Repubblica 19.2.11
Il governatore della Puglia l´aveva candidata. Risposta simile a quella data a Berlusconi dopo l´offesa
Premiership, la Bindi gela Vendola "Non mi strumentalizzi, c´è Bersani"
Frecciata a Renzi alla conferenza delle donne del Pd "Lui voterebbe solo se stesso"
di Alessandra Longo
ROMA - Passo spedito, tailleur scuro di taglio leggero con giacchetta corta, Rosy Bindi arriva alla Conferenza nazionale delle donne del Pd e chiude in un colpo solo il tormentone della sua candidatura a leader della cosiddetta «coalizione larga» aperto da Nichi Vendola: «Con Pier Luigi non abbiamo avuto bisogno di dirci molte parole. Non ci faremo certo dividere». Dunque il candidato premier per palazzo Chigi è Bersani, come prevede lo statuto del partito. Punto e basta: «Sono presidente del Pd e condivido molto questa regola e vorrei fosse rispettata da tutti. Si dà anche il caso che Bersani abbia tutte le qualità per guidare questo Paese oltre Berlusconi».
Lui, il segretario, è lì, sul palco, tra le signore (Rosa Calipari, Anna Finocchiaro, Roberta Agostini e Marina Sereni). Ascolta compiaciuto, prende appunti e, alla fine, si lascerà ritrarre abbracciato appassionatamente a Rosy: «Ha fatto un bel discorso, un discorso di squadra». Un discorso diviso in due parti. Nella seconda c´è Vendola nel mirino. Rosy si è sentita "usata" dal leader di Sel e non ha gradito: «Io ringrazio Vendola perché vedo che condivide la necessità di una grande coalizione per uscire da questa fase difficile e drammatica e accetta di fare un passo indietro. Ma i passi importanti si devono fare gratuitamente, evitando di trasferire i problemi in casa d´altri». Insomma, Vendola (il quale, per inciso, da Milano fa sapere che non ci pensa nemmeno a rinunciare alle primarie, ndr) sarebbe ricorso ad un´arma impropria. E Rosy lo sistema: «Devo ripetermi. Sono una donna che non è disponibile ad alcuna strumentalizzazione». Le stesse parole usate contro Berlusconi all´epoca di «Bindi più bella che intelligente». La platea le riconosce e applaude. Vendola, anche lui, lasci stare le donne...
Circolano rarissimi uomini in sala: Stefano Fassina, quasi nascosto dietro una colonna, Sergio D´Antoni, che trova l´idea di Bindi premier «una provocazione». E spira un venticello d´orgoglio. La manifestazione del 13 ha fornito autostima e ossigeno. Ma qui nessuna pensa di far fuori Bersani, che gode di largo gradimento, semmai la questione si pone in prospettiva. Rosy restituisce l´ipotetico scettro e avverte: «Molti in questi giorni mi hanno detto: "Magari Bindi premier". Io vorrei che lavorassimo tutte perché al posto di magari ci fosse la parola "finalmente"». Anna Finocchiaro, vestita di viola, si prende l´altra metà delle telecamere di giornata per confermare il trend: «Il candidato premier è il segretario, lo dice lo statuto. Dopodiché ritengo che il Paese è pronto per una leadership femminile». Intanto - dice la capogruppo al Senato - il 17 marzo invito tutte a mettere un tricolore alla finestra». Un modo per tenere vivo il movimento.
In mezzo a volti storici come Livia Turco, Barbara Pollastrini, Franca Chiaromonte, Giovanna Melandri, Valeria Fedeli, Paola Concia, ecco una massa di militanti parecchio agguerrite. Bindi le galvanizza, sotto gli occhi di un disciplinatissimo segretario: «Deve cadere anche in Italia il tabù per cui una donna non può diventare presidente del Consiglio». Se non ora, più tardi. Qui arriva la frecciata a Matteo Renzi, reo di aver definito la Bindi «una candidata per perdere»: «Spero di averlo tranquillizzato - dice la presidente del Pd - . So che Renzi voterebbe solo Renzi. Bisogna vedere, però, se il Pd voterebbe lui». A seguire selva femminile di buuh.
Repubblica 19.2.11
Una pillola sconosciuta
di Umberto Veronesi
La pillola è il male. Tutta la contraccezione è il male. O, nel migliore dei casi, è tabù. E così le donne sono state tradite. Le ragazze che si affacciano alla sessualità e le adulte che hanno vissuto la cosiddetta rivoluzione sessuale non sanno che la pillola non ha nessuna controindicazione per la loro salute, che non aumenta il rischio di tumore del seno, e ignorano che le protegge dall´altro temibile tumore femminile, quello dell´ovaio. Nessuno ha detto loro che la pillola anticoncezionale è lo strumento in assoluto più efficace che hanno a disposizione per evitare questa malattia, che colpisce quasi cinquemila donne ogni anno in Italia, con una mortalità ancora elevata. Eppure è dimostrato che il rischio si riduce del 60% non solo durante l´assunzione, ma anche anni dopo la sospensione. So per esperienza che se le donne sono informate e consapevoli di un progresso scientifico - e non solo medico - che protegge la loro vita e quella della loro figlie, lotteranno per averlo, e lo otterranno.
Se dunque dopo cinquant´anni dall´arrivo della pillola solo una minoranza ne fa uso, significa che le donne sono state mal informate o non informate. La pillola in Italia è stata ostracizzata. L´ hanno fatto i misogeni, perché la pillola è uno strumento offerto dalla scienza alla donna per sottrarsi ad un asservimento millenario al maschio. Permettendo di scindere il rapporto sessuale dalla procreazione, ne ha valorizzato i ruoli, al di là di quello materno. La contraccezione permette ad ogni donna di scegliere liberamente di amare un uomo, e fino a che punto amarlo, e di decidere insieme a lui - dunque come sua pari - se avere un figlio oppure no.
Ma, oltre all´aspetto di pensiero, la pillola ha una funzione di tutela della salute, che è passato sotto silenzio, o quasi, e per questo dico che le donne sono state tradite. La stessa legge 194, nata per "garantire il diritto alla procreazione cosciente e responsabile", è stata in parte tradita. Il suo obiettivo era ridurre gli aborti clandestini (che sono un grave pericolo per la salute, oltre che un dramma per la psiche ), spostando l´obiettivo da una cultura punitiva ad una cultura preventiva. I fatti ci hanno dato ragione perché il numero di aborti, dalla sua introduzione nel 1978, è drasticamente diminuito. Ma in realtà quella legge non è stata applicata nella sua totalità. Il punto chiave che impegna Stato, Regioni e enti locali a sviluppare servizi , informazione ed educazione per la prevenzione dell´aborto, di fatto è pressoché inapplicato. La 194 va allora ripresa in mano. Occorre potenziare subito la diffusione dell´educazione sessuale e della conoscenza dei metodi anticoncezionali nelle scuole, nel rispetto della multiconfessionalità e multietnicità della comunità attuale. La pillola va favorita, le sue proprietà anticancro vanno ben spiegate, e il preservativo, che difende da molte malattie veneree e infettive, deve essere considerato un elemento integrante del rituale del rapporto sessuale e un segno di rispetto e di amore nelle coppia, soprattutto se occasionale. Ci vuole conoscenza, coscienza e responsabilità , soprattutto da parte di noi uomini. Siamo ancora in tempo.
l’Unità 19.2.11
Bioetica, chi ha paura del dialogo
di Maurizio Mori
L
a lunga lettera di De Nigris a l’Unità è importante perché riconosce
che la «Giornata degli stati vegetativi» indetta dal governo è stata
un fallimento. Usare il 9 febbraio, giorno
della scomparsa di
Eluana, come traino per sensibilizzare l’opinione pubblica non ha
pagato. De Nigris riconosce anche che la scelta della data «può essere
stata infelice». Qui il discorso si fa ancora più interessante, perché
– come già rilevato da Luca Landò nella sua risposta – De Nigris è
stato tra i suggeritori della Giornata in quella data, almeno a dire del
sottosegretario Roccella. Non importa sapere se sul tema abbia cambiato
idea o ci sia stato un fraintendimento. De Nigris ha ora una ottima
occasione per raggiungere l’obiettivo che gli sta a cuore di «pacificare
gli animi»: chieda pubblicamente al governo di cambiare la data,
unendosi così al coro delle tante associazioni laiche come la Consulta
di Bioetica, di autorevoli esponenti del mondo cattolico come Adriano
Pessina e del volontariato, come Pietro Barbieri, presidente della Fish
(Federazione italiana sostegno handicap, la maggiore associazione di
volontariato del settore).
De Nigris accusa anche la stampa di
aver calato la saracinesca del silenzio sulla Giornata: «Nessun giornale
(a parte Avvenire) ha pubblicato un resoconto su quel dibattito»,
lasciando credere che la «materia sia soltanto una questione di parte».
Fa bene a riconoscere che Avvenire è «di parte», ma non perché è
della Cei, bensì perché, come la vecchia Pravda, presenta solo la
«linea ufficiale» e non le svariate voci presenti nel mondo cattolico:
sul tema ha silenziato le voci «dissidenti» dei già citati Pessina e
Barbieri, per dare grande rilievo solo a quella di De Nigris. La fonte
dell’elogio di quel tipo d’informazione «di parte» sembra poco congrua.
Ma
poco sostenibile è anche l’accusa al «sistema mediatico» che avrebbe
«bucato» la notizia costituita dalla presenza in Italia di famosi
scienziati. Dove sta la «notizia»? Nell’ultimo anno quegli scienziati
sono già venuti altre volte e non c’è nulla di nuovo: per il resto le
solite cose a senso unico. La «notizia» ci sarebbe stata se la Giornata
avesse previsto un reale dibattito tra posizioni diverse. Cancellato il
pluralismo etico, la stampa libera non aveva nulla da segnalare.
Una
proposta: De Nigris chieda al governo anche di aprire un tavolo
paritario con le diverse posizioni per un confronto. Forse si
riuscirebbe davvero a sensibilizzare sul tema come da tutti sperato, a
pacificare gli animi e anche a trovare soluzioni condivise. Altrimenti
si fa solo del trito vittimismo che ha un solo pregio: certificare il
fallimento della prima Giornata degli stati vegetativi, che è stata la
«Giornata del silenzio» come voleva Beppino Englaro.
l’Unità 19.2.11
Gengis khan colpisce ancora
Perché il «Dispotismo Orientale» è una delle chiavi della modernità? La risposta in un pamphlet di Arminio Savioli
di Bruno Gravagnuolo
Non
era il comunismo, il fantasma che si aggirava per l’Europa nel 1848,
l’anno in cui Marx ed Engels lo avvistarono nel celebre Manifesto del
Partito Comunista. Il fantasma era un altro: quello del Dispotismo.
Almeno a guardare la cartina geografica del tempo. Austria imperiale al
centro, Turchia e Russia ad est, per non dire dell’immobile Cina e del
Giappone modernizzante in Asia. E per non dire degli Usa, la giovane
america del nord. Democratica (e schiavista) e nella quale Tocqueville
già scorgeva il germe del «dispotismo democratico» o «tirannia della
maggioranza. Perché tornare a parlare di dispotismo oggi, con
riferimento
retrospettivo alle illusioni radicali di Marx ed
Engels e anche ai timori del conservatore Tocqueville grande ammiratore
al suo tempo del Nuovo mondo?
Presto detto. Prima di tutto perché
il tema è attualissimo, se si pensa alle rivolte antidispotiche dei
paesi arabi, al fenomeno del dispotismo «marx-capitalistico» cinese, al
neoautoritarismo dispotico di Putin, con corredo di boiari buoni e
boiari cattivi e incarcerati. E altresì se si pensa al dispotismo
populistico, erede light e democratico dei tanti dispotismi fascisti,
neotocquevilliano e mediatico, come quello berlusconiano (e con tratto
sultanale, oltre che patrimonialistico). Nondimeno, c’è un motivo in
più. L’uscita di qualche mese fa di un libro curioso, dal titolo
bizzarro e dalla storia ancor più curiosa. È una sorta di manoscritto
trovato a Saragozza, ma scritto senza artificio retorico dal suo
rinvenitore stesso, che lo aveva lasciato ammuffire trent’anni orsono,
salvo una revisione di dieci anni più tardi, senza esito di
pubblicazione. L’autore è Arminio Savioli, ex inviato esteri di questo
giornale, specialista dei paesi arabi, di Asia, Africa, America Latina.
Gappista, soldato della divisione Cremona nel 1944, intervistatore di
Castro in esclusiva (che lo minacciò scherzosamente di ficcargli una
palla di piombo in testa, per avergli Arminio fatto dire troppo sul suo
comunismo incipiente nel 1960). E il titolo? Eccolo: Marx o Gengis Kahn.
Ovvero «Riflessioni sul ruolo della Russia e dell’Urss come portatore
non sano del virus del dispotismo asiatico in Europa» ( Arlem editore,
Via Gino Capponi 57, 00179, Roma, pp.119, Euro 12). Un libro scritto
molto prima della caduta del Muro, e abbandonato alla critica roditrice
dei topi (per dirla con Marx) ma che i topi(come con Marx!) hanno
risparmiato. Perché il libro, pur non rivisto e aggiornato si ferma a
prima della comparsa di Gorbaciov è attualissimo. E la tesi che
inalbera è: il totalitarismo sovietico non è colpa di Marx ma di
Gengis Khan, ovvero del «dispotismo asiatico», quello che attraverso
l’orda d’oro e i mongoli plasmò la Russia dei Romanov, la Turchia, la
Cina, tanti paesi arabi eredi dei turchi e anche tutti i satelliti
dell’Urss. Insomma, scriveva Savioli a fine anni ’70 e primi ’80, non
c’è mai stata nessuna «spinta propulsiva» dell’Ottobre 1917. Ma semmai
una spinta autoconservativa dell’Impero zarista, eternato in nuove forme
dai bolscevichi e da Stalin, al più nel segno di una emancipazione
barbarica dell’arretratezza, e in grado di parlare al mondo coloniale e
post coloniale (che a sua volta ha riprodotto un’emancipazione dispotica
magari all’ombra del modello sovietico variamente riprodotto).
Mai
dunque, per Savioli (come per Gramsci) l’Oriente col suo dispotismo
gelatinoso, comunitario e «anti-società civile», poteva parlare
all’Occidente, reso plurale e poliarchico dalla sua millenaria storia di
conflitti. Mai di lì poteva nascere un socialismo quale che fosse, ma
solo un quantum di emancipazione delle na-
zionalità
extraeuropee, con molte illusioni e tragedie, inclusi i massacri
staliniani e la satellizzazione di un pezzo d’Europa. La tesi non è
nuovissima ma poco frequentata. Basata su un libro del 1957: Il
Dispotismo Orientale di Karl August Wittfogel, comunista di sinistra
tedesco, esponente della scuola di Francoforte, transfuga negli Usa,
viaggiatore in Cina e divenuto anticomunista. Che cos’è in Wittfogel il
«dispotismo», concetto che viaggia da Aristotele a Montesqueu, a Hegel e
Marx fino ad Arendt e a Wittfogel? È una forma di governo e insieme
una forma di produzione, tipica di popolazioni stanziali delle pianure
«idrauliche».Talché come nell’antico Egitto, tecniche, scrittura, vie
fluviali e canali, strumenti di produzione e terra sono di proprietà
del despota, che li amministra con i suoi funzionari. Tutto, per dirla
con Hegel appartiene all’«Uno» (divino e terrestre). Tutto è della
comunità che si riassume nell’Uno dispotico, salvo il piccolo possesso
individuale.
Dunque sistema di produzione comunitario, con la
terra e acque lavorate in comune e a rigore senza schiavi né possessori
privati di schiavi. Insomma grandi stati irrigui e sconfinati dove
tutta la proprietà è del Principio Sovrano, a sua volta proiezione e
involucro della comunità comunitaria e senza individui. C’è da
meravigliarsi che Stalin, che ben conosceva il tema, proibisse ogni
discussione a riguardo? Prima di Wittfogel anche Marx e Engels avevano
pensato a lungo a tutto ciò, e tra il 1879 e il 1882si posero il
quesito, sollecitati dai socialdemocratici russi: dal disfacimento
dell’Impero dispotico russo si può salvare e usare, come mattone
positivo e socialista, la comunità primitiva russa? Cioè, il «Mir» col
suo comunitarismo, consentiva di saltare la fase capitalistica? Marx
rispose: sì, immettendo tecnica e progresso nel Mir e facendo al
contempo il socialismo in Europa. Ebbe ragione... il vecchio Marx «non
marxista». E Lenin lo prese sul serio, anche se si appoggiò agli operai
e alla spietata minoranza bolscevica. Ma il prezzo fu quello di
ricadere nel collettivismo dispotico. E nel dispotismo orientale. Con
Stalin al posto di Gengis Khan.
l’Unità 19.2.11
La Lega nasce razzista
di Marco Rovelli
Sarebbe
bastato un rapido giro su Internet per ricordarsi che la Lega è un
partito che del razzismo fa una delle sue ragioni sociali identitarie.
È per questo che sorprende la speranza di dialogo insita nella lettera
che Bersani ha inviato alla Padania, un giornale che è arrivato a
scrivere: «Quando ci libererete dai negri, dalle puttane, dai criminali,
dai ladri extracomunitari, dagli stupratori color nocciola e dagli
zingari che infestano le nostre case, le nostre spiagge, le nostre vite,
le nostre menti? Sbatteteli fuori questi maledetti!». È evidente
infatti di che pasta sia il senso comune del ceto politico leghista:
«Gli immigrati sono animali da tenere in un ghetto chiuso con la sbarra e
lasciare che si ammazzino tra loro», diceva un consigliere comunale. Di
basso livello, si dirà, mica rappresentativo. E allora ecco le parole
di un senatore: «Gli immigrati? Peccato che il forno crematorio del
cimitero di Santa Bona non sia ancora pronto». O ancora, il supremo
Calderoli: «Un paese civile non può fare votare dei bingo-bongo che
fino a qualche anno fa stavano ancora sugli alberi». O Bossi che
fascistamente teorizzava sul progetto americano di «importare in Europa
20 milioni di extracomunitari» e garantire i propri interessi
«attraverso l’economia mondialista dei banchieri ebrei e attraverso la
società multirazziale». Forse il popolo leghista non è razzista
davvero... Si può vedere allora, su youtube, quel popolo in visibilio
quando Gentilini (quello che dichiara: «Extracomunitari? Bisognerebbe
vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucile») comiziava:
«Voglio la rivoluzione contro gli extracomunitari clandestini. Voglio la
rivoluzione contro quelli che vogliono aprire le moschee e i centri
islamici. No! Vanno a pregare nei deserti!», e via vomitando. E poi, si
può sempre ascoltare la filantropica base leghista quando delira a
Radio Padania.
il Fatto 19.2.11
Odio gli indifferenti
di Antonio Gramsci
Odio
gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire
essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli
estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e
parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non
è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto
della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte
in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che
recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde,
meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi
limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa
desistere dall'impresa eroica. L’indifferenza opera potentemente nella
storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; e ciò su cui non si
può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani
meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e
la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il
possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare,
non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto
all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. (...) I più di costoro,
invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti
ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili
piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E
non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano
capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o
di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia
altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente
infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da
alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di
pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi
nella vita, che non ammette agnosticismi e in-differenze di nessun
genere. Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro
piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come
ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone
quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha
fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia
pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano,
vivo. (...) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio
gli indifferenti.
La Stampa 19.2.11
E Ben Gurion ordinò “Sposate donne arabe”
Negli Anni 50 spie israeliane si mescolarono ai palestinesi
di Aldo Baquis
L’ADDESTRAMENTO In mesi di lavoro gli 007 si trasformarono in «profughi tornati dall’esilio»
IL FALLIMENTO Dopo qualche anno si capì che le «cellule in sonno» avevano esaurito il compito
I DUBBI DEI RELIGIOSI Gli agenti dello Shin Bet formarono nuove famiglie «Ma i figli sono ebrei?»
Un
manipolo di agenti dello Shin Bet (sicurezza interna) fu spedito negli
Anni Cinquanta, per volere del primo ministro israeliano David Ben
Gurion, in una missione senza ritorno. Dovevano bruciare i ponti,
dimenticare di essere ebrei, cancellare dalla loro esistenza le famiglie
di origine, rinunciare ai cibi e alle tradizioni passate. Per amor di
Patria, nella loro nuova vita avrebbero dovuto non solo parlare e
pregare in arabo, ma anche sognare in arabo. Perché veniva ordinato loro
di diventare «agenti in sonno» disseminati in aree palestinesi,
all’interno di Israele. Un giorno, forse, si sarebbero rivelati utili
alla Nazione.
Questa pagina di storia, finora sconosciuta in
Israele, viene svelata adesso da una rivista di questioni militari,
«Israel Defense», una pubblicazione che si annuncia di assoluto
prestigio potendo vantare fra le sue firme un ex capo del Mossad (Dany
Yatom), un ex capo dell’aviazione militare (David Ivri) e un ex capo
della polizia (Shlomo Aharonishky).
Il primo numero della rivista
uscirà solo la settimana prossima: ma per vie traverse il servizio sugli
agenti «dormienti» è già planato sul tavolo di una pubblicazione
ortodossa (Kikar ha-Shabat), che lo ha rapidamente divulgato con toni
sensazionalistici. Anche perché dischiudeva una questione teologica
scottante: se cioè i figli di agenti israeliani in missione segreta con
donne arabe possano essere reputati ebrei. La complessa diatriba ha già
incendiato diversi siti Internet religiosi.
La necessità per
Israele di disporre di agenti capaci di muoversi a loro agio in ambienti
arabi era risultata evidente già all’indomani della Guerra israeliana
di indipendenza (1948-49), quella che per i palestinesi è invece la
Naqba (il Disastro). Per controllare la cospicua minoranza araba rimasta
in Galilea, nella zona centrale e nel Neghev fu subito imposto un
«governo militare» che sarebbe durato fino al 1966. Ma Ben Gurion temeva
che, con una operazione a sorpresa, gli eserciti arabi sarebbero
riusciti egualmente a riassumere il controllo anche parziale di quelle
aree. Da qui la necessità di disporre in zona, a tempo pieno, di uomini
fidati, capaci di inoltrare informazioni di intelligence in tempo reale.
«Israel
Defense» spiega che l’incarico di costituire un’unità «arabizzante»
(Mistaaravim, in ebraico) fu affidato nel 1952 dal capo dello Shin Bet
Issar Harel (uomo di assoluta fiducia di Ben Gurion) a un professionista
della guerra segreta, Shmuel Moria. Il materiale primo non mancava:
c’erano infatti giovani ebrei immigrati da Paesi arabi (ad esempio
dall’Iraq) che si esprimevano fluentemente in arabo. Occorreva
confezionare su misura per loro una nuova identità. In mesi di lavoro
meticoloso nella sede dell’intelligence a Ramle (Tel Aviv) e poi negli
uffici dell’ex comandante palestinese Hassan Salameh, gli immigrati
ebrei si sarebbero gradualmente trasformati, giorno dopo giorno, in
«profughi palestinesi rientrati dall’esilio forzato».
In questa
storia, è forse questo l’aspetto che più induce all'ottimismo, gli
agenti ebrei in breve tempo riuscirono infatti ad amalgamarsi al meglio
nella società araba. Al punto che si pensò di passare alla seconda fase:
ossia di indurli a sposarsi con donne arabe e a creare nuclei
familiari. Sul piano operativo, un successo totale: israeliani e
palestinesi non erano più distinguibili.
Ma col passare degli anni
si moltiplicarono i mugugni. Le informazioni passate dagli agenti «in
sonno» erano povere, e scarsamente interessanti. Inoltre stavano
mettendo su prole. Gli ex agenti soffrivano al pensiero che i figli
sarebbero cresciuti da palestinesi a tutti gli effetti: non era certo
quello il loro sogno, quando erano immigrati in Israele.
Alla metà
degli Anni Sessanta, scrive «Israel Defense», lo Shin Bet ammise di
essere giunto a un binario morto. Convocò separatamente ciascuna delle
coppie e spiegò l'inganno alle consorti arabe. Ci furono
comprensibilmente scene di disperazione, manifestazioni di odio, crisi
coniugali. Una delle donne portò il figlio ad Amman e si sposò con un
fedayn palestinese. Gli agenti «in sonno», da parte loro, pur
determinati a rientrare nell’Israele ebraica, non volevano essere
strappati ai loro nuclei familiari.
Lo Shin Bet allora si accollò
gli oneri finanziari. Continuò per molti anni a versare stipendi e offrì
ai figli di quelle coppie di scegliere se volevano restare arabi oppure
ricrearsi un’identità ebraica. Ma le ripercussioni dell'esperimento in
laboratorio, secondo la rivista, si avvertono ancora oggi, mezzo
secolopiù tardi: perché i figli di quelle unioni concepite a tavolino
negli scantinati dello Shin Bet lamentano ancora problemi ricorrenti di
identità.
Come ebbe a dire anni fa una recluta, appena impugnata
la sua arma: «E io adesso su chi devo puntare questo fucile? Sulla mia
famiglia palestinese, oppure su quella israeliana?».
il Riformista
Intervista al segretario Prc Paolo Ferrero
«Il patto a Vendola lo offro io dica no a Fini, il Pd ci seguirà»
Nichi sbaglia. Sel, l’Idv e la Federazione devono dire no alla grande alleanza con Fini. Il Pd cambierebbe subito idea»: il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, che fa parte del coordinamento della Federazione, non ha digerito l’apertura di Nichi Vendola al progetto democrat che mette insieme tutti, da Fli all’estrema sinistra, per battere Silvio Berlusconi.
Perché Vendola sbaglia?
Non si su cosa si crea questa santa alleanza. Il copyright è di Massimo D’Alema che pensava a una legislatura che modificasse la Costituzione. Un errore madornale, perché la Carta va difesa, salvaguardata e realizzata. Ma faccio un esempio più concreto. Fini è un iperliberista: che tipo di politica economica proporrebbe quest’alleanza? Il risultato sarà che si perderanno voti sia a destra sia a sinistra. Un dato non sfuggito a Casini che si è già tirato indietro. A mio avviso, c’è un errore di fondo: il progetto non è finalizzato alla costruzione della sinistra, bensì piegato ai giochi interni al centrosinistra, che vedono il Pd protagonista. Come testimonia la proposta di Rosy Bindi presidente del Consiglio. Idea degnissima, per carità, ma in realtà è solamente un giochino tattico. Che propone, allora? Vendola, Di Pietro e noi dovremmo dire con una sola voce che no, con Fini non si va, a costo di andar da soli. Il Pd cambierebbe linea dopo due minuti. La proposta della grande alleanza è già finita. Per battere Berlusconi, basta fare uno schieramento di sinistra. La strada di Vendola e D’Alema, non è una via obbligata. Ne ha parlato con il leader di Sel? Non ce n’è stata occasione. E mi preme sottolineare che queste manovre di Palazzo non indeboliscono Berlusconi, anzi. Il nostro punto politico dovrebbe essere: come lo facciamo cadere? Io a Nichi propongo di proporre con noi al Pd una grande manifestazione nazionale delle opposizioni, per il 17 marzo, a rappresentare che l’Unità d’Italia è anche l’unità dei diritti civili e sociali che vogliamo mettere al centro della nostra politica. In questi mesi abbiamo visto in piazza operai, studenti, donne. Mancavano i partiti a raccogliere questa domanda. Dobbiamo incalzare il Pd a farlo con uno sviluppo lineare, con un patto tra le forze di centrosinistra e la nostra gente. Insomma, il problema è Fini.
È evidente. Fini è lo stesso di Genova, è stato al Governo con Berlusconi e ha votato tutte le sue leggi, dal collegato lavoro alle leggi vergo-
gna ad personam. Sia ben chiaro: io sono contento che Fini si sia separato dal presidente del Consiglio, è un evento di interesse strategico per la democrazia. Ma Fli non è un alleato possibile. Al pari, ben venga la nascita del Terzo polo, presupposto per mettere in discussione il bipolarismo devastante che ha consentito, da Tangentopoli in poi, di ridurre ulteriormente il rapporto con l’elettorato, e che ha permesso a Berlusconi di costruire il suo regime mediatico e populista. S.O
l’Unità Lettere 19.2.11
Giordano Bruno
di Paolo Izzo
Ve
ne dimenticherete anche quest' anno. O ci sarà appena un cauto
trafiletto e qualche manipolo di eretici a ricordarlo in una rara piazza
o strada a lui dedicate (dieci giorni fa, nella "sua" Napoli, nella via
col suo nome, c'erano a celebrarlo topi e munnezza, che tristezza!).
Nemmeno vi serviranno le recenti scoperte astronomiche su mille
possibili sistemi solari, "infiniti mondi", come intuiva lui, mentre
poco probabile è che anche in altro remoto universo ci sia un
Vaticano... beati loro! Poi un giorno, che non sarà mai abbastanza
presto,
ci si affannerà a dargli ragione per aver scommesso su un
aldiquà di umanità umana e di verità naturale contro un aldilà di
astrattezza violenta e di dogmatica disumanità. La stessa che "oggi" lo
bruciò vivo, che fece santo colui che appiccò il suo rogo, che non ha
ancora chiesto scusa (e sono passati 411 anni!) e che oggi brucerebbe,
se solo potesse, eretici e streghe, testamenti biologici e fecondazioni
assistite e coppie di fatto. Ma lui lo sapeva, con quella inconscia
certezza che hanno soltanto i pochi genî ribelli che scoprono com'è,
dentro, l'essere umano: sapeva di aver fatto tutto "quel che un
vincitore poteva metterci di suo: non aver temuto la morte, non aver
ceduto con fermo viso a nessun simile, aver preferito una morte animosa a
un'imbelle vita" ("De monade, numero et figura", Giordano Bruno).