Bersani: “Noi non dobbiamo suscitare passione per una persona, ma per la nostra Repubblica”
l’Unità 13.12.10
Carisma contro capacità
di Silvia Ballestra
Corriere della Sera 13.12.10
Se domani le Camere finiscono sotto protezione
È una decisione che appare senza precedenti
Piano di sicurezza per Camere e Palazzo Chigi
di Fiorenza Sarzanini
Cordoni di sicurezza intorno alle sedi istituzionali che di fatto trasformeranno in una «zona rossa» il centro di Roma. La questura blinda i palazzi della politica in vista delle manifestazioni di piazza previste per domani, mentre in Parlamento si voteranno le mozioni che decreteranno il destino del governo. Vietato avvicinarsi alla Camera, al Senato, a Palazzo Chigi e a Palazzo Grazioli, oltre che alle sedi dei partiti. L’ultima riunione per mettere a punto il piano di sicurezza si svolgerà oggi, ma l’interdizione di queste aree a chi ha annunciato di voler partecipare a «una grande assemblea popolare» è già stata stabilita.
È una decisione che appare senza precedenti. Le informazioni raccolte dai responsabili dell’ordine pubblico assicurano che da tutta Italia arriveranno in treno, in pullman e con mezzi propri migliaia e migliaia di persone decise a «sfiduciare dal basso Silvio Berlusconi».
Il diritto di manifestare deve sempre essere garantito, soprattutto in un giorno cruciale per la vita del Paese. Ma è preoccupante che ai senatori venga suggerito di recarsi molto presto a palazzo Madama proprio per evitare di essere intercettati dai manifestanti. Ai promotori del corteo che avevano chiesto di poter arrivare a Montecitorio, la questura ha risposto con una nota ufficiale nella quale giustifica la scelta di interdire l’accesso alla piazza per la «necessità di garantire il regolare svolgimento delle attività parlamentari».
Manifestazioni di violenza devono sempre essere stigmatizzate e condannate. Senza dimenticare che qui c’è in gioco il diritto a dissentire, la possibilità di protestare in maniera pacifica. A Roma si sono dati appuntamento, tra gli altri, i napoletani esasperati dall’emergenza rifiuti, gli aquilani che attendono la ricostruzione della propria città, gli studenti che non condividono la riforma del ministro Mariastella Gelmini. Certo, una miscela di malcontento che rischia di infiammarsi. Si riuniranno alle 10.30 di fronte al Colosseo, molti hanno già annunciato di voler esplorare percorsi alternativi, organizzare sit-in all’ultimo momento per cercare il modo di coinvolgere quanto più possibile i cittadini.
Compito delle forze dell’ordine è evitare che la situazione degeneri, impedire ai più facinorosi di fomentare la folla, isolare chi ha deciso di andare in piazza per cercare lo scontro. Però l’immagine del centro della capitale ridotta a un’area chiusa e inaccessibile anche ai residenti e ai turisti, a chi ci vive e lavora, trasmette la sensazione di una democrazia che ha paura ed è costretta a blindarsi.
La scelta di creare «zone rosse» ha un tragico precedente che non può e non deve sfuggire. Perché riporta con la mente ai giorni del G8 di Genova del luglio 2001, alla città presidiata dai blindati, controllata metro dopo metro da carabinieri, poliziotti e finanzieri bardati in assetto antisommossa. Riporta ai manganelli, ai fumogeni, agli urticanti, alle molotov. Alla guerriglia urbana. I divieti decisi per garantire l’ordine pubblico sono essenziali. Ma se sono indiscriminati rischiano di ottenere l’effetto opposto.
Repubblica 13.12.10
Uguali diritti
"È barbaro chi non riconosce l'essere umano"
Tzvetan Todorov intervistato da Maurizio Bettini
Nasciamo in un contesto condiviso di regole e rappresentazioni mentali Poi sta a noi decidere di continuare a viverci o fare scelte volontarie
In democrazia lo Stato non si confonde con una cultura unica Deve accordare gli stessi diritti a tutti i cittadini, atei e credenti
L´intervista / Il filosofo bulgaro sarà domani a Roma per ricevere un premio: "Nel Novecento abbiamo sperimentato atti di crudeltà e di assoluto disprezzo per la vita degli altri"
Chi ha incontrato per la prima volta il nome di Tzvetan Todorov in tempi lontani, come editore e traduttore de I formalisti russi, avrà certo seguito con stupore e ammirazione il suo lungo percorso intellettuale. Dallo strutturalismo letterario alla storia delle idee, alla storia dell´arte, alla storia tout court, per approdare infine a una incessante discussione su quei temi semplicemente "umani" o civili che oggi tanto ci riguardano: la violenza, i diritti, l´identità, il totalitarismo, e così via.
Da pochi giorni è apparsa in Italia la tua autobiografia intellettuale, Una vita da passatore (Sellerio). Leggendola mi sono ricordato che durante il colloquio in tuo onore che si è tenuto poche settimane fa a Parigi, Lionel Naccache, sottolineando l´importanza dell´eclettismo nelle scienze umane, ha affermato che anche tu saresti un "eclettico". Ti riconosci in questa affermazione?
«Senza dubbio le circostanze della mia vita sono in parte responsabili della pluralità dei miei interessi. All´età di 24 anni ho lasciato il mio paese, la Bulgaria, per venire in Francia, e questo ha già seriamente trasformato le mie abitudini. Cinque anni dopo sono entrato a far parte del Centre National de la Recherche Scientifique, un´istituzione estremamente liberale. In definitiva, però, sento che le scienze umane si rivolgono tutte quante a un medesimo oggetto, anche se le materie che studiano sono diverse. Un certo enciclopedismo, una pluralità di punti di vista rivolti a questo oggetto mi sembra dunque auspicabile. Nel nostro campo vale questa regola della conoscenza: occorre andare sempre al di là del nostro punto di vista soggettivo e cercare di assumere quello degli altri, in un continuo va-e-vieni».
In questo stesso momento Garzanti pubblica un altro dei tuoi libri, con un titolo davvero programmatico: La bellezza salverà il mondo (Wilde, Rilke, Cvetaeva). Che posto occupa quest´opera nel tuo lavoro?
«Devo dire subito che questa formula, "la bellezza salverà il mondo", tratta da L´idiota di Dostoevskij, può avere molti significati. Mi soffermo sulla vita e il pensiero di tre grandi scrittori europei, che si possono sommariamente collocare nel periodo romantico. Secondo gli ideali romantici, la creazione del bello è il valore supremo dell´esistenza, e si è giustificati se si sottomette ad essa tutto il resto. Ciò detto, però, le modalità secondo cui questo ideale si realizza, divergono: Wilde ha voluto fare della sua vita un´opera d´arte, Rilke era pronto a sacrificare la sua esistenza sull´altare della creazione poetica, la Cvetaeva ha stabilito una cesura radicale fra alto e basso, fra poesia e vita quotidiana. Ebbene, questi tre artisti, le cui opere sono ammirevoli, hanno avuto una vita che si può definire tragica, pur se con gradazioni diverse. Il mio racconto svela la fragilità di questa visione romantica del mondo, e interroga direttamente il modo in cui ciascuno di noi costruisce la propria vita».
Prendiamo un altro dei tuoi temi (e dei tuoi libri), la paura dei barbari. Il termine "barbaro" ha un potenziale semantico enorme. Chiamando "barbaro" qualcun altro, infatti, ci si identifica automaticamente con i (presunti) maestri di ogni civiltà, i Greci, che appunto definivano bárbaroi tutti coloro che Greci non erano; ma anche con i Romani, che impararono rapidamente dai Greci a definire barbari i non Romani, ovvero con Ebrei e Cristiani, che a loro volta definirono "barbari" i gentili ovvero i pagani.
«Fino dalle sue origini la parola "barbaro" possiede due accezioni diverse. Da una lato ha un senso relativo, reversibile: si chiamano barbari quelli che non sono come noi, che non parlano la nostra lingua o che la parlano male; dall´altro invece ha un senso assoluto, indipendente dal punto di vista di colui che parla: in tal caso si definisce barbaro colui che trasgredisce le regole della vita comune, che si comporta in modo particolarmente crudele, che non ha alcun rispetto per la vita degli altri. Confondere questi due sensi è sbagliato, ed è il secondo che conserva ancora tutta la sua pertinenza. Nel XX secolo abbiamo sperimentato atti di barbarie che non hanno più niente a che vedere col fatto di essere stranieri, di parlar male la lingua e così via: pensiamo, in particolare, ai regimi totalitari in Europa. Il barbaro è colui che non riconosce la piena umanità degli altri. Ma bisogna anche ricordarsi che nessun popolo, nessun individuo è "barbaro" una volta per tutte: lo sono solo i suoi atti e i suoi atteggiamenti».
Credo che un individuo abbia il diritto di scegliere la propria identità culturale, proprio come Voltaire sosteneva che ciascuno ha il diritto di scegliere la propria "patria". Purtroppo, però, molti oggi non la pensano così.
«Qualsiasi gruppo umano possiede una cultura, ossia un insieme di regole di comportamento e di rappresentazioni mentali. All´inizio riceviamo la nostra cultura senza averlo deciso: è quella dei nostri genitori. Crescendo però possiamo fare scelte volontarie, conoscere culture diverse da quella in cui siamo nati, oppure decidere di continuare a viverci. D´altra parte, la cultura di ogni gruppo umano si trasforma col tempo. Prova ne sia il fatto che, pur se abitiamo sempre nel medesimo luogo, non parliamo certo la stessa lingua dei nostri antenati! Tuttavia, giorno per giorno nessuno è cosciente di questi cambiamenti. È in questo senso che qualsiasi cultura viva è simile alla mitica nave Argo. Il suo viaggio era durato così a lungo che tutte le sue parti erano state cambiate, assi, funi, vele - eppure era sempre la stessa nave. Una cultura che non cambia è una cultura morta, e non c´è nulla di cui essere fieri».
Eppure in Italia si sostiene spesso che il crocifisso deve restare nelle aule scolastiche perché simbolo della "nostra" identità culturale: dunque non solo quella di chi sceglie di sentirsi cristiano, ma quella di tutti gli italiani, indipendentemente dalle decisioni individuali.
«In democrazia lo Stato non si confonde con una cultura unica, accorda gli stessi diritti a tutti i cittadini, credenti o atei, cristiani, buddisti, ebrei o musulmani. Esigere oggi che tutti abbiano la stessa fede significherebbe rinunziare al carattere secolare dello Stato, confondere la sfera delle convinzioni personali con quella delle norme collettive, come facevano gli stati totalitari. L´unità della legge non ha lo scopo di imporre l´uniformità dei costumi, si può amare la propria chiesa senza dover chiedere nello stesso tempo di chiudere le moschee. È anche per questo che il crocifisso, nella scuola pubblica, non è al suo posto».
l’Unità 13.12.10
È il nuovo romanzo di Helga Schneider, l’autrice tedesca di «Lasciami andare madre»
Ancora un racconto sulla follia del nazismo per lasciare nei «ragazzi un seme di pace»
Storia di Rosel piccola «ariana»
di Manuela Trinci
Repubblica 13.12.10
Chi paga il prezzo dei tagli all´istruzione
di Tito Boeri
In tutti i paesi avanzati è stato il lavoro poco qualificato a pagare il conto più salato nella Grande Recessione. Negli Stati Uniti un quarto dei lavoratori con meno di 12 anni di istruzione ha perso il lavoro tra il 2007 e il 2009. A chi aveva studiato anche solo quattro anni in più è andata molto meglio: "solo" uno su dieci ha vissuto il trauma della perdita del lavoro. Nell´area dell´euro il tasso di disoccupazione tra chi ha al massimo completato la scuola dell´obbligo è aumentato di più di quattro punti percentuali in due anni.
Quello dei laureati è rimasto quasi invariato. Oggi la probabilità di essere disoccupato tra chi ha una laurea è un terzo di quella di chi ha solo un diploma di scuola secondaria inferiore. Prima della crisi il rapporto era di uno a due.
Le cose in Italia non sono molto diverse: l´unica differenza è che da noi molte persone con basso livello di istruzione rimangono ai margini del mercato del lavoro. I divari nei tassi di occupazione tra laureati e diplomati sono attorno al quaranta per cento, come negli altri paesi, e sono cresciuti durante la recessione. L´istruzione è diventata ancora più di prima la migliore assicurazione sociale di cui un giovane oggi può dotarsi per evitare un futuro difficile, fatto di disoccupazione e bassi salari.
I lavoratori poco qualificati dei paesi avanzati sono sempre più l´anello debole della crescita mondiale, schiacciati fra i lavoratori poco istruiti dei paesi emergenti e i lavoratori qualificati dei paesi avanzati. Nel Nord del mondo le imprese che, al di fuori dei servizi, sono cresciute di più sono quelle con un´elevata proporzione di lavoratori qualificati, che hanno saputo innovare producendo beni sempre più tecnologicamente avanzati, al riparo della concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro. Oggi ci sono scarpe per il jogging in grado di misurare il numero dei battiti cardiaci. Non sarà facile imitarle con scarpe made in Taiwan.
Il nostro esecutivo in questi due anni e mezzo ha tagliato solo un capitolo della spesa pubblica: le risorse per l´istruzione. Nel 2008-2009 sono calate, secondo l´Istat, del 2 per cento, mentre il resto della spesa pubblica aumentava, al netto dell´inflazione, di più del 3 per cento. In termini relativi, la spesa in istruzione è dunque calata del 5 per cento.
Secondo le previsioni della Ragioneria dello Stato, le cose sono destinate ad andare ancora peggio nel 2010. La spesa per la scuola dovrebbe diminuire di circa un punto e mezzo e quella per l´università addirittura del 9 per cento in termini reali. La spesa per l´istruzione sarebbe destinata a perdere un altro mezzo punto percentuale sulla spesa totale, a vantaggio delle pensioni. È significativo che nella crisi siano aumentate in termini relativi le risorse per la previdenza - che si basano su di un trasferimento dai giovani a chi è al termine della carriera lavorativa e non può più essere colpito dalla piaga della disoccupazione - mentre sono calate quelle per l´istruzione - una istituzione che ridistribuisce in senso contrario, guardando al futuro professionale delle nuove generazioni.
È una scelta di bilancio che non ha alcuna giustificazione economica di fronte alla stagnazione del nostro Paese. Si spiega unicamente con lo scarso peso politico delle nuove generazioni. Rischiamo di pagarla molto cara, la classica zappa sui piedi.
I mancati investimenti oggi fatti nell´istruzione potranno tradursi in un futuro non molto lontano in maggiore spesa per offrire protezione sociale a coloro che, in un mondo sempre più competitivo, non riusciranno a trovare o mantenere a lungo un posto di lavoro. Per questi motivi Francia e Germania si sono mosse in direzione diametralmente opposta alla nostra, aumentando durante la crisi la spesa per l´università e la ricerca.
Per coprire questo tentativo di scaricare una volta di più i costi sulle generazioni future, si è creata anche una cultura contraria agli investimenti in capitale umano delle famiglie. Il nostro ministro del Lavoro non perde occasione per invitare i giovani a fare «lavori manuali, umili» anziché ambire a livelli di istruzione più elevati e lavori qualificati.
Illustri editorialisti non più tanto giovani si scagliano contro il «giovanilismo» e contro gli studenti, rei di manifestare il proprio dissenso contro i tagli unilaterali all´istruzione. Prendono, questi ultimi, spesso di mira la cosiddetta «riforma Gelmini», forse perché il disegno di legge che porta il nome dell´attuale ministro dell´Istruzione ha finito per offrire copertura ai tagli, ma il vero nemico sono i tagli all´istruzione ed è molto importante che i giovani facciano finalmente sentire la loro voce.
Certo, conta non solo la quantità, ma anche la qualità della spesa per l´istruzione, conta offrire strutture adeguate e premiare il merito. Ecco una proposta per migliorare quantità e qualità: ripristiniamo lo stesso peso relativo della spesa per l´istruzione di prima della crisi, prelevandolo da quel miliardo e più di «fondi da ripartire», discrezionali, aggiuntivi previsti dalla Ragioneria per il 2010. Destiniamo queste risorse nell´immediato a interventi per garantire edifici scolastici adeguati, in cui non si corra più il rischio di essere travolti dal crollo di un soffitto e si possano tenere lezioni di materie scientifiche in laboratori adeguati. Si lavori, al contempo, per permettere di attribuire ogni risorsa restituita al fondo di finanziamento ordinario dell´università sulla base di criteri di merito, oggettivamente misurati.
Sarebbe una vera riforma perché cambierebbe radicalmente le scelte di reclutamento degli atenei. A proposito: come si fa ad attribuire intenti riformatori a chi per due anni e mezzo non ha portato a termine l´anagrafe dell´edilizia scolastica e non ha neanche nominato i vertici dell´Agenzia di Valutazione della Ricerca (Anvur)? Senza valutazione non ci può essere meritocrazia.
Repubblica 13.12.10
Rischio collasso per la Pompei del Mare
Pisa, ridotti del 90 per cento i fondi per il museo delle navi antiche
Il direttore: i soldi bastano solo per la vigilanza. Appello per ottenere la tutela dell´Unesco
di Cinzia Dal Maso
PISA - «Siamo al limite dell´emergenza. Altri sei mesi senza scavare, e quest´estate ci sarà il collasso». È disperato Andrea Camilli, direttore scientifico del Cantiere delle navi antiche di Pisa. E arrabbiato per la mancanza di fondi che da due anni blocca pericolosamente i lavori nel cosiddetto "porto delle meraviglie", la "Pompei del mare". Il più grande giacimento di navi antiche mai rinvenuto: 30 imbarcazioni di cui 10 quasi integre, e con tutto il carico perfettamente conservato, persino le corde, le reti, gli oggetti personali dei marinai. Tutto sigillato dalle sabbie umide che, nelle molte alluvioni dell´Arno, hanno travolto quell´approdo fluviale per mille anni fino alle soglie del Medioevo. «La scoperta più importante di fine millennio», si gridò nel 1998 quando venne alla luce durante i lavori per un centro direzionale delle ferrovie. Si mobilitarono tutti, nell´entusiasmo generale. Le Ferrovie migrarono altrove e si scavò alla grande grazie ai proventi del gioco del Lotto. Ma, spente le luci e terminate le passerelle dei politici, la situazione cambiò. Si risollevò un poco nel 2001 e 2002 quando vennero asportate le prime due navi, emerse dal fango tutte intere con grande spettacolo. Poi di nuovo l´oblio. Mentre le navi e tutto il resto, un po´ scavati e un po´ no, rischiavano di svanire.
«Il problema è che si è voluto aprire tutto lo scavo subito, anziché scavare poco alla volta», spiega Camilli. Si è insomma scoperchiato tutto insieme il sigillo che ha conservato fino a oggi quei materiali delicatissimi in assenza di ossigeno. Per questo bisognava poi recuperare tutto al più presto. «Finora siamo sempre riusciti a tenere comunque la situazione sotto controllo - continua Camilli - Ora non più. E l´anno scorso il cantiere è stato pure travolto dall´alluvione». Nel 2002, coi riflettori puntati, al Ministero dei beni culturali si decise di proseguire lo scavo come cantiere-scuola aperto a studenti da tutto il mondo. Finanziamento previsto: un milione di euro l´anno per dieci anni. «Ma sono diminuiti sempre più, e i 300mila euro l´anno degli ultimi due anni sono bastati appena per le spese vive. Per l´anno prossimo, poi, sono previsti solo 20mila euro. Non ci si paga neppure la guardiania».
Anche perché dal 2005 quei soldi hanno tenuto in vita pure l´annesso Centro di restauro del legno bagnato, dove si studia e conserva tutto quel che viene alla luce. Realizzato solo allora (con 1.200.000 euro di fondi Cipe) grazie al ministro Urbani, dopo anni di commissioni speciali e riunioni con enti locali, università, possibili sponsor. Con la scoperta delle navi antiche, Pisa pareva aver ritrovato la sua vocazione marinara. Si progettavano sia un Centro di restauro di caratura mondiale che un grande Museo delle navi agli Arsenali Medicei. Si pensava di offrire una seconda importante attrattiva turistica a chi oggi visita solo il Campo dei Miracoli o poco più. L´università Bocconi e la Normale di Pisa elaborarono un piano di ampio respiro per una spesa di 25 milioni di euro. Poi però il ministero dovette limitarsi a un progetto da soli 2,5 milioni di euro. La prima sezione del museo (1 milione di euro da Arcus) doveva aprire in questi giorni ma, assicura Camilli, «mancano solo gli ultimi ritocchi». Aprirà probabilmente col nuovo anno. Rischiando però di diventare uno dei tanti musei statali al limite della sopravvivenza. Non erano questi i progetti, le idee, i sogni. Mauro Del Corso, presidente nazionale degli Amici dei Musei, ha lanciato un appello per candidare scavi e museo come sito Unesco (da oggi sul sito www.iltirreno.it). Si preparano interrogazioni parlamentari di deputati Pd (Realacci e Fontanelli) e Idv (Evangelisti). Si sta insomma tentando di tutto per attirare l´attenzione dell´Italia e del mondo. Perché la Pompei del mare non merita di finire così.
Repubblica 13.12.10
La denuncia degli avvocati matrimonialisti: vogliono tutti i bimbi maschi e bianchi. La Commissione: affermazioni infondate
"Adozioni, le famiglie fanno scelte razziste"
di Vera Schiavazzi
ROMA - «Un razzismo strisciante orienta buona parte delle adozioni internazionali. Le coppie vogliono bambini di pelle chiara, possibilmente maschi, biondi e sani». L´accusa arriva dall´Associazione degli avvocati matrimonialisti italiani, che ieri ha diffuso una serie di elaborazioni basate sui dati ufficiali della Cai, la Commissione per le adozioni internazionali guidata da Carlo Giovanardi. La stessa Cai ha poi replicato esprimendo «sconcerto» e definendo «infondate» le affermazioni dei legali. Nel 2009 – aveva detto l´Associazione, presieduta da Gian Ettore Gassani – i bambini di origine straniera adottati in Italia sono stati 3.964, mentre il totale degli ultimi dieci anni è di 27.965 bambini. «Un fenomeno – sostiene Gassani – che resta sostanzialmente riservato alle coppie benestanti e del Centro-nord: Lombardia al primo posto, seguita da veneto e Toscana». Non solo: «La maggior parte degli aspiranti genitori preferisce un maschio, si orienta sempre di più verso la Russia e l´Ucraina e anche la Corte di Cassazione è dovuta intervenire, nella scorsa primavera, per impedire la prassi dei decreti "mirati" che consentivano alle coppie di ricongiungersi a un determinato bambino dopo averlo scelto direttamente».
I dati generali parlano, in effetti, di un 42-48 per cento di piccoli adottati (l´età media si è alzata, e sfiora ormai i sei anni, anche a causa dell´invecchiamento delle coppie che si rivolgono all´adozione) da paesi europei, Russia e Ucraina in testa, mentre i bambini che provengono dall´Africa sono soltanto il 12 per cento. Ma le motivazioni sono varie: si va dalla severità delle leggi dei singoli paesi (in Africa molti Stati non contendono adozioni, mentre altri, come il Kenya, prevedono un periodo di permanenza di sei mesi da parte della famiglia adottiva) fino alle caratteristiche delle coppie candidate, perlopiù formate da marito e moglie che lavorano entrambi. I costi? Dai 15.000 ai 22.000 euro, per i quali è previsto un rimborso parziale.
Repubblica 13.12.10
Solgentsyn. Oggi il premio Nobel avrebbe 92 anni Il carcere raccontato dalla moglie Natalja
"Così mio marito ricordava il Gulag"
di Marina Zavada, Jurij Kulikov
"Lavorava sempre, la sua era una frenesia continua Pensava di essere sempre in ritardo"
"Ogni anno, il 9 febbraio, celebrava il suo arresto concedendosi solo pane e acqua"
Mosca. C´è un libro nel cassetto di Natalja Solgentsyna. Si chiama Diario di un romanzo e suo marito, il premio Nobel Aleksandr Solgenitsyn, l´autore di Arcipelago Gulag, aveva passato tutti gli ultimi anni della sua vita a chiedersi se valesse la pena pubblicarlo. «Una sera gli diede un´ultima lettura e mi guardò a lungo - racconta la signora Natalja nel salotto senza tende della casa nel bosco di Troitse-Lykovo - Era soddisfatto. Da allora ci lavoro ogni giorno. Piccole correzioni, qualche ripulitura. Prima o poi lo darò alle stampe. Glielo devo».
Di cosa si tratta?
«È un diario di lavoro. Gli appunti che prendeva mentre scriveva il ciclo della Ruota rossa, la storia della Rivoluzione del ´17. Appunti sulla difficoltà di trovare documenti originali, l´indignazione per i tanti falsi testimoni che raccontavano una verità di regime e che lui smascherava. Ma è interessante anche la parte tecnica, la ricerca negli archivi, le lunghe chiacchierate per strappare un paio di informazioni utili...».
Sabato suo marito avrebbe compiuto 92 anni. Fino al giorno della sua morte aveva continuato a lavorare 10 ore al giorno. Era un´esigenza o un´ossessione?
«Tutte e due le cose. Certamente hanno influito gli anni duri del gulag. Ma dal nostro ritorno a Mosca nel ´94, era come se sentisse passare il tempo troppo velocemente. Se venivano ospiti, ci piantava in asso dopo un po´ e andava a chiudersi nel suo studio. Non voleva sprecare un solo minuto. Una volta mi rimproverò perché andavo troppo spesso ai concerti. Così non finiremo mai tutto quello che c´è da fare, mi disse».
E cosa c´era da fare?
«Leggere, correggere, progettare nuove opere. Una frenesia continua, la sensazione di essere sempre in ritardo».
Una frenesia che lo portava a innervosirsi?
«Difficile capire quando fosse veramente irritato. Dai tempi del gulag aveva acquisito uno strano autocontrollo, non perdeva mai la pazienza. Al massimo, quando qualcosa non gli andava bene era capace di tacere per giorni interi. Senza astio né polemica. Solo un pesantissimo silenzio che rompeva solo quando gli era passato il malumore».
Gli fecero male i piccoli insuccessi del suo ritorno a Mosca? Per esempio lo scarso successo delle sue apparizioni televisive, la freddezza del pubblico...
«Si era preparato alla cosa. In una delle ultime interviste a una tv francese disse che chi propone grandi riforme non è mai molto amato nel proprio Paese. E poi il successo e la mondanità non gli sarebbero mai piaciute».
Era dunque un uomo malinconico, forse anche cupo?
«Sentiva bisogno di pace. Amava i silenzi. Passava ore davanti a queste finestre, anche nel buio dell´inverno. Si perdeva a fissare i larici, i pini. Diceva che non c´è niente di meglio che sentirsi così sprofondato dentro la natura. Per questo odiava le tende».
Reclusi in un bosco. Che tipo di vita facevate?
«La vita di due persone che si stimano e si rispettano. Ci godevamo le comodità che finalmente potevamo permetterci senza cercare altro. Tranne che in un giorno».
Quale?
«Il 9 febbraio. Era un anniversario particolare. Quello del suo arresto nel 1945 e l´inizio della sua odissea personale. Quel giorno riproduceva la vita del gulag. Si concedeva solo un tozzo di pane raffermo, un bicchiere d´acqua e una speciale zuppa di latte senza latte come quella che veniva data ai detenuti».
Si commuoveva nel ricordare quegli anni?
«No. Negli anni la cosa diventò quasi un rito di purificazione spirituale. Alla sera era proprio ridotto come un internato. Lo sorprendevo a leccare il piatto e raccogliere mollichine anche per terra. Diceva che per ricordare veramente le sofferenze materiali, bisognava assolutamente riviverle».
Culto della sofferenza, dunque?
«No, affatto. Parlavamo poco della morte, ma una volta mi disse che infelicità, dolore, rabbia non avevano cambiato molto le cose. Devo ammettere che fui sorpresa quando concluse: in fondo in fondo ho avuto un esistenza felice. Un attimo di silenzio, poi ci facemmo una bella risata liberatoria».
(Copyright Izvestia - la Repubblica)
Repubblica 13.12.10
A Berlino scoperte decine di migliaia di volumi destinate ai roghi nazisti da Proust a Mann, da Remarque a Sinclair, tutti nascosti sotto una bottega
La cantina dei libri proibiti "Qui li salvammo da Hitler"
di Andrea Tarquini
Andreas Wolff, libraio di origine russa, creò il bunker segreto nel cuore della città rischiando la propria vita
Spostando la scrivania-cassa del negozio si vede una botola che porta nel caveau ancora ricolmo di capolavori letterari
A Berlino, si sa, cammini a ogni passo sui drammi della Storia. Ma adesso è riemersa dal passato più tragico anche la cantina segreta dei libri proibiti. Un sottoscala ben nascosto dalla scrivania-cassa d´una libreria di grido d´allora, dove Andreas Wolff, colto e temerario libraio d´origine russa, nascose tutte le decine di migliaia di opere letterarie che la tirannide nazista aveva vietato e bruciato in pubblico nei famigerati roghi di libri. Wolff rischiò con la vita, ma era deciso all´impossibile e ci riuscì: tramandare ai contemporanei e ai posteri la grande letteratura tedesca, in lingua tedesca o straniera e tradotta che i nazisti bruciarono in piazza, esaltanti e ubriachi al canto dello Horst-Wessel-Lied. L´edizione domenicale della "Frankfurter Allgemeine" ha scoperto il bunker dei libri proibiti, e ieri ce lo ha raccontato a piena pagina quasi conducendoci per mano in quella scoperta mozzafiato.
Bundesallee 133, nel quartiere di Friedenau, è l´indirizzo della libreria, che si chiamava Buchandlung Wolff dal nome del fondatore fino a qualche anno fa, e oggi porta il nome "der Zauberberg", la montagna incantata, un omaggio a Thomas Mann e a uno dei più illustri tra i suoi libri dati alle fiamme da quello che lui nel "Doktor Faustus", con le parole del coprotagonista narratore Serenus Zeitblom, definì "il governo della feccia". È un vivace e insieme tranquillo quartiere amato dagli intellettuali: ci vissero Guenter Grass, Herta Mueller, Hans Magnus Enzensberger, Uwe Johnson e Max Frisch. Ma la cosa straordinaria è un´altra. Appunto, l´impresa che riuscì a gospodin (o Herr) Andreas Wolff. Harald Loch, l´attuale gestore della libreria della montagna incantata, la mostra volentieri a chi va a trovarlo, dopo un buon bicchiere di champagne offerto agli ospiti e alla sua amica Natalia Liublina. È facile, ma perfetti quanto stupidi i gendarmi della repressione nazista non ci arrivarono mai, e gospodin Wolff si seppe guardare dai delatori. Loch ripete quanto Wolff faceva ogni volta, per i clienti fidati: scansa con una spinta la scrivania-cassa. Appare una botola, una piccola scala di legno ti porta nel sotterraneo. Ci arrivi e l´emozione ti toglie il fiato, gli occhi guidati da flebili luci al neon perdono lo sguardo tra le migliaia di titoli proibiti, accumulati sugli scaffali. Polvere, odore di stantìo, eppure il bunker della salvezza che sfidò e sconfisse l´Indice del divieto nazista ha resistito al tempo. Se apri un qualsiasi volume di Thomas Mann o di Bertolt Brecht non si rompe, e lo leggi ancora chiaramente. Questa cantina racconta una storia sconosciuta, fa capire Harald Loch. O peggio, una storia dimenticata, o mai inseguita per curiosità da chi nacque e crebbe dopo il 1945 della disfatta nazista o il 1989 della caduta del Muro. I libri erano cari, spesso chi voleva leggerli ma non poteva permetterseli veniva dal buon gospodin Wolff a noleggiarli. E questa fama, forse, salvò il libraio e il suo bunker della sfida.
La svolta fu brutale, aprile 1933. Pochi mesi dopo la presa del potere, i nazisti aprirono i Lager, decapitarono ogni opposizione, resero impossibile così il sorgere d´ogni resistenza. E quei grandi roghi di libri, un sinistro rito pagano del fuoco, furono il loro trionfo. Wolff salvò migliaia di titoli: tutto Thomas Mann, Remarque, Marcel Proust, testi di altri autori stranieri. Riuscì persino, racconta Herr Loch, a procurarsi titoli degli autori tedeschi emigrati per sfuggire alla repressione, organizzando un contrabbando con l´estero che avrebbe potuto portarlo alla ghigliottina come i fratelli Scholl. «Riuscii grazie a lui a leggere Mephisto di Klaus Mann nel 1936, mentre di Heinkel di Goering radevano al suolo le città spagnole», narra un vecchietto. Le regole del leasing clandestino dei libri proibiti erano ferree: chi voleva leggerli, ed era abbastanza fidato per scendere nel bunker con gospodin Wolff, doveva divorarli e restituirli entro 24 ore. Sia perché la richiesta di leggerli era grande, sia perché il solo averli a casa era reato gravissimo. Ecco ancora tra gli scaffali i volumi proibiti di Upton Sinclair, o Carlotta a Weimar. Fino a un volume poco conosciuto, ma rivelatore: "die Pflasterkaesten", le casse di gesso. Memorie della prima guerra mondiale, ricordi dal fronte d´un giovane soldato che ricorda quel suo commilitone sempre isterico e paonazzo di panico a ogni attacco degli inglesi. L´isterico era Adolf Hitler, lo scrittore che ne narrò quel volto si chiamava Alexander Mortiz Frey. I nazisti distrussero la sua casa, lui riuscì a fuggire in Svizzera dove morì nel 1957, povero e dimenticato. Non tornò mai in Germania, oggi la memoria di lui rivive, in quel bunker segreto sotto la cassa della libreria della montagna incantata, a Bundesallee 133 di Berlino, unita e libera.
Repubblica 13.12.10
Antonio Pennacchi replica al paleontologo Giorgio Manzi
“Perché difendo il mio Neandertal”
"Sono gli studiosi a sbagliarsi: il cranio di Grotta Guattari è la prova di riti primitivi"
intervista di Dario Pappalardo
«Ma quali iene? In quella grotta, sono entrati per ultimi gli uomini». Antonio Pennacchi non ci sta. E replica al paleontologo Giorgio Manzi che, intervistato da Repubblica, ha "attaccato" Le iene del Circeo (Laterza), il libro in cui lo scrittore ricostruisce la storia del cranio neandertaliano di Grotta Guattari, rinvenuto al Circeo nel 1939.
Per l´autore, che si rifà alle tesi dell´archeologo Alberto Carlo Blanc, scomparso nel 1960, quel reperto testimonierebbe la cerebrofagia rituale degli uomini di Neandertal (sempre e solo senz´acca). Per Manzi e per altri illustri colleghi (tra cui Tim White, uno dei maggiori paleontologi viventi) non è così: il teschio sarebbe stato portato da una iena in quella grotta, poi sigillata da una frana per 55 mila anni.
«Con tutta onestà – racconta l´autore, quest´anno vincitore del premio Strega per Canale Mussolini (Mondadori) – sono un tipo ansioso: prima di cominciare a leggere l´intervista a Manzi, pensavo mi avessero fatto tana. Invece poi, alla fine della lettura, mi sono tranquillizzato».
Come mai, Pennacchi? Gli studiosi non le danno certo ragione.
«Intanto è curioso che mi rispondano solo ora che ho vinto il premio Strega. Sono vent´anni che porto avanti questa battaglia e non mi hanno mai preso sul serio».
La tesi che sostiene nel libro è stata smentita da tempo. La paleosuperficie dove fu rinvenuto il cranio non contiene tracce umane, ma solo di iena…
«Non è vero. Chi depositò il cranio nella grotta perse un raschiatoio, che fu ritrovato nel 1989. È come se ci avesse lasciato un rolex… non è una prova da poco. Insomma, in quel sito gli strumenti litici umani c´erano ed è stato scritto negli studi pubblicati in passato. Se ora quegli strumenti sono spariti, qualcuno dovrebbe spiegare perché. Per quale motivo si sono incaponiti sulla iena? Lo chieda a loro».
Gli studiosi escludono la cerebrofagia. Il cranio ha un foro praticato alla base.
«Ma chi l´ha detto che se voglio mangiare un cervello devo rompere il cranio dall´alto? I saggi di antropologia sostengono il contrario. E lo dimostra anche la collezione di crani della Melanesia conservata alla Sapienza di Roma. Chiunque pratichi la cerebrofagia rituale lo fa dal basso, utilizzando il cranio come coppa. Da cui "Bevi, Rosmunda dal teschio di tuo padre!". Un´altra prova del rito è il cerchio di pietre…».
I paleontologi mettono in dubbio anche quello.
«Io stesso lo chiesi a White: "Ma il cerchio di pietre? Insinuate che l´abbia costruito a bella posta Blanc, lo scopritore del cranio?". Lui mi fece capire di sì. Io invece non ci credo. Quel cerchio col cranio era isolato da tutto il resto. In quella grotta si celebrava un rito. E non è escluso che sia stata sigillata dagli uomini e non da una frana».
Ma come si è appassionato alla paleontologia?
«Ero più interessato alla storia romana, in realtà. Prevedendo di scrivere sulle bonifiche dell´agro pontino, mi sono messo a studiarla. Poi mi sono imbattuto nei cocci, mi sono iscritto all´università: ho preso 30 e lode a "Metodologia e tecnica dello scavo". Gli scienziati credono che non ne sappia niente di tutto questo, eppure ho all´attivo due campagne archeologiche. Non pensavo di risalire al Neandertal, ma quando ho scoperto questa storia ci ho visto poco chiaro e ho voluto approfondire».
Ha approfondito pure il Neandertal senz´acca.
«Se permette, sulla lingua almeno, l´autorità scientifica sono io. Anche in Germania, Neandertal si scrive senz´acca. Comunque, i nemici fanno bene. Un po´ di provocazione serve sempre. Mannaggia, quando ho vinto il premio Strega, i paleontologi devono essere sbiancati…».
Corriere della Sera 13.12.10
L’italiano (non il latino) è la lingua universale della Chiesa
Un volume di Franco Pierno analizza il ruolo assegnato dal Vaticano al nostro idioma come strumento privilegiato della comunicazione
di Paolo Conti
«Pur derivando da ragioni di tipo pratico, l’insegnamento nelle università e nei collegi pontifici determina una progressiva e ormai pienamente acquisita situazione in cui l’italiano è percepito non solo come lingua del territorio vaticano ma anche come lingua universale della teologia e del magistero teologico... L’italiano è ampiamente utilizzato dalla comunità internazionale dei teologi come lingua di scambio e comunicazione». Mentre l’Europa riduce di fatto a tre (inglese, francese e tedesco) gli idiomi veramente ufficiali dell’Unione, l’italiano può contare su una straordinaria agenzia planetaria che l’ha adottato come il proprio inglese: la Chiesa cattolica romana.
Lo spiega molto chiaramente il saggio «Tra universalità e compromessi locali. Il Vaticano e la lingua italiana» di Franco Pierno che appare nel volume, appena uscito, intitolato L’italiano nella Chiesa fra passato e presente edito da Allemandi e frutto di un lavoro parallelo della Società Dante Alighieri e l’Accademia della Crusca con la promozione dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. Pierno, dal 2008 Assistant professor al dipartimento degli Studi Italiani della Toronto University, parte da un presupposto. Cioè che il Vaticano «inteso tanto come realtà territoriale quanto come sinonimo di Santa Sede, pur avendo un’apertura necessariamente universalistica, e di conseguenza un atteggiamento plurilingue, intrattiene un rapporto privilegiato e particolare con la lingua italiana». Formalmente non c’è una regola che lo dichiari lingua ufficiale del Vaticano ma è quella usata di fatto nella legislazione e nelle comunicazioni interne. Il latino resta la lingua ufficiale «per i libri liturgici e il magistero papale» ma ormai da anni la nostra è «la lingua veicolare all’interno di un territorio la cui popolazione, secondo le stime più recenti, è italofona al 40% mentre il restante 60% dichiara di parlare altre lingue». Un’abitudine antichissima, ricorda Pierno, che fa risalire a Martino V verso il 1420, dopo l’esilio avignonese, la decisione di ricorrere «alla lingua cortegiana romana di forte base toscaneggiante».
In effetti, elenca il saggio, in italiano esce l’edizione principale de «L’Osservatore Romano» dal primo numero dell’1 luglio 1861, seguito poi da versioni in molte altre lingue, e lo stesso avviene alla Radio Vaticana e per il sito web vaticano che, nel suo plurilinguismo, però «mostra facilmente una preponderanza della lingua italiana». Ma è soprattutto nell’insegnamento universitario che l’italiano si consolida come lingua «universale» della cattolicità per un semplice motivo organizzativo: «Nelle istituzioni pontificie i corsi sono tenuti, da ormai diversi decenni, in lingua italiana dopo una secolare tradizione didattica di lingua latina».
Molto interessante un esempio proposto da Pierno a proposito del discorso di Benedetto XVI al campo di Auschwitz-Birkenau del 28 maggio 2006. In quell’occasione, spiega l’autore, il Papa decide di non esprimersi in tedesco per «buon gusto». Quando elenca il dolore leggibile sulle lapidi («una polifonia pluringue del dolore») lo fa in italiano: «La rievocazione di questo patrimonio comune del dolore espresso in modo multilingue non poteva avvenire che in una lingua ormai riconosciuta come universale e super partes dalla Chiesa: l’italiano».
Corriere della Sera 13.12.10
La svolta mariana degli Stati Uniti
di Vittorio Messori
L’orgoglio degli americani soffriva di una mancanza: già avevano fatto venire Gesù nei futuri States (così affermano i 6 milioni di Mormoni) ma la Madonna, almeno ufficialmente, non era mai stata tra loro. Ma ecco che l’8 dicembre, nel giorno dell’Immacolata Concezione, la Chiesa ha sentenziato in modo solenne, per voce del vescovo di Green Bay nel Wisconsin, che Maria è davvero apparsa nell’America del Nord. È la prima volta che una apparizione negli Usa è riconosciuta ufficialmente come autentica.
Il Messico, nel 1531, ha avuto Guadalupe, che provocò la nascita del santuario forse più frequentato del mondo. Per stare nelle Americhe, autentici pure, secondo la Chiesa, i fatti che diedero vita a un altro enorme santuario, quello brasiliano dell’Aparecida (1717). Il Venezuela vide riconosciute le apparizioni della Finca Betania, avvenute nel 1976. Per non parlare della Francia, che ha il primato (Le Laus, 1664; La Salette, 1846; Lourdes, 1858; Pontmain, 1871). Anche il Giappone (Akita, 1973) e la Polonia (Gietrzwald, 1877), ebbero Maria tra loro. Persino l’Africa Nera (Kibeho, nel Rwanda, 1981) ha goduto di una apparizione mariana dichiarata soprannaturale. Nulla, invece, per gli yankee.
Sinora, lo dicevamo, milioni di statunitensi credevano che le popolazioni originarie della loro terra fossero i discendenti di tribù emigrate da Israele prima di Cristo. E Gesù stesso, dopo la Risurrezione, sarebbe venuto nel territorio dei futuri Stati Uniti. Anzi, proprio qui avrebbe dato il meglio del suo insegnamento. È questo, in effetti, il Credo di quella religione tipicamente made in Usa che è il mormonismo, ufficialmente «Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni». Quanto alle presunte apparizioni di Maria, sono state numerose, ma nessuna ha superato le severe inchieste della gerarchia cattolica.
Adesso la svolta, anche se sono occorsi 151 anni per giungere alla decisione. I fatti, in effetti, si svolsero a Champion, sobborgo di Green Bay, nel 1859, cioè un anno dopo Lourdes. Anche nel Wisconsin la protagonista fu una ragazzina, figlia di immigrati belgi. Per tre volte, una Signora radiosa, vestita di bianco, le apparve e le disse: «Sono la Regina del Cielo che prega per i peccatori e desidero che tu faccia lo stesso». Aggiunse poi: «Riunisci i figli di questo Paese selvaggio e insegna loro ciò che devono sapere per salvarsi». Il comando della Signora fu preso radicalmente sul serio, tanto che Adele Brise — questo il nome della veggente — aiutata da un’amica che era presente alle apparizioni e che aveva lei stessa visto e sentito, fondò una Congregazione per l’educazione dei figli dei poveri immigrati. Morì nel 1896 in odore di santità e sul luogo dell’Incontro sorse un santuario ancora oggi molto frequentato: la Chiesa vi permetteva il culto, però non si pronunciava sulla verità delle origini.
L’attuale vescovo di Green Bay, monsignor David Ricken, ha ripreso il dossier storico, impressionato soprattutto dal fervore dei pellegrini e basandosi, dunque, sul criterio dato da Gesù stesso: «Dai frutti conoscerete l’albero». Tanta devozione, durata un secolo e mezzo, poteva avere solo origini genuine. Così, nel giorno della Immacolata, nella sua cattedrale, ha letto solennemente un decreto: «Dichiaro con certezza morale e in base alle norme della Chiesa che le apparizioni e i discorsi ricevuti dalla serva di Dio Adele Brise nell’ottobre del 1859 hanno verità di carattere soprannaturale. Io, con la presente, approvo queste apparizioni della Vergine Maria come degne di fede». Il vescovo precisa che accettare questa verità «non è obbligatorio» per i credenti, ma questa è la norma che sempre vale per questi eventi.
Grande esultanza, comunque, non solo nel Wisconsin ma in tutto il Paese, dove — malgrado tutto — quella cattolica è la comunità religiosa con il maggior numero di aderenti. Come ha osservato Massimo Introvigne, sociologo delle religioni: «Anche questo è un segno che la Chiesa americana è molto cambiata. Dopo l’ubriacatura progressista e la crisi dei preti pedofili, i credenti si sono stretti attorno ai vescovi e al loro insegnamento: anche nel rilancio della devozione mariana».