lunedì 31 gennaio 2011

La Stampa 31.1.11
La crisi del regime Mubarak (e quella dei nostri politologi)
di Marta Dassù


La crisi dell'Egitto è, per i politologi, l'equivalente di ciò che il crollo di Lehman Brothers è stato per gli economisti. Nessuno l'aveva prevista, in un ambiente che vive di previsioni (sbagliate) sui «dieci scenari da evitare nel 2011». Naturalmente si dirà che non è così, perché in un numero speciale della rivista del Centro di Informazione sul Nulla, la successione a Hosni Mubarak era stata segnalata come una tappa critica. Ma la verità è esattamente questa: anche i politologi, come gli economisti, fanno una enorme fatica a immaginare i tempi e i modi in cui si manifesterà una crisi. Non è una novità, certo. Pochissimi avevano previsto il crollo dell’Urss. La cosa mi è tornata in mente quando Barack Obama ha evocato, nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione, lo choc dello Sputnik. Per essere onesti, non mi è sembrata una grande trovata: mezzo secolo dopo, la sindrome Sputnik evoca soprattutto la fragilità dell’Urss, più che la solidità dell’America. In ogni caso, dal lancio dello Sputnik fino al crollo del Muro di Berlino, ben poche analisi avevano anticipato lo scenario dell’implosione del sistema sovietico. Anche il 1979 iraniano non era stato previsto da molti; soprattutto, non era stato previsto che le proteste del partito comunista e dell’élite borghese-intellettuale dell’Iran, combinate con la rabbia degli emarginati, producessero il trionfo degli ayatollah. Oggi, il precedente iraniano viene applicato all'Egitto; la previsione dominante, infatti, è che il crollo del regime di Mubarak preparerà l'avvento delle forze islamiche, travestite da Fratelli musulmani. Ma possiamo davvero leggere il futuro del maggiore Paese del mondo arabo con la testa rivolta al precedente persiano?
Questo è un altro bel guaio, in effetti: la tentazione, nelle analisi di politica internazionale, è sempre di ragionare sulla base della crisi precedente. La guerra in Iraq è stata gestita con in mano il manuale dell’intervento in Kosovo del 1999, cosa che certo non è stata di aiuto. La strategia di uscita dall’Afghanistan tiene conto del precedente iracheno, sebbene l'Afghanistan sia un teatro molto diverso dall’Iraq. E così via, con una coazione a ripetere che è l'altra faccia della medaglia della scarsa capacità di prevedere.
Si potrebbe obiettare, a questa visione pessimistica, che qualcuno che sa prevedere c'è, ma non ce ne accorgiamo: qualche professore che non viene invitato a Davos, qualche specialista che non pubblica mai sul Financial Times. E' vero. E qui si torna al famoso dibattito nato di fronte agli errori di valutazione compiuti sull’Iraq: esiste davvero la voglia di ascoltare una expertise che non confermi le scelte politiche? C'è anche il caso dei «dissidenti», i quali credono per definizione nel crollo del regime che li opprime. Peccato che venga data loro ragione solo quando il famoso crollo si verifica davvero. Fino a quando un regime viene sostenuto per ragioni di realpolitik - e nel caso dell’Egitto le ragioni erano e rimangono decisamente importanti: il Paese centrale del mondo arabo, in pace con Israele e alleato degli Stati Uniti - i dissidenti sono soprattutto gente scomoda.
Conclusione? Nello stesso modo in cui la crisi finanziaria del 2008 ha generato un dibattito fra gli economisti, la crisi mediorientale del 2011 dovrebbe generare una riflessione fra i politologi. E' indubbio che il problema del cambiamento politico e sociale sia in ogni caso difficile da leggere e da interpretare. Ma questa scarsa capacità di prevedere ha molto a che fare, io credo, con la nostra abitudine a studiare i regimi, più che i Paesi. Se decidessimo che anche i Paesi contano - la gente, non solo i potenti - le nostre analisi sarebbero migliori, probabilmente. E con loro, anche scelte di politica estera per troppi anni rivolte a sostenere regimi amici, ma nemici della loro gente.

Repubblica 31.1.11
Così i giovani egiziani stanno costruendo una nuova Primavera
Lo scrittore Al Aswany in piazza con gli studenti
di Alaa Al Aswany


Abbiamo una grande forza: il nostro coraggio, la nostra fede nella libertà
I protagonisti della rivolta sono per lo più universitari senza alcuna speranza di un futuro
Il regime ha tolto tutto ai cittadini senza coprire in alcun modo le loro necessità giornaliere

E´ stata per me una giornata indimenticabile. Martedì scorso, al Cairo, mi sono unito ai manifestanti, a una folla di centinaia di migliaia di egiziani provenienti da tutto il Paese, che hanno invaso le strade della capitale chiedendo la libertà, e affrontando impavidi la temibile violenza della polizia. Il regime dispone di un apparato di sicurezza di un milione e cinquecentomila uomini, e investe enormi somme per addestrarli a un solo ed unico compito: quello di reprimere la popolazione egiziana.
Mi sono trovato tra centinaia di migliaia di giovani, accomunati solo da un incredibile coraggio e dalla determinazione a ottenere un cambio di regime. Sono per lo più studenti universitari senza alcuna speranza di un futuro, consapevoli di non poter trovare un lavoro né formarsi una famiglia, motivati da un´ira indomabile, da un profondo sdegno di fronte all´ingiustizia.
Non cesserò mai di ammirare questi rivoluzionari che in ogni loro parola rivelano un´acuta coscienza politica, un desiderio di libertà che sfida la morte. Mi hanno chiesto di pronunciare un breve discorso. Benché avessi parlato in pubblico centinaia di volte, qui tutto era diverso: mi trovavo davanti a 30.000 manifestanti poco disponibili a sentir parlare di compromessi, che non cessavano di interrompermi gridando: «Abbasso Hosni Mubarak!» o «Il popolo dice: fuori il regime!»
Dichiarai che ero fiero di quanto erano riusciti a ottenere, ponendo fine a un regime repressivo dopo aver affrontato senza timore i colpi e le minacce di arresto; si erano dimostrati più forti di un apparato poliziesco che pure dispone dei mezzi repressivi più feroci del mondo. Ma noi, ho aggiunto, abbiamo una forza più grande: il nostro coraggio, la nostra fede nella libertà. La folla ha risposto gridando all´unisono: «Andremo fino in fondo!»
Ero in compagnia di un amico, un giornalista spagnolo che era stato per molti anni nell´Europa dell´Est. Da testimone dei movimenti di liberazione di quei Paesi, ha aggiunto: «So per esperienza che quando si è in tanti a scendere in piazza, e con tanta determinazione, il cambio di regime è solo questione di tempo.»
Perché questa rivolta degli egiziani? La risposta sta nella natura del regime. Si sono visti governi dispotici che hanno privato un popolo della libertà, offrendogli però in cambio un´esistenza tutelata; e governi democratici incapaci di eliminare la povertà, che però non hanno privato la popolazione della sua libertà e dignità. Mentre il regime egiziano ha tolto tutto ai suoi cittadini, compresa la libertà e la dignità, senza coprire in alcun modo le loro necessità quotidiane. Le centinaia di migliaia di manifestanti che hanno invaso le strade del Cairo sono solo una rappresentanza dei milioni di egiziani privati dei propri diritti.
In Egitto gli appelli pubblici alle riforme hanno preceduto di molto la sollevazione in Tunisia, ma certo gli eventi di quest´ultimo Paese hanno costituito un detonatore. La gente si è resa chiaramente conto che alla lunga nessun apparato di sicurezza basta a proteggere un dittatore. Noi egiziani eravamo anche più motivati dei tunisini, dato che nel nostro Paese la popolazione indigente è più numerosa, e il regime repressivo è al potere ormai da troppo tempo. Se a un dato momento la paura ha indotto Ben Ali a fuggire da Tunisi, la stessa cosa avrebbe potuto accadere da noi. Sulle piazze del Cairo si è sentito riecheggiare, in francese, lo stesso slogan coniato dai tunisini: «Dégage, Mubarak». E la rivolta si sta estendendo ad altri Stati arabi, quali lo Yemen.
Ormai le autorità si rendono conto che le loro tattiche non possono fermare le proteste. Le manifestazioni sono state organizzate tramite Facebook, che si è rivelato una fonte di informazioni affidabile e indipendente. Quando lo Stato ha tentato di bloccarla, i blogger hanno dato prova di grande inventiva per eludere i controlli. E oltre tutto, la violenza dei servizi di sicurezza può trasformarsi in un boomerang: a Suez la popolazione è insorta contro la polizia che aveva sparato sui manifestanti. La storia dimostra che a un dato momento, gli stessi agenti rifiutano di eseguire l´ordine di uccidere i loro concittadini.
Sono molti i comuni cittadini che oggi sfidano i poliziotti. Un giovane manifestante mi ha raccontato che martedì scorso, alle quattro del mattino, fuggendo dalla polizia, era entrato in una casa e aveva suonato a caso alla porta di un appartamento. Gli aveva aperto un uomo sulla sessantina, visibilmente impaurito. Al giovane che lo pregava di nasconderlo aveva chiesto un documento d´identità; e subito lo aveva fatto entrare, svegliando una delle sue tre figlie perché gli preparasse qualcosa da mangiare. Dopo di che si erano messi a tavola insieme, mangiando, bevendo tè e chiacchierando come vecchi amici.
Al mattino, passato il pericolo per il giovane manifestante, l´ospite lo ha accompagnato fin sulla strada e ha fermato un taxi, offrendogli anche un po´ di denaro. Il giovane ha rifiutato ringraziando, ma l´anziano, abbracciandolo, gli ha detto: «Sono io che devo ringraziarti per aver difeso me, le mie figlie e tutto il nostro popolo».
Ecco com´è iniziata la primavera egiziana. Domani assisteremo a una vera battaglia.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)


La Stampa 31.1.11
Sciogliere le Camere? Costituzionalisti divisi
Il precedente siglato da Scalfaro. Rodotà: la tensione salirebbe
di Antonella Rampino

Ma nella notte che la Repubblica sta attraversando, può essere una soluzione lo scioglimento delle Camere da parte di Giorgio Napolitano, esercitando quel potere esclusivo che la Costituzione gli riserva all’articolo 88? Oscar Luigi Scalfaro lo fece, nel 1994, e nacque il Berlusconi I. Il precedente risale ai tempi di Tangentopoli - una crisi più volte paragonata per violenza a questa - quando il governo «tecnico» di Carlo Azeglio Ciampi aveva esaurito la sua missione di tirar l’Italia fuori da quel maremoto politico. Un precedente valido per l’oggi, dice il professor Paolo Armaroli, studioso dei sistemi costituzionali e del loro equilibrio. «Siamo in uno scontro istituzionale senza precedenti, con il premier contro il presidente della Camera, il presidente della Camera contro il premier e contro il presidente del Senato e il ministro degli Esteri. E il Parlamento che non è in condizione di legiferare». Una situazione d’emergenza, contro la quale nulla potrebbe anche il parere negativo dei presidenti di Camera e Senato, «la Iotti disse più volte a Scalfaro che era contraria, ma Scalfaro sciolse le Camere ugualmente», ricorda Armaroli. Eppure, «proprio per la presenza di una conflittualità altissima e, mi lasci dire, indecente, il ricorso all’articolo 88 può portare la tensione oltre il livello di guardia: la maggioranza già grida al colpo di Stato per molto meno che non le elezioni anticipate», dice invece il giurista Stefano Rodotà, che in un tempo lontano fu anche parlamentare della sinistra indipendente. E secondo il quale il precedente del ’94 non vale, «poiché Ciampi disse esplicitamente che non voleva più andare avanti, che riteneva esaurito il proprio compito essendo anche stata varata la nuova legge elettorale, il Mattarellum».
Il nodo del contendere è poi quel che l’articolo 88 della Costituzione non dice: il provvedimento va controfirmato dal presidente del Consiglio. «Non si può esercitare il potere previsto dall’articolo 88 senza la controfirma del presidente del Consiglio, oltre al fatto che nella prassi italiana per lo scioglimento è sempre stata chiara la mancata maggioranza in Parlamento», dice lapidario l’ex presidente della Consulta Valerio Onida. «E’ il presidente del Consiglio che per quello che ha fatto e detto, e non in forza di giudizi morali o di accuse giudiziarie, dovrebbe dimettersi, e invece non lo fa». Ma di fronte a questo, a suo avviso, non c’è che una strada: «Deve essere la sua stessa maggioranza a togliergli il sostegno in Parlamento». La via politica, prima ancora che costituzionale, anche se Napolitano può certo brandire l’articolo 88 per ulteriore «moral suasion», come di fatto sta già accadendo nei colloqui riservati. «Indubbiamente la prassi vuole che vi sia accordo tra le forze politiche, e non esistono solo quelle di maggioranza, per l’esercizio del potere di scioglimento», dice invece il costituzionalista Giorgio Rebuffa, che fu uno dei protagonisti della stagione dei professori di centrodestra, «ma questa è per l’Italia una situazione del tutto eccezionale, e nella quale è lampante l’impossibilità del capo del governo a governare, e del Parlamento a legiferare. Una situazione pericolosa per la sicurezza nazionale, come mi pare dica anche il presidente del Copasir». Poi il professor Rebuffa racconta una storia. «Era il 1963, e si scoprì che - forse - il ministro della Difesa britannico, tal Profumo, aveva una relazione intima con una elegante signora, non certo una prostituta, che precedentemente era stata - forse - legata a un addetto della marina sovietica. Ebbene, il premier Macmillan cacciò immediatamente il ministro, per evitare che a dover dare le dimissioni dovesse essere tutto il governo». L’apologo sul famoso «scandalo Profumo» rende bene il precipizio nel quale si trova la dignità delle istituzioni italiane, e soprattutto, aggiunge Rebuffa, «l’articolo 88 è stato scritto per proteggere il sistema parlamentare, dà al Presidente della Repubblica anche quella responsabilità». Altrimenti, aggiunge funesto, «per debolezza e pavidità le istituzioni italiane potrebbero anche finire come la Germania del maresciallo Hindenburg...».

l'Unità 31.1.11
Pannella, non lo fare
Berlusconi lo corteggia


È stato «un colloquio utile e costruttivo. Concordo con l’amico e leader radicale Marco Pannella che ha definito così il nostro incontro di ieri. Abbiamo parlato di riforme condivisibili, a cominciare dalla giustizia». Lo ha
detto Berlusconi. Ma l’allargamento ai radicali della maggioranza è utopico.

Repubblica 31.1.11
L'etica relativa di un Paese indulgente
di Ilvo Diamanti


Il berlusconismo è insofferenza alle regole. E non finirà con l´uscita di scena di Berlusconi
La popolarità del premier resta bassa ma una parte della società "ammira" il suo libertinaggio

È probabile che i recenti scandali abbiano eroso ulteriormente la popolarità di Berlusconi. Che, dopo la scorsa estate, si era già sensibilmente ridimensionata. Non più del 35-36% degli italiani, infatti, valuta il suo operato con un voto uguale o superiore a 6.
Cioè: la sufficienza. Tuttavia, non bisogna pensare che i nuovi scandali producano effetti immediati e visibili anche sul piano del consenso elettorale. In primo luogo perché parte dei consensi perduti dal Pdl vengono drenati dalla Lega. (E occorrerebbe un´opposizione davvero competitiva.) Poi, perché sarebbe errato pensare che Berlusconi abbia costruito il proprio consenso su valori specifici e "originali", imposti da lui. In parte è vero il contrario. Berlusconi ha, semmai, intercettato un sentimento comune che gli pre-esisteva. Attraverso l´azione personale e mediatica. Da un lato, ha riprodotto la passione degli italiani per "l´arte di arrangiarsi". Il distintivo nazionale, insieme all´attaccamento alla famiglia (come dimostrano le indagini condotte da Demos e liMes, negli ultimi vent´anni). Berlusconi lo ha esibito con orgoglio. L´uomo dei fatti, che si è fatto da sé. Imprenditore ingegnoso, riluttante alle regole e a chi le impone. Lo Stato, il pubblico, la sinistra, i comunisti. Sinonimi.
D´altra parte, Berlusconi ha captato il relativismo etico diffuso nella società. Esisteva già prima - e da molto tempo. Lui si è dedicato, con impegno e passione, a praticarlo. In modo aperto e palese. Senza vergognarsene. In passato, gli uomini politici coltivavano i loro vizi privati nell´ombra. Nel retroscena. Lui no. Ne ha fatto sfoggio. Nelle sue ville e nelle sue residenze si è sempre assistito a un viavai di ragazze e di persone appariscenti. A feste rutilanti. Non propriamente coerenti con l´immagine pubblica di un uomo di Stato. Difficile, peraltro, invocare il diritto alla privacy, visto che il Premier ha trasformato le sue residenze "private" in luoghi di rappresentanza "pubblica" e ufficiale. Dove si svolgono incontri e attività di governo. Dove vengono ricevuti Presidenti, sovrani e leader di altri Paesi. Difficile, anche perché Berlusconi ha costruito il consenso sul privato esibito in pubblico.
Tuttavia, le avventure "private" del Premier non hanno traumatizzato gli italiani. Non tutti, almeno. Utilizzando alcune indagini dell´Atlante Politico condotte fra novembre e dicembre, abbiamo costruito una mappa delle opinioni degli italiani verso gli atteggiamenti e gli stili di vita del Premier. Ne abbiamo ricavato 5 tipi. Due dei quali decisamente negativi. A) Gli "indignati": ritengono offensivi gli atteggiamenti di Berlusconi (verso la famiglia, le donne e gli omosessuali). Costituiscono il 22% degli italiani (intervistati). B) Largamente "critici" si dicono, inoltre, il 32% dei cittadini. C) All´opposto, troviamo un gruppo di "ultrà" del Premier. I "tifosi", limitati al 5%, sono schierati - senza se e senza ma - accanto a lui. Qualunque cosa egli dica o faccia. D) Accanto ai tifosi incontriamo una componente ampia e significativa, pari al 16%, di "ammiratori". Anch´essi sostengono il Premier e ne approvano le parole e le opere. Il privato del Premier - in particolare - non li sconcerta. Essi, anzi, lo approvano, anche se con qualche - lieve - distinguo. Come i "tifosi", non credono fino in fondo a queste notizie. Pensano a un complotto dei magistrati e dei comunisti. Dei magistrati comunisti.
Tra queste posizioni antagoniste, galleggia una porzione ampia della popolazione. E) Un italiano su quattro, infatti, si dimostra "indulgente". Giudica, cioè, i comportamenti e gli atteggiamenti di Berlusconi "discutibili ma non gravi". Li disapprova senza condannarli. Anche sotto il profilo etico, quindi, Berlusconi divide gli italiani a metà. O forse è vero il contrario: Berlusconi ha captato e riprodotto le divisioni (e le debolezze) "etiche" degli italiani. Pubbliche e private. Che fanno guardare con indulgenza e perfino aperta approvazione le storie di donne e donnine, ragazze e ragazzine in cui è coinvolto, di continuo, il Premier.
Va detto che gli orientamenti complici e comprensivi riflettono le divisioni politiche. Per cui crescono sensibilmente nel passaggio da sinistra a destra. Ma sono, comunque, diffusi anche tra gli elettori di opposizione. Visto che il 17% degli elettori del Pd si mostra "indulgente" verso il Premier e un ulteriore 7% esprime "ammirazione" per le gesta del Premier. Orientamenti ancor più condivisi nella base dell´Udc. D´altronde, neppure l´identità cattolica scava una distanza etica profonda rispetto a questi atteggiamenti. Il 28% dei cattolici praticanti, infatti, si dichiara indulgente verso i comportamenti del Premier, il 22% li approva senza riserve. E la quota delle ragazze più giovani (18-29 anni) che ritiene offensivo l´atteggiamento di Berlusconi verso le donne è ridotta: poco più di un terzo. Appaiono, cioè, molto più indulgenti rispetto ai "giovani" uomini.
Ripetiamo: si tratta di una mappa ricostruita in base a sondaggi condotti un paio di mesi fa. Prima delle recenti inchieste e intercettazioni, legate all´accusa di sfruttamento della prostituzione minorile. Mi sembra possibile e, anzi, probabile, che gli ultimi eventi abbiano peggiorato l´immagine del Premier e della sua coalizione. Tuttavia, gli scandali inseguono Berlusconi ormai da quasi due anni. E la vicenda di Ruby Rubacuori è esplosa più di tre mesi fa. Inoltre, l´informazione su questi fatti è filtrata e rielaborata dai media pubblici e privati più popolari in modo spesso reticente. Peraltro, come abbiamo già detto, è da mesi che la popolarità del Premier è bassa. Espressa da poco più di un terzo degli elettori. E quindi da una quota di persone inferiore a coloro che dimostrano indulgenza oppure ammirazione nei confronti delle sue "imprese" con le donne.
Ciò conferma che Berlusconi, in una certa misura, abbia intercettato una corrente d´opinione di lungo periodo. Un relativismo etico, che riguarda la concezione della donna e del suo ruolo. Nella società, nella famiglia, nelle relazioni di genere. Insieme a un sentimento omofobo, mai dissimulato. Oltre a una diffidenza radicata verso le istituzioni e le regole pubbliche. Berlusconi non ha "inventato" questi atteggiamenti e questi modelli etici, trasferendoli agli italiani attraverso i media. Li ha, invece, "rappresentati" (cioè: ha dato loro rappresentanza e rappresentazione). E li ha, inoltre, amplificati. Legittimati. Imposti come modelli (e consumi) di successo. Liberarsi di Berlusconi, per questo, non basterà a liberarci dal berlusconismo. Perché è un´anomalia che abita in noi, nella nostra storia e nella nostra società. "Curarlo" non sarà facile. Dovremo curare anche noi stessi.

Repubblica 31.1.11
Le donne dicono basta Se non ora, quando?
di Michela Marzano


Bella immagine dell´Italia! Per chi sembrava ossessionato dall´idea che ci si poteva fare all´estero del nostro Paese, accusando alcuni intellettuali di "tradire l´Italia" con i propri libri e i propri articoli, il risultato è eccellente.
Perché ovunque, ormai, non si parla d´altro che delle serate "bunga-bunga" del nostro premier. Di Ruby e di Iris. Di seni e di raccomandazioni. Di prostitute minorenni "ricoperte d´oro" per tenere la bocca chiusa… Bella immagine della donna. Ma anche dell´Italia, che per anni ha chiuso gli occhi di fronte al baratro in cui le donne stavano precipitando. Perché ormai non si tratta nemmeno più della semplice trasformazione della donna in un corpo-immagine, ma della sua progressiva e inevitabile riduzione ad un corpo "usa e getta". Ormai ci siamo. Di nuovo impigliati nelle patetiche reti degli Arcana Imperii: segreti, corruzione, orge. Forse è per questo che non si può più restare zitti, e che nei prossimi giorni ci saranno numerosi appuntamenti per dire "basta". Basta, lo diranno tra gli altri Eco, Saviano e Zagrebelsky il 5 febbraio a Milano, durante la manifestazione organizzata da Libertà e Giustizia. Basta, lo ripeterà il giorno dopo il Popolo Viola. Basta, lo dirà la Procura di Milano, lo scandiranno tantissime donne, in tutte le città italiane, il 13 febbraio… Il re è ormai nudo. Se non scendiamo in piazza ora per difendere dignità, uguaglianza e rispetto, quando?
Negli ultimi anni, sembra di aver assistito ad un film X senza fine. Un interminabile film pornografico in cui tutto si riduce a "ripetizione", "performance" e "accumulazione". In cui uomini e donne sono perfettamente complementari: attività e passività; potere e disponibilità. In cui si moltiplicano le scene dove "i maschi si accaniscono su un pezzo di carne femminile", per usare le parole di John B. Root, il celebre produttore francese di film X, quando descrive la propria "opera". In cui "una vale l´altra", l´una "scaccia" l´altra, e nessuna, in fondo, conta granché. Perché sono solo gingilli intercambiabili. E quando qualcuna non serve più, c´è subito una new entry. Peccato, però, che non si tratti di una semplice fiction. Peccato che sia la fotografia, questa volta non ritoccata dal nostro premier, dell´Italia di oggi…
Ed è inutile che qualche moralista da strapazzo commenti cinicamente che tutto ciò non è altro che il risultato della liberazione sessuale, la conseguenza inevitabile dell´io sono mia. Perché quando le donne si sono battute per rivendicare la libertà di disposizione del proprio corpo, lo scopo era quello di riappropriarsi del proprio destino, di diventare attrici della propria vita, di evitare che altri decidessero al posto loro come vivere, cosa fare, come comportarsi. Ma affinché la libertà non resti solo un valore astratto e non si trasformi, col tempo, in una nuova forma di "servitù volontaria", come spiegava già nel XVI secolo il filosofo francese Etienne de La Boétie, è necessario organizzare le condizioni adatte al suo esercizio, prima tra le quali l´uguaglianza. Se le donne non hanno gli stessi diritti che hanno gli uomini e se non hanno la possibilità materiale di farli valere, automaticamente non possono essere libere di scegliere ciò che vogliono o di realizzare ciò che desiderano. Che libertà esiste allora in un paese che tratta le donne come merce, che le umilia quando si ribellano, che le "ricopre d´oro" quando si prostituiscono ancora minorenni perché tacciano?
Dal "sii bella e stai zitta" siamo arrivati al "venditi e taci": dimenticati di essere una persona, spogliati, fammi gioire ed io farò di te una donna ricca e famosa! Se fai la brava, potresti anche ottenere un seggio in parlamento… Non c´è bisogno di essere filosofi per rendersi conto del ricatto. Per capire quanto disprezzo circonda oggi la donna. Come se, nonostante tutte le battaglie fatte nel corso degli anni Sessanta e Settanta per garantire alla donna uguaglianza e dignità, per liberarla dal giogo millenario della sottomissione e dell´inferiorità, la donna non potesse essere altro che un oggetto di cui l´uomo deve poter disporre a piacimento. "Tutto" è semplice. "Tutto" va da sé. Inutile perdere tempo con ridicole manfrine…
Quello che ognuno di noi fa nella propria camera da letto, col proprio uomo o con la propria donna, non riguarda nessuno. Ma quando la sessualità diventa una tangente, quando si utilizza il proprio potere per fare della donna un giocattolo, quando si pensa di farla franca perché in fondo le donne non contano niente… allora è in atto un processo di disintegrazione della società. Perché, per parafrasare Albert Camus, il valore di una società dipende anche da come vengono trattate le donne. Dall´immagine che se ne ha. Dal margine di manovra di cui dispongono. Come giudicare allora un paese in cui, trattando la donna come una semplice merce, vengono umiliare tutte coloro che si battono quotidianamente per difendere la propria dignità, per acquisire le competenze necessarie per ottenere posti di responsabilità, per mostrare che sono efficienti e affidabili? "Più è disperata meglio è, per lui", avrebbe detto Nicole Minetti, oggi indagata con il premier per induzione alla pornografia. Bella lezione di civiltà per le nostre giovani!
Ma ormai il tempo del silenzio è finito. Perché le donne che si indignano sono sempre più numerose e vogliono farlo sapere. E molte si stanno mobilizzando per la manifestazione del 13 febbraio in tutte le città italiane. Le organizzatrici hanno d´altronde ragione: se non ora, quando? Nonostante le intimidazioni. Nonostante le derisioni. "È tutta colpa della gnocca", sproloquiava Il Giornale qualche mese fa. "Scusi in che senso?" chiedevo a Feltri recentemente durante una puntata dell´Infedele. Ma l´Italia di oggi è ancora questo. Cambiare le carte in tavola. Far passare gli aguzzini per le vittime. Colpevolizzare di nuovo, e sempre, le donne. Dopo aver rubato loro l´anima. Dopo averle ridotte a "corpi usa e getta". Allora sì, è il momento di reagire e di trasformare l´indignazione in azione. Se non ora, quando?

Repubblica 31.1.11
Tute blu, orari e contratti a confronto Fiat e Chrysler "sognano" la Germania
Tra le differenze che caratterizzano le tre aziende, un diverso concetto di diritto di sciopero
Tutti i dati della ricerca realizzata dall´associazione "Lavoro e welfare"
di Paolo Griseri


TORINO - Hans, John e Francesco indossano la tuta blu da trent´anni. Producono automobili a Wolfsburg, quartier generale della Volkswagen, Detroit, dove ha sede la Chrysler, e a Mirafiori, cuore del sistema Fiat. Hanno contratti molto diversi tra loro. Francesco teme di fare la fine di John e spera di vivere un giorno come Hans. Hans si difende dall´incubo di finire come gli altri due. John considera Francesco un privilegiato e spera che perda un po´ di salario per poter trasferire in America il denaro sufficiente a pagargli il dentista nei prossimi anni. Il sugo della storiella è che Hans, John e Francesco non si incontrano mai e per questo si fanno la guerra.
Il confronto tra i contratti di Fiat, Chrysler e Volkswagen è stato promosso dall´associazione «Lavoro e Welfare» presieduta dall´ex ministro del lavoro, Cesare Damiano. I risultati della ricerca vengono presentati oggi pomeriggio alle 18 nei locali della sede nazionale del Pd a Roma. Lo storico Giuseppe Berta ha analizzato il contratto di Detroit, Piero Pessa ha studiato l´accordo di Mirafiori mentre Francescantonio Garippo, del consiglio di fabbrica di Wolfsburg, illustra il contratto Volkswagen.
John ha perso molto con la crisi Chrysler di due anni fa. Ciononostante John fa più pause di Francesco: in Chrysler ci si ferma 5 minuti ogni ora lavorata. Questo significa che John si ferma 40 minuti perché lavora 8 ore. Francesco, che ne lavora solo 7,30 (perché ha la mezz´ora di mensa retribuita) si ferma 30 minuti mentre se fosse a Detroit avrebbe diritto a 37,5 minuti. Hans si ferma più di tutti: perché ai 35 minuti di pausa pagata ne aggiunge 20 di pausa non retribuita. Se vogliamo aggiungere ai 30 minuti di pausa di Francesco la mezz´ora della mensa, l´italiano si ferma un´ora, il tedesco un´ora e 5 minuti e il povero John è ultimo con 40 minuti. Dagli studi comparativi dei ricercatori è chiaro che per Francesco l´America è in Germania. Dove il sindacato è forte. La settimana lavorativa di Hans dipende dalla produzione: può essere di 25 ore o di 33 (per chi è stato assunto dopo il 2005, di 35). Il salario è sempre uguale: «Questo - spiega Garippo - è il motivo per cui le aziende non riducono la produzione in Germania trasferendola altrove. Perché anche se la produzione scende i salari vanno pagati lo stesso». Ogni ora di straordinario viene contrattata con il consiglio di fabbrica. A Mirafiori invece la settimana lavorativa è di 40 ore ma l´azienda può ordinare 120 ore annue di straordinario senza trattative.
Un altro punto che divide le tre tute blu è il diritto di sciopero. John non ce l´ha: fino al 2015 non se ne parla. Francesco può scioperare solo su materie non regolate dal contratto di lavoro (che è molto dettagliato). Hans lo sciopero lo può fare se il 75 per cento degli iscritti al suo sindacato lo approva. A Wolfsburg la Ig metall rappresenta il 96 per cento dei dipendenti. Ma spesso rappresenta solo la metà dei lavoratori: così una minoranza può votare lo sciopero. Per 52 giorni dall´inizio di una vertenza non si potrebbe scioperare. Ma le aziende tollerano fermate spontanee.
Ovviamente anche sul salario le differenze sono enormi. John porta a casa 1.300 euro ma deve pagarsi la pensione e l´assistenza sanitaria. Francesco ha una busta paga netta di 1.200 euro ma sta meglio di John perché ha la mutua e la pensione. Hans guarda tutti dall´alto: con una settimana di notte e un figlio porta a casa 3.700 euro lordi, 2.500 netti. Un ultimo particolare: l´azienda di Hans contende a Toyota e Gm la leadership mondiale.

La Stampa 31.1.11
Ebrei e palestinesi, la pace può nascere dalle tragedie
Per anni lo scontro ha portato a negare la Shoah o a minimizzare la Nakbah Ci sarà un futuro solo con l’accettazione della storia e dei due Stati in Palestina
di Abraham B. Yehoshua


FATTORI INDIVISIBILI L’Olocausto è stato possibile perché non c’era Israele Senza, potrebbe ripetersi
DESTINI COMUNI La «catastrofe» palestinese è dolorosa, anche se non è comparabile alla Shoah
SACRIFICI DA CONDIVIDERE Non è ammissibile che un popolo ritrovi la propria patria a spese di un altro
DIVISIONE INEVITABILE Creare due Stati darebbe ai palestinesi autorità morale I vantaggi sarebbero enormi


Nakbah Nakbah è la parola usata nel mondo arabo per indicare l’esodo forzato della popolazione araba dalla Palestina dopo la proclamazione dello Stato di Israele nel 1948. Significa «catastrofe». I profughi della Nakbah sono calcolati in 750 mila circa: i loro discendenti sono oltre 4 milioni. Il giorno della Nakbah viene celebrato il 15 maggio. Un campo profughi palestinese nel 1948
Shoah Il termine ebraico Shoah significa «disastro, desolazione, catastrofe». Viene comunemente usato per indicare lo sterminio degli ebrei che vivevano in Europa prima della Seconda guerra mondiale da parte della Germania nazista. Le stime degli ebrei uccisi variano da un minimo di 5 a un massimo di 7 milioni. Prima della guerra vivevano in Europa circa 11 milioni di ebrei. Immagine simbolo delle deportazioni degli ebrei

Commemorazione della Shoah: lo sterminio degli ebrei in Europa è uno dei fattori decisivi per la nascita di Israele, per questo settori del mondo arabo continuano a negarlo

Israele, il giovane Stato ebraico fondato nel 1948, trasse dalla Shoah una forte spinta per la propria esistenza. Gli arabi, con loro sorpresa, si resero conto che il terribile sterminio aveva rafforzato gli ebrei sopravvissuti riunitisi in Palestina anziché indebolirli. E questi ultimi, ora che avevano l’opportunità di impugnare le armi per difendersi, compresero quale terribile prezzo paga un popolo senza patria e privo di sovranità e respinsero l’attacco arabo con fermezza, spirito di solidarietà e di sacrificio, annettendo anche parti della Palestina non destinate a loro secondo il piano di spartizione delle Nazioni Unite.
L’incredulità e la delusione degli arabi dinanzi alla sconfitta fece scaturire, come meccanismo di difesa, tre reazioni complesse verso la Shoah. Ciascuna, a modo suo, problematica.
Innanzi tutto crebbero l’ostilità e la rabbia nei confronti degli europei e della civiltà occidentale in generale, colpevoli di aver dato una mano a fondare uno Stato ebraico e di continuare a sostenerlo espiando così i propri peccati a spese delle sofferenze del popolo palestinese, che non aveva nessuna colpa di ciò che era successo durante la Shoah. Da questi sentimenti scaturì un'aspirazione a minimizzare la gravità degli orrori della Shoah fino a negarla del tutto. Gli arabi cominciarono a biasimare gli europei per essersi affrettati ad aiutare gli ebrei a fondare uno Stato, nonostante gli orrori della Shoah non fossero tanto terribili come le sue vittime sostenevano e, a loro dire, fossero stati distorti ed esagerati per ottenere compassione e risarcimenti.
E sempre da quei sentimenti scaturì un terzo fenomeno, anch’esso problematico: se infatti l’Olocausto non era stato tanto terribile come asserivano gli ebrei, ecco che la guerra (Nakbah) da loro sostenuta contro i palestinesi nel 1948 non era meno grave della Shoah. Quindi era giunto il momento di dimenticare le vittime ebree e di rivolgere l’attenzione verso quelle palestinesi, di cui ci si doveva preoccupare e che si doveva risarcire.
Questi tre approcci si fusero in un unico atteggiamento di rancore, di rabbia e di patetica volontà di scoprire distorsioni storiche nella Shoah che impedì agli arabi, e in particolar modo ai palestinesi, di elaborare correttamente quella tragedia includendola nel quadro della loro storia nazionale e, di conseguenza, di instaurare un dialogo più costruttivo e positivo con l’Europa e di ricevere da essa i risarcimenti a loro dovuti. Una visita simbolica di leader politici e religiosi e di intellettuali arabi musulmani sponsorizzata dagli europei nel più agghiacciante dei campi di sterminio come quella prevista questa settimana potrebbe quindi essere l'inizio di un dialogo positivo, correggere un poco le distorsioni e dare al mondo arabo e ai palestinesi la possibilità di comprendere il loro ruolo morale verso gli ebrei di Israele, ottenendo in cambio il riconoscimento e la stima che meritano.
Non ha infatti alcun senso sminuire gli innegabili orrori dell’Olocausto. E anche se la sconfitta dei palestinesi nel 1948 è dolorosa, sia in termini di perdita di territorio che in quelli di profughi fuggiti o espulsi dalle loro case, non è nondimeno paragonabile alla Shoah. Le due tragedie appartengono a categorie completamente differenti. Occorre inoltre puntualizzare che non si può ascrivere il fenomeno dell’antisemitismo alla sola Europa, sebbene in Europa esso abbia trovato la sua espressione più violenta e brutale. Il problema ebraico è un problema del mondo intero e gli arabi, in quanto parte del mondo, possono partecipare alla rinascita di questo popolo e al suo processo di normalizzazione.
Ma in cosa consiste, in sintesi, il problema del popolo ebraico? Nel fatto che la componente territoriale della sua identità nazionale non è sussistita per migliaia di anni, trasformandosi così in un simbolo immaginario. Questo, tuttavia, senza che gli ebrei rinunciassero a rivendicare una propria identità nazionale. La mancanza di un'effettiva presenza su un territorio definito è quindi ciò che ha esposto questo popolo a ripetuti rischi esistenziali di cui la Shoah, avvenuta nel XX secolo e durante la quale per cinque, infernali anni un terzo del popolo ebraico è stato decimato, si è rivelato essere il più terribile.
Ma un insediamento degli ebrei in un luogo diverso da Israele sarebbe inconcepibile. È questa infatti l'unica patria connaturata nel loro immaginario storico e in grado di trasformarsi in reale. I palestinesi avrebbero potuto aiutare il popolo ebraico a rinascere in una parte di essa, con l’assistenza dell’Europa e del mondo arabo, correggendo così l’indole di questa stirpe dispersa fra le nazioni. Ma ciò sarebbe stato possibile solo a condizione che non fossero stati privati a loro volta della terra d'origine. Non è difatti ammissibile che un popolo possa ritrovare la propria patria a spese di un altro che la perde. La spartizione della Palestina in due Stati sovrani non è perciò solo una necessità politica e l'unico modo per instaurare la pace in Medio Oriente, ma anche un imperativo morale categorico che la comunità internazionale deve garantire con tutta la sua forza militare e politica, senza compromessi.
Vero, affinché questa spartizione avvenga i palestinesi dovranno sacrificare una parte del loro territorio. In cambio di questa concessione, però, otterranno non solo la gratitudine della comunità internazionale e di Israele, ma anche generose ricompense. Così, invece di negare invano la Shoah e di continuare a combattere contro lo Stato ebraico, il riconoscimento di questa tragedia darà ai palestinesi e al mondo arabo autorità morale nei confronti degli ebrei, nemici in passato e, auspicabilmente, buoni vicini in futuro.
La proposta della Lega dei Paesi arabi e musulmani di una pace comprensiva con Israele dopo la creazione di uno Stato palestinese e la commovente visita di personalità arabe di alto rango al campo di sterminio di Auschwitz fanno sperare agli ebrei che il processo di normalizzazione nella loro madrepatria storica possa essere completato con successo. Al tempo stesso un simile evento darà loro anchemodo di provare di avere interiorizzato la terribile lezione della Shoah e di sapere rispettare non solo il proprio rinnovato vincolo con la madrepatria, ma anche quello che i palestinesi hanno con la loro, in parte sacrificata. ( 2 - Fine. La prima parte è stata pubblicata ieri)

La Stampa 31.1.11
Asdia, il colosso che cambia
La Cina inventa la città più grande del mondo
La megalopoli avrà 42 milioni di abitanti e avrà una superficie vasta come due Piemonti Un’operazione gigantesca per unire nove centri
di Marco Neirotti


L’OBIETTIVO Semplificare i servizi migliorare la qualità della vita e ottimizzare le industrie"
I TRASPORTI Ventinove linee ferroviarie ad alta velocità e collegamento con Hong Kong"
250 miliardi di euro il preventivo dei costi per realizzare il progetto della megalopoli"
6 anni la durata dei lavori per le infrastrutture che uniscono nove città già esistenti"

A sentir loro, gli urbanisti cinesi, attraverso un progetto dalle ambizioni indubbie, hanno trovato un sistema per semplificare ogni genere di servizi, ridurne i costi, e soprattutto «migliorare la qualità della vita» dei cittadini. E’ un’idea semplice da pensare un po’ più complessa da realizzare: si prendono nove città sparse su un territorio di oltre quarantamila chilometri quadrati, la più piccina con un milione e mezzo di abitanti, la più grandicella quasi dodici, le si unisce con una ragnatela di seimila chilometri di ferrovia e si ottiene un’unica bella metropoli grande quasi due volte il Piemonte e con 42 milioni di persone che ci vivono, destinate ovviamente ad aumentare.
La megalopoli, secondo quanto scrive il «Telegraph», sorgerà nel bacino meridionale del Fiume delle Perle, dove sorgono, a nord, la colossale Guangzhou (11 milioni e settecentomila residenti), le medie Foshan e Dongguan. A ovest Zhaoquing, a est Huizhou, a sud Jlangmen, Zhongshan, Shenzen e la derelitta Zhuhai (un milione e mezzo di cittadini). Diventeranno isole di terraferma d’un unico arcipelago, ciascuna con la prospettiva di estendersi a «avvicinarsi alle altre».
Lo scherzetto dovrebbe costare tra infrastrutture, progetti correlati, revisioni di trasporti e servizi l’equivalente di circa 250 miliardi di euro. Nel giro sei anni dovrebbero andare a compimento lavori legati ai trasporti, all’energia elettrica, alla distribuzione dell’acqua, alle telecomunicazioni. Una megalopoli direttamente collegata, via treno, al centro di Hong Kong.
«Libertà» è la parola chiave di Ma Xiangming, progettista capo al Rural Guangdong e Urban Planning Institute: «L’integrazione fra i centri, fino a divenire una sola grande area urbana, porterà a un costante e progressivo accrescersi della libertà negli spostamenti, la libertà di tutti nell’utilizzare i vari servizi, in primo luogo quelli sanitari».
Xiamgming non ha ancora pensato un nome per la sua creatura: «Non è una situazione come Londra o Tokyo, qui non c’è una città cuore della megalopoli e quindi non possiamo utilizzare il nome di una di quelle già esistenti». Ma questo è un dettaglio da vedersi poi. Chiave del successo sarà secondo lui «la diffusione dell’industria e dell’occupazione in modo più uniforme in tutta la regione, l’equità con cui saranno distribuiti i servizi pubblici».
Si prevedono ventinove linee ferroviarie per seimila chilometri, ad alta velocità così da «spostarsi da un centro all’altro in un’ora». E non solo: prezzi del carburante unificati, scelta via Internet dei servizi, per esempio in quale ospedale della nuova città farsi ricoverare. Una città-primato, giacché oggi la megalopoli più grande è Tokyo con 34 milioni di abitanti, seguita da Seul e Delhi.
Da affrontare restano problemi come l’inquinamento, soprattutto in un’area dalla crescente industrializzazione come è questa. Ma sull’altro piatto della bilancia già si è posata la prospettiva di un continuo «aumento di competitività nella produzione. Lo stesso che si perseguirà con altri progetti di ingigantimento totale delle metropoli già immense accanto a «piccoli grappoli urbani» con appena una decina o una ventina di milioni di cittadini.

La Stampa 31.1.11
L’urbanista: “Sogno impossibile da realizzare”
di Flavia Amabile


Una megalopoli da 42 milioni di abitanti? La città più grande al mondo? Inimmaginabile, ma se proprio i cinesi intendono realizzarla stiano attenti a non centralizzare nulla. Questo è l’unico consiglio che riesce a dare Italo Insolera, architetto e urbanista con decenni di esperienza nello sviluppo di una metropoli, come quella di Roma. Sarà in realtà un’unione di nove città che si trovano nella regione del Delta del Fiume delle Perle. «Oltre una certa dimensione - infinitamente più piccola di quella di cui si parla nel progetto cinese - si preferisce usare il termine metropoli con più centri. Una città unica di queste dimensioni è impossibile da realizzare».
Qual è questo limite? «Intorno ai 3-4 milioni, ma probabilmente bisogna intendersi anche su che cosa si intende per città». Questa sarà una megalopoli e i cinesi, pur avendo parzialmente smentito la notizia, sembrano crederci davvero. «Superare il tetto dei 4 milioni significa andare incontro a notevoli difficoltà di gestione». I piani prevedono circa 150 progetti diversi per unire i servizi di trasporto, energia, telecomunicazione e acqua. «Quello che si è capito nel gestire metropoli come Roma o altre grandi città italiane sono i problemi legati ad un’amministrazione centralizzata. Roma non funziona come potrebbe perché è il Comune ad accentrare poteri e soldi dell’intera gestione dei servizi. Non è il modello che garantisce efficienza e rapidità di decisione».
Quale modello funziona meglio? «Quello di Parigi, ad esempio, dove gli arrondissement sono nati sulla base di un progetto ideato e realizzato prima che arrivassero case e persone. Quando sono stati abitati sono arrivati anche poteri e soldi per poter amministrare, non come accade nelle circoscrizioni romane che spesso hanno una funzione del tutto accessoria. Più o meno lo stesso tipo di organizzazione esiste a Londra». La futura megalopoli cinese sarà un sistema integrato dove chiunque potrà liberamente usufruire di trasporti o servizi sanitari. «Quando le dimensioni sono troppo estese per ottenere risultati vincenti, non vedo altra strada se non la divisione e la distribuzione in tutto il territorio dei centri dove le decisioni vengono prese e realizzate».

Repubblica Firenze 29.1.11
"Liceo solo per fiorentini da tre generazioni" la lezione shock nel Giorno della Memoria
di Maria Cristina Carratù

FIRENZE - «Cari ragazzi, chi di voi non è di Firenze da settembre dovrà lasciare questa scuola, e anche questa città. Ordine del Ministero della pubblica istruzione...». Scene da un mondo che si vorrebbe aver lasciato per sempre alle spalle, e invece è sembrato ripresentarsi in un´aula del liceo artistico di Porta Romana. Dietro la cattedra l´insegnante di Lettere, Marzia Gentilini, dall´altra parte la sua classe, formata da ragazzi fiorentini ma anche stranieri, e di altre regioni d´Italia. «Era il giorno della Memoria» racconta l´insegnante, «e ho voluto far sperimentare ai ragazzi di oggi cosa hanno provato i loro coetanei di settant´anni fa all´entrata in vigore delle leggi razziali». Un modo per uscire dalla retorica del ricordo, e restituire il senso di una esperienza viva al posto della comoda ritualità delle celebrazioni. Anche a costo di essere brutale. «Appena entrata in classe» racconta Gentilini, «ho fatto finta di leggere una circolare del Ministero. Entro il 15 aprile, ho spiegato, dovete portare il certificato di nascita e di residenza, vostro, dei vostri genitori e anche dei vostri nonni. Perché chi non è nato qui, da settembre non potrà più frequentare qui le scuole. E vale anche per noi docenti: io, per esempio, dovrò tornare in Emilia Romagna».
Difficile, dice l´insegnante, descrivere le reazioni dei ragazzi, passati dall´incredulità allo sgomento, alla disperazione, alla rabbia: «Ma allora, prof, io devo tornare in Cina?» si lamentava un alunno con gli occhi lucidi, «e io in Eritrea, dove non conosco nessuno?» piangeva un altro, e lo stesso dicevano un albanese, e un ragazzo di Napoli, uno che aveva il nonno piemontese e uno con la nonna della Calabria. «Possibile, e dove dovremmo andare?», «E perché la tv non ne ha parlato? E Internet?». Lo sgomento non era solo dei diretti interessati, ma anche dei compagni "salvati" dalla circolare, incapaci di rassegnarsi di dover perdere degli amici per una ragione tanto assurda come l´essere nati in un posto invece che in un altro: «Assurda, ma la stessa delle leggi razziali del ‘38» ricorda Gentilini. «Mio nonno è di Napoli, ti ospito a casa mia» si è offerto un ragazzo. La simulazione è durata mezz´ora, poi l´insegnante ha gettato la maschera: «Calma ragazzi, è tutto inventato. Ma attenti, perché in Italia, non molti anni fa, è andata proprio così». Tensione sciolta, lacrime asciugate. Ma le coscienze, ora, non sono più le stesse: «Qualche genitore mi ha chiamato per chiedermi spiegazioni» spiega la prof, «ma la maggior parte mi ha ringraziato». «Quell´insegnante ha avuto un´idea geniale» si congratula l´assessore alla Pubblica istruzione Rosa Maria De Giorgi, «mi piacerebbe incontrarla. La Giornata della Memoria non sia mai un appuntamento rituale che si ferma alla pagina di un libro».