la causa di un governo di salvezza nazionale, tralasciando per una volta gli interessi di bottega. Ma auspicherei che i partiti di questa ipotetica Unione facessero un passo indietro e indicassero per le eventuali elezioni un candidato premier al di sopra delle parti (ovvero non di destra, non di centro, non di sinistra) possibilmente lontano dall’agone politico, e di alto profilo istituzionale. O forse tutto ciò è solo una ingenua speranza?
Erminio

TEMO CHE LE POCHE ore che separano questa lettera dalla risposta siano state sufficienti per cambiare e peggiorare lo scenario italiano. Temo che la situazione sia troppo grave (e gravemente peggiorata) per indugiare sul meglio o sul peggio di un governo di salvezza nazionale. La domanda, adesso, non è se trovare la personalità di alto profilo, come certo sarebbe desiderabile. La domanda è se si arriverà in tempo per fermare la corsa malata di un uomo troppo ricco e del tutto fuori controllo, che non si arrende ai suoi problemi, alla sua uscita di scena, tiene in ostaggio il Paese e minaccia di far coincidere la sua   fine con la fine della Repubblica. Forse solo l’editoriale di Antonio Padellaro su questo giornale, e di Ezio Mauro su ”La Repubblica” (16 febbraio) mostrano e chiedono ai lettori di capire la gravità dei fatti. È estrema e aperta ad ogni pericolo. Lo dimostra il continuo ritorno de “Il Foglio” all’invocazione del colpo di Stato. Ovvio che l’organo interno della rivoluzione berlusconiana lo denunci a rovescio, ovvero come “colpo” subito. Ma nella storia dei golpe, in tutta la più illustre tradizione vetero–sudamericana, e in quella africana dei nostri giorni, il vero golpe si scatena sempre dopo la minaccia sbandierata e ripetuta del pericolo di un golpe ad opera di chi insiste nel   chiedere il rispetto delle leggi. Su questo punto, il rischio reale e non solo verbale di sovvertimento completo della legalità, il linguaggio del cerchio interno di difesa estrema di Berlusconi non lascia dubbi. Basti pensare al linguaggio di scontro finale con cui identifica l’oscenità con tutto ciò che mette a rischio o denuncia il padrone ed esime dalla oscenità qualunque evento, anche il più perverso, che sia stato prescelto e usato dal padrone. Che rischio sarà? Come dice Padellaro “può succedere di tutto”. Non si tratta di muovere divisioni. E carri armati, ma di restare nel bunker, fingendo di governare, non solo contro il buon senso e il buon nome del Paese, ma contro istituzioni fondamentali (la magistratura, il capo dello Stato ). E continuando a tenere in ostaggio il Parlamento gonfiato dalla corruzione degli acquisti. In questo modo si giunge alla paralisi totale, indicata come “colpa della persecuzione giudiziaria”, si troncano i rapporti internazionali dell’Italia, si rende impossibile ogni lavoro di estrema protezione della pericolante economia italiana, si distrugge ogni credibilità e affidabilità delle istituzioni dentro e fuori del Paese. È un percorso mortale, ma non potete dire che non sia già preannunciata da alcuni tragici e chiarissimi comunicati militari in forma di articoli. Tutti coloro che si ritengono opposizione è bene che si rendano conto che il pericolo di distruzione di tutto, pur di evitare la vergogna di uno, è qui e adesso.

l’Unità 22.2.11
Occidente cieco
di Pino Arlacchi


Dalla Libia giungono notizie drammatiche e contraddittorie. Il dittatore ha deciso di concludere nel sangue la sua avventura quarantennale e, mentre scrivo, il quadro cambia di ora in ora. Ma quali che siano i tempi e gli esiti della rivolta del popolo libico, è chiara e consolidata la direzione dei processi in atto nel mondo arabo: siamo in presenza di un’ondata paragonabile a quella che, negli anni Ottanta, portò la democrazia in America latina e, negli anni Novanta, nell’Europa dell’Est. Siamo in presenza di eventi di portata storica.
Come Occidente ci siamo arrivati impreparati. Alcuni governi attribuiscono la responsabilità di ciò agli organismi di intelligence. In effetti i precedenti non mancano. È noto che la Cia non riuscì a vedere il crollo del comunismo e che non si è stati capaci di avvertire lo shock petrolifero, l’ascesa della Cina, l’odierna virata a sinistra dell’America Latina. Potremmo compilare una lista molto lunga.
Ma non includeremmo la sorpresa di queste ultime settimane. No, questa volta la colpa non è di 007 incapaci, ma di un errore di prospettiva culturale. Abbiamo vissuto nell’idea dello scontro di civiltà con l’Islam e col suo inevitabile corollario: l’incompatibilità tra l’Islam e la democrazia. Ci siamo cullati nella presuntuosa convinzione d’essere, noi occidentali, i monopolisti della democrazia fino a escludere, nelle scelte di politica internazionale, quella che continuavamo a predica-
re: la sua universalità. E ora siamo qua, a bocca aperta, a guardare eventi enormi che, in realtà, non sono affatto sorprendenti.
E non è finita. Perché un po’ per cinismo, ma probabilmente anche per stupidità, c’è chi si ostina a trasferire quel pregiudizio di “incompatibilità” tra democrazia e Islam al presente: minimizza quanto è accaduto in Tunisia, in Egitto, e sta accadendo in Libia, e sostiene che questi processi alla fine consegneranno quei paesi ai Fratelli musulmani e al fondamentalismo islamico. È la parola d’ordine della destra internazionale adottata con passiva disciplina dal nostro governo che fa breccia anche tra commentatori prudenti e moderati. Alcuni giorni fa sul Corriere della sera c’era chi si domandava se in fondo non era meglio la “stabilità” garantita dai governi autoritari di queste potenziali “democrazie estremiste” governate da partiti islamici.
C’è da chiedersi di quale “stabilità” parlino. Il Medio Oriente è da cinquant’anni l’area più instabile e conflittuale del mondo. La guerra internazionale più sanguinosa degli ultimi trent’anni si è combattuta tra Iran e Iraq con un milione di morti. E abbiamo forse dimenticato gli eventi tragici che si sono prodotti in Iran prima sotto lo Shah e poi sotto Komeini? E le ripetute invasioni del Libano? E le guerre in Afghanistan e in Iraq con l’annessa invasione del Kuwait?
Dobbiamo opporci con fermezza a questo mix di cecità e colpevole oblio che produce alla fine gli imbarazzanti balbettii del ministro Frattini, ancora una volta l’ultimo a capire. La democrazia è il piu grande fattore di stabilità e di pace di lungo periodo. Le democrazie riducono i budget militari, cioè gli strumenti della guerra. Sono il metodo della non violenza applicato ai rapporti interni e internazionali. È stato così in passato e sarà così anche nel mondo arabo.

l’Unità 22.2.11
Cara Tripoli, bel suol d’affari... trionfa l’ipocrisia del denaro
Nell’ora della tragedia, mentre l’aviazione di Gheddafi spara sulla folla, le nostre imprese pensano a come evitare i rischi e a mantenere aperto il canale del business. Perchè i soldi resistono a tutto
di Rinaldo Gianola


Silvio Berlusconi ha fatto le cose in grande con Gheddafi. Gli ha aperto le porte, lo ha accolto come uno statista internazionale, lo ha promosso come un interlocutore politico credibile e affidabile, suscitando la preoccupazione e spesso l’indignazione delle cancellerie occidentali. Ha fatto anche di più, sul piano personale, con tutte quelle tende beduine piantate a Roma e le inquietanti guardie femminili a protezione del satrapo. Berlusconi è stato il presidente del Consiglio che si è speso senza limiti per rafforzare i legami politici e soprattutto economici con la Libia, ha varato il “Trattato di amicizia”, ma non sarebbe giusto attribuire esclusivamente al premier la responsabilità di questi imbarazzanti patti d’affari con la Libia, proprio mentre il regime reagisce alla protesta della popolazione distruendo violenza e morte.
L’Italia pacifica e affarista è il primo partner commerciale della Libia, le nostre imprese guardano da tempo a Tripoli come un’occasione, un interlocutore ricco, di petrolio e di risorse finanziarie, investitore fedele e duraturo nei settori strategici dell’economia. Le grandi imprese nazionali, tutte, hanno realizzato affari con il paese nordafricano, hanno coltivato relazioni spudorate con il raìs e il suo regime dimenticando, come spesso accade nel mondo dominato dal profitto, i diritti, l’etica, la democrazia, variabili secondarie per chiunque pensi esclusivamente all’ultima linea del conto economico. Oggi sono un centinaio le imprese tricolori attive in Libia, che cercano di evacuare i loro dipendenti dal paese africano e sperano che la crisi si esaurisca presto per poter tornare al business di sempre.
L’Eni è presente in Libia da mezzo secolo, dai pozzi nel deserto arriva il 24% del petrolio importato in Italia e il 12% circa del gas. Le concessioni a favore dell’Eni sono state prolungate di altri 25 anni e Tripoli è entrata nel capitale dell’Eni con l’1%, con l’ambizione di crescere di molto. La Libia «è la pupilla dei miei occhi perchè investiremo in questo paese 25 miliardi di dollari» ha detto Paolo Scaroni, amministratore delegato del nostro colosso petrolifero. E ha aggiunto:«Da Gheddafi a Chavez sono tutti bravi, buoni, belli perchè per me sono tutti clienti». Questa è la filosofia di un manager pubblico.
La storia, si sa, è sorprendente perchè offre spesso novità impreviste, belle o brutte che siano. Gheddafi è una brutta bestia e lo si sapeva da molto tempo. Ma quando negli anni Ottanta la Lafico (Lybian foreign investment company), finanziaria d’investimento della ex colonia, arrivò a Torino per dare una mano alla Fiat in emergenza, venne accolta con tutti gli onori, restò in silenzio nel capitale con famiglia Agnelli. Quando nel 1986 la Lafico liquidò l’investimento realizzando un bel profitto, Gianni Agnelli riconobbe: «Sono stati investitori seri e corretti». Oggi i libici hanno il 7,5% del capitale della Juventus perchè la famiglia Gheddafi ha sempre avuto un debole per il calcio e un figlio militò senza grandi performance nel Perugia di Luciano Gaucci. Nel 2002, per far contento il raìs, la Federcalcio trasferì la finale della Supercoppa italiana a Tripoli.
Più seriamente il peso dei capitali libici in Italia si è manifestato un paio d’anni fa quando l’Unicredit, uno dei maggiori istituti di credito europei, si trovò immerso nella crisi finanziaria internazionale. Per sottoscrivere l’ingente aumento di capitale, a un prezzo che era il triplo dei valori di Borsa del momento, Cesare Geronzi, allora presidente di Mediobanca e garante dell’operazione di Unicredit, chiamò gli amici libici, che già lo avevano aiutato nella Banca di Roma e in Capitalia. La Banca centrale della Libia e la Lybian investment authority (Lia), un fondo dotato dicirca 50 miliardi di dollari, hanno mostrato una grande generosità, addirittura eccessiva per la Lega di Bossi, sottoscrivendo complessivamente una quota vicina al 7% del capitale per un controvalore di 2,5 miliardi di euro.
I libici oggi sono i primi azionisti di Unicredit ed esprimono il vicepresidente, Farhat Omar Bengdara, governatore della banca centrale libica. Sull’asse con Geronzi la Libia ha manifestato interesse per Mediobanca, che orienta gli investimenti libici in Italia, per le Assicurazioni Generali, per Telecom Italia, per Finmeccanica e per Impregilo. Queste ultime due società hanno raccolto ricche commesse in Libia. Non c’è dubbio che oggi la crisi libica possa avere ripercussioni gravi sulla stabilità degli assetti azionari di Unicredit e, di riflesso, anche delle imprese partecipate dalla banca. Un segnale è arrivato ieri dalla caduta della Borsa di Milano (-3,59%).
Berlusconi e le imprese italiane seguono con apprensione la caduta dei capi dei regimi del Nord Africa: prima l’amico Ben Ali in Tunisia, poi l’amico Mubarak in Egitto, oggi l’amico Gheddafi in Libia. Chi sarà il prossimo?

il Fatto 22.2.11
Lo storico Angelo Del Boca
Fine di un dittatore
“Altro che diplomazia, le tribù lo cacceranno”
di Elisa Battistini


Bengasi, il capoluogo della Cirenaica, e Sirte, la città natale di Gheddafi, sono in mano ai manifestanti che hanno pagato con centinaia di morti l’altissimo prezzo della rivolta in Libia. Che, ieri, è arrivata prepotentemente a Tripoli. La spinta per deporre il Colonnello che – dalla rivoluzione del 1969 che ha cacciato il re Idris I – tiene saldissime le redini del controllo sembra inarrestabile. Quattro delle principali tribù della Tripolitania hanno iniziato a marciare sulla capitale.
PER ANGELO Del Boca, uno dei massimi esperti del colonialismo italiano e della storia della Libia (Gheddafi, Una sfida nel deserto di recente ristampato per Laterza) è questa la notizia del giorno. “Sono i Warfala, gli Zintan, i berberi: i clan tribali delle montagne. Gli stessi che hanno affrontato gli italiani nel 1911, esattamente un secolo fa durante la guerra di Libia. Se in Tripolitania queste tribù si associano alla rivolta, la fine è vicina”. La fine per Muammar Gheddafi, ovviamente. E per tutta la sua famiglia. “Perchè non è pensabile una successione da parte del secondogenito Saif Al Islam. Il più grande errore interno di Gheddafi – continua Del Boca – è stato sottovalutare la capacità di mobilitazione dei clan che, per 40 anni, è riuscito a tenere a bada. Ma ora che il contagio della rivoluzione maghrebina è arrivato, torneranno prepotenti le divisioni interne che si uniranno con un obiettivo: far cadere Gheddafi. Che cadrà per la rivolta delle tribù”. Sta qui, per lo studioso, la differenza specifica della Libia rispetto a Egitto e Tunisia.
“IN LIBIA – racconta Del Boca – non si può parlare veramente di rivolta del pane. il reddito procapite è di circa 15mila euro l’anno, quindi più alto degli altri paesi del Maghreb che sono insorti. Il petrolio, di cui il paese è il secondo produttore africano dopo la Nigeria, ha garantito una prosperità relativa e i prodotti di prima necessità che hanno reso sopportabile, per decenni, la vita delle persone. Ricordo che il traduttore libico che mi era stato assegnato dal ministero dell’Informazione, durante un mio viaggio, voleva venire a vivere in Italia. Aveva quattro figli. Facemmo i conti e non gli conveniva: viveva meglio in Libia. Nonostante le condizioni economiche delle persone, il contagio però era inevitabile. E probabilmente è stato guidato anche dall’estero”. Come sostieneancheSaifAlIslam,chenelsuo discorso in televisione domenica sera ha anche ricordato l’importanza dei clan e delle tribù nel paese. Per questo al momento è difficilissimo prevedere l’esito della rivolta o capire chi potrebbe guidare una possibile transizione. “Si è parlato – dice lo storico – di Abdelsalam Jallud, ex braccio destro di Gheddafi, che però appartiene al clan Maghariba, rivale della tribù di appartenenza del raìs, i Qadhadfa. Ma tenderei ad escludere questo nome, anche perchè si tratta di un uomo anziano. Senza dubbio, una volta che si era intuita la potenzialità della rivolta in Libia, gli oppositori esuli a Londra, Ginevra o California sono intervenuti. E ci sono personalità di rilievo, fuori dalla Libia, che possono influenzare il dopo Gheddafi. Come l’avvocato Anwar Fekini, che vive in California ed è nipote dell’eroe della resistenza libica del 1911 Mohammed Fekini. Di certo l’Occidente ora non può avere un interlocutore privilegiato. Gli occidentali, oltre a vergognarsi come nel caso dell’Italia che ha firmato pochi anni fa un trattato con un dittatore, faticheranno a guidare la transizione”.
ANCHÈ PERCHÈ pur legandosi (e legando a sè) agli interessi occidentali, Muammar Gheddafi non è l’equivalente di Mubarak o Ben Alì. “Gheddafi – dice l’autore di A un passo dalla forca – è un personaggio poliedrico e complesso. L’ho incontrato nel 1996 quando mi ha rilasciato un’intervista di oltre due ore. È un criminale, certo. Ma anche un rivoluzionario che ha garantito un’unità nazionale che ora può essere compromessa. In ogni caso è stato capace di ingraziarsi quelli che un tempo gli furono nemici. La sua svolta filo-occidentale è partita dopo i bombardamenti americani su Tripoli nel 1986. E si consolidò nel 1996 quando represse la rivolta islamista in Cirenaica. Il cambiamento radicale fu nel 2000, quando ammise il fallimento dell’unità panarabica e si adoperò per l’Unione Africana, di cui è stato presidente. Dal panarabismo all’unità africana: non fu un cambiamento da poco. Infine, nel 2006 gli Usa lo hanno depennato dalla black list delle canaglie. È insomma un campione di metamorfosi, un dittatore che ha in spregio i diritti umani ma non un fantoccio. Forte del petrolio, in politica estera si è reinventato più volte. I suoi errori li ha compiuti all’interno e ora ne pagherà il prezzo”. Chissà se è veramente fuggito come Ben Alì o Mubarak. “Non mi stupirebbe se fosse in Libia. A costo di farsi ammazzare”.

Corriere della Sera 22.2.11
Cultura Tripoli, arido suolo di dolore e fallimenti
Il bilancio negativo del colonialismo italiano in Libia
di Paolo Mieli


M ai colonizzazione fu più sfortunata di quella italiana in Libia. E pensare che tutto era parso facile nell’ottobre del 1911, quando le truppe italiane inviate dal governo liberale di Giovanni Giolitti erano sbarcate a Tobruk, Derna, Bengasi e si erano avventurate in quella terra senza quasi incontrare resistenza da parte dei duemila mal equipaggiati soldati ottomani lasciati a presidio dalla Turchia. Casomai il nostro esercito ebbe qualche problema da parte dei senussi, gli islamici che, senza entrare in conflitto con Istanbul, dalla metà dell’Ottocento (nel 1843 Muhammad al-Sanusi si era stabilito a sud-ovest di Cirene), avevano dato alle genti della Tripolitania e della Cirenaica nuove forme di organizzazione politico sociale (oltre a una versione del tradizionale credo religioso maomettano più moderna, più adatta alla mentalità e alle esigenze delle popolazioni beduine). Ma l’impresa italiana ebbe comunque successo e nell’ottobre del 1912 la Sublime Porta (il governo di Istanbul) firmò il trattato di Ouchy (Losanna) in virtù del quale la Turchia ritirava le proprie forze armate dalla Libia, lasciando il Paese all’Italia. Dopodiché la guerriglia della Senussia proseguì e — con l’aiuto di parte dell’esercito turco non rassegnato a rispettare le decisioni di Ouchy — avrebbe potuto crearci seri guai se le ripercussioni in loco della Prima guerra mondiale e un’epidemia di peste (tra il 1916 e il 1917) non ne avessero mortificato le ambizioni. Così, terminato il grande conflitto, l’avventura della colonizzazione italiana in Libia poté riprendere. E procedere gradualmente alla conclusione che giustifica il titolo di un libro di Federico Cresti che l’editore Carocci si accinge adesso a dare alle stampe: Non desiderare la terra d’altri. La storiografia ci ha tramandato il racconto di un’Italia liberale che, dalla fine della guerra (1918) alla marcia su Roma (1922), tentò la via di una convivenza pacifica con i senussi e la popolazione locale; sarebbe stata poi l’Italia mussoliniana a riprendere la via delle armi. In parte le cose andarono così. Ma solo in parte. L’esperimento— successivo alla Prima guerra mondiale — di governo indiretto e di «associazione» dei locali, scrive Cresti, mostrò effettivamente «una volontà di conciliazione e di rispetto delle popolazioni della Libia che avrebbe forse potuto evitare, se applicata con continuità, gli eccidi e i disastri successivi» . Ma già nel 1922, prima della marcia su Roma, all’epoca del governatorato di Giuseppe Volpi (quando era ministro delle Colonie Giovanni Amendola), da parte italiana, in Libia, si era tornati all’uso delle maniere forti. Sicché si può tranquillamente affermare che la seconda guerra italo-senussa, all’epoca enfaticamente presentata come la riconquista fascista della Cirenaica, era stata impostata prima dell’avvento del fascismo. Anche se poi la stagione più cruenta del conflitto sarà riconducibile alla responsabilità del maresciallo Pietro Badoglio, il quale entrò sulla scena libica alla fine del 1928 affermando che non avrebbe dato tregua a chi non si fosse sottomesso («né a lui né alla sua famiglia né ai suoi armenti né ai suoi eredi» ) e a quella del generale Rodolfo Graziani, che dal marzo del 1930 diede avvio all’ultima e più dura fase di repressione della resistenza. In questo contesto furono organizzati spostamenti coatti di popolazione mai visti prima di allora. Scriveva Badoglio, poco dopo l’arrivo di Graziani: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben deciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa; non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa; ma oramai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo proseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica» . E Graziani prese l’ordine alla lettera, organizzando lo spostamento dell’intera popolazione della Cirenaica lungo la pianura costiera, tra il mare e le pendici dell’altipiano. Fu una marcia, in inverno, di centinaia e centinaia di chilometri. Si ebbe qualche gesto di pietà nei confronti delle popolazioni nomadi del Gebel? Pressoché nessuno. Badoglio così scrisse a Graziani nel 1932: «Non ricercare il rientro dei fuorusciti. È meglio perderli per sempre… Il Gebel deve essere dominato prevalentemente dal colono italiano… L’indigeno si convinca o, per meglio dire, si abitui a considerare quella (dei campi di concentramento lungo i territori costieri della Cirenaica e della Sirtica) come la sua destinazione permanente» . Le direttive di Badoglio sul mantenimento delle popolazioni nei campi di concentramento, a meno che non fossero determinate da una precisa volontà di sterminio, erano insostenibili, osserva Cresti; «se si fossero concretizzate avrebbero portato, con ogni probabilità, alla progressiva distruzione delle popolazioni concentrate» . Graziani fu più duttile. Ma l’esito di quelle politiche fu in ogni caso drammatico. Impossibile calcolare con esattezza il numero dei morti, che furono numerosissimi. Oltretutto Badoglio ordinò di passare per le armi chiunque, tra i nativi, fosse stato trovato sul Gebel da dove la deportazione aveva avuto inizio. Nel settembre del 1931 Umar al-Muktar, l’anziano capo della resistenza (aveva quasi 70 anni), fu catturato e impiccato. Il 24 gennaio del 1932 Badoglio fu in grado di dichiarare che la ribellione era definitivamente stroncata e la Libia «del tutto pacificata» . Secondo i dati ufficiali italiani i morti nelle operazioni contro la guerriglia erano stati, tra il 1923 e il 1932, 6.500. Ma già gli studiosi Giorgio Rochat e Angelo Del Boca, che negli anni passati hanno approfondito la questione, hanno calcolato che furono invece diverse decine di migliaia. Forse centomila. Molti, certo, anche se infinitamente meno di quelli indicati da esponenti politici libici contemporanei quali Salah Buissir (un milione e mezzo) o Gheddafi (750 mila) che corrisponderebbero nel primo caso al doppio, nel secondo alla quasi totalità della popolazione locale presente all’epoca del censimento ottomano del 1911. Ali Abdellatif Ahmida, uno studioso di origine libica che attualmente insegna negli Stati Uniti, stima che mezzo milione di suoi connazionali morì in battaglia o di malattia, fame e sete; altri 250 mila furono costretti all’esilio in Egitto, Ciad, Tunisia, Turchia, Palestina, Siria e Algeria. Un altro storico libico, Yusuf Salim al-Bargathi, sostiene che i morti per la deportazione furono tra i 50 e i 70 mila (laddove Rochat e Del Boca calcolano che furono circa 40 mila). Il 13 agosto del 1932, su proposta del ministro per le Colonie Emilio De Bono, Luigi Razza viene nominato presidente dell’Ente per la colonizzazione della Cirenaica. Razza, già giornalista nel mussoliniano «Popolo d’Italia» , sansepolcrista, ex segretario dei fasci d’azione, futuro ministro dei Lavori pubblici, vara un ambizioso piano per far giungere sul luogo italiani disposti al lavoro duro. Gente, in genere, con la fedina penale non immacolata. Non importa se pregiudicati a seguito di condanne politiche o per delitti comuni. Circostanza che costringerà in seguito Italo Balbo a «depurare» , tra il 1938 e il 1939, quella corrente di immigrazione. Ma nella prima metà degli anni Trenta non si va per il sottile. Nel 1934 arriva in Cirenaica anche Amerigo Dumini, già condannato (anche se con una pena risibile: sei anni di cui quattro condonati) per l’uccisione, nel giugno del ’ 24, di Giacomo Matteotti. Dumini, riarrestato in Italia per traffico d’armi, aveva cominciato a ricattare Mussolini e, su pressione del ministro dell’Interno Arturo Bocchini, era stato «accolto» in Libia. Arrivato lì, cominciò subito a lamentarsi dei terreni che gli erano stati assegnati e della riduzione dei finanziamenti che gli erano stati promessi. Poco dopo essere giunto in Libia, riprese a scrivere a Mussolini lettere sottilmente ricattatorie, i soldi arrivarono e nel giro di tre anni divenne un ricco possidente. Nel 1939 i terreni della sua azienda furono acquisiti dal governo della colonia e Dumini ne uscì con un lauto indennizzo. Restò in Libia dove, quando arrivarono gli inglesi, grazie alla sua padronanza della lingua (era nato negli Stati Uniti), per un breve periodo fece anche da interprete. Insomma se la passò più che bene. Ma per tutti gli altri che non avevano armi di ricatto nei confronti del Duce, fossero o meno pregiudicati, le cose andarono assai diversamente. Pieno di difficoltà è già l’adattamento dei nuovi arrivati. Si registrano casi «di eccitamento delle varie funzioni organiche seguito da lieve stato depressivo… specialmente nel sesso femminile» ; «qualche caso importante di malattia cronica… qualche caso di forme oculari contagiose croniche e qualche caso di tricofizia e di tigna, tutti però cronici e cioè non avvenuti per contagio con elemento indigeno» ; frequenti disturbi artritici, malattie cardiache, lue; tra i bambini, linfatismo, scrofolosi, altre patologie cutanee, qualche sporadico caso di tubercolosi. A detta di Armando Maugini, che dirigeva l’Ufficio per i servizi agrari della Cirenaica, i pugliesi erano quanto di meglio l’Italia potesse offrire alla Libia per la loro capacità di affrontare la durezza delle condizioni di vita di quella fase pioneristica. «Il colono pugliese» scriveva Maugini in un rapporto «è molto indicato per tale tipo di colonizzazione, non solo per lo spirito di adattamento e per la notevole sobrietà, ma anche perché, essendo molto attaccato ai parenti, ed essendo proveniente da territori aventi requisiti agrologici molto simili a quelli del Gebel Cirenaico, esercita un’influenza di attrazione verso gli elementi rimasti nella Madrepatria, i quali pertanto potrebbero un giorno intensificare spontaneamente l’opera di popolamento delle zone già occupate dai pugliesi» . Luigi Razza conferma: «La scelta delle famiglie è stata effettuata in un primo tempo nelle Puglie, e più largamente nel barese, perché il primo nucleo di sei famiglie di Corato trasferite al completo in colonia all’inizio delle attività, a titolo di esperimento, dettero ottimo risultato, e si ebbe quindi un primo punto di appoggio che avrebbe potuto funzionare come assimilatore qualora fossero stati messi a suo contatto elementi della stessa provenienza… I coloni sono già ambientati tutti benissimo e si sono attaccati alla loro terra, della quale hanno già potuto accertare le buone attitudini alla valorizzazione» . In subordine vengono apprezzati abruzzesi e calabresi. Le condizioni per avviare in colonia una nuova attività erano terribili. Agli inizi del 1935 una comunità di trenta pescatori fu trasferita a Zuetina. Ma già ai primi di giugno molti di loro chiedevano di tornare in Italia. L’isolamento e lo stato di abbandono della ridotta rendevano la vita assai difficile: un mobilio ridotto all’indispensabile, il pane che arrivava saltuariamente da Agedabia dove il piccolo forno funzionava poco e male per la mancanza di fornaio, farina e combustibile. Le imbarcazioni erano poche e si erano rovinate durante il tragitto dall’Italia. La calura lungo la costa sirtica, riferisce Cresti, era tale che già alla fine della giornata di lavoro una parte del pesce, ridotto in pessime condizioni, doveva essere buttata via. A terra le attrezzature di refrigerazione erano scadenti: uno dei locali della ridotta era stato trasformato in cella frigorifera, ma il ghiaccio disponibile era insufficiente. Ancor più difficile, prosegue Cresti, «si era dimostrata la vendita del pesce; la vettura disponibile non era attrezzata per il trasporto e si era dunque fatto ricorso ad un commerciante privato» . Ma l’impresa si era rivelata poco remunerativa e il contratto era stato presto stracciato. In più i pescatori ebbero a lamentarsi dell’eccessiva fiscalità delle autorità locali dal momento che, una volta giunto a Bengasi e sottoposto al controllo dell’ufficio d’igiene, spesso il pesce era stato giudicato avariato e buttato via prima che potesse arrivare al mercato. Nel mese di settembre a Zuetina non rimanevano che quattro persone, anch’esse desiderose di rimpatriare al più presto. Nel tentativo di rilanciare l’esperimento furono presi contatti con una cooperativa di Trapani. Ma, a fine stagione, anche gli ultimi rimasti furono rimpatriati. Il 1936 fu poi, in Tripolitania, causa la siccità, un anno pessimo per i raccolti. Si giudicò da quel momento un errore l’aver mandato in Libia famiglie numerose: la presenza di bambini e vecchi si era rivelata un peso morto per la bonifica. E si cambiò registro. Il 1938 fu l’anno dell’operazione cosiddetta dei «ventimila» . Tanti dovevano essere, secondo Italo Balbo, i «non emigranti» da trapiantare in Libia. Perché «non emigranti» ? Il fascismo aveva sempre fatto una politica antiemigratoria e non poteva smentirsi. Il trasferimento in Libia dei ventimila, racconta Cresti, «venne così presentato dai giornali italiani come l’esatto contrario di tutto ciò che era stata l’emigrazione sofferta fino ad allora da quanti partivano alla ricerca di condizioni di vita che l’Italia non poteva offrire: non più un evento triste, ma un’avventura eccitante— dove l’inatteso era fonte di curiosità e non di angoscia (ovvero dove l’inatteso, come fonte di angoscia, era eliminato) — piena di sorprese positive, allegra; non più separazione, unicamente, dal proprio ambiente di vita e dalla società in cui coloro che partivano erano vissuti fino ad allora, ma la possibilità di realizzare nuovi legami forti, di gruppo, con coloro che partecipavano allo stesso evento; non più continuazione della miseria nelle condizioni del viaggio, ma partecipazione al lusso della modernità; non più la prospettiva della penuria, ma quella dell’abbondanza; non più la fredda, sospettosa accoglienza riservata a stranieri alla frontiera, ma la manifestazione del calore di un’accoglienza fraterna in una terra che si affermava non essere più "Oltremare"ma parte costituente della madrepatria» . La partenza fu organizzata da Venezia il 28 ottobre, nell’anniversario della marcia su Roma. Grande fu la risonanza su tutti i giornali. Mussolini gradì fino a un certo punto l’enfasi che Balbo diede all’operazione. E, quando mancava meno di un anno all’inizio della Seconda guerra mondiale, cominciò a dare segni di insofferenza nei confronti dello stesso Balbo. L’Italia entrò in guerra solo nel giugno del 1940, ma l’andamento sfavorevole della stagione agricola aveva provocato notevoli difficoltà già alla fine del 1939. All’inizio del ’ 40 si dovettero organizzare nuove spedizioni, in particolare di foraggio e di mangime per gli animali. Furono comprati più di mille buoi maremmani, ma molte bestie si ammalarono prima ancora di partire e dovettero sostare a lungo a Civitavecchia, con nuove spese per il foraggio che diventava sempre più caro. Il bestiame patì, nell’inverno del ’ 40, di denutrizione a cui seguirono perdite di capi per mancanza di foraggio. Con il passare dei mesi, poi, era divenuto sempre più difficile trovare spazio per il trasporto delle merci. Nei mesi di aprile e maggio 1940 quasi tutte le navi erano state requisite per i servizi militari: in alcuni casi i beni e i materiali già imbarcati per la Libia erano stati scaricati a Siracusa e a Catania per liberare le navi. Un piroscafo carico di materiali agricoli partito da Genova nel mese di ottobre, a metà dicembre era ancora bloccato a Palermo in attesa di compiere la traversata. «In queste condizioni» nota l’autore «era sconsigliabile l’invio di merci deperibili, come le sementi o le talee di viti» . Per cui, a ridurre le perdite, fu deciso di rivendere in Italia i materiali già acquistati per essere inviati in Libia. Una catastrofe. L’Italia entra in guerra nel giugno del 1940 e il 28 di quello stesso mese cade, nel cielo di Tobruk, l’aereo su cui è imbarcato Italo Balbo (la morte desta qualche sospetto di un ancora non provato coinvolgimento di Mussolini). Prende il suo posto Rodolfo Graziani, che è subito impegnato dal Duce in un’offensiva contro l’Egitto. Segue, nei mesi di febbraio e marzo del 1941, la prima occupazione inglese che, scrive Cresti, «dette una violentissima scossa all’edificio ancora malfermo della colonizzazione in Cirenaica» . Praticamente non c’è pace per la Libia che, quando dovrebbe raccogliere i primi frutti dell’opera dei «ventimila» , si ritrova ad essere teatro di guerra. I coloni vengono presi dal panico e si accalcano all’istituto di credito per ritirare i risparmi, cercando di fuggire verso Tripoli e di rientrare in Italia. Man mano che avanzano le truppe alleate, gli arabi in loco — spalleggiati da un corpo senusso che combatte a fianco degli inglesi — saccheggiano ogni volta che gliene è offerta la possibilità. Si distinguono per assenza di scrupoli gli australiani. Scrive nel suo diario l’agronomo Paolo Sabbetta: «Militari australiani entrano, di giorno e di notte, nelle case coloniche chiedendo generi diversi pagandoli, alcuni, profumatamente, altri invece, quasi sempre ubriachi, saccheggiando e violentando le donne mentre tengono gli uomini a bada con le armi in pugno» . E le testimonianze di queste violenze sono numerose. Dall’Italia il regime cerca di minimizzare e di promuovere l’immagine di una popolazione libica della Cirenaica solidale con i coloni. Ma tra il dicembre del 1941 e il gennaio del 1942 per gli italiani è l’inizio della disfatta. Ancora un anno terribile e il 23 gennaio del ’ 43 le truppe britanniche fanno il loro ingresso a Tripoli. Tra Libia e Italia è interrotto ogni contatto. Qualche migliaio di italiani resta lì a lavorare fino alla fine della guerra e oltre. Anche dopo che nel ’ 49 l’assemblea generale delle Nazioni Unite vota per il progetto di una Libia come Stato a sé e dopo la proclamazione, nel ’ 51, dell’indipendenza. Va aggiunto che nel dopoguerra, venuta meno l’autorità italiana sulla regione, si registrano sanguinose manifestazioni arabe ostili alla comunità ebraica che era stata fin lì una colonna della presenza italiana, al punto che Balbo nel ’ 38 aveva ottenuto una sorta di esenzione della Libia dalle leggi razziali. I pogrom più sanguinosi saranno quelli del novembre 1945 (particolarmente raccapriccianti perché compiuti proprio nei giorni in cui, con l’uscita dei superstiti ebrei dai campi di concentramento d’Europa, il mondo veniva a conoscenza delle atrocità compiute nei lager nazisti) e del giugno del 1948, all’indomani della nascita dello Stato di Israele. Poi si ripeteranno nel 1967 all’epoca della guerra dei sei giorni. Nel 1956 un accordo tra Italia e Libia regola la presenza nella ex colonia dei nostri connazionali che si trasformano, la maggior parte, in piccoli possidenti. Ma saranno tutti cacciati dopo il colpo di Stato degli ufficiali liberi guidati da Gheddafi, che nel 1969 rovescerà la monarchia senussa. Nel frattempo la Libia, che ancora non conosceva la sua fortuna petrolifera, era tornata ad essere uno dei Paesi più poveri del mondo. I pastori-contadini della Cirenaica, una volta tornati sulle loro antiche terre, non potendo più avvalersi dei capitali, delle attrezzature e degli impianti italiani, avevano rapidamente ricondotto il Paese nel solco della tradizione. La Gran Bretagna, nel lungo periodo dell’amministrazione militare (1942-1951), aveva rifiutato di investire i propri soldi nella nostra ex colonia. E quando nel 1970 partirono gli ultimi italiani, il bilancio dei quasi sessant’anni di loro presenza in quella terra poteva vantare pochi punti al proprio attivo. Neanche quelli che hanno contrassegnato le esperienze coloniali negli altri Paesi del Terzo Mondo. Come se una punizione particolare si fosse abbattuta su chi aveva contravvenuto al comandamento inventato da Federico Cresti per il titolo del suo libro: Non desiderare la terra d’altri, appunto.

La Stampa 22.2.11
Intervista a Laura Boldrini
“Scenario imprevedibile Dobbiamo essere pronti”
di Francesca Paci


Non ci facciamo cogliere impreparati» ripete Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). La crisi libica mette sotto forte pressione le frontiere meridionali dell’Europa, in particolare quelle italiane. Che effetti potrebbe avere il crollo della Libia sui flussi migratori? «Non sono in grado di fare previsioni, al momento le informazioni che arrivano dalla Libia sono confuse. C’è un pesante uso della forza, la situazione è in divenire. Non sappiamo se la protesta verrà recepita o repressa, tutto dipende dalla reazione del potere. Cedere subito all’allarmismo sarebbe sbagliato ma di certo è importante essere pronti con gli aiuti a fronteggiare un eventuale flusso».
Cosa dovremmo aspettarci? «Non so immaginare che tipo di politica migratoria avrà domani Tripoli verso l’Europa. Per ora il flusso è contenuto. Cinquemila tunisini sbarcati a metà gennaio non è un numero drammatico. Se non fossero arrivati tutti insieme in pochi giorni e proprio mentre il centro di Lampedusa era chiuso non si sarebbe diffuso il panico. Prima dell’Accordo di Amicizia tra Italia e Libia Lampedusa gestiva già cifre importanti. I 26 mila migranti del 2008 approdarono in gran parte lì. La situazione non è grave ma i tunisini potrebbero essere un’avvisaglia, è giusto essere pronti». Che tipo di migrazione vedremmo dallo sfaldamento della Libia? «In passato non ci sono mai stati migranti di nazionalità libica, sebbene partissero da lì. Ora invece è possibile che arrivino. I flussi sono anche effetti collaterali di processi provenienti dal basso a seguito dei quali le fughe sono fisiologiche. Se le proteste venissero ascoltate ci sarebbero dei cambiamenti e i libici potrebbero aver interesse a restare in patria. Ma se il potere non dovesse cedere è ipotizzabile che i ragazzi protagonisti della rivolta cerchino la fuga». Vuol dire che potrebbero chiedere asilo politico in Italia? «Bisognerà vedere. Se il regime tenesse dovremmo aspettarci la fuga degli oppositori, se cadesse a scappare potrebbero essere gli altri. L’immigrazione tunisina ha motivazioni economiche ed è possibile che quella libica ne avrebbe di diverse. Lo scenario che si profila è nuovo, insisto: non facciamoci cogliere impreparati». Gheddafi ha minacciato di far invadere l’Europa dai migranti. Cosa può fare l’Italia e cosa Bruxelles? «L’Italia ha già dato prova d’essere pronta a gestire flussi migratori importanti. Negli anni ‘90 decine di migliaia di albanesi sbarcarono da noi al crollo del regime. E nel ‘99 arrivarono sulle coste pugliesi 35 mila kosovari. Non so valutare le minacce di Gheddafi. Posso dire però che il flusso tunisino ha già una componente europea. I migranti tunisini sono giovani, hanno motivazioni economiche, dicono di voler esercitare il loro diritto alla libertà, non credono al cambiamento politico del paese e temono che la fuga del turismo aggravi la povertà. La maggior parte guarda alla Francia, all’Olanda, non all’Italia. Credo che con questa crisi l’Europa abbia una una chance di mettere in atto un maggior coordinamento, compresa la condivisione degli oneri nel caso si verificassero le peggiori previsioni e arrivassero decine di migliaia di persone».

Repubblica 22.2.11
La primavera dei popoli
di Bernardo Valli


Due cambiamenti, sufficienti per segnare la svolta di un´epoca, sono già intervenuti mentre le rivolte nel mondo arabo sono ancora in corso. E la repressione è sempre più sanguinosa in Libia. Il nuovo capitolo di storia non riguarda soltanto i paesi che ne sono il teatro. La zona sensibile, dall´Algeria all´Iran, rappresenta il 36 per cento della produzione mondiale di petrolio. Questo è quel che ci riguarda sul piano concreto, insieme ai rischi di guerre non soltanto civili, in una zona ricca di conflitti latenti, alle porte dell´Occidente europeo. Sul piano politico, ideologico, morale, quel che sta accadendo è inoltre destinato a sconvolgere, a rovesciare il pregiudizio occidentale sul mondo arabo musulmano. Il famoso conflitto di civiltà.
Il primo cambiamento già avvenuto è che uomini e donne rivendicano i diritti dei cittadini di uno Stato democratico, e quindi rifiutano il modello del rais, onnipotente e insostituibile, dominante dall´Atlantico all´Oceano indiano per decenni. Dopo il tunisino Ben Ali e l´egiziano Mubarak, adesso traballa anche Gheddafi, caricatura dell´autocrate arabo miliardario in petrodollari, in esercizio da più di quarant´anni. Altri birilli cadranno.
Cercando di svelare i misteri che inevitabilmente annebbiano i fenomeni rivoluzionari appena esplosi, gli storici più audaci azzardano un paragone: evocano la «primavera dei popoli» del 1848, che in qualche mese sconvolse in Europa il sistema politico creato dal Congresso di Vienna. Dopo grandi sacrifici, generose esaltazioni ed enormi speranze, le rivoluzioni d´allora, verificatesi a catena, dalla Sicilia dei Borboni alla Parigi di Luigi Filippo, fallirono una dopo l´altra.
Stiamo quindi assistendo a insurrezioni popolari, al di là del Mediterraneo, destinate a fallire? Come nell´Europa dell´800 ritornarono le monarchie autoritarie o si formarono nuovi imperi, cosi potrebbero ritornare i rais di cui gli arabi si sono appena liberati o si stanno liberandoo vorrebbero liberarsi? Gli interrogativi restano. Ma forse gli storici sanno soprattutto predire il passato. I nostri sono tempi veloci. I popoli insorti hanno sotto gli occhi i modelli democratici. Le immagini, le informazioni, scavalcano le frontiere e le censure.
Il secondo cambiamento, sottolineato da Henry Laurens, storico del mondo arabo, riguarda l´immagine che gli arabi hanno di se stessi e che da noi era tanto diffusa, al punto da essere un´ossessione. Il manifestante di piazza Tahrir al Cairo o di avenue Burghiba a Tunisi, e l´oppositore al regime di Gheddafi che sacrifica la vita a Benghasi, hanno sostituito l´immagine del terrorista barbuto e fanatico.
I popoli, le cui civiltà erano state umiliate dal colonialismo, decisi a ritornare sulla scena internazionale, si riunirono a Bandung (1955), per celebrare la sovranità dei loro Stati, l´indipendenza nazionale appena conquistata, ed anche per affermare, in certi casi, le loro fedi religiose.
Lo ricorda Jean Daniel, ed io ricordo le corrispondenze di un vecchio reporter, Cesco Tomaselli, mandato nella città indonesiana dove si svolgeva la conferenza, in cui i partecipanti (tra i quali Chou En-lai, Nasser, Tito, Nkrumah, Nehru) venivano descritti, o meglio derisi, come espressioni di civiltà inferiori, scimmiottanti i veri grandi della Terra.
Poco più di mezzo secolo dopo non è più questione di nazione indipendente e di affermazione dell´identità religiosa. Il vecchio cronista, allora convinto rappresentante di una civiltà superiore, scoprirebbe adesso che i giovani tunisini, egiziani, yemeniti, marocchini e anche libici, dei quali non avevamo l´impressione di conoscere i volti, perché il loro paese sembrava incarnato soltanto da Gheddafi, e dalle sue grottesche stravaganze, rivendicano diritti individuali e libertà.
Senza esprimere esigenze religiose. Senza limitarsi a richiami nazionalisti. Esattamente come gli europei del 1848, ma anche come quelli degli Anni Quaranta, della lotta antifascista, e del 1989, dopo la caduta del Muro. La storia si è ricongiunta. Il computer e i suoi derivati hanno aperto uno spazio incontrollabile per gli sgherri del raìs e offrono strumenti comuni a civiltà sempre meno divise. Le idee corrono più facilmente. Conquistano anche i soldati, i coscritti, che dovrebbero reprimere ma che sono spesso sensibili agli slogan dei coetanei pronti a sfidare la polizia di Mubarak e di Ben Ali e gli aerei di Gheddafi.
Gli sconfitti non sono soltanto i rais, a lungo prediletti dalle potenze occidentali, in quanto guardiani dei loro popoli, pronti a combattere, a reprimere le tentazioni integraliste appena affioravano nella società. Anche le correnti estremiste dell´Islam hanno subito una disfatta, perché la sognata rivolta popolare non è stata guidata da loro. Li ha colti di sorpresa. Anzi ha investito lo stesso Iran, dove gli oppositori del governo teocratico hanno rivendicato le stesse libertà chieste a Tunisi, al Cairo, a Tripoli.
Questo ha contato nell´atteggiamento americano. Gli Stati Uniti di Barak Obama sono stati determinanti in Egitto. Questa volta la forza si è messa al servizio della giustizia. Senza l´insistente intervento di Washington i generali del Cairo non si sarebbero risolti tanto presto a sbarazzarsi del presidente, che era anche il loro comandante supremo.
Obama ha mantenuto la promessa fatta due anni fa con il discorso del Cairo, rivolto al mondo musulmano. Ha appoggiato i movimenti democratici, pur compiendo qualche contorsione diplomatica. Per non compromettere troppo la stabilità di vecchi alleati dell´America tutt´altro che democratici. Ad esempio l´Arabia Saudita, insidiata dalla rivolta sciita di Bahrein.
Anche l´Europa è stata fedele ai suoi principi condannando la repressione e pronunciandosi in favore degli oppositori in rivolta. Soltanto l´Italia di Berlusconi ha mancato all´appuntamento d´onore per un paese democratico. Se l´insurrezione libica affogherà nel sangue, il governo italiano avrà la sua parte di vergogna.

l’Unità 22.2.11
Biotestamento, Saviano a teatro «Illiberale il testo alla Camera»
Lo scrittore: «La tragedia è spacciare una battaglia di libertà come pro-morte»
Oggi il ddl sul biotestamento arriva in Commisisone Giustizia, ultimo passaggio prima dell’aula. Si prevede un’approvazione rapida: chiamata alle armi per la maggioranza contro la freddezza del Vaticano dopo il Rubygate.
di Federica Fantozzi


A teatro il volto di Beppino Englaro immerso nel silenzio che è mancato durante gli ultimi giorni di Eluana. Il video di Roberto Saviano per spiegare la battaglia di un uomo che alla morte in ipocrita clandestinità ha preferito rivolgersi alle istituzioni, l’«illiberalità» del disegno di legge sul biotestamento in discussione in Parlamento, la «tragedia» del raccontare una scelta di libertà come «pro morte».
Fuori, per strada, la raccolta di firme della campagna «Io non costringo, curo» della Cgil, l’appello dei medici per la libertà di scelta, la disobbedienza civile annunciata dal 75% dei chirurghi, gli appuntamenti in tutta Italia dell’associazione Per Eluana, da ultimo il manifesto degli intellettuali (Rodotà, Eco, Zagrebelsky, Galasso, Scognamiglio) su Repubblica.
È cominciata la mobilitazione contro il progetto di biotestamento che il centrodestra vuole fortemente approvare. Sloggiato dal Milleproroghe, il ddl arriverà nell’aula di Montecitorio ai primi di marzo. Oggi è in Commissione Giustizia, dalla fliniana Bongiorno, ultimo parere prima che la Affari Sociali licenzi il testo. Nella maggioranza in fibrillazione per la freddezza delle gerarchie ecclesiastiche dopo il Rubygate è già scattata la chiamata alle armi. Salvo colpi di scena, sarà un’approvazione rapida, con però nuovo passaggio in Senato.
Il sottosegretario Roccella, grande sponsor del ddl, sostiene che gli attacchi sono «pretestuosi e ideologici» confondendo la rinuncia alle terapie (codificata dalle sentenze nel caso Englaro) con l’eutanasia. Dal PdL provocano i cattolici del Pd che «contano meno di zero», ma Largo del Nazareno punta a contenere i maldipancia dei singoli.
Intanto, l’obiettivo è coinvolgere per convincere. Ieri sera al Teatro Sala Umberto di Roma è andato in scena l’happening «Le ragioni del cuore. Biotestamento. Sentimenti e diritti a confronto». Spettacolo che si propone di fornire «una cornice di valori e diritti sul fine vita che ognuno riempirà con la propria coscienza. Sul palco la consegna del silenzio di Englaro.
Saviano spiega perché il padre di Eluana ha combattuto una battaglia «di libertà e democrazia compiuta» anziché lasciarla morire «in clandestinità, come è tollerato negli ospedali». Mentre il disegno di legge sul testamento biologico è un testo illiberale che «complica le cose, le burocratizza, non va in direzione della libera scelta». Il senatore Nania ribatte allo scrittore: «Illiberale sarà lei».
E Ignazio Marino, chirurgo di fama e senatore del Pd, in prima linea contro una legge che impone l’alimentazione artificiale e consideri non vincolanti le Dat, racconta l’«arroganza» di un Parlamento che legifera «non per il bene del Paese ma per puntellare una traballante maggioranza». C’era Simona Marchini, battagliera: «Quando si tratta di difendere diritti: presente!». Il regista Elio De Capitani, l’attore Francesco Siciliano, i musicisti Davide Tedesco e Alberto Turra, Monica Fabbri della commissione di Bioetica valdese. Una testimonianza della Casa dei Risvegli attraverso il racconto dello scrittore Fabio Cavallari della vita di un malato della sindrome locked-in (quella de Lo scafandro e la farfalla, un battito di ciglia per esprimersi). La dichiarazione in cui l’oncologo Veronesi chiede, in caso di invalidità permanente, di non venire sottoposto ad alcun trattamento.
Regista dello spettacolo, Corrado Accordino. Mille richieste per la metà dei posti, e l’intenzione di girare il Paese per far conoscere i diritti senza provocare conflitti. Combattendo la mistificazione di un atto di libertà veicolato come «pro morte». Invece questa battaglia «accende una luce» anche su chi fa la scelta opposta. E sui familiari delle persone in stato vegetativo, abbandonati dallo Stato senza soldi né assistenza.

l’Unità 22.2.11
Intervista a Maurizio Mori
«È contro la scienza, se diventerà legge finirà alla Consulta»
Il docente dell’università di Torino: da noi non si fa catechismo. Il master sulla bioetica è un confronto critico. E a frequentarlo sono soprattutto le donne
di F. Fan.


Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica e docente all’università di Torino, è tra gli organizzatori del Master biennale di primo livello in Bioetica che si occupa di formare in modo critico operatori del settore su temi sempre più importanti per l’attualità e la politica.
L’obiettivo è fornire informazioni di base ma soprattutto una chiave interpretativa per argomenti dal testamento biologico alla rinuncia a determinate terapie ai sentimenti degli animali ormai suscettibili di lambire la vita di molte famiglie. Giunto alla seconda edizione sotto la Mole, questo tipo di specializzazione è frequente negli atenei cattolici, molto meno in quelli pubblici. Qual è la finalità del master? «Iniziare alla bioetica gli operatori sanitari e chiunque ne abbia interesse. È interdisciplinare: promosso dalla facoltà di Lettere, coinvolge medicina, veterinaria, legge, agraria, in modo da abbracciare una visione complessiva».
Anche veterinaria?
«Sì. Gli animali sono esseri senzienti, dunque diventano pazienti morali. Hanno il diritto a non soffrire inutilmente, a non essere usati come cavie da laboratorio. Si dibatterà anche del loro diritto a non essere mangiati».
Esiste un’impostazione prevalente?
«C’è il pluralismo etico: visioni laiche, cattoliche, valdesi, qualunquiste... Siamo un’università pubblica che accetta il confronto. Non facciamo propaganda né catechismo di valori a cui aderire. Forniamo gli strumenti ad adulti che potranno poi scegliere la loro prospettiva». Chi sono i docenti?
«Professori e ricercatori del nostro ateneo. Ed ospiti internazionali, come Engelhardt l’anno scorso». E gli studenti?
«Medici, compresi primari, dentisti, infermieri, giornalisti scientifici e non, uffici stampa, giuristi, operatori del sociale. La scorsa edizione erano 48. Più della metà, donne. Provenienza diffusa: da Brescia a Campobasso».
Le lezioni sono influenzate dall’attualità? Se alla Camera si discute l’approvazione del biotestamento ne parlerete in classe?
«Non direttamente. Parleremo di staminali, fine vita, fecondazione assistita come elementi fondamentali della bioetica. Ma a prescindere da quello che succede in Parlamento e sui giornali».
Master di questo tipo sono diffusi in Italia?
«Ce ne sono molti nelle università cattoliche. Di impostazione laica, che io sappia, un paio. Alla Sapienza di Roma è diretto da Eugenio Lecaldano».
Lei era sul palco di Udine alla serata organizzata dall’associazione “Per Eluana” per promuovere un biotestamento rispettoso della libertà di scelta. Come giudica il ddl che sarà presto in discussione alla Camera?
«È una legge contro nuovi casi Eluana. Sbagliata nell’impianto. Antimoderna e antiscientifica che, imponendo l’alimentazione forzata, vanifica qualsiasi manifestazione di volontà. Se sarà confermata in questi termini, credo che finirà davanti alla Corte Costituzionale».

Repubblica 22.2.11
Incoraggiare o punire le ultime ricerche sui modelli educativi
di Francesco Cro


Diversi recenti studi americani rilevano quanto offese, minacce e rimproveri possano essere veri traumi per i bambini e per gli adolescenti. E lascino traccia anche a livello cerebrale E allora: come ci si deve comportare?
Gli inutili castighi e l´escalation tra provocazioni e sanzioni Il sistema dei "punti"

Una delle funzioni dei genitori è di imporre limiti ai bambini e di insegnare loro a distinguere i comportamenti leciti da quelli che non lo sono. Educare i figli, però, non è un´impresa semplice: ogni età presenta le sue difficoltà, e ai genitori di un bambino o di un adolescente può capitare di sentirsi preoccupati, frustrati e confusi, o di lamentarsi, minacciare e punire il proprio figlio, senza peraltro risolvere la situazione. Il rischio è quello di perdere il controllo e di lasciarsi andare a esplosioni di rabbia: ma secondo Alan Kazdin, professore di psicologia alla Yale University ed esperto di problemi del comportamento nei bambini, castighi e punizioni non sono strumenti educativi molto utili. La punizione vorrebbe insegnare al bambino cosa non fare, ma non gli fornisce un modello positivo: dovrebbe essere leggera, di breve durata e non veicolare aggressività. È molto meglio utilizzare lodi e gratificazioni per rinforzare i comportamenti da incoraggiare che punire quelli sconvenienti, anche perché la punizione porta quasi sempre a un escalation di provocazioni e sanzioni. I bimbi accettano un sistema "a punti" per valutare il loro comportamento e ricevere così dei premi quando hanno raggiunto gli obiettivi desiderati. Del tutto sbagliato, invece, è imporre come punizione un´attività che si desidera incoraggiare (per esempio la lettura o la scrittura), o privare i bambini dei contatti sociali con i coetanei.
Rimproverare aspramente i bambini, insultarli e minacciarli è una vera e propria forma di abuso, spesso sottovalutata, ma che può causare problemi psicologici anche più gravi di quelli conseguenti alla violenza fisica. Ne è convinto Martin Teicher, psichiatra della Harvard Medical School di Boston. Urlare contro i bambini, umiliarli, ridicolizzarli e sottoporli continuamente a severe critiche può facilitare l´insorgenza di sintomi psicologici importanti, come depressione, rabbia e ostilità. Un trauma calcolabile, durante adolescenza ed età adulta, in termini di aumentato rischio di dipendenza da alcol o stupefacenti. Ne risente anche lo sviluppo del sistema nervoso centrale: aumentata irritabilità dell´ippocampo, che sembra predisporre ad alterazioni della coscienza di tipo dissociativo.
La mente dei bambini sarebbe sensibile alle offese verbali, soprattutto nella prima adolescenza, caratterizzata da una particolare sensibilità dell´ippocampo e dalla frequente esposizione, durante la scuola media, a esperienze di bullismo e maltrattamenti verbali ad opera dei coetanei. I ricercatori hanno riscontrato che i ragazzi con esperienze di maltrattamenti verbali subiti dai genitori o dai coetanei, soprattutto tra gli 11 e i 14 anni, mostrano più facilmente disturbi psicologici e presentano alla risonanza magnetica alterazioni delle strutture di collegamento tra i due emisferi cerebrali. In un´altra ricerca Louise Arseneault e i suoi colleghi del King´s College di Londra hanno dimostrato che i bambini che subiscono maltrattamenti (da adulti o coetanei) hanno maggiori probabilità di manifestare sintomi psicotici nella prima adolescenza.
Esprimere aggressività verso i bambini può dunque compromettere il loro sviluppo psicologico e minare il rapporto tra genitori e figli. Per Jon Kabat-Zinn, direttore della Clinica per la riduzione dello stress dell´Università del Massachusetts (Il genitore consapevole, Tea), la chiave educativa è il rispetto e l´empatia: mai volerli conformare alle nostre aspettative.
* Psichiatra, Serv. Psichiatrico Diagnosi e Cura, Viterbo

Repubblica 22.2.11
Il congresso
Riuniti a Roma 3500 specialisti di psicopatologia. Parla Mario Maj
Tra sicurezza e insicurezza È lo stile di attaccamento
Fin dal primo anno di vita sviluppiamo una modalità di interazione personale Un imprinting fondamentale
di Giuseppe Del Bello


Ogni persona è (caratterialmente) diversa dall´altra. Fin dal primo anno di vita, ogni bambino sviluppa una modalità di interazione personale. A partire dal rapporto che instaura con le persone che si prendono cura di lui (di solito i genitori) e che per gli psichiatri si chiama appunto "stile di attaccamento". Un imprinting che influenzerà il futuro del bimbo determinando, a seconda dei casi, condizioni di benessere o di disagio. Anche estremo. È stato uno dei temi su cui si sono confrontati gli oltre 3500 specialisti riuniti a Roma per il congresso della Società italiana di Psicopatologia, presieduto da Mario Maj, ordinario di Psichiatria alla Seconda Università di Napoli. In condizioni normali, lo stile di attaccamento si definisce "sicuro". Il bambino esplora tranquillamente l´ambiente e, nelle situazioni di difficoltà o pericolo, chiede aiuto alla "sua" figura di riferimento. «Ci sono casi, invece, in cui si instaura uno stile di attaccamento detto "insicuro"», spiega Maj, «In queste condizioni la capacità di esplorazione è ridotta. Inoltre, quando il bambino si trova in difficoltà o in pericolo, presenta una risposta emotiva amplificata». Significa che il piccolo va in tilt, è disorientato, e non riesce più a dominare la sua emotività. Questo disagio può accompagnarsi a una ricerca ostinata della figura di attaccamento, per esempio la madre, senza riuscire a ridurre l´ansia (attaccamento "insicuro-resistente"). Oppure a un allontanamento delle figura di riferimento (attaccamento "insicuro-evitante"). «Lo stile di attaccamento insicuro può persistere in età adulta e riemergere nelle situazioni difficili (perdita, separazione, abbandono, insuccesso lavorativo)», puntualizza il professore, «favorendo lo sviluppo di quadri patologici, come l´ipocondria e la somatizzazione, nonché l´abuso di sostanze e i disturbi del comportamento alimentare (l´insicurezza porta alla ricerca di "regolatori" esterni) e la depressione (si riattivano i vissuti infantili di non essere degno dell´attenzione della figura di attaccamento, di essere rifiutato da tutti e di essere incapace e inutile)». Di cosa devono preoccuparsi i genitori per non sentirsi causa di futuri danni? «Quello che si può dire allo stato attuale delle conoscenze è che l´attaccamento insicuro-resistente», risponde Maj, «è favorito da un atteggiamento genitoriale percepito come inaffidabile e incostante, mentre l´attaccamento insicuro-evitante si osserva di solito in risposta ad un comportamento genitoriale vissuto come freddo o di rifiuto».

Repubblica 22.2.11
La ricerca
Uno studio realizzato a Napoli su un campione di trenta pazienti
Psicosi, i deliri e le allucinazioni "Diagnosi tardive per ignoranza"
"Molti insegnanti notano un comportamento insolito ma evitano di approfondire per non offendere le famiglie"


Colpiscono l´uno per cento della popolazione. Coinvolgono gli adulti, non risparmiano i giovani. Ma spesso la diagnosi arriva tardi, nonostante oggi sia possibile curarle grazie a farmaci di ultima generazione e attraverso interventi psicosociali. Sono le psicosi, malattie gravi e invalidanti che possono manifestarsi con diversa sintomatologia: dai deliri (idee che non rispondono alla realtà) alle allucinazioni (percezione in assenza di oggetti, in genere di voci), disorganizzazione del pensiero e del comportamento. A tracciare il quadro allarmante della situazione è una ricerca condotta dall´équipe di Maj. Realizzata nell´ambulatorio del dipartimento di Psichiatria del II Ateneo di Napoli ha esaminato un campione di 30 pazienti all´esordio della malattia (in questo caso schizofrenia), rivelando che l´intervallo medio tra l´insorgenza dei sintomi prodromici e il primo trattamento idoneo è stato di ben 108 settimane, cioè di oltre due anni, mentre sono trascorse 28 settimane dalla comparsa dei sintomi conclamati (delirio, allucinazioni) al primo trattamento idoneo. Responsabili del ritardo diagnostico l´ignoranza, la vergogna e il pregiudizio che ancora oggi aleggiano attorno alla schizofrenia, è l´amaro commento di Maj che insiste sulle possibilità di cura e sulla prognosi peggiore associata al ritardo dell´intervento: «Tuttora se ne parla poco, troppo poco. È un argomento tabù che anche i media talvolta ignorano. Forse perché fa meno audience della depressione o dei disturbi del comportamento alimentare». Il risultato è che anche i medici di famiglia, presi in contropiede, finiscono per bollare alcune manifestazioni come "crisi dell´adolescenza" o esaurimento nervoso. «Gli insegnanti notano un comportamento insolito ragiona Maj, che è anche presidente della World Psychiatry Association e la tendenza all´isolamento, ma evitano di approfondire il problema perché non lo ritengono di loro competenza o per evitare di urtare la suscettibilità dei genitori». A questo si aggiunge la scarsa fiducia dei familiari nelle diagnosi dello psichiatra e nelle terapie. «Ecco perché le psicosi si scoprono tardi. Eppure è fondamentale che la gente capisca che diagnosi e cure moderne non hanno nulla a che fare con manicomi e camicie di forza. Gli antipsicotici sono molecole valide. E poi, lancio un appello ai colleghi psichiatri: la diagnosi e il trattamento precoce dei disturbi mentali richiedono una collaborazione sistematica della psichiatria con la medicina di base e la neuropsichiatria infantile».(g. d. b.)

Corriere della Sera 22.2.11
Napolitano esalta l’italiano «lingua unitaria» e difende la Carta: ha ispirato uno sviluppo senza precedenti
«I 150 anni vanno celebrati con serietà»


ROMA — Non lo appassiona la «disputa sulle modalità festive da osservare» (rito civile di piena osservanza o declassato in modo che si lavori?) e non gli interessa la diatriba «sulle diverse propensioni a partecipare» , con i leghisti che accusano di «follia» coloro che vogliono onorare i 150 della nostra unità. Ciò che preme a Giorgio Napolitano è che le celebrazioni decise per decreto siano guidate «dalla serietà e dall’impegno» che si sono visti ieri al Quirinale, in occasione del convegno su «La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale» . Un incontro esemplare — dice — perché a ispirare gli interventi «non c’è stata alcuna enfasi retorica, esaltazione acritica o strumentale semplificazione» . Infatti, tutto si è svolto secondo il carattere che dovrebbe avere un simile anniversario: senza «idoleggiare il retaggio del passato o idealizzare il presente» , nella realistica consapevolezza che, dopo il 1861, per il Paese «il cammino fu tutto fuorché lineare» . Era un tema complesso, quello affrontato da studiosi di diversa estrazione convocati sul Colle. Il capo dello Stato ne coglie gli intrecci più significativi, in una riflessione in cui tutto si tiene. Dal percorso del nostro idioma, che se pure ebbe un valore identitario già prima che maturasse l’unione politica dell’Italia, cominciò a unificare davvero tutte le classi solo a partire dal decennio giolittiano, «con la crescita dell’istruzione obbligatoria e l’abbattimento dell’analfabetismo» . Poi— aggiunge il presidente — nel nostro processo evolutivo ci furono «le regressioni che il fascismo portò con sé» e, infine, «l’età repubblicana» , sulla quale considera necessario che chi celebrerà il Giubileo della Nazione, ponga «al massimo l’accento» , a partire «dall’approccio innovativo e lungimirante dei padri costituenti, che si tradusse nella storica conquista dell’istruzione obbligatoria e gratuita per almeno 8 anni» . Ecco: persino affrontando una questione apparentemente non politica come la lingua, Napolitano si concede un cenno alla Magna Charta. Per ripetere ancora una volta che, anche se «molti principi iscritti in Costituzione hanno avuto un’attuazione travagliata e non rapida» (uno su tutti: le autonomie), «ciò non toglie che abbiano ispirato in questi decenni uno sviluppo senza precedenti del nostro Paese e che restino fecondi punti di riferimento per il suo sviluppo a venire» . Insomma: bisogna certo «superare ciò che è rimasto incompiuto» , di quello che i costituzionalisti chiamano «pactum societatis» , ma senza lesionare l’equilibrio generale. Questo chiede il capo dello Stato. Ed è impossibile non cogliere in tale avvertimento un preoccupato retropensiero rivolto a chi, nel governo, annuncia revisioni radicali, ad esempio in materia di giustizia. Poi, tornando al tema dell’incontro, Napolitano mette in evidenza «l’impulso» offerto alla nascita dello Stato unitario e al crescere di una coscienza nazionale dalla forza dell’italiano, «lingua della poesia, della letteratura e del melodramma» . «Il movimento per l’unità non sarebbe stato concepibile e non avrebbe potuto giungere al traguardo cui giunse se non vi fosse stata nei secoli la crescita dell’idea e del sentimento dell’Italia» . Perciò — conclude— «in questo spirito possiamo e dobbiamo mostrarci seriamente consapevoli del nostro ricchissimo, unico patrimonio di lingua e di cultura e della sua vitalità... e seriamente consapevoli del duro sforzo da affrontare per rinnovare — contro ogni rischio di deriva — il ruolo che l’Italia è chiamata a svolgere» . M. Br.

l’Unità 22.2.11
La mostra Da Alighieri a Manzoni, al Quirinale gli autografi dei capolavori della nostra letteratura
p Il convegno Presente il Capo dello Stato, una mattinata con Eco e Ossola, De Mauro e Serianni
Da Dante a Mike Bongiorno una lingua chiamata Italia
Una mattinata «dentro» la lingua italiana, con gli studiosi nostri maggiori e con letture d’autore. Al Quirinale ieri. E da oggi la mostra di autografi dei grandi, da Dante a Manzoni, aperta al pubblico.
di Maria Serena Palieri


Per trentanove giorni, da oggi al 3 aprile, il Quirinale avrà un cuore pulsante in più: è la sala delle Bandiere, al pianoterra dell’edificio, dove è allestita la mostra Viaggio tra i capolavori della letteratura italiana. Francesco De Sanctis e l’Unità d’Italia, allestita dalla Fondazione intestata al maestro della critica, primo ministro dell’Istruzione nell’Italia cavouriana. E se usiamo l’espressione «cuore pulsante» c’è un motivo: è perché la piccola esposizione ci consegna il nostro patrimonio letterario nel modo più biologico, più vivo, attraverso le calligrafie degli autori al lavoro sulle loro opere. Prendete quindi una stanza, al centro metteteci una teca con le 553 «carte sciolte» che Francesco De Sanctis consegnò all’editore Morano di Napoli per l’edizione «princeps» della sua Storia della letteratura italiana e intorno a raggiera in altrettante teche mettete le edizioni autografe delle opere di cui De Sanctis parla e, se manca il testo di pugno dell’autore, il più antico dei codici in cui esso è riportato. Così c’è Guinizelli nel Codice Laurenziano Radiano, Dante (della cui mano non è restata neppure una firma) nel Laudiano, e poi la novella di Frate Puccio dal Decamerone per mano di Boccaccio, una lettera vergata da Petrarca, un brano dalla Miscellanea di Poliziano, delle missive di Machiavelli, il Canto LXVI dell’Orlando furioso per mano di Ariosto e Tasso con la Gerusalemme conquistata, e ancora Galilei, Vico, Marino, Parini, Goldoni, e «Quel ramo del lago di Como» nella seconda minuta manzoniana e «Sempre caro mi fu...» vergato da Leopardi. Sono carte che arrivano qui da tutta Italia, ma anche oltre (Boccaccio per
esempio da Berlino). L’emozione è enorme. E l’interesse pure, perché le calligrafie suggeriscono idee nuove, fino al Cinquecento così codificate, poi da Machiavelli in poi moderne, libere: di sbieco, tormentata, carica di cancellature come ferite quella di Tasso, immacolata e logica quella di Galileo. La Sala delle Bandiere fino al 3 aprile resterà aperta al pubblico e speriamo che siano in molti a cogliere l’occasione irripetibile.
A inviti invece ieri la mattinata di studi sulla «Lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale», alla presenza del Capo dello Stato, realizzata con l’Accademia della Crusca, l’Accademia dei Lincei, l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e la Società Dante Alinghieri. Immaginate un copione cerimonioso, un trionfo della retorica? Il contrario. Un documentario di Giovanni Minoli ci ha portato nel cuore dell’italiano più novecentesco, quello televisivo, con gaffes di Mike Bongiorno comprese. E Giuliano Amato, Tullio De Mauro, Vittorio Sermonti, Luca Serianni, Carlo Ossola, Nicoletta Maraschio, Umberto Eco hanno fatto a gara per desacralizzare il tema. Idem le letture: un trittico regionale, Fogazzaro-Gadda-Verga, servito in brianzolo-molisano-siciliano da un multiforme Fabrizio Gifuni, il don Abbondio di Toni Servillo e un Pascoli straordinario, dai Primi poemetti, in italiano e inglese alla Broccolino, letto da Umberto Orsini, il Pinocchio con Ottavia Piccolo e per finire un Mario Luzi recitato con energia totale da Pamela Villoresi. Eccolo: «Vola alta, parola, cresci in profondità/ tocca nadir e zenith della tua significazione,/ giacché talvolta lo puoi sogno che la cosa esclami/ nel buio della mente -/ però non separarti/ da me, non arrivare,/ ti prego, a quel celestiale appuntamento/ da sola, senza il caldo di me...».
Il futuro della nostra lingua? De Mauro certifica che oggi la parla il 94% della popolazione: «Quello che Foscolo, Cattaneo, Manzoni avevano sognato, che l'italiano un giorno diventasse davvero la lingua comune degli italiani, è diventato realtà nell'Italia della Repubblica democratica» spiega. Ma visto che il centocinquantenario decolla in un vortice di forze centrifughe, il futuro è nelle mani del paradosso che ci consegna Eco: « Se l'unità venisse infranta, come alcuni vogliono, la lingua italiana non verrebbe meno» osserva. Anzi: «Il trionfo dei dialetti ci impedirebbe anche di parlare tra noi e l'italiano sarebbe l'unico strumento di contatto». A valorizzare la lingua nel nostro processo identitario, spiega, sono quelli cui l’Italia post-risorgimentale dà noia, quelli che pensano di tradurre in dialetto i segnali stradali. Appunto. Per gli altri, da qui al 3 aprile, visita alla sala delle Bandiere, cuore del Quirinale.

l’Unità 22.2.11
Tullia Zevi e il lungo sogno di una italiana ebrea
Diceva sempre che la comunità ebraica romana era la più antica fuori dalla Palestina. E ci teneva a ricordare il contributo dei fratelli Rosselli, di Foa, Terracini, Sereni alla liberazione dell’Italia
di Vittorio Emiliani


A veva    da    poco    firmato    l’intesa con l’Italia dopo il nuovo Concordato. Parlavamo delle sei catacombe ebraiche di Roma. «Lo sai che ci verranno finalmente restituite?». Mi mostrai sorpreso: «A chi erano affidate?». Sorrise con l’aria acuta e ironica che le era propria. «Non ci crederai... al Vaticano». Scossi il capo. Buttò lì con classe: «Forse perché temevano che le nostre catacombe risultassero più antiche di quelle cristiane...». E così è stato: gli studi dell’Università di Utrecht hanno documentato che sono di almeno cento anni prima. Fu molto felice quando, nel ’93, ambientammo col bravo Fernando Ferrigno, un’intervista tv per Bellitalia nelle poco esplorate, affrescate catacombe dei pri-
mi ebrei, sotto la Nomentana. Tullia Zevi, scomparsa un mese fa, te-
neva molto a sottolineare che la comunità ebraica romana era la più antica fuori dalla Palestina, presente qui ben prima della Diàspora. Non per costrizione quindi, ma per scelta, con tanti mercanti ebrei lungo il porto lineare sul Tevere, principalmente in Trastevere dove sorge, in Vicolo dell’Atleta, il resto di una Sinagoga in uso fino a tutto il Medio Evo. Come teneva molto a rimarcare le profonde radici degli ebrei in Italia. «Più che altrove. Io infatti parlo sempre di italiani ebrei e non di ebrei italiani». Del resto, Tullia veniva da una cultura quella laica, liberalsocialista di Giustizia e Libertà tesa a valorizzare il contributo che gli italiani ebrei avevano dato alla costruzione dell’Unità d’Italia da quando le Repubbliche del 1849, a Roma in specie, li avevano liberati dai ghetti, dando loro la possibilità di votare e di essere eletti: 2 deputati alla Costituente romana (uno era il bisnonno dello storico Paolo Alatri, Samuele) e 3 consiglieri comunali. Alla costruzione dello Stato unitario e poi all’antifascismo, alla Resistenza: i fratelli Rosselli assassinati in Francia, Umberto Terracini, Vittorio Foa, Emilio Sereni, tutti per anni segregati, e poi eroi quali Leone Ginzburg, Eugenio Colorni, uno dei padri del federalismo europeo, Eugenio Curiel.
Come primo presidente donna dell’Unione delle Comunità Israelitiche, dal 1983 al 1998, Tullia Calabi Zevi ha il merito di aver continuamente promosso questo essere “italiani ebrei” valorizzando la storia delle tante comunità locali. Ricordo quanto l’avessero gratificata i festeggiamenti che la piccola città di Bertinoro (Forlì) aveva dedicato nel 1988 al quinto centenario della partenza da quelle colline del ventenne Ovadiàh Yare, per Gerusalemme dove sarebbe diventato rabbino capo e il commentatore della Mishnah. Tullia era, per parte di madre, ferrarese. Amica di Giorgio Bassani, di poco più anziano di lei, sentiva molto quelle radici. Purtroppo le comunità minori sparse per il Centro-Nord (nel Sud la cancellazione era avvenuta da secoli) si stavano spegnendo e lei volle parlare dell’archivio centrale che, a Roma, salvasse quelle memorie. Si impegnò molto e ci riuscì.
Seppi da una mia brava cronista del Messaggero, Claudia Terracina, che la bella Sinagoga di Pesaro (la sola, credo, con un affresco di paesaggio sulla Città Ideale), era danneggiata. Quando trovammo un primo sponsor per il tetto, Tullia fece subito da tramite. Allora le esposi l’idea di intervenire anche sul cimitero ebraico sepolto fra i rovi nel punto più bello della collina pesarese. Mi mise sull’avviso: «Senti Ancona: le comunità sono molto gelose in materia». Era sempre acuta e problematica, nella massima chiarezza.
Era infatti profondamente laica e non ne faceva mistero. Una volta che mi dilungai nell’elogio di un rabbino importante, vidi che le affiorava sul bel viso un sorriso ironico. «Sì, hai ragione, però guarda che, alla fine, è sempre un prete...». Ne sorridemmo.
Con lei si poteva parlare di tutto, sempre con eleganza, buon gusto, civiltà. Certo, una delle sere più belle della sua (e anche della nostra) vita fu quella in cui una gran folla stava festeggiando al ghetto l’accordo Rabin-Arafat. Quante volte era stata accusata in Israele di essere filo-palestinese. Purtroppo il sogno durò poco. Ma lei riprese a lavorare in quella direzione.

Repubblica 22.2.11
Martha Nussbaum
"Solo la cultura umanistica educa una democrazia"
di Maurizio Ferraris


"C´è un pregiudizio politico sulla conoscenza ‘inutile´ Non bisogna leggere grandi libri, ma ci si deve abituare al pensiero critico"
"Non è solo un progetto illuminista: quel che conta è dare spazio all´amore, alla cura, all´empatia e alla buona vulnerabilità"
La filosofa racconta il suo saggio "Non per profitto", sull´importanza del sapere classico: "Siamo stati sedotti dalla crescita economica, ma senza istruzione non c´è progresso"

Barack Obama, benché convinto che i soldi spesi in istruzione siano soldi risparmiati in polizia e assistenza sociale, ha intessuto recentemente l´elogio dei paesi orientali: «Stanno investendo meno tempo a insegnare cose che non servono, e più tempo a insegnare cose che servono. Stanno preparando i loro studenti non al liceo o all´università, ma alla carriera. Noi no». Dove evidentemente la preparazione sembra essere propedeutica alla carriera e al profitto, non all´umanità.
Lo fa notare Martha Nussbaum nel suo ultimo libro, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, in uscita dal Mulino, con una prefazione di Tullio De Mauro (pagg. 168, euro 14). Si tratta dell´approdo di un percorso ormai trentennale, i cui apporti fondamentali sono la formazione di classicista (la Nussbaum ha esordito come studiosa di filosofia greca, prima di estendere i propri interessi a tematiche di filosofia morale, di politica e di cultura); il rilancio del progetto pedagogico di John Dewey, che scriveva all´epoca in cui gli Stati Uniti erano in ascesa invece che in declino, e progettava una democrazia colta e inclusiva; e la collaborazione con l´economista e filosofo indiano Amartya Sen.
In un recente scambio epistolare che abbiamo avuto a proposito di Non per profitto la Nussbaum ha sottolineato che il suo progetto comporta tre esigenze fondamentali. «La prima è l´attività socratica del promuovere la capacità di ogni persona di auto-esaminarsi e auto-chiarirsi, favorendo una cultura pubblica deliberativa più riflessiva, in cui si sia meno influenzati di quanto lo siamo ora dagli altri, dall´autorità e dalla moda. La seconda è la capacità di pensare come "cittadini del mondo", con una conoscenza adeguata della storia del mondo, dell´economia globale, e delle principali religioni mondiali. La terza è coltivare l´immaginazione simpatetica. Già i bambini sono capaci di immedesimarsi nella posizione degli altri, ma questa capacità ha bisogno di essere sviluppata, se deve rendere i cittadini capaci di pensarsi al di fuori del loro circolo ristretto e assumere le posizioni di gente molto diversa da loro. Una democrazia non può durare molto senza queste tre abilità. E non possiamo assumere che esse compariranno magicamente dal nulla, senza che vengano deliberatamente coltivate attraverso l´educazione». Un tipo di educazione che «non è affatto costosa. Richiede insegnanti che si dedichino, ma non attrezzature speciali. Ho visto persone nelle aree rurali dell´India educare bambini stando seduti a terra conversando, o cantando e ballando, e ottenere ottimi risultati perché erano insegnanti a cui importava quel che facevano e che sapevano farlo bene, e senza annoiarsi».
Dunque il problema non è anzitutto l´economia, bensì il pregiudizio politico e culturale nei confronti del sapere disinteressato, che a mio parere è venuto crescendo con quella svolta di fine secolo che coincide grosso modo con il postmoderno. Da questo punto di vista, vale la pena di ricordare che il sottotitolo di La condizione postmoderna di Lyotard (1979) era "rapporto sul sapere". Il tema di fondo era la fine delle "grandi narrazioni" che giustificavano l´importanza del sapere per la società: il racconto dell´illuminismo, che vede nel sapere una forma di emancipazione e quello dell´idealismo, che lo vede come il raggiungimento di una conoscenza pienamente disinteressata.
L´analisi di Lyotard, che non era affatto una apologia del Brave New World postmoderno, aveva il merito di individuare i rischi di questi crolli ideologici carichi di conseguenze pratiche, dai drastici tagli dei finanziamenti universitari voluti da Margaret Thatcher in Inghilterra al globalizzarsi del libero mercato, diventato planetario dopo il 1989. Il risultato, nel corso degli anni Novanta, è stato che le due "I" dell´Idealismo e dell´Illuminismo si sono trasformate nelle tre "I" di Inglese, Internet e Impresa, con un atteggiamento che è stato condiviso non solo dai governi di centrodestra che volevano tagli sulla cultura e la ricerca di base, ma anche da molti intellettuali, divenuti scettici rispetto al senso della loro missione.
Ora, nel rilanciare la cultura "non per profitto" non si tratta affatto di restaurare un qualche mandarinismo intellettuale, perché, come mi scriveva ancora la Nussbaum, «quello che cerco sono cittadini responsabili, autonomi, autocritici, e riflessivi. Non mi interessa se leggano "Grandi Libri" o no – tranne per il fatto che alcuni di questi libri, come i dialoghi di Platone, sono in effetti molto utili per coltivare le abilità di cui parlo». E non è nemmeno questione di perseguire il mito di una perfezione e autosufficienza razionale. Precisando questo punto la Nussbaum – che un quarto di secolo fa si è imposta sul panorama filosofico internazionale con un libro dal titolo emblematico, La fragilità del bene – mi faceva notare che, rispetto al progetto dell´Illuminismo, l´"approccio alle capacità" che ha sviluppato insieme ad Amartya Sen ambisce a dar spazio anche agli elementi di debolezza e fragilità dell´essere umano: «i filosofi dell´Illuminismo non sempre diedero il giusto valore alla cura, all´amore, e alle altre forme di buona vulnerabilità. Sotto questo profilo il mio progetto non è esattamente come quello di Kant, anche se gli è molto vicino».
Non so quanto questa apertura alla debolezza sia consigliabile in una cultura iper-indulgente come quella italiana, disposta a perdonare qualunque fragilità, soprattutto nei potenti. E da questo punto di vista preferirei sottolineare l´analogia di fondo tra la proposta della Nussbaum e il progetto enunciato in Che cos´è l´Illuminismo?. Qui Kant propone uno sviluppo della cultura come capacità, insieme, di pensare con la propria testa e di pensare mettendosi nella testa degli altri, abbandonando così lo "stato di minorità" in cui l´uomo preferisce restare delegando ad altri il peso delle decisioni, della coscienza e della responsabilità. Questo restare minorenni – sosteneva Kant – è colpevole quando non dipende da un difetto di intelligenza, ma «dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro» e, proseguiva, il motto dell´Illuminismo è «Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza».
Ecco il profitto di ciò che si fa "non per profitto": la correzione – sempre possibile e dunque doverosa – del "legno storto dell´umanità", il non volersi rassegnare a essere minorenni (indipendentemente dalla età anagrafica), per quanto l´idea possa a volte risultare piena di profitti economici, senza contare poi che, come scriveva ancora Kant, «è tanto comodo essere minorenni!».

Repubblica 22.2.11
Dal Libro rosso agli spin doctor così la Cina cambia pagina
"L´arte di guidare la pubblica opinione" è diventato un best seller. Il modello è occidentale Insegna a dare il meglio di sé. Ma anche a gestire le informazioni. Con la benedizione del regime
Una guida a "vincere l´ansia" e a "trasformare una sconfitta in successo"
È letta da milioni di persone. Il partito comunista ne vuole 100 copie in ogni ufficio pubblico
di Giampaolo Visetti


La Cina scopre il pensiero positivo americano e taglia l´ultimo brandello del cordone ombelicale che la teneva ancorata ai comandamenti della rivoluzione di Mao. Simbolo della nuova mutazione culturale è un manuale destinato ai vecchi funzionari del partito e ai giovani manager dei colossi privati, di inequivocabile ispirazione made in Usa. Si intitola L´arte di guidare la pubblica opinione e insegna a milioni di cinesi le tecniche dello "spin", la disciplina occidentale che promettere di estrarre il meglio da ogni situazione e da se stessi, di rivelare le angolazioni favorevoli dei problemi, o di sfruttare le difficoltà per guadagnare il consenso altrui. In pochi mesi la "bibbia dello spin", alla quinta edizione, ha guadagnato la testa delle classifiche dei libri più venduti in Oriente e da best seller si è trasformato in un caso editoriale senza precedenti. Decine di milioni di cinesi, compresi studenti, operai e casalinghe, imparano a memoria l´arte di "piegare il peggio al meglio" e il governo di Pechino ha ordinato che ogni ufficio pubblico sia rifornito di «almeno cento copie» per le pause degli impiegati.
Senza proclami ufficiali, gli austeri funzionari comunisti abbandonano i diktat propagandistici dell´ideologia post rivoluzionaria e abbracciano la new age della persuasione ispirata al marketing mediatico delle multinazionali americane ed europee. Allo "spin" le autorità cinesi hanno affidato la missione di «diffondere l´ottimismo e la felicità» in una nazione sempre più scossa dalle disparità sociali create dalla crescita economica. I capitoli del manuale vengono letti alla radio e la tivù di Stato la sera ne mette in scena i passaggi più importanti. È una rivoluzione culturale al contrario che apre la nazione più popolosa e chiusa del mondo alla catena di montaggio del pensiero debole contemporaneo, proponendo una tecnica del comportamento politically correct occidentale quale alternativa all´etica confuciana, o alle regole di buddhismo e taoismo.
Il manuale-icona della Cina che seppellisce se stessa per guidare il pianeta, insegna come «restare calmi nelle situazioni difficili» e come «trasformare la sconfitta in un successo». Sono espedienti psicologici che la saggezza cinese insegna da millenni e la popolazione, colpita dalla rivoluzione culturale di Mao, non ci credeva più. Il linguaggio moderno dello "spin", i toni occidentali che propongono il profitto delle pillole di meditazione da scrivania come potenziamento del fitness guidato dal personal trainer, stanno però cambiando tutto. Il Libretto Rosso non si vende più nemmeno sulle bancarelle per turisti, mentre la Guida del perfetto spin, anche nella versione in inglese, impone ore di coda in libreria.
Il "nuovo Confucio", come è stato definito dagli internauti, si chiama Ren Xianliang. Per anni ha fatto il giornalista all´agenzia di Stato, la Xinhua, prima di essere promosso ad alto funzionario del partito comunista nella regione dello Shanxi. Predica di «essere sinceri, modesti e trasparenti» e di «concentrarsi sempre sull´effetto ultimo che si pretende di ottenere». Nonostante sostenga che «la maggioranza dei giornalisti sono oggettivi, imparziali e amichevoli», rifiuta di parlare con la stampa. Dichiara che lo "spin" altro non è che la «rilettura contemporanea, in chiave politica ed economica, dell´Arte della guerra»», uno dei testi sacri della filosofia di epoca imperiale. E assicura che «la disciplina dell´ottimismo quotidiano garantisce la stabilità sociale e l´equilibrio interiore». Buona parte della dottrina si occupa però di censura e propaganda. Ren Xianliang insegna ai quadri comunisti una «corretta gestione delle informazioni» e come «prevenire situazioni imbarazzanti». Regole essenziali: non fare ramanzine ai giornalisti, considerare i nemici come alleati, operare affinché gli obiettivi del governo appaiano coincidenti con quelli dei media internazionali, dare risposte brillanti alle domande ostili e non divulgare mai alcun segreto.
Durante le feste del capodanno lunare il presidente Hu Jintao si è fatto fotografare con una copia del manuale tra le mani. Secondo i dissidenti, il best seller non dimostra «l´americanizzazione cinese, ma il crollo del confine tra sapienza e propaganda». Per il vecchio saggio estraneo alla terrena vanità, anche in Oriente, è l´ora della pensione.

Corriere della Sera 22.2.11
Tokyo, si scava sotto la «scuola degli esperimenti umani»
di P. Sa.


Un terreno brullo delimitato da nastri colorati. Un aspetto squallido ma innocente, in apparenza uno dei tanti cantieri che in una metropoli come Tokyo vengono aperti ogni giorno. Non è così. Quel campo incolto ormai chiuso da muri e palazzi, dove in tempo di guerra sorgeva una scuola medica dell’esercito imperiale, potrebbe restituire ai vivi i terribili segreti custoditi per oltre 60 anni dai poveri corpi martoriati di possibili cavie umane. Perché il sospetto, sollevato da un’infermiera che aveva lavorato proprio nella scuola, Toyo Ishii, oggi 88enne, è che in quel terreno siano state sepolte in fretta e furia, nel 1945— poco prima dell’arrivo degli americani — le prove che collegavano l’istituzione con la famigerata «Unità 731» , un reparto segreto che aveva effettuato in Manciuria esperimenti analoghi a quelli del dottor Mengele nei campi nazisti: vivisezioni, torture, prove di «resistenza» al gelo, armi chimiche testate su prigionieri, soprattutto cinesi. La «scuola dell’orrore» era stata distrutta e sepolta nella vergogna. Ufficialmente, anzi, non si può nemmeno parlare di «senso di colpa» : nessun governo nipponico ha mai riconosciuto l’esistenza dell’Unità 731 — malgrado inchieste e prove testimoniali dei sopravvissuti — e dunque non è mai trapelato nemmeno un particolare sulle industrie, gli ospedali, i reparti che con l’avamposto dislocato in Manciuria, la regione del Nord-Est della Cina caduta per prima in mano giapponese (e governata dall’imperatore fantoccio Pu Yi) condividevano dati, test, materiali e, ovviamente, cavie umane. «Qui c’era un centro di ricerca dell’Unità 731— ha spiegato Keiichi Tsuneishi, docente di storia all’Università Kanagawa —. Se verranno dissepolte delle ossa, è chiaro che il collegamento con la fabbrica della morte sarà dimostrato» . Gli scavi hanno avuto inizio ieri. E non è certo che sarà trovato qualcosa. Ma il solo fatto che i lavori siano cominciati è segno che il Giappone vuole provare ad affrontare i fantasmi del passato con un atteggiamento nuovo. «Se emergeranno corpi o resti di organi — dice Yasushi Torii, a capo di una Ong umanitaria — il governo dovrà ammettere molte cose sui crimini di guerra. Non siamo che all’inizio» .

Corriere della Sera 22.2.11
I soldati invincibili svaniti nel nulla Roma e il mistero della IX legione
La tomba di un centurione riapre il caso. L’ultima battaglia in Oriente
di  Dino Messina


MILANO— I guerriglieri ebraici, irriducibili nemici di Roma, avevano avuto ordine di non misurarsi mai con una legione di veterani. Nessuno, dice Giovanni Brizzi, il maggiore storico militare italiano dell’antichità, era in grado di resistere a questi gruppi armati di cinquemila uomini (più altri cinquemila ausiliari) che, grazie a una disciplina formidabile, erano in grado di controllare un’intera regione. Singolarmente addestrati alla scherma, al lancio del giavellotto, alla corsa, alla marcia con i pesi, armati con quanto di meglio offriva la tecnologia dell’epoca imperiale, erano imbattibili. Così si spiega perché dopo Cesare, racconta Brizzi, autore tra l’altro dei fondamentali saggi Il guerriero, l’oplita, il legionario (il Mulino) e Scipione Annibale. La guerra per salvare Roma (Laterza), per un lungo periodo ci furono pochissime battaglie campali. Tra gli storici, ma anche nella letteratura, hanno fatto più notizia le sconfitte delle vittorie. Specialmente se la sconfitta significava l’annientamento di un’intera legione. Per esempio la scomparsa della IX Hispana, di cui narra tra mito e realtà il film di Kevin Macdonald con Channing Tatum e Jamie Bell tratto da L’Aquila della IX legione (editrice Janus) di Rosemary Sutcliff. Inviata dall’imperatore Claudio nel 43 dopo Cristo assieme ad altre legioni per piegare la resistenza delle popolazioni britanniche, la IX Hispana supportò nell’ 83 lo sforzo della XIV Martia Victrix e della XX Valeria Victrix per soffocare la ribellione della regina Boadicea. Fu quella, si credeva, l’ultima gloriosa battaglia della IX, finché è stata scoperta la tomba di un centurione che dimostra come la IX fosse sotto attacco ancora vent’anni dopo. Il britannico Neil Faulkner sostiene che l’agguato teso da una confederazione di tribù potrebbe aver portato alla fine della IX Legio. E lo storico Phil Hirst ipotizza che da questa sconfitta nacque in Adriano la determinazione a costruire il Vallo nel nord d’Inghilterra per difendere l’impero. Ipotesi suggestive che non convincono Brizzi, ordinario di storia romana all’università di Bologna. «È vero — dice Brizzi— che una legione romana poteva cadere soltanto in un agguato. Nessuno, nemmeno i temibili Picti e Caledoni poteva misurarsi in campo aperto con i legionari romani. Fu soltanto grazie a un agguato a opera dei Sarmati che la XXI Rapax cadde nelle pianure magiare in epoca domiziana e che nel 9 dopo Cristo, regnante ancora il settantaduenne Augusto, erano state piegate a Teutoburgo ben tre legioni, la XVII, la XVIII e la XIX. Ma secondo gli studi più recenti i legionari della IX non finirono la loro avventura in Britannia. Con molta probabilità la IX Hispana venne trasferita in Cappadocia per fronteggiare i Parti e annientata a Elegeia, in Armenia, nel 161 dopo Cristo, durante un’imboscata in cui era caduto l’indeciso governatore Sedazio Severiano» . L’ipotesi su cui si basa il film The Eagle sarebbe dunque contraddetta dalle nuove ricerche e dai ritrovamenti archeologici, come un’iscrizione scoperta a Petra. Il mito può essere più forte della realtà. E un alone di mistero circonderà sempre la IX Hispana così come quel gruppo di soldati che sembra tra gli anni Sessanta e Settanta dopo Cristo combatté con i cinesi. A sostenere la tesi di un corpo di legionari romani sconfitti e inviati dai Parti agli estremi lembi orientali del loro regno è stato lo storico tedesco Manfred Raschke, contraddetto dal nostro Maurizio Bettini. Secondo Brizzi, non esiste altra prova se non una testimonianza custodita negli archivi Han secondo cui erano stati visti combattere prima contro e poi a fianco dei cinesi dei soldati che si disponevano a spina di pesce. Proprio come le legioni romane. Tanto basta per creare un mito.