martedì 1 febbraio 2011

l’Unità 1.2.11
Il giorno della grande spallata L’esercito appoggia la piazza
È il Giorno della Marea umana. Milioni in piazza per la spallata al rais. Alla vigilia esce allo scoperto l’esercito che in un comunicato ufficiale definisce «legittime» le rivendicazioni che sono alla base della protesta.

di U.D.G.

Dal «Venerdì della collera» al Martedi della «Marea umana». Oggi è il giorno della moltitudine in piazza. Al Cairo, ad Alessandria. Il giorno dell’«altro Egitto». Un giorno preceduto dallo «smarcamento» delle Forze armate dal «Faraone». Il popolo sfida il rais. E l’Esercito esce allo scoperto e in un comunicato ufficiale fa sapere di giudicare «legittime» le richieste alla base della rivolta. L’opposizione al regime di Hosni Mubarak è sicura di portare in strada milioni di persone. Nonostante il coprifuoco, nonostante un Paese sempre più militarizzato da un potere che non intende abdicare ma che si avverte sempre più isolato.
SFIDA AL COPRIFUOCO
In migliaia hanno trascorso la notte della vigilia in piazza Tahrir, la «Piazza della Libertà», sfidando il coprifuoco ieri ulteriormente esteso a partire dalle 14:00. «L'esercito deve scegliere tra l'Egitto e Mubarak», si legge in uno striscione in piazza Tahrir, dove i dimostranti 250mila nel corso della giornata offrono del cibo ai militari mandati a riportare l'ordine. I dimostranti rifiutano di andarsene e l'esercito non interviene per sgombrarli. Più dura la protesta supportata dall’indizione dello sciopero generale meno chance ha Mubarak di mantenere il potere. I manifestanti in piazza Tahrir non si accontentano della nomina da parte del rais di un militare a vicepresidente e primo ministro. Quali siano i sentimenti dei protagonisti della «Rivoluzione 25 gennaio» lo si evince dal fantoccio di Mubarak fatto di cartone e con su scritto «il tribunale del popolo egiziano ti ha condannato a morte», appeso al palo di un semaforo di piazza Tahrir, cuore pulsante della rivolta.
FUORI I PIÙ ODIATI
Nel tentativo di rimanere in sella, il presidente ha annunciato il nuovo governo da cui sono spariti l'odiato ministro dell'Interno e i magnati in affari con il regime. Ma per il resto, poche altre novità: il cambiamento più significativo è stato l'allontanamento di Habib el-Hadly, principale responsabile per la sanguinosa repressione delle proteste e che controllava le forze di sicurezza accusate di violazioni sistematiche dei diritti umani. La sua sostituzione era richiesta a gran voce dai manifestanti: al suo posto è andato Mahmud Wagdi, generale di polizia in congedo, ex capo delle istituzioni penitenziarie. Nel chiaro tentativo di giocarsi l'ultima carta, Mubarak ha anche lanciato un appello al dialogo con le opposizioni, subito respinto al mittente dai Fratelli Musulmani: «Troppo tardi». In un comunicato, l'organizzazione islamica ha esortato a proseguire le manifestazioni «fino alla caduta del regime», sottolineando come il nuovo esecutivo «non rispetti la volontà popolare». «I nostri cittadini hanno alzato il tetto delle loro rivendicazioni, ora vogliano Mubarak sul banco degli imputati in un tribunale», incalza Nour Al Nour, figlio del dissidente egiziano e attivista per i diritti civili Aiyman Nour, pluri-carcerato e candidato alle elezioni presidenziali.
COMUNICATOIN TV
Alla vigilia del Giorno della «Marea umana» parla anche l’Esercito. Le forze armate non useranno la violenza contro i cittadini, ma mettono in guardia contro atti che possano minacciare la sicurezza dello Stato», recita un comunicato dell’Esercito diramato dalla Tv di Stato egiziana. Nel comunicato le Forze armate definiscono «inaccettabile terrorizzare i cittadini», con atti come i saccheggi avvenuti nei giorni scorsi, sottolineando che la loro presenza in strada deriva dalla loro «preoccupazione per la salvaguardia della sicurezza dei cittadini». «La libertà di espressione in forma pacifica è una garanzia per tutti», si legge nella nota diffusa dal portavoce delle Forze armate e indirizzata al «grande popolo egiziano». Soprattutto, le Forze armate considerano «legittime» le rivendicazioni espresse dai manifestanti, segnale che mantiene inalterato il peso politico dell'esercito ma debilita non di poco la posizione di Mubarak, che se abbandonato dal corpo ufficiali da cui proviene potrebbe vedersi costretto a lasciare il potere. «Grande popolo dell'Egitto recita il comunicato le vostre forze armate riconosco la legittimità dei diritti del popolo» e pertanto «non abbiamo fatto nè faremo ricorso all' uso della forza contro il popolo egiziano». La decisione di non utilizzare la forza contro i manifestanti lascia intatto il peso politico dell'esercito sull'esempio di quello tunisino, la cui moderazione lo ha reso assai popolare ma -convergono analisti indipendenti al Cairo sembra indebolire di molto la posizione di Mubarak. Il Cairo trattiene il fiato. E così l’intero Egitto. Il blocco della capitale e dell'intero Paese è anche testimoniato dall'interruzione, da ieri, dei collegamenti ferroviari su tutto il territorio nazionale, e la compagnia di bandiera Egyptair ha cancellato i suoi voli nella notte tra oggi e mercoledì. In attesa del Giorno della Grande spallata. Milioni in piazza. E l’Esercito al loro fianco.

Corriere della Sera 1.2.11
Quei ragazzi del Cairo
di Massimo Nava


La dichiarazione delle Forze Armate egiziane, che considerano «legittime» le rivendicazioni del popolo, aggiunge un ulteriore elemento di novità e sorpresa nella concatenazione di rivolte in Medio Oriente. Se la repressione di proteste di piazza è spesso il motivo conduttore dei regimi dittatoriali, il passaggio dei soldati dalla parte dei cittadini può essere la svolta verso quella transizione morbida o il meno possibile violenta incoraggiata da Stati Uniti e in ordine sparso dalle capitali europee. Anche per garantire la stabilità del punto più nevralgico della regione. Da oggi, il destino personale di Mubarak è meno importante rispetto alle scelte che gli hanno imposto le piazze e nelle ultime ore i poteri forti del Paese. Potrebbe uscire di scena subito o essere per qualche tempo uno degli attori delle riforme, ma non sarà lui a guidare l’Egitto di domani. Per valutare sviluppi positivi o rischiosi della situazione egiziana, e della rivoluzione in Medio Oriente — in particolare l’ipoteca del fondamentalismo islamico —, si è ricorsi questi giorni al confronto con eventi storici del recente passato. Alcuni ricordano la caduta del Muro di Berlino e l’effetto domino sui regimi comunisti. Altri riflettono sulle conseguenze disastrose della rivoluzione khomeinista. Se non si voglia sostenere che il mondo arabo e la religione musulmana siano incompatibili con la democrazia, sarebbe utile rievocare anche la rivoluzione indonesiana degli anni Novanta che abbattè il dittatore Suharto e avviò un processo democratico nel più grande Paese musulmano del mondo. Anche in Indonesia l’esercito rinunciò subito alla prova di forza. Gli avvenimenti delle ultime ore dicono che l’Egitto si è fermato in tempo sull’orlo del baratro e che i generali non vogliono o non osano mandare i soldati — anch’essi figli del popolo — contro milioni di cittadini che nella grande maggioranza non hanno in testa svolte ideologiche di sistema o derive religiose ma il sogno di essere partecipi dello sviluppo e garantiti nelle libertà fondamentali dell’uomo. È una decisione coraggiosa, ma anche una presa d’atto del ricambio generazionale e culturale del proprio Paese e dei Paesi vicini. Nessuno, nemmeno con i carri armati, può annullare gli effetti del rapporto stretto fra le popolazioni del Medio Oriente e i fenomeni sociali del nostro tempo: l’emigrazione di milioni di giovani in Europa, l’interagire delle comunicazioni sul web e in una certa misura lo sviluppo turistico. Fenomeni che sfuggono al controllo dei regimi. Milioni di emigrati in Europa trasmettono idee e valori occidentali a parenti e amici rimasti nei Paesi d’origine. Qui l’urbanesimo e la scolarizzazione di massa hanno favorito la ricezione e fatto crescere una middle class borghese e intellettuale che ritiene compatibili le tradizioni con le libertà civili. Gli Stati Uniti hanno compreso, prima dell’Europa, l’importanza della posta in gioco. Incoraggiano riforme e ricambio delle oligarchie. Per quanto rischiosa, è l’unica strada possibile, perché connessa a principi di autodeterminazione dei popoli e sovranità. Il sostegno di dittature screditate e corrotte non è meno fallimentare del tentativo di esportare la democrazia con le bombe. I generali egiziani hanno colto in tempo il messaggio.

Corriere della Sera 1.2.11
Donne in piazza Giovani e anziane povere e borghesi
di  Viviana Mazza


Pur essendo in minoranza rispetto agli uomini, un numero senza precedenti di donne sta manifestando in Egitto. Lo dicono le stesse egiziane dai 28 agli 80 anni scese in strada dal 25 gennaio giorno per giorno. L’Organizzazione egiziana per i diritti umani, stimava il 25 gennaio che fossero il 20%della folla, mentre in passato, alle proteste, non superavano il 10%. Perché questo cambiamento? Queste non sono manifestazioni lanciate da partiti, ma è «una rivoluzione spontanea» , spiegano, un movimento che sembra poter cambiare davvero il Paese. «C’ero anch’io che ho ottant’anni» , dice Nawal Al Saadawi, medico e scrittrice, incarcerata nel 1981 da Sadat e poi minacciata di morte dagli islamisti, mentre nel 1991 la sua associazione femminista fu bandita (si opponeva alla guerra nel Golfo; ne fondò un’altra Suzanne Mubarak, «che non è meglio del marito» ). «Sono stata anche in ospedale, e ho visto le donne uccise. Io mi ricordo delle proteste del ’ 36, del ’ 46 e del ’ 51 contro i britannici e il Re Farouk, degli Anni 60 contro Nasser, del ’ 77 contro Sadat. Ma questa è la più grande. Le donne in strada sono soprattutto giovani e non sposate, e poi anziane, di 70 e 80 anni; sia povere che della classe media— l’elite no, ma non c’è mai. Più rare le donne sposate. Certo gli uomini sono di più, ma pure in Tunisia. Viviamo in società patriarcali, come del resto voi in Italia» . «Poche sono accampate in piazza Tahrir. Per lo più tornano a casa col coprifuoco» , dice Dalia Ziada, 28 anni, studentessa e blogger che indossa l’hijab. «A Shobra, dove vivo si affacciano ai balconi a gridare slogan» . Dalia resta a casa da venerdì, i suoi genitori hanno paura: un loro vicino è rimasto ucciso. Ma oggi torna in piazza. Nessun timore di molestie nella folla. «Comunque a molestare le donne non sono mai i manifestanti maschi, ma gli agenti in borghese» . La scrittrice Sahar El Mougy ha marciato con la figlia 23enne e il figlio 19enne: «Per la prima volta si sentono orgogliosi d’essere egiziani» . Le donne non saranno in prima fila, dice, «ma correvamo come gli uomini sotto i lacrimogeni. Ho visto madri con i bambini, donne povere sorprese di vedere le borghesi, e noi di trovare gente che mai prima s’era interessata di politica» .
il Riformista 1.2.11
«L’Italia lasci Mubarak e appoggi l’Egitto laico»
WAEL FAROUQ. Docente all’American University del Cairo, è in piazza da giorni: «I leader di questa rivoluzione vengono dal basso, i Fratelli musulmani non c’entrano, in strada ci sono i poveri e i professori universitari. El Baradei non è la nostra guida».


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Corriere della Sera 1.2.11
«I cristiani non protestano»

IL CAIRO — Il papa della chiesa copta, Shenuda III, ha espresso il suo appoggio a Mubarak. «Ci felicitiamo per la decisione del presidente di intervenire di fronte alle proteste con la nomina di Omar Suleiman a vicepresidente e di Ahmed Shafiq a primo ministro» , ha dichiarato alla tv pubblica. «Grazie a Dio le nostre chiese sono riuscite a dissuadere i cristiani dal partecipare alle manifestazioni» , ha assicurato l’ 87enne papa copto.

Corriere della Sera 1.2.11
Israele avverte «Non mollate il Faraone»
di Francesco Battistini


Non dimenticate Uri Lubrani. A Bibi Netanyahu è bastato un nome per ricordare all’Occidente che cosa si rischia, se si molla Mubarak. Era il ’ 77. E Lubrani, ultimo ambasciatore israeliano in Iran, mandò un cablo: bisogna impedire il tracollo dello Scià. «Sarà anche un figlio di puttana— l’ambasciatore citò quel che Roosevelt pensava del dittatore Somoza in Nicaragua—, ma è il nostro figlio di puttana» . Il messaggio arrivò sul tavolo di Jimmy Carter. Che lo ignorò. Reza Pahlevi andò a Washington per chiedere aiuti, ma ricevette solo una lezione di morale. Pochi mesi, e arrivò Khomeini. «Gli americani— scrive il quotidiano Ma’ariv— chiusero gli occhi, come sta facendo Obama. Allo Scià, non diedero nemmeno asilo politico. Glielo diede Sadat che, di Medioriente, capiva un po’ di più» . Arrostire il Faraone, come il Pavone. Ma poi? La paura israeliana è che il Cairo diventi Teheran. Più vicino, per di più. Un mantra che ieri il premier, un po’ convincendola, ha recitato anche ad Angela Merkel: «Nel caos, un gruppo islamico organizzato può prendere il controllo del Paese» . Da Gerusalemme, rivela Haaretz, è partito un appello ai ministri Ue riuniti a Bruxelles: «Americani ed europei vengono trascinati dall’opinione pubblica e non considerano gl’interessi reali. Ma anche se sono critici verso Mubarak, devono far sentire ai loro amici che non sono soli. La Giordania e i sauditi vedono le reazioni in Occidente, dove tutti abbandonano Mubarak, e questo avrà conseguenze serie» . Netanyahu ha imposto il no comment a tutti i ministri, ha concesso che in deroga a Camp David l’esercito egiziano vada a presidiare il Sinai, ha telefonato a Obama: «L’uomo che sta alla Casa Bianca — scrive un editoriale di Yedioth Ahronot — è capace di svenderci dall’oggi al domani. L’ha dimostrato con Mubarak. L’idea che l’America possa non stare dalla nostra parte, nel momento cruciale, ci dà i brividi. Che Dio ci protegga» . La sensazione è già d’accerchiamento. Al Cairo sono comparsi slogan anti-israeliani. «Aumenteranno— avverte il generale Yaakov Amidror —, se i Fratelli musulmani entrano in gioco» . L’aviazione militare sta rivedendo i piani di difesa: «Occorre ripensare ogni eventualità» , dice il generale Ido Nehushtan. Poco serve, col mediorientalista Yoram Meital della Ben Gurion University, osservare che «i Fratelli non sono gli sciiti iraniani, finora hanno dimostrato buonsenso» : gli analisti israeliani vedono nero. E pure il vecchio Shimon Peres, premio Nobel per la pace come ElBaradei, si sente in obbligo d’una difesa: «Non dico che Mubarak abbia fatto cose tutte giuste, ma ha un merito: ha mantenuto la pace» . Sarà pure un figliodì, ma è il nostro figliodì...

il Fatto 1.2.11
Israele tifa per l’amico d’Egitto
Netanyahu appoggia il regime del Cairo in funzione anti Hamas
di Roberta Zunini


Nessuna sorpresa. Di fronte alla crisi egiziana, il presidente israeliano Bibi Nethanyau e il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, la pensano allo stesso modo: Mubarak deve rimanere al potere. Per Netanyahu, il presidente egiziano è il miglior alleato dell'area, soprattutto dopo la rottura con la Turchia. E dopo una settimana trascorsa a cercare di convincere gli alleati occidentali a non abbandonare Mubarak – notizia rivelata dal quotidiano di Tel Aviv, Haaretz – ieri ha aperto per la prima volta (dopo il trattato di pace del '79 con l'Egitto) la penisola del Sinai ai soldati e ai thank egiziani.
La penisola del Sinai tornò all'Egitto nel '79 ma in base agli accordi deve rimanere una zona demilitarizzata. Ma ciò che sta avvenendo al confine sud di Israele è troppo pericoloso e merita un comportamento eccezionale. Dunque, pur di mantenere Mubarak al potere, Bibi si allea con il faraone morente, lasciando al suo esercito la possibilità di entrare in quella distesa di sabbia che si chiama Sinai, dove transitano le armi e le idee per unire il jihadismo e fortificare Hamas. Anche Abu Mazen, da parte sua, ha sempre riconosciuto a Mubarak il ruolo di “complice” nel contenere l'ascesa al potere di Hamas, sorella dei Fratelli musulmani egiziani. Il presidente palestinese è spaventato quanto Netanyahu per le rivolte nel mondo arabo e proprio ieri a Ramallah, capitale amministrativa dell'Anp, la polizia palestinese è intervenuta per bloccare una manifestazione davanti al consolato egiziano.
I MANIFESTANTI volevano solidarizzare con gli egiziani ma il vertice dell'Anp non può permettere – dal suo punto di vista – alcuna apertura al dissenso.
Significherebbe dare spazio a coloro che vorrebbero anche in Cisgiordania, il governo di Hamas. Significherebbe dare la possibilità ai supporter di Hamas di approfittare della attuale situazione di debolezza delle “presidenze autoritarie” del Maghreb e del Medio Oriente, tra cui quella palestinese.
La nomenclatura dell'Anp da mesi si trova in una difficile impasse: dopo il fallimento dei negoziati di pace con Israele, la settimana scorsa si è trovata a fronteggiare le conseguenze della pubblicazione dei cosiddetti Palestinian papers, i documenti rivelati e mandati in onda dalla tv del Qatar Al Jazeera. Ne emerge un appiattimento ventennale delle istanze palestinesi ai voleri di Israele. Nonostante il soccorso dei più stimati negoziatori palestinesi tra cui Saeb Erekat che ha definito tutta l'operazione una sorta di montatura per screditare il presidente, l'Anp, a favore di Hamas, la credibilità dell'Anp e del partito che la anima, Fatah, ne ha risentito.
Non ci voleva proprio, quindi, il crollo di Mubarak, colui che ha sempre fatto da mediatore nel conflitto israelo-palestinese. Netanyahu aveva a questo proposito imposto il silenzio stampa ai propri ministri: la questione è troppo delicata per permettere il chiacchiericcio. Così è avvenuto in Cisgiordania. Solo Netanyahu e Mazen avevano fatto una breve dichiarazione di solidarietà a Mubarak.
Per Abu Mazen tuttavia la situazione è ancora più pericolosa perché all'interno della Cigiordania c'è una guerra civile a bassa intensità che potrebbe rinvigorirsi: molti sostenitori di Hamas all'interno della West Bank odiano Abu Mazen perchè di fatto non ha riconosciuto il voto elettorale, che nel 2007 ha scatenato , nella striscia di Gaza, una vera e propria guerra civile. Abu Ma-zen non permette nemmeno il rinnovo del quadro amministrativo, posponendo continuamente l'appuntamento elettorale.
DIFFICILE UNA sollevazione perché in Cisgiordania l'economia, anche individuale è in crescita, grazie alla politica economica del primo ministro Salam Fayyad che, aiutato da Israele, ha migliorato la vita dei palestinesi. Resta il fatto che non si tratta di un regime che pratica la corruzione e la violenza contro gli oppositori, incarcerandoli e torturandoli.
I palestinesi e gli israeliani che oggi governano non possono permettere una deriva islamista nei paesi limitrofi, soprattutto giganti da oltre 80 milioni di abitanti come l'Egitto. Con Omar Suleiman alla presidenza accanto a Mubarak le cose potrebbero andar loro bene, visto che l'ex capo dei servizi segreti conosce molto bene la questione palestinese e ha ottimi rapporti con Israele.

Corriere della Sera 1.2.11
Emma Bonino: «L’Occidente parla di democrazia ma appoggia i regimi autoritari»
di Cecilia Zecchinelli


«La libertà e i diritti civili e politici sono valori universali a cui tutti i popoli, senza distinzioni, legittimamente aspirano. E se la prima responsabilità di quanto avviene in Egitto e Tunisia e potrebbe accadere in Algeria, Giordania o Sudan è di quei regimi, la seconda è delle democrazie occidentali per il loro sostegno acritico ai governi più autoritari, in nome della "stabilità"» . E’ su questo punto che insiste Emma Bonino, vicepresidente del Senato, radicale, attivista per i diritti umani, che ha vissuto a lungo al Cairo e ha poi continuato a seguire l’evoluzione (involuzione) della società egiziana. Come si è arrivati a queste sollevazioni? «Era impossibile prevedere il giorno esatto, ma una pentola a pressione senza valvola di sfogo per forza esplode. La stragrande maggioranza dei nostri diplomatici, politici, esperti, giornalisti non l’avevano capito perché non conoscono l’arabo, in missione incontrano solo l’establishment, pensano che democrazia e stato di diritto siano esclusive dell’Occidente, il che è stato ed è una forma di paternalismo deleterio e di razzismo. Ce lo ricordava Amartya Sen nel suo libro "Libertà come sviluppo", troppo presto dimenticato. Lo sosteneva Kofi Annan, e veniva preso per pazzo» . Come spiega questa posizione? «L’Occidente ha sempre sostenuto dittatori corrotti e sanguinari, da Amin Dada a Bokassa, prima in chiave anti-comunista, poi in quella anti-terrorismo e anti-qaedista. Ora siamo tornati alla Realpolitik tradizionale, basta essere pro libero mercato per essere "affidabili". Una politica miope che ha spianato la strada agli estremismi e paradossalmente sacrificato una stabilità più durevole in cambio di una a corto respiro. E poi noi occidentali abbiamo questa malattia congenita di preferire l’uomo forte a forti istituzioni» . Vale per Usa, Europa, Italia? «Ancora in questi giorni abbiamo sentito dalla Clinton ai francesi, con particolare cinismo, puntare sulla sopravvivenza dei vari raìs, invocando magari la loro "saggezza e lungimiranza", come ha fatto Frattini, senza prendere minimamente in considerazione le legittime rivendicazioni di quei popoli. Ma l’America di Obama è impegnata a uscire dalla crisi economica e dall’eredità di Bush, guarda all’Asia. Per l’Europa è diverso» . Cosa rimprovera all’Europa? E all’Italia? «Di continuare a chiudere la porta in faccia alla Turchia, di essere disattenti verso la sponda Sud del Mediterraneo, nonostante iniziative grandiose e velleitarie come il Processo di Barcellona e l'Unione per il Mediterraneo, di rinunciare a ogni iniziativa in Medio Oriente per "due popoli, una democrazia...", magari favorendo l'entrata di Israele nell'Ue, di predicare mentre calpesta i diritti delle minoranze e degli immigrati ed è in corso una vera crisi della e delle democrazie. E l’Italia non fa nemmeno una scelta europea, ma preferisce i Putin e i Gheddafi. Vuole la Turchia nell’Ue ma è poco determinata nel promuoverlo, anche se questo governo appoggia le nostre lotte, ad esempio, contro la pena di morte e le mutilazioni delle bambine» . In questa lotta lei ha lavorato con Suzanne Mubarak. «Perché non ho paura di dialogare con chicchessia per promuovere aperture, difendere i diritti delle donne, portare avanti i valori di democrazia. In Egitto, ad esempio, la lotta contro le mutilazioni ha successo perché le donne hanno una grandissima vitalità che molti da noi non vedono. La leadership resta maschile, non è la Svezia, ma soprattutto le giovani partecipano alle proteste, si fanno sentire» . Come vede la transizione in Egitto e Tunisia? «Difficile, complessa, piena di rischi: tutto farei tranne elezioni rapide, non dobbiamo ripetere gli errori fatti in Afghanistan pensando di esportare la democrazia sui missili cruise e dopo la distruzione andando alle urne. Poco importa la persona, ElBaradei o un altro, prima va attuata una vera trasformazione. Ci sono molti rischi ma anche opportunità» . E in sintesi cosa chiede a Europa e Usa? «Di ripensare le loro politiche, tenendo sempre in mente che la democrazia sta sempre dalla parte giusta della Storia» .

l’Unità 1.2.11
No ai profeti di sventura
Dall’Egitto alla Tunisia soffia un vento di libertà
Non bisogna ascoltare i costruttori di paure che agitano lo spettro del fondamentalismo islamico. In piazza ci sono forze laiche e spontanee
di Pino Arlacchi


Èun vento di libertà quello che soffia dal Nordafrica, e chi tiene alla democrazia deve essere all’altezza del messaggio che ci arriva da quei luoghi. Anche perché c’è chi semina dubbi e paure. Profeti di sventura e conservatori alimentano confusioni di ogni risma (vedi i fondi di Sartori e soci sul Corriere della sera) sugli esiti della rivoluzione democratica in corso in Egitto e nel mondo arabo. Ma chi conosce quei contesti e crede nello sviluppo umano non può che gioire per quanto sta accadendo.
La destra globale agita in questi giorni lo spettro del radicalismo islamico acquattato dietro le ali dei movimenti e pronto a venire allo scoperto un minuto dopo l’ uscita di scena dei tiranni. Una volta abbattuto l’arco delle autocrazie filoccidentali che si estende dalla Mauritania alla penisola arabica, ci ritroveremmo a fronteggiare un arco di democrazie fondamentaliste a noi potenzialmente ostili. Una specie di riedizione su scala allargata dell’ incubo khomeinista post-1979.
Questo scenario sembra ben costruito, ma in realtà è campato in aria. Perché si basa sulla vittima concettuale più illustre del cambiamento in atto: l’ idea dello scontro di civiltà, cioè di una frattura irriducibile tra l’ Occidente e il resto del pianeta, e in particolare con il mondo islamico. Mi riferisco a tutte quelle speculazioni sull’ incompatibilità tra Islam e democrazia, sul rapporto privilegiato tra Occidente e libertà civili, e sulla necessità di esportarle in un Medioriente insensibile ai valori della democrazia liberale.
Bene. Se c’è una cosa che balza agli occhi, è il fatto che siano proprio questi i valori per i quali migliaia di dimostranti stanno rischiando la vita scendendo in piazza nei più diversi contesti del mondo arabo. Non c’è nulla di specialmente «islamico» nelle loro rivendicazioni. Essi stanno animando un’ ondata di democratizzazione la cui somiglianza con quelle precedenti, avvenute in altre parti della terra, è impressionante. Come si fa a non vedere in questi movimenti il tracciato inconfondibile dei diritti dell’ uomo che si affermano, e dei valori universali che non hanno bisogno di essere esportati perché già presenti in ogni angolo del pianeta e in ogni essere umano?
Occorre essere davvero ciechi di fronte alle ragioni dell’ emancipazione umana (essere cioè di destra), o interessati ad altre cose, per non riconoscere la matrice progressiva ed universale degli eventi che stanno scuotendo il Nordafrica e il Medioriente. Le altre cose sono il mantenimento dei privilegi delle dittature locali e degli interessi occidentali nel petrolio, nelle materie prime, nelle vendite di armi e nella supremazia a tutto campo nella regione.
Parlo di matrice universale perché la crescita della democrazia si è rivelata inarrestabile. Nel 1974 c’erano solo 40 democrazie nel mondo, e quasi tutte in Occidente. Negli anni ’70 la democrazia si è estesa in Europa occidentale, con la caduta delle dittature in Portogallo, Grecia e Spagna. Negli anni ’80 militari e dittatori si sono ritirati dal potere a favore di governi elettivi in 9 Paesi dell’ America Latina e in parte dell’ Asia (Filippine, Pakistan, Bangladesh, Nepal, Tailandia). Negli anni ’90 quasi tutte le nazioni latinoamericane erano democratiche, e il crollo del Muro di Berlino ha rapidamente trasformato l’ intera Europa orientale, Russia inclusa, in un area democratica. Nel 1994, anche il regime più odioso del mondo, l’ apartheid sudafricano, è caduto, cedendo il passo a una democrazia. E lo stesso è avvenuto in vari stati africani.
Nel 2010, secondo Freedom House, 147 su 194 Paesi potevano essere considerati liberi o parzialmente liberi: il 75%, comprendenti i due terzi della popolazione mondiale.
E parlo di matrice progressiva degli eventi in Egitto e altrove perché solo nelle democrazie i diritti fondamentali hanno la possibilità di crescere, e perché solo nelle democrazie si sviluppa l’ avversione alla guerra che l’ha resa obsoleta, moribonda, e quasi fuorilegge come strumento di politica estera. La proposizione che due democrazie non si fanno tra loro la guerra, la pace democratica, è diventata quasi un assioma della scienza politica contemporanea.
Lo spettro del possibile «takeover» degli islamisti radicali è, appunto, uno spettro. Chi lo agita non ha prove credibili. Conta solo sulla paura, l’ ignoranza, e sull’ inganno delle coscienze alimentato da un quindicennio di islamofobia, e di isteria sullo scontro di civiltà e sul pericolo terrorista. Né in Tunisia né in Egitto, in realtà, il crollo delle autocrazie è suscettibile di portare a governi e parlamenti dominati da estremisti. L’ eventuale instaurazione della democrazia sarà seguita da regimi moderati, dove i fondamentalisti non potranno sperare di detenere posizioni maggioritarie. Tutto ciò per la ragione molto semplice che il 90% della popolazione di questi Paesi non sostiene i gruppi integralisti. È composta da musulmani e cittadini moderati che vogliono solo vivere in pace, stare meglio, e godere dei propri diritti senza temere nè aggredire nessuno.
Lafine delle autocrazie non porterà caos, ma rafforzerà la stabilità e la sicurezza regionali. È avvenuto così in passato, e non esiste ragione perché questa volta le cose vadano in modo diverso. È successo in America Latina, dove la fine delle dittature non ha fatto emergere governi massimalisti, ma normali coalizioni democratiche che hanno disteso i rapporti tra i paesi e reso gradualmente superfluo il terrorismo.
È successo nell’ Europa dell’ Est, dove la caduta dei regimi comunisti non ha partorito alcunché di eccessivo nel campo politico, ma una serie di ordinarie democrazie sempre più simili alle nostre.
E il terrorismo di Al Queda e Bin Laden? Non approfitterebbe dei cambi di regime per impossessarsi di un paese islamico da lanciare all’ attacco dell’ Occidente?
Chi avanza questa ipotesi non sa cos’è il terrorismo islamico e ne ignora le cause. Bin Laden e soci sono proprio il prodotto dell’ assenza di democrazia in Egitto, Arabia Saudita e altrove. La rimozione delle attuali tirannie farebbe venire meno la ragione di essere del fondamentalismo più estremo, che è una reazione alle angherìe delle elites locali prima ancora che dei loro protettori occidentali.
Se gli integralisti si presentassero alle elezioni, competendo con rego-
lari formazioni politiche moderate o anche radicali, ma collocate nell’ alveo della dialettica politica non violenta, non raccoglierebbero consensi travolgenti. In Pakistan e nello stesso Egitto, quando è stato possibile misurarne la forza «pacifica», i partiti islamisti estremi non sono mai andati oltre il 10-20 dei voti.
Grandi Paesi democratici come la Turchia e l’ Indonesia, inoltre, sono governati da forze di ispirazione islamica moderata ancora criticabili in quanto a rispetto dei diritti umani, ma che agiscono nei teatri regionali con politiche sempre più favorevoli alla distensione e alla pace.
E poi, a che titolo i fondamentalisti potrebbero chiedere agli elettori dei loro Paesi di affidargli il governo nazionale? I movimenti di questi giorni sono spontanei, o guidati da forze e persone laiche, provenienti dalla società civile, che non hanno a che fare con la Fratellanza musulmana e il terrorismo. La costruzione della democrazia nel Nordafrica e nel Medioriente è opera di forze esse stesse democratiche e non violente. Non è l’ esito accidentale di uno scontro tra estremismi armati. Non diamo ascolto, perciò, ai costruttori di paura. Diamo credito, invece, alle forze dell’ emancipazione che stanno cambiando il mondo. Ancora una volta.

il Fatto 1.2.11
Quanto ci piacciono i dittatori
di Massimo Fini


È evidente l'estremo imbarazzo dell'Occidente (con ciò intendendo l'America e tutti i Paesi cosiddetti democratici che le fanno da codazzo) di fronte alle rivoluzioni popolari, laiche, emerse improvvisamente in Tunisia, in Albania, in Egitto. Perché ci mette di fronte alla nostra contraddizione di fondo: da una parte noi siamo i grandi vessilliferi dell'ideale democratico tanto che non esitiamo a imporlo, anche a suon di “bombe blu” e all’uranio impoverito, a popoli che non ne vogliono sapere (Afghanistan), dall'altra se emergono forze, democraticamente elette, che non ci sono amiche, o che sospettiamo che non lo siano, preferiamo le dittature, anche quelle particolarmente infami e corrotte (una nostra specialità è appoggiare i regimi più corrotti del mondo, perché sono più facilmente manovrabili).
LA PROVA si ebbe nel 1991 quando in Algeria si tennero le prime elezioni libere e democratiche di quel Paese dopo trent'anni di una dittatura militare sanguinaria. Vinse il Fis, Fronte Islamico di Salvezza, col 75% dei consensi. Allora aiutammo i generali tagliagole algerini ad annullare quelle elezioni con la motivazione che il Fis avrebbe instaurato un regime totalitario. Cioè in nome di una dittatura ipotetica si ribadiva quella che già c'era. I dirigenti del Fis furono arrestati e decine di migliaia di militanti messi in galera. Quando si vuole schiacciare una forza che ha il consenso di tre quarti della popolazione la conseguenza non può che essere la guerra civile, che infatti ha insanguinato l’Algeria per più di dieci anni con centinaia di migliaia di vittime che pesano in buona parte sulla nostra adamantina coscienza di occidentali. Comunque la lezione algerina aveva questa pedagogia: le elezioni democratiche valgono solo quando le vinciamo noi.
Un discorso apparentemente diverso ma sostanzialmente analogo va fatto per la Rivoluzione khomeinista. Per decenni l'Occidente ha sostenuto lo Scià di Persia, un dittatore patinato (quanti servizi su Soraya, “la principessa triste”, e Farah Diba abbiamo dovuto sorbirci nella nostra giovinezza) quanto spietato, la cui polizia, la Savak, era la più famigerata del Medio Oriente, il che è tutto dire. Lo Scià rappresentava una sottilissima striscia, il 2%, di borghesia occidentalizzante ricchissima che si poteva vedere in quegli anni, tutta in ghingheri a Londra e a New York, mentre il resto del Paese era alla fame. Finché il tappo è saltato ed è arrivato Khomeini che, poiché noi ragioniamo sempre e solo con le nostre categorie, dapprima fu scambiato dalle sinistre per un bolscevico (“Baktiar = Kerenski, Khomeini = Lenin” scriveva l'Unità) e in seguito, quando fu chiaro che proponeva una via allo sviluppo del mondo islamico che non fosse né comunista né capitalista, divenne per tutti "il demonio". Tanto è vero che gli opponemmo un dittatore vero, e particolarmente criminale, Saddam Hussein, mentre la teocrazia non è certo la democrazia, ma non è nemmeno il potere assoluto nelle mani di un solo uomo. La stessa cosa sta avvenendo in questi giorni in Egitto. Hosni Mubarak sarebbe saltato da tempo come un tappo, sotto la pressione dell'ebollizione strisciante di un'intera popolazione che non ne poteva più del suo prepotere, del suo nepotismo, della corruzione sua e del suo clan, dei metodi illiberali e polizieschi (non per nulla gli americani quando hanno catturato illegalmente, violando ogni norma di diritto internazionale, l'imam di Milano Abu Omar, lo hanno spedito subito nelle prigioni del Cairo perché vi potesse essere adeguatamente torturato ), se gli Stati Uniti non lo avessero sostenuto per decenni con miliardi di dollari l'anno e costruendogli addosso uno dei più imponenti eserciti del mondo, in funzione antiraniana e pro israeliana (ma era stato Sadat, un uomo probo, e non quel pendaglio da forca di Mubarak, ad avere il coraggio di alzare il telefono e dire al nemico di sempre: piantiamola). Anche qui la lezione è che, nonostante i nostri roboanti proclami, i regimi dittatoriali, i calpestatori professionali dei "diritti umani", ci stanno bene purché stiano ai nostri ordini e servano i nostri interessi. Così abbiamo sostenuto Musharraf, il sanguinario dittatore del Pakistan, perché ci ha aperto le porte dell'Afghanistan , così come sosteniamo, per lo stesso motivo, il corrottissimo e altrettanto dittatoriale, sotto false forme democratiche, Sali Berisha, Alì Zardari, o il re Abdullah dell'Arabia Saudita dove la sharia è applicata in modo più sistematico di quanto avvenga in Iran e di quanto avvenisse sotto il demonizzato regime talebano, e tiranni e tirannelli di mezzo mondo, purché “amici” e sensibili ai dollari.
ADESSO la tentazione, anzi il progetto, è di pilotare le rivoluzioni tunisina, albanese e egiziana a nostro uso e consumo. Di giocare sulla carne e sulla pelle di chi ha avuto il coraggio – che manca in Italia – di ribellarsi all'ingiustizia, perché torni tutto come prima e quei Paesi restino a fare da servi agli interessi dell'Occidente. Io credo che questa politica imperiale, di “gendarmi del mondo” che si sono autonominati tali, non paghi più, nemmeno in termini di realpolitik. Credo che sia venuto finalmente il momento di lasciare agli altri popoli il diritto elementare di autodeterminarsi da sé, secondo la propria storia, le proprie tradizioni, la propria cultura, la propria vocazione e anche i propri interessi. E forse allora scopriremmo che l'evidente ostilità che circonda l'Occidente, in Medio Oriente, in America Latina, in quel che resta dell'Africa nera, in Asia centrale, in Afghanistan, non è dovuta a motivi ideologici o religiosi, ma alle prepotenze militari, economiche e politiche di cui li facciamo oggetto da decenni se non da secoli. Usando costantemente la pratica dei “due pesi e due misure”. Questo sarebbe anche un modo per spazzar via il radicalismo terrorista, che peraltro è un fenomeno marginale. Dopo gli attentati londinesi di qualche anno fa, il sindaco di Londra, Livingstone , molto amato dai suoi concittadini, li condannò, ma disse anche: “Se il popolo inglese avesse dovuto subire le ingerenze che noi anglosassoni stiamo perpetrando da più di un secolo su quelli arabi e musulmani, credo che io sarei diventato un terrorista britannico”.

Corriere della Sera 1.2.11
Bersani: proposta che arriva fuori tempo massimo


Caro Direttore, il mio partito sta lavorando ormai da un anno ad un progetto per l’Italia. Alla nostra Assemblea nazionale di venerdì e sabato se ne discuterà la prima sintesi. Benché tanti dei nostri documenti approvati siano pubblici, si è trattato di un’operazione svolta, nostro malgrado, in clandestinità, essendo l’agenda politico-mediatica sempre occupata da ben altri temi e contingenze. Noi ci siamo fatti un’idea piuttosto precisa della situazione italiana e dei possibili e difficili rimedi. Stiamo ragionando come un partito di governo temporaneamente all’opposizione. Con questa stessa attitudine, considero la proposta che il Presidente Berlusconi mi rivolge dalle pagine del «Corriere» . Non nascondo la mia prima impressione: se la proposta è un astuto diversivo per parlare d’altro, mostra di essere davvero tempestiva; se è sincera, suona singolarmente estemporanea! D’altra parte negli anni trascorsi abbiamo imparato a nostre spese che Berlusconi ama gettare ponti quando è in difficoltà per abbatterli un minuto dopo. Ma non amo divagare o scherzare quando finalmente si può parlare di Italia. Nemmeno voglio dilungarmi in recriminazioni a proposito della sprezzante indifferenza con cui sono state ignorate dalla maggioranza in questi due anni le proposte pragmatiche dell’opposizione. Non posso tacere, tuttavia, dell’umorismo un po’ macabro di cui Berlusconi fa sfoggio concedendomi «sensibilità» in materia di liberalizzazioni. Se chi ha fatto la liberalizzazione del commercio, dell’elettricità, delle ferrovie e di un certo numero di mestieri e di attività economiche è una persona «sensibile al tema» , come definiremmo chi ha testardamente osteggiato tutto questo, chi ha affidato formalmente la riforma delle professioni agli ordini professionali, chi detiene personalmente posizioni dominanti in gangli vitali della vita civile? Ma passiamo oltre, e parliamo di cose serie. Negli ultimi dieci anni i nostri problemi antichi si sono drasticamente aggravati. Il Sud si allontana dal Nord, il Nord si allontana dall’Europa. Non c’è indicatore che non lo certifichi. La crisi ha accelerato il divario rispetto ai Paesi con cui siamo stati per molti anni in compagnia. Ci giochiamo il nostro ruolo nella divisione internazionale del lavoro; ci giochiamo la tenuta di un sistema di welfare e, in particolare, le prospettive di occupazione e di reddito della nuova generazione. Il fatto di essere, in Europa, il grande Paese a più bassa crescita e a debito più alto ci espone inevitabilmente a possibili tempeste. La positività e l’ottimismo tanto cari al Presidente del Consiglio possono venire solo dalla verità e dall’avvio di una riscossa e non dalla retorica oppiacea dei cieli azzurri che ha colpevolmente paralizzato le enormi energie potenziali del Paese (nemmeno può servire allestire astutamente bersagli immaginari: nella nostra proposta sul fisco discussa e approvata alla Camera si parla di evasione e di rendite, non di patrimoniali!). Mi predispongo a proporre, assieme al mio partito, una scossa riformatrice che riguardi assieme democrazia ed economia. Una riforma della Repubblica che investa il funzionamento delle Istituzioni, la legge elettorale, un federalismo credibile, la giustizia e la legalità, la concorrenza e i conflitti di interessi, l’immigrazione, i costi della politica, i diritti, la dignità e il ruolo delle donne. Un nuovo patto per la stabilità, la crescita e l’occupazione, fatto di riforma fiscale, di liberalizzazioni, di norme sul lavoro, di riforma della pubblica amministrazione, di politiche industriali e dell’economia verde, di ricerca e tecnologia. Staremo al concreto e ci rivolgeremo con il nostro progetto alle forze sociali, all’arco ampio dei partiti di opposizione e a chiunque voglia discutere con noi. Ma eccoci al punto. Quel che serve, in modo ineludibile, è uno sforzo collettivo in cui chi ha di più deve dare di più; in cui la riduzione delle diseguaglianze sia un motore della crescita; in cui tutti accettino di disturbarsi leggendo il futuro con gli occhi della nuova generazione. Uno sforzo paragonabile a quelli più ardui che abbiamo pur superato nella nostra storia repubblicana. Chi chiamerà a questo sforzo? Con quale credibilità? Con quale coerenza, con quale sincerità? Con quale capacità di unire un Paese diviso? Lo si lasci dire a un cosiddetto pragmatico: pensare di fare riforme difficili senza metterci la spinta di quei valori sarebbe come pretendere di tenere in piedi un sacco vuoto. Per rivolgersi oggi credibilmente all’opposizione bisognerebbe che il Presidente Berlusconi fosse in grado di rivolgersi credibilmente al Paese. Non è così. Il Presidente del Consiglio non è in condizione di aprire una fase nuova: ne è anzi l’impedimento. Nessuna partita si può giocare a tempo scaduto. Ormai il Paese non chiede al Presidente Berlusconi un programma: gli chiede un gesto. Mentre l’Italia perde drammaticamente la sua voce nel mondo ed è paralizzata davanti ai suoi problemi, se ci fosse da parte del Presidente del Consiglio la disponibilità a fare un passo indietro, tutti dovrebbero garantire, e ciascuno nel suo ruolo, senso di responsabilità ed impegno. Se questa non sarà l’intenzione, il nuovo progetto per l’Italia dovrà essere presentato agli elettori. Noi ci accosteremmo a quella scadenza chiedendo a tutte le forze di opposizione di impegnarsi generosamente non «contro» ma «oltre» ; in una operazione comune, cioè, di ricostruzione delle regole del gioco e del patto sociale, capace di suscitare, in un Paese sconfortato, un’idea di futuro. Pier Luigi Bersani segretario del Pd.

l’Unità 1.2.11
Colloquio con Pier Luigi Bersani
«Il premier non è credibile. Deve solo dimettersi»
di Simone Collini


Berlusconi non ha la credibilità per proporre alcunché». Pier Luigi Bersani si rigira tra le mani la copia del Corriere della Sera con pubblicata in prima pagina la lettera del presidente del Consiglio. Si sofferma sul passaggio in cui il premier, appellandosi proprio al leader del Pd, chiede di «agire insieme in Parlamento» per discutere «un grande piano bipartisan per la crescita dell’economia italiana». Bersani scuote la testa: «Ha avuto tre anni per fare ciò di cui parla e non lo ha fatto. In Parlamento sono andati avanti a colpi di decreti e voti di fiducia, senza mai affrontare i veri problemi del Paese, mentre tutte le nostre proposte sono state respinte. E ora che è in difficoltà pensa di uscirne così? Se lo scordi. Il suo tempo è scaduto, deve soltanto dimettersi».
Bersani discute della proposta del premier con gli altri dirigenti del Pd e anche con i leader del Terzo polo. La valutazione comune è che la lettera di Berlusconi è nella migliore delle ipotesi, per dirla col segretario Pd, «sincera ma estemporanea». Ma potrebbe anche essere una pura mossa tattica. L’obiettivo? Nell’immediato, ragiona Bersani, «un astuto diversivo per parlare d’altro», ora che il Ruby-gate arriva nell’Aula di Montecitorio col voto di giovedì e ora che è praticamente certo che il federalismo si arenerà in commissione (sempre giovedì ci sarà una votazione che sulla carta finirà 15 pari). Ma, pensando al medio termine, per Bersani l’uscita di Berlusconi ha tutta l’aria di essere una mossa pre-elettorale (del resto Maroni ha detto che dopodomani o passa il federalismo o si va alle urne) in vista di una campagna che il premier giocherà tutta sull’irresponsabilità del centrosinistra, che tra l’altro sa soltanto pensare alle tasse.
Per questo sul “Corriere della sera” di oggi Bersani risponderà alla lettera dicendo che Berlusconi non ha né la “credibilità” né la «coerenza» né la «sincerità» e nemmeno la «capacità di unire un Paese diviso» per fare simili proposte all’opposizione e per chiedere uno sforzo agli italiani. Il premier, è la replica del leader del Pd, «per rivolgersi credibilmente all’opposizione dovrebbe essere in grado di rivolgersi credibilmente al paese, ma non è così». E poi: «Berlusconi non è in condizione di aprire una fase nuova, ne è anzi l’impedimento».
Parole che Bersani pronuncia anche pubblicamente prima di partecipare insieme al leader dell’Udc Casini, al Guardasigilli Alfano e monsignor Fisichella alla presentazione di un libro: «Noi siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità ma Berlu-
sconi faccia un passo indietro e tolga dall'imbarazzo se stesso e il Paese». Frasi che arrivano alle orecchie del premier, che reagisce dicendo che il leader del Pd ha un atteggiamento «irresponsabile e insolente». Tutto come da copione, per Bersani. Che un po’ fa notare che «non è la prima volta che quando è in difficoltà Berlusconi lancia ponti che poi smantella un minuto dopo», un po’ sfotte e provoca anche: «È molto suscettibile il nostro presidente del Consiglio. Ha la pelle sottile di un bambino. Ma se ne faccia una ragione, è solo l'inizio se non se ne va. Se pensa di risolvere il problema con qualche diversivo propagandistico, si sbaglia. Noi abbiamo perso voce nel mondo, siamo in uno stallo. E di questo si sta rendendo conto l'opinione pubblica, sfiduciata e disorientata. Se avesse senso di responsabilità, prenderebbe atto della situazione e farebbe il passo da statista che attendiamo da tempo».
Ma non è solo per il metodo che Bersani boccia la proposta di Berlusconi, non è solo perché arriva fuori tempo massimo, perché è strumentale e finalizzata ad altri scopi che non sono la crescita economica del paese,
perché si appella a un Bersani «sensibile al tema delle liberalizzazioni» quando le «lenzuolate» approvate dall’allora ministro dello Sviluppo economico sono finite nel mirino di questo governo: quello che ha scritto il premier nella lettera, per il leader del Pd, anche nel merito è totalmente da rigettare. A cominciare dall’idea, che sarà discussa al Consiglio dei ministri convocato per venerdì, di riformare l’articolo 41 della Costituzione. Dice ironizzando Bersani: «Vedo che il presidente del Consiglio sta scoprendo l'economia. Io non ho mai sentito, e mi sono occupato di imprese per tanti anni, un imprenditore, un commerciante, un artigiano lamentarsi del fatto che ci fosse l'articolo 41 della Costituzione. Mai. Se intendono fare qualcosa di serio non si parte certo con l'articolo 41. Quindi siamo alle solite distrazioni propagandistiche».
Non solo. Se nella lettera Berlusconi parla della tassa patrimoniale come di una proposta avanzata dal centrosinistra, Bersani rispedisce al mittente la questione dicendo non solo che in nessuna proposta targata Pd è contenuta una simile misura fiscale, ma aggiungendo che il Pd voterà no al federalismo anche perché «lì dentro c’è una vera e propria patrimoniale per imprenditori e artigiani, Berlusconi dovrebbe dare un’occhiata».

l’Unità 1.2.11
Primarie o non primarie questo è il Pd
di Marco Simoni


Perché il Pd non abolisce le primarie? Perché non può. La strategia politica di Bersani, ampiamente maggioritaria, è basata sull’abbandono dell’idea di un partito “pigliatutto” che punti al 35-40% dei consensi, e si è orientata ad un partito dall’identità più definita che per vincere deve allearsi con altri partiti portatori di identità e interessi diversi, sia pur contigui, alla sua destra e alla sua sinistra. In questo contesto strategico, le primarie “aperte” (ché le consultazioni tra iscritti sono una cosa diversa) non hanno alcun senso: il Pd ha solo da perdere nel fare le primarie. Infatti, le primarie sono il momento degli estremismi, delle ragioni forti delle appartenenze politiche. Il problema è che nell’ambito di una coalizione, ad essere più estremi e definiti sono i candidati degli altri partiti, che trovano particolare linfa dalla finestra di opportunità data dalle primarie.
Per il Pd organizzare le primarie significa pertanto solo organizzare una potenziale sconfitta e offrire uno strumento ad amici/nemici della propria coalizione per rosicchiare consensi e voti. Se il candidato del Pd vince, è solo una cosa ovvia e non sorprendente dato che è il partito più grande; se il candidato del Pd perde, il partito è stato sconfitto. Se scoppia una lite interna al Pd, come a Napoli, le primarie hanno il risultato di esacerbare gli scontri, proprio perché in un partito identitario le regole contano meno della ragion politica.
In una parola, nel contesto strategico impostato da Bersani, le primarie sono un atto politico masochista. Tuttavia, allo stesso tempo, il progetto di fare del Pd un partito identitario non può sbarazzarsi delle primarie perché le primarie sono l’unica caratteristica identitaria del Pd. Di per sé sono solo uno strumento, una regola. Tuttavia, sono state sempre caricate, da tutti i dirigenti da Bindi, a Bersani, a Veltroni, a D’Alema, di significati superiori: democrazia, partecipazione, popolo, in opposizione al leaderismo dispotico del centrodestra, con l’effetto tra l’altro di convincere tante persone sulla genuinità di quel messaggio.
Tolte le primarie, come si riconosce l’identità del Pd? Sulle questioni che dividono le opinioni politiche (spostare le tasse dal lavoro alle rendite non vale perché lo dice anche lo sceriffo di Nottingham ormai) dai temi etici, ai diritti civili, al diritto del lavoro, il Pd non è stato in grado di raggiungere una sintesi forte, in grado di caratterizzarlo e distinguerlo. Quindi il Pd è nel non invidiabile paradosso di dovere la propria identità ad uno strumento che è, nelle condizioni strategiche impostate dalla leadership corrente, una fonte di masochismo politico. Un bel cul de sac.

il Riformista 1.2.11
Riservare un posto a tavola per Nichi e Tonino?
Alleati scomodi. Il governatore pugliese fa la faccia feroce all’idea di una coalizione allargata, l’ex pm pure, ma le cose sono un po’ più complicate...
di Ettore Colombo


il Riformista 1.2.11
Briguglio, sì a D’Alema
«Patto costituzionale anche con Idv e Sel»
«Se il premier ci costringe all’emergenza istituzionale, questa è una strada da praticare senza conventio ad excludendum», dice il deputato finiano. Che anticipa la sfida alle assise di Fli.
di Tommaso Labate


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l’Unità 1.2.11
Un Paese in estinzione
Nascite: il boom francese e il flop italiano
di Nicola Cacace


Due notizie sulla natalità in quest’inizio d’anno, una buona dalla Francia e una cattiva dall’Italia. Nel 2010 in Francia c’è stato un boom di nascite, 830mila, il più alto da 30 anni mentre in Italia c’è stato l’ennesimo record negativo, 557mila nascite, ancora meno del 2009. In Francia, con 2,1 figli per donna è stato superato il livello di costanza della popolazione, mentre in Italia, con 1,29 figli per donna ci avviciniamo al livello di “sparizione della razza”. Se per adesso la popolazione non cala è solo per l’apporto degli immigrati, i quali contribuiscono anche al tasso di natalità, che sarebbe ancora più basso se non fosse per le 104mila nascite da mamme straniere. Aumenta il divario tra Nord e Sud: il Trentino Alto Adige ha la più alta natalità e la Sardegna la più bassa, dopo secoli il trend si è invertito con un natalità a Nord più alta che a Sud. E questi risultati non avvengono per caso, in Francia le politiche per la famiglia si fanno sul serio nidi, detrazioni fiscali, politiche per l’occupazione, alloggi mentre in Italia di famiglia si parla tanto, ma si fa niente. Niente si fa contro la precarietà giovanile, prima causa della detanalità, che ci fa “conquistare” il triste primato di Paese più vecchio del mondo. Economisti e politici italiani sono abbastanza “distratti” nel quantificare gli effetti negativi, anche economici, della bassa natalità. Il primo fattore di stagnazione ultradecennale della nostra economia risiede proprio nell’invecchiamento accelerato della popolazione. Le multinazionali non investono nei paesi “vecchi” per motivi di domanda (pannoloni e poi?) e di offerta (carenza di mano d’opera giovanile). Le quote, crescente di ultrasessantenni e decrescente di cittadini in età da lavoro, non fanno solo aumentare le spese per pensioni e sanità, non rendono solo necessario il massiccio apporto di immigrati che stiamo sperimentando, ma ha effetti perversi sull’economia poco e male considerati nel dibattito sullo sviluppo. È impressionante il paradosso italiano: abbiamo pochi giovani col più alto tasso di disoccupazione giovanile. Come è possibile? Per ogni dieci sessantenni che vanno in pensione ci sono cinque giovani ventenni a causa del dimezzamento delle nascite dal 1975 ad oggi. Di questi cinque quasi nessuno vuol fare o sa fare i lavori più umili disponibili, falegname, meccanico, contadino, badante, cameriere, etc. col doppio risultato che molti italiani restano senza lavoro e che gli immigrati aumentano. Le politiche per i giovani e le famiglie servono non solo per obiettivi di equità sociale ma per la crescita economica. Difficile fermare il declino economico se non si inverte il declino demografico che dura da più di 30 anni.

l’Unità 1.2.11
Oggi la fiaccolata a Roma in solidarietà dei reclusi del Sinai


Oggi, a Roma, alle ore 18.00, sulla scalinata del Campidoglio, si terrà una fiaccolata per richia-mare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla drammatica vicenda che vede coinvolti centinaia di profughi, eritrei etiopi sudanesi somali, i quali, da oltre due mesi, si trovano nelle mani dei trafficanti di uomini nel deserto del Sinai. Una vicenda che, nonostante il numero notevole di persone coinvolte, e di morti e di torturati, non ha avuto alcuna eco nella comunità internazionale. E se questo pesante silenzio – interrotto a tratti dalle denunce di alcune organizzazioni – avveniva in una situazione di stabilità politica del regime egiziano, che cosa accadrà ora che quel paese è in rivolta? Sicuramente la prospettiva non è quella di una immediata soluzione della vicenda. La polizia egiziana, in questi giorni alle prese con ben altre priorità, non verrà impiegata certo al fine di liberare quei disperati prigionieri nel suo territorio. Il rischio, ora, è che queste persone possano essere vendute al mercato del lavoro schiavistico e del sesso, o che finiscano nelle mani di trafficanti di organi umani. Non vogliamo pensare che sia troppo tardi e rinunciare, data la complicata situazione egiziana, a parlare di loro. Anche perché la responsabilità di quanto sta avvenendo nel Sinai non può essere addebitata unicamente allo stato nord africano. Non possiamo dimenticare, infatti, come questa situazione sia una delle conseguenze della politica europea di chiusura delle frontiere, tesa ad allontanare le persone che cercano protezione nel nostro continente. Protezione che, lo abbiamo ricordato più volte, le convenzioni internazionali da noi sottoscritte ci impongono di dare.

il Fatto 1.2.11
Ignazio Marino: “Sul testamento biologico il Pd abbia una voce sola”


   Sul testamento biologico, in discussione alla Camera dal 21 febbraio, “Bersani deve essere chiaro e chiedere compattezza a tutto il Pd: in un Parlamento di deputati e senatori nominati dalle segreterie di partito, libertà di coscienza vorrebbe dire sopraffazione della volontà dei cittadini”. Non ha dubbi al riguardo Ignazio Marino, esponente del Pd e presidente della Commissione d’inchiesta del Sistema sanitario nazionale, che, a margine di un incontro sul tema organizzato a Roma dall’Italia dei Valori, ricorda che “la maggioranza degli italiani, come confermato la scorsa settimana dal Rapporto Eurispes, è favorevole a trascrivere nelle dichiarazioni anticipate di trattamento indicazioni su tutte le terapie, e questo al di là del credo politico o della religione”. “Eppure, nonostante ciò – incalza – la Camera si appresta a discutere un testo che non tiene conto né della volontà del Paese né di quella dei medici. E, di fatto, fa una legge che è contro il testamento biologico, prevedendo che idratazione e alimentazione artificiali non siano contemplate nelle dichiarazioni anticipate di trattamento. Un’arroganza politica tanto più grave considerando che a farla è un Parlamento scelto dalle segreterie di partito”.

il Fatto 1.2.11
Scuola, no alla perestrojka del merito
di Marina Boscaino


Cosa succede? Con altisonante sfarzo mediatico, due mesi fa Gelmini annuncia – dopo l’“epocale riforma” – un altro evento “storico”: valutazione delle scuole. La perestrojka del merito – cult del Gelmini-pensiero – si sviluppa in un duplice progetto. Per la scuola media (province di Pisa e Siracusa) prevede di valutare   gli istituti. Considererà i test Invalsi e una serie d’indicatori (tassi di abbandono, rapporto scuola-famiglia, scuola-territorio, virtuosità nella gestione delle risorse). Valutatori: un ispettore ministeriale e due esperti indipendenti. Le relazioni finali definiranno una graduatoria. Premi fino a 70 mila euro alle scuole migliori. L’altro vuole individuare chi si distingue “per le capacità e le professionalità dimostrate”. Valuteranno dirigente, due docenti eletti dai colleghi e, come osservatore, il genitore presidente del consiglio   di istituto. Curriculum, un misterioso “documento di valutazione”, nonché l’indice di gradimento presso studenti e famiglie, saranno elementi di giudizio. Un partnerariato tra Fondazione Agnelli, San Paolo e Treellle è responsabile   della progettazione, i cui risultati saranno monitorati da un Comitato tecnico-scientifico d’indubbia fedeltà e innegabile spirito aziendalista: Giorgio Israel (strenuo difensore della riforma universitaria), Andrea Ichino (fratello del mitico inventore della parola “fannullone” nella P.a., e non me ne voglia Brunetta), Attilio Oliva, Biondi e Cosentino, ministeriali buoni per ogni stagione. I collegi docenti, sovrani in materia, hanno risposto al marketing concettuale sciorinato dal ministero con una sonora bocciatura. Tra le operazioni gelminiane è la più imbarazzante. I docenti torinesi non vogliono essere valutati. A dire “no” sono state prima le scuole di Torino e poi quelle della Provincia. E ora l’Ufficio Scolastico Regionale ha esteso l’iniziativa   a tutta la Regione. A Napoli solo 5 sperimentazioni accettate. Il termine per le candidature è stato così spostato al 7 febbraio, per mancanza di concorrenti. Si è poi estesa la possibilità alle intere province e sono state coinvolte anche le scuole di quella di Milano, che già si stanno organizzando per opporsi. Con il pretesto di premiare un merito dai contorni indistinti (lontano da qualsiasi criterio di scientificità), si introducono differenze retributive tra chi svolge mansioni uguali, ghettizzando definitivamente il precariato ogni anno itinerante, favorendo clientelismo e profluvio di progetti inutili, promuovendo insana competizione tra pari, inficiando la relazione con studenti e genitori, claque alla quale occhieggiare per essere “premiato”. L’apparatnik non ha fatto i conti con due elementi che la scuola proprio non riesce ad ignorare, persino in epoca di disimpegno e inerzia: collegialità del lavoro e del governo delle decisioni che ne caratterizza il Dna; contrattazione nazionale in primis e poi di istituto, in materia retributiva e di quantità, criteri di erogazione, accesso e per retribuzioni di base o accessoria. Un terzetto improvvisato e privo di protocolli scientifici e lo share parentale – con gusti e predilezioni non sempre connesse con l’efficacia didattica – non rappresentano esattamente la glasnost cui affidare la propria professionalità e delegare queste prerogative. Le scuole dicono no, senza se e senza ma. Buon segno.

Corriere della Sera 1.2.11
I vizi dell’Università (e dell’Italia) Produciamo meno laureati del Cile
di Giuseppe Bedeschi


Il recentissimo rapporto presentato dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario conferma tutti i mali tradizionali dell’università, e anzi ce ne dà un quadro ancora più preoccupante, sul quale è opportuno riflettere. In primo luogo c’è un costante calo delle matricole: se nel 2003 i diplomati che si iscrivevano all’università erano il 74,5%, nel 2008-09 erano calati al 66%, e nel 2009-10 essi hanno registrato un ulteriore calo (ora siamo al 65,7%). Naturalmente, questo costante calo nelle iscrizioni da parte dei giovani diplomati va di pari passo con il calo del numero dei laureati, scesi a 293 mila, cioè meno del 13%rispetto a otto anni fa, quando furono più di 338 mila.
Inutile dire che si tratta di dati negativi, pienamente in linea con il quadro di «un Paese che non cresce da due decenni e in cui tutto sembra fermo» (per riprendere le parole di Alberto Alesina, scritte in un contesto più generale sul Sole24Ore del 28 gennaio). Una deriva alla quale non pongono rimedio né i governi di centrosinistra né i governi di centrodestra, nonostante i buoni propositi sempre conclamati. Nelle nostre università produciamo ormai meno laureati del Cile, come ha fatto rilevare tempo fa il ministro Gelmini (il che, con tutto il rispetto per il Cile, non è un dato esaltante). Cosa c’è all’origine di questo trend negativo? Per quanto riguarda gli ultimi anni c’è in primo luogo, naturalmente, la crisi economico-finanziaria internazionale che anche noi stiamo attraversando. Ma la crisi economica rende soltanto più pesanti alcuni vecchi vizi tipici dell’università italiana. Basti pensare al tasso di abbandoni che si registra nelle nostre università, nelle quali si laurea solo il 32,8%degli studenti che si sono iscritti (e quasi 2 studenti su 10 abbandonano già dopo il primo anno): con lo spreco di risorse che si può immaginare. Sono dati impressionanti, questi, che mostrano ancora una volta la decadenza e il degrado del nostro sistema universitario. Si tratta di una situazione prodotta in primo luogo da una illusione di promozione sociale: parecchi giovani, con le loro famiglie, pensano che la laurea, il «pezzo di carta» , darà loro il diritto di accedere a un posto ben remunerato (in ogni caso remunerato in misura superiore rispetto a un mestiere manuale). Ma molti di questi giovani, dopo essersi iscritti, abbandonano poi l’università, per disaffezione e mancanza di interessi, mentre quelli che riescono a laurearsi conseguono un titolo del tutto vuoto di contenuti culturali e scientifici (perché perseguito per soli motivi di carriera, scalando i vari gradini dell’ «esamificio» , in cui le nozioni apprese all’ultimo momento si perdono appena l’esame è finito). Ma è una situazione, quella attuale, prodotta anche da una università concepita e attuata come un ente assistenziale, in cui si può parcheggiare per lunghi anni, poiché le tasse sono basse (essendo la maggior parte dei costi universitari a carico dei contribuenti). In questo carattere assistenziale delle nostre università è da cercare anche la radice dello scarso impegno con cui un numero elevato di studenti le frequenta (o piuttosto non le frequenta, dato che nelle facoltà umanistiche solo una minoranza esigua è presente alle lezioni e ai seminari). Alberto Alesina ha ricordato che uno studio fatto su studenti dell’Università Bocconi dimostra che il rendimento degli studenti migliora quando aumentano le tasse universitarie pagate direttamente dalla famiglia dello studente stesso. «Invece, quando le rette universitarie vengono pagate dal contribuente, gli incentivi degli studenti si annacquano assai» . Sarebbe molto meglio, quindi, che le tasse fossero più elevate e al tempo stesso si mettessero a disposizione dei meritevoli molte borse di studio, «prestiti d’onore» , eccetera. La generale decadenza delle università statali (fatte salve, naturalmente, le isole di eccellenza, che pur ci sono) spiega perché gli studenti che conseguono un voto di maturità superiore a 90 si indirizzano sempre più largamente (come documenta con dati precisi Flavia Amabile sulla Stampa) verso università non statali, come la Luiss di Roma, la Bocconi di Milano, il Campus biomedico di Roma, il San Raffaele di Milano. A questi studenti, e alle loro famiglie, le lauree interessano non come «pezzi di carta» , ma per l’effettiva preparazione che esse garantiscono, la quale permetterà anche un più agevole inserimento nel lavoro. Si manifesta qui una concezione meritocratica, che fa ben sperare, anche se essa è in forte contrasto con la concezione assistenziale che domina largamente nel Paese e che ne determina il ristagno.

Corriere della Sera 1.2.11
Che errore l’accusa di antisionismo
La storia e la politica, Romano risponde al libro di Battista di Sergio Romano


Nel suo articolo sull’ultimo libro di Pierluigi Battista («Corriere» del 18 gennaio), Alessandro Piperno scrive che Lettera a un amico antisionista è una risposta alla Lettera a un amico ebreo che ho scritto poco meno di quindici anni fa. Il punto in discussione è quello del rapporto fra antisemitismo e antisionismo. È giusto sostenere che le due categorie siano in realtà le due facce di una stessa medaglia? Battista non accetta questa identificazione e crede che sia «il frutto di un eccesso polemico e di un’incomprensione che inchioda il pur discutibile snobismo di un tipico conservatore europeo a una vicenda infame e mostruosa» . Ma aggiunge: «Se pur gli antisionisti non sono tutti antisemiti senza sfumature, non c’è purtroppo antisionista che non sia prigioniero di un’ossessione che con l’antisemitismo, fatalmente, ha molte parentele» . Sarei quindi un antisionista ossessivo che viaggia in cattiva compagnia e corre continuamente il rischio di esserne contagiato. Confesso d’essere nella situazione d’una persona che guarda il proprio ritratto, dipinto da un eccellente pittore, e non riesce a riconoscere se stesso. Non credo di essere antisionista per almeno due ragioni. In primo luogo non sono mai riuscito a provare ostilità per un sistema di idee, tradizioni e convinzioni nel senso che la particella «anti» sembra comportare. Non sono antifascista perché la guerra contro i morti mi sembra un esercizio inutile. Non ero antisovietico negli anni della guerra fredda. E non sono anticlericale neppure quando il cardinale Ruini chiede agli italiani di disertare le urne. In secondo luogo il sionismo è una ideologia risorgimentale, nata dall’influenza di intellettuali come Giuseppe Mazzini che credevano nel sacrosanto diritto di ogni popolo al proprio Stato. Posso discutere il modo in cui questi Stati si sono comportati dopo la loro fondazione. Ma nei loro ideali vi erano sentimenti nobili e generosi a cui non potrei essere indifferente. Quando parlo di Israele, quindi, non metto in discussione le sue origini e la sua esistenza. Discuto invece il sionismo realizzato, vale a dire lo Stato sorto nel 1948, la sua configurazione e la sua politica. E constato alcune anomalie che hanno evidenti ricadute sulla situazione internazionale e rendono la questione palestinese terribilmente imbrogliata. La prima di esse è il suo anacronismo. Alla fine della Seconda guerra mondiale le migliori correnti politiche dell’Europa democratica credevano che occorresse seppellire una volta per tutte l’era dei nazionalismi identitari con il loro triste bagaglio di terre irredente, conflitti etnici e contenziosi territoriali. Non tutti gli Stati europei hanno vissuto all’altezza di queste aspirazioni, ma il metro su cui misurare le loro politiche è stato pur sempre, da allora, lo Stato di diritto, vale a dire lo Stato in cui il sentimento di appartenenza si chiama cittadinanza e il credo religioso o il colore della pelle non hanno alcuna rilevanza giuridica. Israele è una democrazia e uno Stato di diritto, ma è anche uno Stato identitario in cui la religione, per di più, ha assunto con il passare del tempo un ruolo crescente e discriminante. Se gli insediamenti nei territori occupati fossero soltanto un pegno che il governo israeliano tiene stretto nelle sue mani per giocarlo nel momento opportuno sul tavolo dei negoziati, non sarei preoccupato. Ma se gli insediamenti sono percepiti come un ritorno nelle terre perdute di Giudea e Samaria, la questione diventa molto più complicata. Battista ricorda nel suo libro il caloroso filosionismo di Martin Luther King. Ma i suoi sentimenti erano gli stessi di quegli evangelici americani — i «sionisti cristiani» — che considerano gli insediamenti una condizione indispensabile per la seconda venuta del Cristo. Con quali conseguenze per la questione palestinese è facile immaginare. Di fronte a posizioni di questo genere mi cascano le braccia e posso soltanto constatare che la politica è impotente. Esiste poi una seconda anomalia israeliana. Per Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, Israele era destinato a diventare la patria di quegli ebrei che avrebbero deciso di abitarvi. Per gli altri, invece, la sola strada auspicabile sarebbe stata quella dell’assimilazione. È accaduto invece l’imprevedibile. In primo luogo gli ebrei israeliani sono soltanto circa un terzo dell’ebraismo mondiale e il numero degli ebrei americani è di poco inferiore a quello dei cittadini di Israele. Lo Judenstaat, come lo definì Herzl, è quindi lo Stato di una minoranza ebraica. Non è sorprendente. Il Novecento non è stato soltanto il secolo del genocidio. È stato anche il secolo di uno straordinario rinascimento ebraico. Nel giro di poche generazioni le comunità ebraiche, anche quelle più introverse e derelitte dell’Europa orientale, hanno prodotto, insieme a una borghesia affluente di commercianti, imprenditori e professionisti, una eccezionale messe di studiosi, scienziati, artisti, letterati, giornalisti, professori di tutte le discipline accademiche, produttori cinematografici, impresari teatrali, attori, violinisti, pianisti, direttori d’orchestra, banchieri centrali, finanzieri, collezionisti e mecenati. Alcuni di essi hanno scelto di vivere nello Stato di Israele, ma la maggioranza ha preferito restare nel Paese che li aveva accolti e in cui i loro meriti erano stati riconosciuti. Sono perfettamente integrati, ma non assimilati nel senso raccomandato da Herzl. Non è grave. Alla parola assimilazione, considerata ormai con un certo sospetto, è largamente preferita oggi la parola integrazione. Herzl non aveva previsto, tuttavia, che la sua raccomandazione sarebbe stata capovolta e che Israele, anziché allentare i suoi legami con coloro che non avevano voluto diventare suoi cittadini, si sarebbe servito della diaspora come di una rappresentante permanente degli interessi israeliani all’estero. Il genocidio è senza dubbio il peggior crimine del secolo, molto più grave, per il modo scientifico con cui fu perpetrato, dei giganteschi massacri staliniani. Me se viene usato per zittire i critici d’Israele, corre il serio rischio di venire declassato a strumento politico. Il caso americano è particolarmente significativo. Ogniqualvolta il governo degli Stati Uniti si appresta ad adottare una linea politica sgradita a Israele, la lobby filoisraeliana (Aipac, American Israel Political Action Committee) scende in campo con tutte le forze e le alleanze (i cristiani sionisti) di cui dispone, e riesce generalmente a trasformare la maggiore potenza mondiale in un mediatore impotente. Che cosa accadrà il giorno in cui gli Stati Uniti si accorgeranno che gli interessi israeliani non sono sempre necessariamente quelli dell’America? Molti ebrei americani ne sono consapevoli e provano un evidente disagio. Se queste analisi e queste preoccupazione sono antisioniste, eccomi qui. Ma la definizione non mi convince.

Corriere della Sera 1.2.11
La Palestina nasce in Perù
di Maurizio Chierici


Era una tragedia annunciata, ma Stati Uniti ed Europa hanno fatto finta di niente fino a quando la rabbia della generazione Internet ruba la piazza all’islam e travolge le autocrazie. Novità dell’Egitto, tante donne in piazza: baciano e sfidano i soldati. Vogliono ricucire la speranza dopo 30 anni di una disattenzione affidata alle polizie. Da Tunisi al Libano degli hezbollah ormai al governo; dalla Giordania che traballa (quel re che si gioca a Las Vegas l’aereo di Stato) allo Yemen dei banditi del profeta, il mondo arabo cambia faccia mentre nel Sudan si preparano gli ultimi assalti di una guerra civile con un milione di morti alle spalle. Israele assediata dal caos preoccupa le nostre soffici città eppure il silenzio dei non innocenti continua a nascondere il cuore del disordine che da mezzo secolo sconvolge i popoli in fondo al Mediterraneo. Palestinesi sbeffeggiati negli appuntamenti di pace, rimandati, respinti, affogati da strategie disinteressate al dramma di donne mai considerate. Invasioni armate, “punizioni” al fosforo bianco, eppure le furbizie non cambiano e i profughi continuano ad aspettare. Quale futuro nella regione in fiamme? Ecco che l’altra America nella stagione del benessere prova a diventare protagonista. Comincia dal Medio Oriente. Il 16 febbraio, Lima ospita l’incontro tra 9 presidenti latini e 11 capi di stato arabi. Gli arabi del Sudamerica sono milioni in fuga dall’impero turco disfatto alla fine della Prima guerra mondiale. Lobby che pesa in politica e negli affari. La comunità cilena (300 mila commercianti, piccoli e grandi imprenditori) dà fiato all’economia. L’immensa moschea di Caracas nasce cinquant’anni fa appena il boom del petrolio scuote le gerarchie sociali. Impossibile fare il conto di quanti siro-libanesi siano dispersi nel Brasile continente, ma subito Dilma Rousseff segue le promesse di Lula: annuncia il riconoscimento dello Stato palestinese assieme ad Argentina, Cile, Bolivia, Ecuador, Uruguay e Paraguay. Venezuela e Cuba d’accordo. Le divisioni restano a proposito dei confini dentro i quali dovrebbe nascere la Palestina. Dilma conferma le frontiere tracciate dall’Onu nel ‘48: Gerusalemme orientale, Cisgiordania e Gaza liberate dalle truppe d’occupazione non importa se 60 anni dopo la geografia è cambiata. Israele dilaga nei Territori occupati, insediamenti che continuano a moltiplicarsi. Obama non riesce a fermare Netanyahu il quale dà via libera ai suoi coloni espropriando proprietà palestinesi. La sciagura dell’Iran della follia diventa alibi per le “conquiste”, mentre Usa ed Europa girano la testa. Irragionevole costringere Israele e le sue atomiche alla solitudine di chi ha diritto a confini sicuri, purtroppo non dice quali. Insomma, la spartizione Onu respinta nel ’48 dai paesi arabi, è diventata l’utopia impossibile. Washington e la Gerusalemme dei falchi fanno sapere di non accettare questo tipo di riconoscimento. Non lo accettano i paesi doppio filo con gli Usa: Cile e Perù firmano (ambasciatori e bandiere ai balconi) ma non sopportano gli antichi confini che ritengono irreali, e la politica delle erosioni quotidiane premia chi ha gonfiato Israele. I palestinesi devono rassegnarsi al sogno rimpicciolito. È l’ultima speranza: dura, paradossale eppure senza alternativa. Credo che la Palestina disegnata a Lima abbia il valore di una provocazione per scuotere l’ipocrisia delle potenze. Messaggio che il Brasile manda agli Stati Uniti. Ormai slegato dall’obbedienza, il grande paese attraversa il mondo col protagonismo del libero battitore. E i palestinesi diventano pretesto e vittime di una scommessa appena cominciata. Dilma Rousseff e Obama si parleranno in marzo; forse capiremo se le carte siglate a Lima sono la trama di un’ipotesi concreta o il teatro dei muscoli per chissà quali alleanze. Intanto gli arabi senza petrolio devono rassegnarsi alla pazienza.

La Stampa 1.2.11
Contro Allevi la rivolta dei blog di musica classica
Ieri ha aperto le celebrazioni di Italia 150 “Si è preferita l’immagine al talento”
di Michela Tamburrino


La protesta è tutta dell’etere. Lì nasce e lì prospera. Potere dei blogghisti che contestano pesantemente Giovanni Allevi e la Rai responsabile, a loro dire, di aver dato guazza all’aria gonfiata. L’idea è quella che un musicista come Allevi non possa essere elevato a rango di portabandiera della musica e che non avrebbe dovuto dirigere l’Inno di Mameli sul podio della gloriosa Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, in occasione della serata Fratelli d’Italia al Teatro Gobetti di Torino, promossa da Rai RadioUno nell’ambito delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia. E le dichiarazioni del musicista, invece di placare gli animi, hanno gettato benzina sul fuoco. «L’Inno di Mameli per me è come il Natale, fa parte della mia identità genetica e mi piace perché è pieno di slancio entusiastico. Stiamo vivendo un’epoca non di crisi ma di transizione verso un nuovo Rinascimento».
Niente da fare. Allora ecco che Gian Luigi Zampieri, direttore d’Orchestra e docente al Conservatorio di Musica «L. Refice» di Frosinone, lancia una petizione on line contro l’idea. E subito è subissato di adesioni: «La scelta dei vertici Rai di far rivisitare a Giovanni Allevi l’Inno di Mameli e di farglielo dirigere rappresenta l’acme della vergogna per la già bistrattata Cultura italica. A questo si aggiunga che l’operazione commerciale cui i vertici Rai si sono resi complici, comporta che per tutto il 2011 la versione Allevi del già troppo discusso nostro Inno nazionale sarà sigla di apertura dei programmi di Radio Rai con conseguente corresponsione di diritti Siae per aver revisionato il pezzo. Allevi è la peggior espressione del progetto di mediocrizzare il concetto di musica colta, un falso modello per i giovani che studiano musica dentro e fuori dai Conservatori, un ostacolo abnorme per chi opera, insegna, agisce nelle istituzioni musicali con serietà, preparazione e cultura». Ma è qui che il docente si sbaglia; Allevi non ha rivisitato l’Inno ma ha solo proposto la sua interpretazione di direttore, dunque decade il passaggio che riguarda i diritti Siae.
Eppure piace l’appello, e dunque lo fa suo, anche il maestro Ivan Fedele, compositore affermato, che alcune stagioni fa inaugurò con una sua opera il Maggio Musicale Fiorentino e ora è anche direttore artistico dei Pomeriggi Musicali di Milano. Lui opera un distinguo: «La petizione che ho firmato è contro il progetto non contro Allevi che neanche conosco di persona. L’iniziativa fa parte della promozione di un’idea della cultura mistificatoria. In un momento di crisi e di gravi tagli di spesa, quando i teatri non hanno le risorse base per sopravvivere, questo genere di operazioni mi paiono esagerate e francamente inappropriate. Spacciarle oltretutto per operazioni culturali è offensivo per chi la cultura la pratica veramente». Allora Allevi, fuori contesto, non è esecrabile? «A Giovanni Allevi attribuiscono in modo non innocente, qualità che non possiede. A una persona che sostiene di non avere un pianoforte in casa perché va in concerto e suona, si può solo rispondere “Si sente che non studia”. Bisogna distinguere i campi e non fare confusioni. Se lui si limitasse a musica di sottofondo, a lounge music, non commenterei, potrei solo dire che preferisco Brian Eno. Invece no, lui destabilizza i giovani ai quali si rivolge che credono di arrivare al successo semplicemente. Così si diffonde l’idea che studio e applicazione non servano a niente, che un Pollini o un Abbado perdano il loro tempo». Anche Massimiliano Génot, pianista e docente al Conservatorio di Torino è entrato in rete con la sua protesta attraverso il blog dei giovedì Musicali dell’Università di Torino: «Basta con la cialtroneria italiana giustificata e santificata dal successo di pubblico. C’è un’Italia musicale onesta, coscienziosa». Nonostante i tanti attacchi, all’Inno di Mameli diretto ieri sera da Allevi è stata tributata una standing ovation.