domenica 7 novembre 2010

l’Unità 7.11.10
Davanti ai segretari di circolo fissa la data dell’11dicembre per la manifestazione contro il governo
Bersani chiama la piazza: «Il Pd sarà il primo partito»
«Lega e Berlusconi ci fanno un baffo». Il segretario attacca il premier: non è degno di ricoprire una carica pubblica. E legge l’articolo 54 della Costituzione che richiede «disciplina e onore».
di Simone Collini


«Non consentirò che da fuori o da dentro il Pd qualcuno ci manchi di rispetto. Perché fra non molto, faccio una scommessa, saremo il primo partito del Paese. E nessuno può tirarci per la giacca». Pier Luigi Bersani parla per un’ora, lanciando la manifestazione dell’11 dicembre e attaccando il premier, ma gli basta questo passaggio di una decina di secondi per mandare un chiaro messaggio a governo, alleati, aspiranti rottamatori e autolesionisti vari. Prima di lui vanno al microfono i segretari di circolo del Pd, in duemila a Roma per l’Assemblea nazionale. Non mancano critiche per un partito che qualcuno definisce remissivo sui temi del lavoro e che qualcuno vorrebbe si mostrasse meno incerto, mentre in molti criticano i «rottamatori» e parlano anche di un lavoro fatto sul territorio che poi viene vanificato da qualche intervista rilasciata per distinguersi. Bersani ascolta e poi chiude i lavori rivolgendosi a ognuno di loro «da segretario a segretario»: «Voi siete più vicini alle persone e avete un di più di senso, di coraggio, di forza. Man mano che ci allontaniamo da lì c’è un avvitamento anche nostro nel circuito politico-mediatico che ci fa perdere un po’ di vista la realtà». È a loro che Bersani chiede di prendere una decisione su un’iniziativa di cui ha già discusso nei giorni scorsi con Franceschini, Finocchiaro e altri big.
«Il Paese è allo sbando, Berlusconi si deve dimettere», ripete di nuovo Bersani parlando però per la prima volta con certi toni del premier come di uomo non degno di ricoprire una carica pubblica (legge anche l’articolo 54 della Costituzione, che richiede «disciplina e onore»): «Un minore è un minore anche se non ti sembra e non puoi sbatterlo su una strada tuona al microfono facendo riferimento al caso Ruby non possiamo far correre idee così devastanti, non si possono pensare e dire certe cose e dirigere un Paese». Ribadisce anche che «chi ha senso di responsabilità deve staccare la spina», che il Pd offre la sua «disponibilità» a dar vita a un governo di transizione e che nei tre prossimi fine settimana ci sarà un porta a porta per far arrivare «in ogni luogo di vita e di lavoro» le idee del Pd.
IN PIAZZA
Ma, aggiunge arrivando alla proposta che lancia ai duemila segretari di circolo, «la situazione richiede qualcosa in più»: «Chiedo a voi se siete d’accordo, perché se lo siete l’11 dicembre facciamo a Roma una grande manifestazione nazionale». Non termina la frase e scatta un’applauso che non finisce più. «Ho capito, ho capito». Bersani sorride, anche perché se qualcuno nel gruppo dirigente era pronto a criticare la chiamata alla piazza, ora avrà qualche difficoltà nel farlo. E se Veltroni dal Veneto, dov’è andato per presentare il Movimento democratico, dice che l’importante è il «tono» che avrà la piazza, se cioè verranno avanzate delle proposte oltre che delle proteste, Bersani scioglie sul nascere anche questo nodo assicurando che la manifestazione non sarà soltanto contro il governo ma verrà costruita attorno a tre parole su cui il Pd vuole caratterizzarsi: democrazia, lavoro e solidarietà.
L’iniziativa serve a mettere in campo un ulteriore elemento di pressione nei confronti di chi, Fini in testa, pur criticandolo sta mantenendo in vita il governo. Ma sarà anche una prova di forza nei confronti di Pdl e Lega «ci fanno un baffo» e anche di qualche alleato che non ha capito che «indebolire il Pd è uno sport che non porta medaglie» e che è ora di smetterla con i «tatticismi per lucrare un punto in più nei sondaggi». Bersani lo dice anche guardando a certi «autolesionismi nostri»: «Oggi abbiamo visto che è possibile far vivere un orgoglio del Pd, che senza di noi ci si tiene Berlusconi». Orgoglio e «rispetto», ripete in più di un passaggio, perché presto si vedrà che il Pd è «il primo partito». E rispetto, «per la ditta e per i suoi membri», chiede anche a chi vorrebbe rottamare gli attuali dirigenti. «Avanti la nuova generazione, ma c’è bisogno anche di chi ha memoria ed esperienza», dice tra gli applausi. Che crescono di intensità quando continua così: «Benissimo il confronto, ma non verrà consentito che fuori o dentro il partito ci si manchi di rispetto».

Corriere della Sera 7.11.10
Bersani chiama il Pd in piazza: chi non rispetta i minori vada via
di Monica Guerzoni


Dalla platea dei circoli democratici fischi ai «rottamatori»

ROMA — Il «nuovo» Bersani, più aggressivo e grintoso, si affida alle note di Neffa che canta «Cambierà» e alza vistosamente i toni, nella speranza che la spallata finale sia vicina davvero. Davanti ai duemila segretari di circolo pigiati nell’auditorium della Conciliazione, troppo piccolo per accoglierli tutti, il segretario del Pd sfoglia la Costituzione, legge l’articolo 54 che chiede «disciplina e onore» a chi governa e quindi affonda. «Se vuoi avere la patente per fare l’uomo pubblico devi essere una persona per bene — sferza a distanza Berlusconi —. Un minore è un minore, anche se non ti sembra. E non puoi sbatterlo sulla strada. Non sono mica noccioline, queste». Risate amare, applausi e Bersani riparte: «Se uno ha 15 anni ha 15 anni, se ne ha 17 ne ha 17... È un aspetto drammatico di come immaginiamo l’adolescenza, è una vergogna! Non si possono fare e dire certe cose e governare un Paese».
Sono le tre del pomeriggio e Bersani non è mai stato così carico. Sprona Fini a staccare la spina al governo, scatena le ire dei leghisti, accusa i grillini di «tirare la volata a Berlusconi», si scaglia contro i «rottamatori» di Matteo Renzi e chiama gli elettori a scendere in piazza l’11 dicembre, per chiudere l’era berlusconiana nel nome della «democrazia, del lavoro e della solidarietà». Quasi un’ora di orgoglio democratico e poi venti minuti di autografi, mentre il nuovo inno del Pd propizia la svolta: «Di questi tempi si vende/qualsiasi cosa anche la verità/ma non sarà così sempre/perché tutto cambierà».
Critiche ne ha incassate anche lui. I segretari di base hanno chiesto al leader identità e coraggio delle scelte, più unità e meno ambizioni personali, poche chiacchiere da salotto e molte facce nuove. Eppure, al nome di Matteo Renzi, sono partiti (più volte) fischi sparsi e ululati. E Bersani, che ha convocato l’assemblea per limitare i danni del meeting fiorentino, ha chiesto ai rottamatori rispetto per la ditta: «Da adesso in poi io lo pretendo. Avete un segretario non permaloso, ma non consentirò che ci si manchi di rispetto. Fra non molto saremo il primo partito di questo Paese e non lo si tira per la giacca. Indebolire il Pd è uno sport che non porta medaglie».
Lui però la giacca a Gianfranco Fini la tira, eccome. Se Berlusconi non si dimette «chiunque ha senso di responsabilità stacchi la spina», perché «traccheggiare è portare allo sbando il Paese». Il simbolo di Futuro e libertà non gli è piaciuto, come non gli piacciono i partiti personali. «Sul simbolo del Pd — e qui scatta l’ovazione — io Bersani non ce lo scrivo, è chiaro?». E ce n’è anche per Bossi, al quale dà del «sottovaso» del premier. «A noi che abbiamo 6800 circoli e facciamo duemila feste l’anno — galvanizza i suoi il segretario — la Lega e Berlusconi ci fanno un baffo!». Assicura di non cercare ribaltoni però invoca un governo di transizione che scongiuri l’elezione del Cavaliere al Quirinale. «Rompiamo ’sto muro del suono, mettiamoci fiducia...».
I «big» del partito, tranne Franco Marini e pochi altri, non sono venuti. Autorottamazione? «Io sono qui...», scherza Sergio D’Antoni. E non passa inosservata l’assenza della minoranza, giacché Veltroni, Gentiloni e Fioroni sono in Veneto per l’assemblea regionale di Movimento democratico. Da Mogliano l’ex segretario dice che Berlusconi «non uscirà di scena in punta di piedi, ci farà soffrire ancora moltissimo». Anche per questo Veltroni dà il via libera alla piazza, purché non sia solo una giornata di protesta. Così fu al Circo Massimo due anni fa, rivendica, «la più grande manifestazione di un partito in Italia». Ma all’assemblea di ieri Veltroni è stato attaccato dal segretario di un circolo milanese. Si chiama Cosimo Palazzo e studia da leader. «Basta con le interviste per contrastare le decisioni del partito — ha strappato la standing ovation l’avvocato, che ha 36 anni —. Due minuti bastano a distruggere il nostro lavoro...».

Corriere della Sera 7.11.10
La svolta «pride» del leader: saremo il primo partito
Dietro la nuova strategia i sondaggi che segnalano il «sorpasso in frenata» sul Pdl
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Sono stufo del fatto che si descriva sempre il Pd come un partito vecchio e sono stanco dei nostri autolesionismi»: Pier Luigi Bersani non ci sta a indossare panni che gli hanno ritagliato altri. Il segretario è pimpante, carico e convinto che l’appuntamento romano non sia meno importante di quello di Firenze. Anzi.
È il giorno del «Bersani-pride» all’Auditorium di via della Conciliazione. Nell’entourage del segretario si respira un curioso ottimismo. Forse è per quei sondaggi riservati e nuovissimi commissionati a Ipsos, Swg ed altri istituti di ricerca. Sono freschi freschi e segnalano quello che in gergo della Formula uno si chiama sorpasso in frenata. Il Pd resta al palo (anche se ci sono segnali di inversione di tendenza), oscillando, a seconda delle rilevazioni, dal 23,5 al 26 e rotti. Ma il Pdl è in calo.
Calo significativo, tant’è vero che il Partito democratico lo sorpasserebbe. Di uno 0,4 per cento in un sondaggio, di un punto e mezzo in un altro. E anche l’intero centrosinistra sorpasserebbe il centrodestra (che però viene calcolato senza il contributo di Futuro e libertà). È l’astensionismo il tallone d’Achille di Silvio Berlusconi. Secondo altri sondaggi, poi, una simulazione delle elezioni con l’attuale sistema farebbe mancare ben trenta senatori al centrodestra (sempre nel caso in cui Futuro e libertà non si presenti in quello schieramento). Nello staff del segretario non vogliono ancora crederci. E infatti si guardano bene dal diffondere quei dati. Meglio aspettare un po’ e vedere se è una tendenza durevole o se, piuttosto, solo un incidente di percorso del Pdl, dopo il caso Ruby. Ma il leader non resiste alla tentazione di dire dal palco dell’Auditorium: «Stiamo diventando il primo partito del Paese». Però non pronuncia un’altra parola — «elezioni» — che forse la platea a questo punto vorrebbe da un Pd che tenta di dare di sé un’immagine vincente e, infatti, i militanti regalano un applauso più che tiepido al passaggio sul governo di transizione.
 In attesa di vedere se il vento cambi davvero e, soprattutto, di verificare se il Pd è in grado di raggranellare qualche consenso in più — cosa che finora non accade — il segretario perfeziona la sua nuova strategia. Cioè quella di tentare «la presa diretta» con il suo elettorato, quasi scavalcando il partito.
C’è un vago sentore di berlusconismo, in tutto ciò. Che ricorre in alcune frasi del discorso di Bersani. Il segretario dice di voler uscire dalla «foto di gruppo del politicismo». Una versione bersaniana del berlusconiano teatrino della politica. E ancora, il leader spiega di non volersi giocare la sfida «dentro i salotti di una riunione politica». Proprio così, testuale. E infatti l’obiettivo è quello di trovare un «contatto diretto tra la politica e il Paese».
Del resto, non è da ieri che il segretario ha impresso una virata. Sui manifesti del Pd sempre più spesso compare lui e solo lui. Certe decisioni ormai le prende senza consultare gli organismi dirigenti come si usava fare un tempo. È accaduto con la proposta, criticata dai 75 nel merito e nel metodo, di costituire gruppi parlamentari unici con Italia dei valori e Sel. Bersani ne ha ovviamente parlato ai fedelissimi, ma non «nei salotti di una riunione politica». Piuttosto ha preferito dirlo a Bruno Vespa. Anche sul governo di transizione non c’è stato nessun incontro formale dei dirigenti del Pd in cui si sia discusso. Eppure ormai quell’ipotesi è passata. E ancora: nessun problema a indire la manifestazione di piazza San Giovanni in contemporanea con la convention organizzata dai 75.

Repubblica 7.11.10
Bersani contro il premier "Minorenni come noccioline" 

Casini: Silvio stacchi la spina. Pdl: lui resta il capo  Le reazioni    La Russa sul discorso che Fini terrà oggi "Dormo sonni tranquilli"
di Giovanna Casadio

ROMA - Alza i toni Pier Luigi Bersani e conduce un attacco frontale a Berlusconi: «Se vuoi la patente per fare l´uomo pubblico devi essere una persona perbene. Non ci si può dimenticare che una minorenne è una minorenne, anche se non lo sembra, e non lo puoi sbattere sulla strada. Non sono mica noccioline queste cose qua: sono idee devastanti». Su Ruby, i festini, le telefonate per farla rilasciare dalla Questura di Milano costringendola poi a cavarsela da sola, non si può davvero glissare con il giudizio: "Sono faccende private". Il fatto che siano coinvolti minori «è drammatico e, al di là di tutto il chiacchiericcio, questo non è venuto fuori. Ma dico - scuote il segretario del Pd - come l´immaginiamo l´adolescenza in questo paese? È una vergogna. Non si possono fare e dire certe cose e governare un paese». Né continuare a parlare dei problemi «notturni e diurni» del Cavaliere, scudo Alfano incluso.
All´assemblea dei circoli del Pd, ieri, il leader democratico legge l´articolo 54 della Costituzione, quello in cui si dice: "I cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore" e richiama il decoro istituzionale. È insomma il momento di farla finita con questo capo del governo e la sua équipe.
E tutti gli occhi sono puntati su Fini. L´opposizione fa pressing perché il leader di "Futuro e libertà" si decida a staccare la spina al governo; la maggioranza blandisce o minaccia, in definitiva spera che una tregua tra Berlusconi e Fini sia ancora possibile. Bersani spiega che non è una posizione attendista la sua: «Non è che noi stiamo chiedendo Fini qui e là... noi stiamo dicendo una cosa semplice, il paese sta andando allo sbando. Berlusconi si dimetta e se non lo fa chiunque abbia senso di responsabilità, a cominciare da chi lo ha criticato fino adesso, stacchi la spina». Del resto il Pd ha lanciato la sfida al governo, appellandosi alla piazza con la manifestazione dell´11 dicembre. La spallata - o per usare le parole di Bersani "la spina da staccare" - è nelle mani del paese che «non ne può più».
Anche il leader dell´Udc, Pier Ferdinando Casini ritiene che il momento è giunto: «Continuano a dire che devono governare, ma questa è una maggioranza ormai ex che non vuole prendere atto che c´è bisogno di staccare la spina». Il messaggio di Casini a Fini è: «Assumano la responsabilità di dire basta, apriamo una fase politica nuova, perché non ce la facciamo».
Sull´altro fronte, nel centrodestra, il discorso oggi di Fini alla convention di Fli provoca un mix di attesa e insofferenza. Dal capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto dichiarazioni minacciose: «Il leader del centrodestra resta Berlusconi. E se Fini non dà «una risposta positiva e costruttiva alla proposta positiva e costruttiva del presidente Berlusconi» - ovvero a quel patto di legislatura che gli è stato offerto - «se si dovesse manifestare un aperto dissenso, l´unica via sono le urne». La Russa, l´ex "colonnello" finiano, ora coordinatore del Pdl e ministro, minimizza: «Dormirò tranquillo, non credo che nel discorso di Fini ci sarà nulla di risolutivo». Maria Stella Gelmini, ministro della Scuola, invita Fini: «Sta a lui cogliere la volontà di dialogo di Berlusconi». Mentre il ministro Rotondi si augura l´allargamento della maggioranza, «la ricomposizione con Fini non necessariamente nello stesso partito» e «la pace con Casini meglio se nello stesso partito».

Repubblica 7.11.10
L’ultima partita a scacchi del cavaliere
di Eugenio Scalfari


MA ADESSO che succede? Questa domanda se la rimpallano tutti, è addirittura diventata una domanda da bar, perfino tra persone che di solito non si occupano di politica e discutono semmai, ai bar dello sport, sulla formazione delle squadre e di Totti o di Cassano. Segno che qualche cosa di nuovo è accaduto, qualche cosa che è fuoriuscita dalla bolla del politichese ed ha raggiunto l´uomo comune, cioè la pancia del Paese.
A conferma di quanto scrivo ci sono i più recenti sondaggi sugli umori del "popolo sovrano": il livello delle astensioni, quelli che non hanno alcuna intenzione di votare, oscilla tra il 15 e il 20 per cento come è sempre stato. Aumenta invece il numero degli indecisi che viaggia al di sopra del 30 per cento. Gli indecisi sono appunto quelli che ti chiedono: «E adesso che succede?».
La domanda viene da sinistra, dal centro, da destra. Soprattutto da destra, dove è sempre più diffusa la sensazione che il ciclo berlusconiano sia concluso.
È un ciclo che dura da almeno 25 anni, perciò è sbagliato pensare che sia cominciato nel ‘94, con il primo governo del Cavaliere. È cominciato molto prima, quando ebbe inizio l´ascesa televisiva della Fininvest e l´incubazione del berlusconismo nelle vene della nazione.
Naturalmente anche altri fatti concorsero a cambiare radicalmente il profilo antropologico degli italiani: il ristagno dell´economia, la caduta della competitività nell´industria pubblica e privata, la corruzione diventata sistema di governo, il crescente distacco tra Nord e Sud, l´implosione del comunismo e la caduta del Muro di Berlino.
In una società frastornata da questi traumi e dai conseguenti disagi, il berlusconismo arrivò con un´irruenza imprevista guidando quella mutazione antropologica che ha assunto le dimensioni d´una vera e propria metamorfosi. Scomparvero le classi tradizionali, crollò il modello Iri, la grande industria si ridusse a pochissime nicchie senza più forza propulsiva, aumentarono le diseguaglianze. Tra i ricchissimi e i poveri si frappose un ceto medio gelatinoso con una tendenza all´impoverimento, dominato dalla paura di retrocedere e bisognoso di appoggiarsi alla speranza del miracolo e a qualcuno che su quella speranza costruisse il suo mito. Appoggiati cioè alla favola che ogni sera veniva messa in onda sugli schermi della televisione.
Quel ciclo è finito lasciando un paese pieno di guai materiali e di rovine morali, al punto che la parola "morale" è ormai oggetto di lazzi e sberleffi. Ogni discorso pubblico, da qualunque parte provenga, comincia sempre con la frase: «Non farò del moralismo», o con l´insulto: «Sei un moralista». Se si vuole una misura del degrado, sta tutta nell´impronunciabilità di quella parola.
E adesso che succede?
* * *
Il cambiamento morale, culturale ed economico passa - piaccia o non piaccia - per l´imbuto della politica e si svolge intorno a due nomi, al massimo tre: Berlusconi, Fini, Bossi. Sullo sfondo naturalmente c´è tutta l´opposizione da Casini fino a Di Pietro. Senza l´opposizione nulla si potrà fare ma il suo comportamento è obbligato. Vendola per il momento sta fuori dal perimetro della partita, come pure i vari Chiamparino e Renzi. Entreranno semmai in campo quando si andrà a votare perché nell´agone parlamentare, dove per ora la partita si svolge, loro non ci sono.
Berlusconi è finito, la coscienza nazionale che si sta lentamente risvegliando gli ha già notificato il cartellino giallo, ma il rosso dell´espulsione immediata ancora no; quindi è ancora in campo e giocherà molto duro proprio perché è consapevole che sarà fuori nei prossimi match.
Se volessimo adottare a mo´ d´esempio il gioco degli scacchi, direi che lui è il re che lotta per evitare lo scacco matto, Fini è la regina avversaria che può muovere in molte direzioni, Bossi gioca con una torre in difesa del re. Alfieri e cavalli distribuiteli come vi pare tra gli altri comprimari della partita, tenendo presente che molti di quei pezzi sono stati eliminati dalla scacchiera.
Berlusconi tenta di riagganciare Fini proponendogli un patto di legislatura. Se Fini accettasse, Casini dovrebbe seguirlo perché da solo al centro non ha prospettive. Ma io credo che Fini non accetterà e la ragione è semplice: se rientrasse nell´alleanza lascerebbe al suo avversario due anni di tempo, spunterebbero altri delfini e soprattutto, con questa legge elettorale, nel 2013 Berlusconi potrebbe ancora sperare di scalare il Quirinale. Allora il cartellino rosso non verrebbe mai più.
Fini parlerà oggi a Perugia. Per quello che penso io, e per ciò che abbiamo appreso ieri dalle parole durissime di Italo Bocchino, direi che tra lui e il presidente del Consiglio non c´è più terreno comune. Il nuovo partito finiano voterà i provvedimenti che riterrà utili al Paese e voterà contro per quelli che riterrà dannosi e quando venisse posto il problema della fiducia i finiani decideranno sul merito del provvedimento e non della fiducia.
Questo io penso che Fini debba fare e credo che lo farà. Ma potrebbe anche cedere alle lusinghe e alla pressione di quelli dei suoi che non vogliono rompere. Se questo dovesse avvenire, Fini entrerà in un tritacarne e nel 2013 ne uscirà ridotto a una polpetta.
Bossi. Poiché gioca con una torre, può andare soltanto in verticale o in orizzontale sulla scacchiera. Tradotto in termini politici: può sopportare a tempo indefinito che Fini faccia cuocere Berlusconi a fuoco lento e insieme con lui anche la Lega oppure può esser lui a staccare la spina tra gennaio e febbraio. La mia sensazione è che staccherà la spina o obbligherà Berlusconi a farlo.
A quel punto (cioè tra tre mesi) che succede?
* * *
A quel punto il gioco si sposta nella mani del presidente della Repubblica che ha un diritto-dovere: prima di sciogliere le Camere deve verificare se esista una maggioranza alternativa. Si può star certi che Napolitano quella verifica la farà, crollasse il mondo. Ma esiste una maggioranza alternativa?
C´è sicuramente alla Camera se Fini è pronto a dar vita insieme a Casini ad un governo che comprenda ovviamente anche il Pd e l´Italia dei valori.
Al Senato questo schieramento non raggiunge la maggioranza ma è più che probabile che parecchi senatori del Pdl passino al centro di Fini-Casini. Questo sarà il punto più difficile della verifica di Napolitano. Molto dipenderà da chi sarà la persona incaricata di sondare i vari gruppi e gruppetti di Palazzo Madama. L´altra volta il sondaggio lo fece Marini e rispose negativamente, la maggioranza alternativa non c´era. Questa volta l´incaricato della verifica dovrebbe essere una personalità del centrodestra che riscuota anche la fiducia di Fini-Casini e dell´opposizione di sinistra affinché il Quirinale e le parti in causa siano sicuri dell´obiettività della verifica.
Se la risposta sarà negativa Napolitano dovrà sciogliere le Camere, se sarà positiva si farà il nuovo governo con il centro e la sinistra. Domenica scorsa scrissi che il presidente di questo governo avrebbe dovuto essere una personalità al di sopra delle parti e dotata del massimo di autorevolezza e lo chiamai "Mister X". Ma potrebbe anche essere una personalità di centrodestra autorevole e accettata da tutti.
Noi possiamo fare previsioni ma ad un certo punto dobbiamo fermarci quando entrano in gioco le prerogative del Capo dello Stato e qui siamo arrivati a quel punto e infatti ci fermiamo.
* * *
Possiamo però ipotizzare che quel nuovo governo si faccia e la legislatura non venga sciolta. Per quanto tempo? Con quale programma?
Walter Veltroni, nella sua intervista a "Repubblica" di qualche giorno fa, ha ricordato il governo Ciampi quando in piena Tangentopoli il presidente Oscar Luigi Scalfaro incaricò il Governatore della Banca d´Italia di guidare la legislatura fuori dalle secche morali e politiche nelle quali era incappata.
Il ricordo è pertinente, l´emergenza che stiamo attraversando è anche maggiore di quella di allora per la semplice ragione che allora al governo c´era una uomo di notevoli capacità, Giuliano Amato, il quale fu il primo a indicare Ciampi al Capo dello Stato.
Oggi a Palazzo Chigi c´è un populista di pessimo conio che per di più da qualche tempo sembra anche piuttosto frastornato di testa. L´ultima uscita sugli omosessuali, se si pensa ai casi specifici, lo dimostra con evidenza.
Un Ciampi è molto difficile trovarlo ma non impossibile. Oppure, come s´è detto, un personaggio del centrodestra che dia garanzie a tutti.
È evidente che il Presidente della Repubblica ha l´interesse, anzi l´obbligo costituzionale di fare un governo senza limiti di tempo. L´ipotesi di un Ministero di cento giorni è fuori dal quadro. Quindi il programma. Non può che essere una nuova legge elettorale, un federalismo che rafforzi e non indebolisca l´unità nazionale, una gestione intelligentemente rigorosa della pubblica finanza, una nuova struttura del welfare che tuteli tutti i lavoratori e i giovani e le famiglie in particolare.
Poi, quando si andrà alle elezioni politiche, avremo un centrodestra repubblicano e costituzionale il quale si opporrà ad un centrosinistra riformatore. Il primo batterà sul binomio libertà-eguaglianza e il secondo sul binomio eguaglianza-libertà. La fraternità va bene per tutti e due.
Mi direte che questi sono sogni. Rispondo anzitutto che un po´ di sogno ci vuole. E poi rispondo che una nazione è sempre lo specchio della sua classe dirigente. Se il presidente del Consiglio e i ministri si comportano sulla base d´una visione etico-politica del bene comune, anche la nazione non considererà più la morale come una parolaccia.

Post scriptum. Molti lettori mi chiedono che cosa penso di Lupi e di Ghedini che molti di loro hanno visto nei vari salotti televisivi. Che cosa penso di loro e del racconto che fanno di quanto avviene.
Io penso così: Ghedini è l´avvocato del presidente del Consiglio, Lupi è un esponente di primo piano del Pdl ed in più è anche un militante cattolico della cattolicissima Comunione e Liberazione.
Ghedini è diventato patetico nelle sue performance televisive. Ripete costantemente: «Non è vero» anche quando gli leggono un verbale firmato dal questore o da un magistrato inquirente. Sull´aspetto morale delle azioni del suo cliente si limita a dire: «Non è reato». Del resto è lui l´inventore dell´"utilizzatore finale" una frase che da anni è entrata nel gergo comune.
Il caso di Lupi è più complesso per via della sua militanza cattolica e della sua fede che lui dichiara (e noi gli crediamo) intensa e attuata nella pratica della sua vita. La sua narrazione dei fatti non differisce da quella di Ghedini e fin qui problema loro, anche se contrasta vistosamente con la realtà documentata. Ma ad un cattolico è lecito chiedere anche un giudizio morale. Ebbene, Lupi si rifiuta di darlo. Pubblicamente. Sostiene che il problema non è quello. Il problema non è morale ma di efficienza e lui sostiene che l´efficienza (di Berlusconi) c´è e questo basta perché la morale non ha ingresso nella politica.
Questo non lo diceva neppure Machiavelli che da buon fiorentino era un anti-papista per eccellenza. Non lo diceva neppure il cardinale Mazarino. Lupi invece lo dice: l´efficienza per lui cattolico fa premio sulla morale. Mi pare il massimo.
In realtà sia Lupi sia Ghedini sanno che quando Berlusconi uscirà di scena anche loro usciranno è dunque in gioco la loro sopravvivenza come uomini di potere. Perciò sono pronti a dire che l´asino vola e che Berlusconi riceve le "escort" perché ha buon cuore. La sopravvivenza è la sopravvivenza. La morale l´hanno smarrita da tempo, ma io ho scritto qualche anno fa un libro intitolato «Alla ricerca della morale perduta» perciò li perdono sperando che la ritrovino.

Corriere della Sera 7.11.10
Legge elettorale, cosa fare
di Giovanni Sartori


In uno Stato ben ordinato debbono esistere punti fermi e problemi risolti. Per esempio la Costituzione (la regola delle regole) e anche il sistema elettorale. Invece la nostra Costituzione viene sempre più stravolta da interpretazioni «materiali» di natura populistica che appunto la stravolgono. E ora torna prepotentemente in ballo il sistema elettorale.
La Prima Repubblica adottò un sistema proporzionale che funzionò discretamente fino alla caduta del potere democristiano. Ma il proporzionalismo è esposto a due degenerazioni: la trasformazione del sistema parlamentare in un sistema assembleare ingovernabile perché troppo frantumato e anche perché troppo indisciplinato. In Italia queste degenerazioni furono bloccate sia dalla malfamata «partitocrazia», sia perché il pericolo comunista non consentiva voti sprecati. Così la proporzionale non moltiplicò il nostro sistema partitico oltre misura. La Prima Repubblica fu governata da più o meno cinque partiti, uno dei quali, la Dc, era dominante. Ma questo edificio crollò con la fine del comunismo sovietico.
Io raccomandai, a quel tempo, un sistema maggioritario a doppio turno, come in Francia. Invano. Fu adottato, invece, il Mattarellum, un sistema per 3/4 maggioritario e per 1/4 proporzionale. Secondo i promotori di questa pensata il Mattarellum avrebbe prodotto anche in Italia un sistema bipartitico all’inglese. E quando il bipartitismo non arrivò (come si sapeva benissimo) la colpa fu addossata al «misto», al 25 per cento di proporzionale. Accusa ridicola, tanto più che se distribuita sulle due C a mere lasuaincidenza complessiva si riduceva a un misero 12,5 per cento. In realtà il Mattarellum produsse la frantumazione del nostro sistema partitico. Tanto vero che il secondo governo Prodi dovette imbarcare una sconnessa ammucchiata di partitini che lo fecero franare nell’inconcludenza.
Riacciuffato il potere, il governo Berlusconi-Bossi inventò un sistema inedito, il Porcellum, fondato su uno smisurato e inaccettabile premio di maggioranza. Un premio in virtù del quale la maggiore minoranza (anche se fosse soltanto, per esempio, del 30 per cento dei voti) conquista il 55 per cento dei seggi in Parlamento. Si capisce che questo sistema piaccia al Cavaliere, che lo dichiara intoccabile. E siccome nuove elezioni potrebbero essere prossime, ecco che si moltiplicano le proposte per farlo saltare. Tra queste l’iniziativa di ieri (su questo giornale) del professor Stefano Passigli, già senatore, è quella che mi convince di più. Passigli preannunzia un referendum abrogativo della legge vigente, del Porcellum, che in sostanza ne cancella il premio di maggioranza.
Si potrebbe fare di più e anche di meglio. Ma è già emerso dall’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere del 12 ottobre che i nostri esperti continuano a essere in disaccordo e anche a proporre sistemi elettorali fantasiosi. So bene che il referendum è un grosso sforzo ma produrrebbe una soluzione accettabile e sensata per tutti. Sarebbe l’ora.

l’Unità 7.11.10
Da Brescia a Milano, migranti «sospesi» per la regolarizzazione
In migliaia hanno manifestato a Brescia per i migranti «truffati» dalla sanatoria su colf e badanti del 2009. Stesse scene a Milano, dove in sette da due giorni sono saliti su una ciminiera per ottenere la regolarizzazione.
di Giuseppe Vespo


«Ieri Brescia, oggi Milano, domani in tutta Italia», cantano e sperano gli immigrati raccolti sotto la ciminiera di via Imbonati, a pochi passi da piazzale Maciachini, periferia Nord di Milano densamente abitata da stranieri. Sopra i loro occhi, a circa quaranta metri d’altezza sette ragazzi protestano da due giorni: chiedono una «sanatoria per tutti», perché «immigration is not a crime», spiega uno striscione pendente dall’ex camino industriale della farmaceutica «Carlo Erba».
Dopo Brescia, anche a Milano i migranti manifestano per ottenere la regolarizzazione. Sospesi, sulla ciminiera, ci sono cinque egiziani, un argentino e un marocchino, tutti sotto i quarant’anni. Sul piazzale un gazebo, due tende e un centinaio di persone a dargli sostegno. Fa freddo, soprattutto di notte, ma loro dicono di voler andare avanti fino a quando non avranno dal governo le risposte che aspettano. A mediare è la prefettura. Le richiesta sono sei, dice Najat Tantaoui, combattiva portavoce del Comitato Immigrati in Italia, presidente dell’associazione Dialogo, titolare di una cartoleria e mamma di quattro bambini «nati in Italia e che si sentono italiani, cosa di cui sono fiera». Sei richieste, dicevamo. Innanzitutto un passo indietro rispetto alla «sanatoria truffa del 2009», quella che permetteva di mettere in regola colf e badanti.
Continua Najat: «Molti di noi da lavoratori hanno cominciato a pagare i contributi Inps ma aspettano ancora la regolarizzazione. Tanti altri invece hanno denunciato i datori di lavoro che chiedono di essere pagati per avviare le pratiche». Una sorta di pizzo sui documenti. Ma non ci sono solo colf e badanti. C’è la richiesta del diritto di voto per chi è residente da almeno cinque anni. Il diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia. Il prolungamento dei termini di scadenza del permesso di soggiorno quando si perde il lavoro. Riprende Najat: «Quelli che hanno perso il posto per via della crisi hanno solo sei mesi per trovare un’altra occupazione. Scaduto il permesso devono andare via. Noi chiediamo un proroga di due anni». Infine «il riconoscimento dei rifugiati politici come esseri umani».
MIGLIAIA A BRESCIA
Rivendicazioni simili a quelle avanzate dai cinque stranieri di Brescia che da più di una settimana si trovano su una gru nel cantiere della metropolitana di piazzale Cesare Battisti, in centro città. Sono saliti a 35 metri d’altezza dopo lo sgombero di un loro presidio e gli scontri con le forze dell’ordine. Dopo il «no» del prefetto alla richiesta di permesso di soggiorno, con loro ieri alcune migliaia di persone hanno manifestato
con un corteo. Nella folla c’era anche un gruppo di genitori di Adro, il comune famoso per la scuola in cui sono stati collocati circa 700 simboli del sole delle Alpi. La giornata di proteste migranti ha fatto registrare anche una manifestazione a Sassari, dove qualche giorno fa due stranieri sono stati aggrediti. Circa duecento persone hanno sfilato dietro lo striscione «No violenza, no razzismo».

Repubblica 7.11.10
Clandestini, espulsioni flop rimpatriato solo uno su tre
di Vladimiro Polchi


Mihai è moldavo. A Roma, lavora come piastrellista e imbianchino. Sua moglie è in regola: fa l´infermiera. Mihai, invece, i documenti non ce li ha. La polizia l´ha pure fermato e gli ha consegnato un foglio di via. Ma lui non ci pensa a tornare a casa. Resta in Italia, da invisibile. Mihai è il granello di sabbia che blocca l´ingranaggio, è il fallimento della politica delle espulsioni.
Nel 2009 su oltre 52mila irregolari fermati, solo 18mila (il 34,7%) sono stati effettivamente rimpatriati. E´ il dato più basso dal 1999. Stando all´Ocse, oggi in Italia vivono e lavorano oltre mezzo milione di immigrati irregolari. Il loro allontanamento dovrebbe avvenire o direttamente alle frontiere (respingimenti) o dopo l´ingresso sul territorio italiano (rimpatri). I risultati? Nel 2009 i respingimenti sono stati 4.298, in netto calo rispetto agli anni precedenti: 20.547 nel 2006, 11.099 nel 2007 e 6.358 nel 2008. Quali sono le nazionalità più respinte? Dopo l´ingresso di Romania e Bulgaria nella Ue, in testa ci sono gli albanesi (471 casi nel 2009), seguono i marocchini (320), i cinesi (196), i brasiliani (196) e i tunisini (186). La maggioranza dei respingimenti avviene negli aeroporti (2.719), seguono le coste (911) e le frontiere di terra (668).
Stessa curva discendente si registra per i rimpatri: erano 24.902 nel 2006, 15.680 nel 2007, 17.880 nel 2008 e solo 14.063 nel 2009. Insomma, come denuncia l´ultimo Dossier Caritas/Migrantes, l´anno scorso su un totale di 52.823 irregolari fermati dalle forze dell´ordine, solo 18.361 (tra respinti e rimpatriati) sono stati effettivamente allontanati: pari al 34,7%. Il che conferma il trend decrescente dal lontano 1999.
Le cose non andrebbero meglio nel 2010: stando a quanto dichiarato il 16 agosto scorso dal ministro dell´Interno, Roberto Maroni, dall´inizio del 2010 sono stati espulsi solo 9mila irregolari. Non è tutto.
Neanche i Centri d´espulsione paiono davvero funzionare, nonostante dal 2009 il tempo massimo di trattenimento sia passato dai due ai sei mesi. Se, infatti, da un lato è diminuito il numero degli irregolari trattenuti (16mila nel 2005, 10.913 nel 2009), la quota dei rimpatriati è crollata: erano il 68,6% dei trattenuti nei Cie nel 2005, solo il 38% nel 2009. E ancora: gli irregolari fermati e sanzionati nel 2009 sono stati 52.823, dunque solo un decimo degli immigrati senza documenti presenti in Italia, secondo l´Ocse.
Il calo di respingimenti e rimpatri potrebbe trovare spiegazione nella diminuzione del numero di irregolari presenti oggi in Italia? In fondo, stando ai dati del Viminale, dal 1 agosto 2009 al 31 luglio di quest´anno gli sbarchi sono diminuiti di ben l´88%. Peccato, però, che solo una minoranza degli immigrati che finiscono nella clandestinità arriva via mare. L´Istat, per esempio, ha calcolato che gli sbarchi nel 2008 hanno inciso solo per il 5,4% sugli ingressi irregolari in Italia. Il 65% degli immigrati, infatti, entra con un regolare visto turistico e alla scadenza resta da irregolare: li chiamano overstayers. Un altro 30% arriva via terra, attraverso le frontiere degli accordi di Schengen. E allora?
«La creazione della sacca di irregolarità - sostiene Franco Pittau, coordinatore del Dossier Caritas/Migrantes - non avviene a seguito degli sbarchi, ma degli ingressi regolari in Italia. La strategia di contrasto della clandestinità allora non può ridursi alla chiusura delle rotte via mare, ma deve ricorrere ad altri strumenti: una maggiore flessibilità nelle quote d´ingresso e il prolungamento da 6 a 12 mesi del permesso di soggiorno per attesa occupazione, nel caso in cui il lavoratore straniero perda il lavoro».

l’Unità 7.11.10
La morte di Tolstoj
Una profezia del Novecento
di Roberto Brunelli


L’anniversario Oggi cent’anni fa, nella stazionicina ferroviaria di Astopovo, morì lo scrittore più grande , al termine di una folle fuga in treno da tutto e da tutti. Un gesto fortemente emblematico: quasi un’ipotesi di modernità

Fu un’allucinazione? Di certo fu una fuga verso la morte, forse non consapevole, ma violentemente emblematica. Non a caso se ne accorse in tempo reale tutto il mondo: vennero qui, per il primo grande reality show della storia, i corrispondenti delle grandi testate nazionali, i fotografi e i primi cineoperatori di un secolo breve che aveva appena compiu-
to i dieci anni, lì nella stazioncina di Astopovo, dove la corsa a zig zag attraverso un pezzetto di Russia coperta di neve finì tra i colpi di tosse di un’ovvia polmonite. Un piccolo snodo ferroviario, qualche freddo vagone di terza classe per non farsi scoprire, notti e giorni febbrili passati a girovagare in un raggio di non oltre centocinquanta chilometri, l’intreccio di lettere con i figli che cercano di convincere l’anziano padre a tornarsene a casa e metter fine a questa follia, poi i giornali con i titoli a caratteri cubitali, l’arrivo della moglie Sof’ja cui solo quando il grand’uomo aveva perso conoscenza fu permesso di vederlo, la folla venuta a veder morire il più grande scrittore di tutti i tempi.
Tolstoj è morto oggi cent’anni fa e per certi versi è come fosse accaduto ieri. Accompagnato dall’immensa sua barba bianca, dal proprio medico e dalla figlia Aleksandra, l’ottantadueenne Lev Nikolaevic, scappato poche notti prima dalla propria tenuta di Jasnaja Poljana, costruì con la sua morte un pezzo di modernità. O, se non altro, la morte dell’uomo che aveva consegnato al mondo Guerra e Pace è piena di suggestioni assolutamente novecentesche, tanto da appassionare negli anni gente come Thomas Mann, Rainer Marias Rilke, Stephan Zweig, George Orwell: il mito della fuga, per esempio, il «road movie», la ribellione dal fortissimo stampo utopistico, il «reality show» come impropriamente abbiamo detto, il rapporto del tutto fuori dal comune con la moglie Sof’ja, sommamente conflittuale eppure lontanissimo dalle usanze dell’epoca, al tempo stesso rigonfio di echi provenienti dalla Sonata a Kreutzer.
Pare di ritrovarsi magicamente infilati in mezzo ad un suo romanzo, il che non è strano se si pensa che i suoi romanzi sono pieni di Tolstoj. Immaginatevelo, il vecchio utopista, l’impenitente moralista pieno di dubbi, lo scrittore celebre in tutto il mondo che oppresso dalla vita familiare e perseguitato dalle proprie aspirazioni di una vita «pura» e in povertà fugge dopo aver sentito, di notte, il fruscio di Sof’ja che fruga tra le sue carte. Così come si può credere a quelle che si dicono esser state le sue ultime parole, sul lettino sul quale l’avevano sistemato lì ad Astopovo: «Bisogna svignarsela... Svignarsela! La verità... Io amo tanto... come loro...». Nei giorni dell’agonia aveva ripetuto: «Andrò in qualche posto, che nessuno me lo impedisca, lasciatemi in pace».
Tolstoj, in vita e in morte, era i suoi romanzi. Prendete Pierre Bezuchov: come lui, aveva cercato migliorare le condizioni dei suoi contadini, incontrando la stessa diffidenza, come lui sembrava un candido quando viene messo a confronto con il potere. E c’è moltissimo di Tolstoj in Levin (Anna Karenina), dedito alla terra come Tolstoj, il quale piantò di persona non si sa quante centinaia di alberi a Jasnaja Poljana, e non è un caso che volesse essere sepolto in uno dei boschetti della tenuta: «Quando l’uomo nasce è flessibile e debole: quando è rigido e forte, muore. Quando gli alberi nascono, sono flessibili e teneri: quando sono secchi e duri, muoiono. La rigidità e la forza sono compagne della morte. La morbidezza e la debolezza sono compagne della vita».
VIOLENZA E ASTRAZIONE
C’è chi quest’aspetto della galassia tolstojana lo chiama «panteismo naturalista»: quel che è sicuro è che ci sono visioni, in Tolstoj, legate alla natura, che oggi definiremmo psichedeliche, per esempio proprio nella descrizione del lavoro nei campi di Levin in Anna Karenina, visioni che appaiono e scompaiono, immagini fluttuanti che contengono in sé elementi di trance, pulsazioni mistiche con una fortissima carica imaginifica. Chi lo capì benissimo fu Sergej Bondarciuk, il regista cui riuscì l’immane compito di trasformare Guerra e Pace per il grande schermo, facendone, peraltro, un nuovo capolavoro. Non solo nelle immagini di piante, alberi o nelle infinite lande russe trasfigurate e pulsanti come fosse la stessa Russia una unica immensa creatura vivente, ma anche, specularmente, nelle immagini di battaglia: dapprima, in mezzo agli spari, al sangue, ai corpi che cadono, la macchina da presa si alza, si muove sopra le teste dei soldati russi e di quelli francesi fino a diventare una ripresa aerea nella quale le differenze tra i combattenti si assottigliano sempre di più tanto da annullarsi, diventando le fughe e le avanzate dei vari pezzi di esercito una sorta di vortice sempre più astratto, sempre più insensato. Una specie di allucinazione, forse. Certamente la verità assoluta di Tolstoj.

il Fatto 7.11.10
“Il destino naturale di un Paese a pezzi”
L’archeologo De Simone: “Incuria criminale”
di Stefano Caselli


“Un crollo di questa portata, purtroppo, è il naturale risultato di almeno dieci anni di incuria gestionale da parte della sovrintendenza. Io sono stato sovrintendente per troppo poco tempo, non ho avuto il tempo di fare ciò che avrei voluto, ma non intendo fare polemica, quel che è accaduto è grave”. Antonio De Simone, docente di Archeologia presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, socio onorario dell’Associazione nazionale archeologi, tra i massimi esperti in campo internazionale dell'archeologia dell’area vesuviana, appreso del crollo della Domus dei Gladiatori, non nasconde un amaro fatalismo: “Si tratta di episodi che non sono certo la regola, ma nemmeno una rarità”.
Professor De Simone, che cosa abbiamo perso? La Domus dei Gladiatori è una delle tante abitazioni di Pompei che, come tutti sappiamo, è una vera città, non un semplice sito archeologico. Ad essere sinceri, non è uno dei punti di maggior interesse, nel senso che non si va a Pompei per vedere proprio quella cosa lì. Tuttavia è – o meglio, era – un tassello importante del disegno urbano della città, perché stiamo parlando di un isolato ad angolo retto che si affaccia su via dell’Abbondanza, la principale arteria di Pompei. Dunque, nel disegno complessivo, è un danno indubbiamente molto grave.
Un danno irrecuperabile?
Non saprei, dovrei vedere con i miei occhi. Di certo, quando crolla un pezzo di patrimonio artistico, cercare di ricostruire – per quanto possibile – è un obbligo morale. Pensiamo, ad esempio, al portico della chiesa di San Giorgio al Velabro a Roma: la bomba mafiosa del 28 luglio 1993 l’aveva quasi completamente distrutto, ma per fortuna siamo riusciti a ricostruirlo. Per Pompei deve va-
lere la stessa cosa. Si tenga conto che la Domus dei Gladiatori fu già gravemente danneggiata durante la Seconda guerra mondiale, perché i caccia alleati, di ritorno dalle incursioni su Napoli, avevano l’esigenza di liberare il carico prima di rientrare alla base e purtroppo qualche bomba cadde anche su Pompei. Ma tutto fu prontamente restaurato, dipinti compresi.
Il tetto fu ricostruito in cemento armato. È normale sistemare – e mantenere – un carico simile su un edificio di quasi duemila anni?
Non si tratta di un intervento anomalo, diciamo che è una tecnica sorpassata, come tante altre. Al Partenone di Atene, per fare un esempio, stanno sputando sangue per eliminare i ferri inseriti nelle colonne. Negli anni ‘20 del secolo scorso, era normale intervenire con il cemento armato, che era considerato non solo utile dal punto di vista conservativo, ma anche di pregio. Ora si cerca di toglierlo; ma la Domus non è crollata per il peso del cemento armato, è collassata per una banalissima carenza di manutenzione ordinaria: il soffitto non impermeabilizzato, dunque infiltrato d’acqua, e l’incuria cui sono stati abbandonati i muri, il peso del cemento armato non c’entra.
L’incuria è una conseguenza della mancanza di risorse?
Le risorse sono fondamentali e non c’è dubbio che siano carenti. Ma prima delle risorse vengono le idee, e se le idee sono buone camminano con le loro gambe. È necessario por mano a un restauro complessivo della città, intesa come unicum. Ma non si può fare tutto e subito, ci vogliono tempo e programmazione, partendo dalla consapevolezza che la città antica è un organismo debole e un intervento conservativo complessivo non può durare pochi mesi o qualche anno, ma deve essere programmato sul lungo periodo, con risorse scaglionate per periodi brevi. Se fossi l’amministratore e mi dessero tutti i soldi in una volta, li darei indietro, perché rischierei di spenderli in fretta e male. Bisogna agire per gradi, anche perchè Pompei è un luogo aperto al pubblico e non avrebbe senso chiuderlo per cinque, sei anni di fila.
Quando costerebbe un intervento conservativo efficiente? Credo che per un intervento davvero serio servirebbe una cifra non inferiore ai 500 milioni di euro, spalmati su 20-25 anni di operazioni mirate. Se qualcuno pensa che siano troppi, è sufficiente ricordare che 500 milioni sono una cifra risibile in confronto ai costi di una linea ferroviaria ad alta velocità o di qualche decina di chilometri di una normale autostrada.
Se Pompei cade a pezzi è anche colpa della politica? Sicuramente è un problema politico, ma soprattutto culturale. Il patrimonio artistico è la risorsa più importante del nostro territorio, lasciarlo deperire è semplicemente delittuoso, oltre che stupido. Tuttavia, quello che accade al patrimonio artistico italiano è, purtroppo, lo specchio di quello che è il nostro Paese. La riforma dell’Università funziona? La riforma (o supposta tale) della Giustizia che si vuole è quella giusta? In Italia sta andando tutto a rotoli, perché i beni culturali dovrebbero fare eccezione?

il Fatto 7.11.10
Achille Bonito Oliva
“Non abbiamo memoria di niente”
di Eduardo Di Blasi


“In Italia i beni    archeologici vengono ritenuti dei beni naturali, come se fossero piante, o rocce. Si pensa che ne abbiamo a sufficienza e che quindi, non dobbiamo preoccuparcene. Così, quando avvengono vicende come quella del crollo della Domus dei gladiatori di Pompei, sopravviene l’idea che non sarà poi questo grande guaio. In fondo, lasci che le dica, se ne dispiaceranno più i turisti inglesi e tedeschi che venivano a visitarli, che non i nostri concittadini”. Achille Bonito Oliva, professore, critico d’arte di statura internazionale, campano di nascita, non se la prende con i tagli del governo o con la malagestione degli ultimi cinque, dieci o venti anni. Se a Pompei un’infiltrazione d’acqua ha fatto crollare uno degli stabili di via dell’Abbondanza, un tassello del patrimonio dell’umanità, questo dipende anche dall’atteggiamento “da civiltà contadina” che gli italiani hanno maturato rispetto alle meraviglie architettoniche che ci ha lasciato la storia: “È come quando c’è un lutto in una famiglia molto numerosa. Ci si dispiace, ma non è un dramma. Come dire? Gli italiani non hanno una corretta misura di questi valori perché ritengono di possederne in abbondanza. Si ritiene che basti lasciarli lì dove sono, senza toccarli”.
E la politica?
La politica soffre dello stesso male. Chi ci amministra a Pompei viene più volentieri per vedere il santuario della Madonna che gli scavi della città distrutta dal Vesuvio. È gente che a Venezia va a piazza San Marco a fare le foto con i piccioni.
E intanto c’è un patrimonio artistico che va sbriciolandosi sotto i nostri occhi... Io sono più preoccupato dell’indifferenza con cui questi crolli vengono accolti. È passata un’idea proprietaria dei beni culturali, come se questi fossero di chi li amministra in un dato momento. Non è così. Pompei non è di chi la gestisce oggi, o di chi lo ha fatto ieri: è un bene collettivo, dell’umanità, che appartiene a tutti. Ed è per questa ragione che deve essere tutelata.
Non essendo una cosa di nostra proprietà, o non riconoscendone l’importanza, lei afferma, finiamo per dimenticarcene...
Credo che a questo contribuisca anche l’abbaglio televisivo, che in qualche modo finisce per sostituire il reale. La virtualità nella quale viviamo finisce per appianare qualunque dolore estetico. Se io ho fissato Pompei in un videogioco o in un documentario, è di quello che serbo memoria. Anche perchè, spesso, non conserviamo memoria di questi luoghi perchè questi luoghi non sono da noi frequentati.
I siti archeologici figurano ai primi posti in Italia per numero di visitatori... Il nostro patrimonio antico è rispettato e onorato dai turisti che arrivano dalla Germania, dalla Francia, dal resto dell’Europa. Noi continuiamo a vivere nel mito di “Roma, capitale dell’Impero”, e quello ci basta. È nel resto dell’Europa che è sopravvissuta una cultura da “grand tour”, quella che nel 1600 muoveva i figli delle buone aristocrazie a spingersi verso il viaggio di formazione. Se oggi va a Pompei, o a Ercolano, o anche a Piazza Armerina, trova tantissimi viaggiatori che arrivano da altri Paesi europei, e pochissimi italiani.
Il quadro che lei disegna è sconfortante: non c’è un interesse per
dei beni che il resto d’Europa ci invidia. E in questo disinteresse collettivo questi stessi beni si sfaldano. Come se ne esce?
Io credo che si debba cominciare dalla scuola, come per la raccolta differenziata. Fino ad oggi, nel nostro Paese, non c’è stato nessun tentativo pedagogico di questo tipo. Probabilmente si dovrebbe cominciare a farlo.

Repubblica 7.11.10
Uno scandalo mondiale
di Salvatore Settis


Nelle guerre si contano i morti e si dimenticano le cause. Il crollo della schola armatorum a Pompei è una notizia che sta facendo il giro del mondo, come è successo negli ultimi mesi a Roma coi crolli della Domus Aurea e del Colosseo.
Ma la vera notizia è che molto altro, a Pompei ed Ercolano come a Roma, ancora "regge", a dispetto dell´incuria, dei brutali tagli di bilancio, delle continue riduzioni del personale, della mancanza di turn over. Altri crolli, altre rovine, altri disastri arriveranno, immancabili. Il punto è se vogliamo rassegnarci a tenere il conto dei monumenti condannati alla distruzione, o interrogarci sulle cause.
Quando il governo annunciò, col decreto-legge 112 (luglio 2008), un taglio ai Beni Culturali per oltre un miliardo e 200 milioni di euro nel triennio, fummo in pochi a denunciare l´enormità dello scippo a un bilancio già drammaticamente inferiore alle necessità di un patrimonio enorme come il nostro. Ma quasi nessuno volle capire che a un taglio di tale portata non potevano che seguire disfunzioni e problemi d´ogni sorta; anzi, a ogni nuovo disastro non manca chi cade dalle nuvole e si chiede "come mai?", senza collegare gli effetti con le cause. Come se dovessimo fare le meraviglie per l´insorgere della carestia in una zona di estrema povertà. L´irresponsabile taglio dei finanziamenti è dunque una causa primaria di questi e altri crolli, ma non la sola. Da vent´anni governi di ogni colore hanno fatto poco o nulla per rinnovare i quadri delle Soprintendenze, lasciando invecchiare i funzionari senza sostituirli. Si è fatto anzi di tutto per svuotare gli organici, spedendo in pensione d´autorità eccellenti archeologi e storici dell´arte allo scadere dei 40 anni di servizio. Emblematica la situazione di Pompei: andato in pensione Piero Guzzo, uno dei migliori soprintendenti italiani, si sono succeduti nel giro di un anno e mezzo ben tre soprintedenti ad interim (uno dei quali al tempo stesso doveva reggere la Soprintendenza archeologica di Roma), creando ovvie discontinuità di gestione.
Come se non bastasse, i soprintendenti di Pompei (e non solo) sono stati ripetutamente esautorati e delegittimati mettendo al loro fianco un commissario straordinario del Ministro: il primo fu un prefetto in pensione (Profili), il secondo un funzionario della Protezione Civile (Fiori). Come mai si possa affidare Pompei a un prefetto in pensione, e non invece ritardare di un solo giorno il pensionamento di un archeologo, è un mistero in attesa di soluzione. Pompei è fra i siti archeologici più visitati al mondo, e ha introiti annui di circa 20 milioni di euro. Nei corridoi del Ministero si ritiene evidentemente che siano troppi, dato che il 30% sono dirottati su altri poli museali; inoltre, il commissario ha incamerato almeno 40 milioni di euro destinandoli in buona parte non all´archeologia, ma a eliminare i cani randagi, a illuminare strade malfamate e ad altre operazioni di facciata, peraltro a quel che pare con scarso successo. È di pochi mesi fa l´apertura di un´inchiesta della Corte dei Conti sulle procedure di emergenza adottate a Pompei.
Anziché affrontare questi ed altri problemi, anziché reperire nuove risorse, chi ci governa si accontenta di annunciare periodicamente l´avvento di prodigiose Fondazioni (che non esistono), la pioggia di capitali privati (che non arrivano), gli imminenti miracoli della Protezione Civile, credibili quanto la fine dell´emergenza spazzatura in Campania. Ingabbiati in un effetto-annuncio autoreferenziale, ministri e sottosegretari forse non riescono più nemmeno a vedere il nesso elementare fra il taglio delle risorse e il crescere dei problemi; o forse sono ancor più colpevoli, perché lo vedono e lo nascondono ai cittadini. Non fanno nulla per rimediare alle crescenti, drammatiche carenze di personale. Intanto la delegittimazione delle Soprintendenze ha fatto un altro passo avanti: il Consiglio di Stato ha appena cestinato la tutela del sito archeologico di Saepinum (Molise), con una sentenza che offende il Codice dei Beni Culturali e la Costituzione, autorizzando una centrale eolica contro il divieto della Direzione Regionale ai Beni culturali. Italia Nostra ha già elevato in merito una vibrata protesta: l´affermata priorità di un permesso comunale sulle esigenze di tutela è gravissima non solo perché condanna a morte un sito archeologico di primaria importanza ma perché costituisce un pericoloso precedente, quasi il prevalere della Costituzione immaginaria vagheggiata da Tremonti, dove la libertà d´impresa sarebbe il principio supremo, sulla Costituzione reale e vigente secondo cui la libertà d´impresa non dev´essere «in contrasto con l´utilità sociale» (art. 41), e la «tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione» (art. 9) è un valore primario e assoluto.
Per affrontare degnamente i problemi della tutela in Italia basterebbe recuperare meno dell´1% della gigantesca evasione fiscale (la più grande del mondo occidentale in termini assoluti e relativi). Di fronte a Pompei che crolla, a Saepinum invasa dalla pale eoliche, che cosa intende fare il governo? Fino a quando

il Fatto 7.11.10
Pubblica devastazione
Nell’indifferenza delle istituzioni, Gelmini e Brunetta sferrano l’attacco definitivo alla scuola italiana: un’aggressione che gli studenti e i sindacati affrontano opponendosi anche con l’ironia
di Marina Boscaino


Settimane calde per la scuola.
Dopo gli studenti, dopo il Coordinamento Precari, il 6 novembre è stato il turno della CGIL Funzione Pubblica, con presidi a cui partecipano anche gli insegnanti. Risposta a 300.000 unità di taglio annunciate da Brunetta e alla prossima entrata in vigore del suo decreto sulle nuove sanzioni disciplinari per il personale della scuola, che intanto Gelmini continua indisturbata e autoreferenziale a delegittimare. Tocca ai dirigenti scolastici, disobbedienti potenziali. Va detto, in minima parte: la maggioranza si è dimostrata, in questi anni di mobilitazione per la scuola pubblica, più realista del re, assecondando (se non anticipando) la volontà del ministro. Prevenire è meglio che curare e Brunetta ha ottimi vaccini; ad esempio, il “bavaglio”. Azioni di repressione vera e propria nei confronti di chi nei collegi-docenti si batte per procedure legittime, autonomia e prerogative degli organi collegiali: è il caso del docente di Carpi, Mele, e del suo scontro con Limina, direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale Emilia Romagna, promulgatore di circolari e editti liberticidi, uno dei luogotenenti che Gelmini usa per tacitare il dissenso, di cui Il Fatto si è occupato. Ora dirigenti diffidati dall’esprimere pareri in contrasto con le strategie ministeriali.
LA DIZIONE è ambigua: le esternazioni considerate “manifestazioni ingiuriose nei confronti dell’amministrazione, salvo che siano espressione della libertà di pensiero” porteranno alla “sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di 3 giorni a un massimo di 6 mesi” (e nel frattempo la scuola cosa fa?). Il sottile limite tra libertà e ingiuria sarà stabilito dai Direttori Regionali (tra cui Limina, appunto). Il Codice Disciplinare, pubblicato sul sito del Miur, prevede anche pene per il preside reo di coprire comportamenti irregolari da parte di personale Ata o docenti. Concretizza così il doppio vincolo di randello tra le mani di chi (privo di autorevolezza culturale, carisma personale e consapevolezza della propria funzione politica come dirigente di una scuola pubblica) vorrà sanare frustrazioni pregresse, in un esercizio di potenza, i cui limiti sono lasciati alla libera interpretazione di funzionari alle dipendenze del ministero. O di strumento per scoraggiare – in temperamenti pavidi – contributi alla mobilitazione. In entrambi i casi, utilissimo per diffondere un clima da “pensiero unico” (solo minacce e repressione possono far inghiottire l’amara pillola della dismissione della scuola pubblica) sotto le mentite spoglie di etichette apparentemente neutre: valutazione, rispetto, controllo, rendicontazione sociale. Imporre alla scuola pubblica –luogo di laicità e pluralismo – limitazioni alla libertà di pensiero è l’aspetto più drammatico dell’equivoco strumentale (ma compenetrato nel Dna di questa classe dirigente) tra autorevolezza e autoritarismo. Voltiamo pagina: un’indagine Acri-Ipsos, in occasione dell’86esima Giornata del Risparmio, rivela che una buona parte degli italiani ritiene indesiderabile il taglio non solo di sanità e pensioni, ma anche di istruzione e ricerca. Un’altra indagine, “Consumi e consumatori dentro la Crisi”, realizzata dalla Provincia di Roma, con l’Università Roma Tre Facoltà di Economia (prof. Trezzini e dr. Naccarato), dimostra che le spese per l’istruzione, sacrificate dal 20% delle famiglie interpellate, hanno comunque “tenuto” molto più di altre. Le famiglie di qualsiasi provenienza socioeconomica ritengono essenziali le spese per istruzione e libri non scolastici, anche per guadagnare stima sociale. L’istruzione, insomma, è considerata bene irrinunciabile. La risposta a questi nobili bisogni si sta concretizzando nel taglio di 8mld alla scuola. E nelle conseguenze che studenti, lavoratori e pubblica istruzione quotidianamente affrontano. Due facce della stessa medaglia: avvertimenti di direzioni contrarie alla costruzione della civiltà della cultura e della libera espressione. Ricordo divertita e sottoscrivo lo slogan della bella manifestazione napoletana di una settimana fa: ‘Vogliamo un’eruzione di Pubblica Istruzione’. Controproposta al mondo grigio di Gelmini e Brunetta.

Corriere della Sera 7.11.10
Le parole per raccontare la bellezza del mondo
di Jean Starobinski


Come dire e descrivere la bellezza del mondo? Per far questo, afferma Proust alla fine di Combray, bisogna superare «il disaccordo tra le nostre impressioni e la loro espressione». Ma che cosa significa accordo tra impressione ed espressione? In base a quale criterio si può apprezzarne la giustezza? Proust sa bene che l’emozione non si comunica in virtù della sua sola intensità. Essa deve conquistare i mezzi, verbali o pittorici, che la interpreteranno per manifestarla. Per nascere, i poteri della parola richiedono un percorso di apprendistato, un progresso iniziatico. Il romanzo di Proust, come è ben noto, ripercorre, con gli strumenti della maturità infine raggiunta, tutta la serie semi-fittizia dei tentativi ingenui, degli errori, dei traviamenti, delle ferite che precedettero la chiara consapevolezza del compito da svolgere. Ma tutto ciò ha avuto un prezzo. La padronanza tardiva è stata pagata con l’accettazione di molte perdite, e soprattutto con l’ammissione del soccorso della memoria involontaria che va di pari passo con l’ascesi volontaria e con il rifiuto di ogni «idolatria». Solo una volta invecchiato, l’adolescente esaltato che avrà ormai attraversato tanti paesaggi, tanti lutti, tante futilità mondane, potrà descrivere con ironia l’emozione provata nei dintorni di Combray alla fine di una giornata in cui il mondo aveva svelato davanti ai suoi occhi un fugace sprazzo della sua bellezza: «Il tetto di tegole creava nello stagno, che il sole aveva reso di nuovo specchiante, una marezzatura rosa alla quale, prima, non avevo mai fatto attenzione. E vedendo che sull’acqua e sulla superficie del muro un pallido sorriso rispondeva al sorriso del cielo, gridai in preda all’entusiasmo, brandendo il mio parapioggia arrotolato: "Accipicchia, accipicchia!" Ma immediatamente sentii che sarebbe stato mio dovere non accontentarmi di quell’opaca esclamazione e cercar di vedere più chiaro nel mio trasporto».
Pierre-Auguste Renoir «L’Estaque» 1882. All’inizio degli anni 80 dell’Ottocento, Renoir e Cézanne dipingono talvolta insieme in Provenza. Affrontano il medesimo soggetto paesaggistico da angolazioni diverse e in ore diverse
La testimonianza del ricordo porta con sé, nello stesso istante, un compito etico: il senso di un dovere, e un imperativo di conoscenza, «vedere più chiaro», vengono distintamente percepiti, al di là del trasporto estetico. Il narratore se ne rende conto solo molto più tardi: una sensazione di inquietudine aveva accompagnato l’ebbrezza, incapace di manifestarsi se non attraverso un’esclamazione ripetuta, quasi un grido di dispetto. Il giovane del passato era stato il testimone — affascinato, inerme, colpevole — della bellezza, apparsa tra cielo e terra in un gioco di immagini e di luci. Attraverso la memoria riflessiva, in risposta al ricordo di quella visione, il narratore riconquista lo spettacolo a cui aveva assistito allora e insieme il turbamento che la bellezza del luogo e del momento aveva suscitato in lui. Retrospettivamente, comprende che il dispetto, le esclamazioni banali, il gesticolare ridicolo, erano stati solo gli antecedenti amorfi di ciò che, più tardi, si sarebbe dispiegato, sulla pagina che stiamo leggendo, in una scrittura «letteraria» perfettamente articolata. Il dovere viene tardivamente soddisfatto, la conoscenza è acquisita: giustizia è infine resa a quell’istante miracoloso del passato, quando gli «ori» del sole, succedendo alla pioggia, avevano fuggevolmente rischiarato un angolo di campagna francese quale avrebbe potuto portarlo sulla tela il pennello di Théodore Rousseau o di Claude Monet.
Il primo saluto alla bellezza del mondo, per il giovane Marcel, ha dunque rotto a mala pena il silenzio, o per meglio dire lo ha rotto in maniera così rumorosa da entrare in dissonanza con esso. Fu solo l’esplosione di una gioia confusa, attraversata da un sentimento di insufficienza, e dalla delusione di riuscire a dare a quella bellezza soltanto una risposta afasica. Una risposta del corpo al paesaggio, risposta pienadistupore macieca,prigioniera dell’opacità interiore e di conseguenza incapace di costruire la minima frase simile alla luce esterna. La narrazione offerta ai lettori del testo romanzesco paga dunque un debito antico, consegnando al nostro sguardo la descrizione un tempo impossibile e, contemporaneamente, la raffigurazione ironica di un «io» anteriore, ignorante e meravigliato. Proust fa uso, qui, di una figura retorica di cui si può dire che tutto il suo romanzo è l’illustrazione: la preterizione. Ma si tratta di una preterizione di un tipo molto particolare. Nel suo uso tradizionale, la preterizione consiste nel dire una cosa dichiarando di non volerla dire. È un’astuzia dell’arte oratoria che così finge di giungere più in fretta al termine: «Non ti dico…». Il narratore della Recherche, da parte sua, pratica la preterizione al passato. Descrive un paesaggio, poi una scena, mentre dichiara di non essere stato, allora, in grado di descriverli, di comprenderli, di dargli il loro vero significato. Gli erano sfuggiti. «Non ho saputo dire…». La parola letteraria cerca di riparare una perdita ritrovando (o dichiarando ritrovato) il «tempo perduto» che raccoglie luoghi e persone. L’opera letteraria salda un debito. Espia, in un certo senso, un tempo in cui la verità della sensazione non era stata riconosciuta, e dà voce a una percezione che sul momento non aveva potuto incarnarsi in un’espressione.
Ma esistono descrizioni del paesaggio che non siano preteritive? L’espressione è sempre in ritardo sull’impressione. Proust lo rivela accentuando lo scarto tra i due momenti. Il presente della sensazione non può essere descritto che al passato. E per giunta questo passato è una finzione: quello che leggiamo è un romanzo. Il supremo miraggio letterario consiste nel rendere credibile il gesto che ricattura, nel far credere che lo scrittore non sia interamente passato accanto alla vita, e alla verità.
 Proust non è stato il primo né il solo a sperimentare il «disaccordo» tra ciò che si offre allo sguardo e ciò che il linguaggio è in grado di dire. La distanza è troppo grande, la bellezza troppo inafferrabile, e lo spirito, per quanto faccia esso stesso parte di quel mondo che lo incanta, sente di non avere la forza di registrarlo e di fissarlo. Nella sua Histoire des artistes vivants, Théophile Silvestre riporta un’affermazione di Corot che esprime questa delusione con forza e semplicità: «Quando mi trovo in mezzo alla natura, provo rabbia verso i miei quadri».
La retorica dell’ineffabile, il ricorso sistematico ai prefissi negativi degli epiteti (inesprimibile, indicibile, inaudito...) appartiene sia alla teologia negativa sia al vocabolario che celebra la bellezza del mondo dichiarandola fuori portata per i nostri mezzi espressivi. Questo vocabolario ha l’evidente effetto di segnalare un limite: designa l’ostacolo che ci vieta di metterci sullo stesso piano dell’essere che si manifesta a noi nella sua magnificenza o nella sua estrema delicatezza. Ha la funzione di segnalare che ci sentiamo votati allo scacco perché siamo sensibili a ciò che ci eccede. Ma ricorrendo al prefisso di negazione, che umilia il linguaggio, il nostro spirito si attribuisce implicitamente il potere di riconoscere l’insuperabile, e in tal modo di superarlo. «Saper salutare la bellezza», secondo l’espressione di Rimbaud, significa saper conservare nelle parole stesse il silenzio che ci è imposto da quanto va al di là della nostra esistenza. La descrizione del paesaggio è una delle occasioni in cui la parola letteraria può fare l’esperienza del proprio limite e allo stesso tempo elevarsi fino al «sublime». In Proust, il grido di dispetto è un momento preliminare, che si apre verso il futuro. Ma Proust conosce anche, come molti altri artisti, un grido finale: quello del Marsia scorticato che si intravede in secondo piano in una delle più belle scene pastorali di Claude Lorrain.
Ricordiamo l’ultima frase del poema in prosa intitolato Il confiteor dell’artista: «Lo studio della bellezza è un duello in cui l’artista grida di sgomento, prima di essere vinto». Baudelaire introduce, in un poema in prosa, ovvero nell’opera d’arte stessa, il grido che confessa la disfatta dell’arte. È la versione moderna di ciò che, al di là dell’ineffabile, ritrova l’infandum: l’impronunciabile perché sacro.
 Traduzione di Monica Fiorini

Corriere della Sera 7.11.10
«Il manifesto muore, ci salvi un magnate come con Le Monde»
di M. Gu.


Il fondatore del quotidiano comunista: forse non riusciremo a festeggiare i 40 anni. Anche per colpa nostra

ROMA — Valentino Parlato, lei ha scritto che il manifesto sta morendo. Davvero il quotidiano dell’eresia comunista ha tre mesi di vita?
«Siamo in crisi, una crisi molto brutta. Il governo ha tagliato i finanziamenti, un atto che per un giornale piccolo come il nostro è mortale».
E lei, sulla prima pagina di ieri, si è appellato a un magnate come Xavier Niel, il self made man francese che ha salvato Le Monde. Ha qualche nome in testa?
«Purtroppo no, perché in Italia troppe volte i magnate sono magnaccia. Se ho citato Niel è solo per vedere se ci viene qualche aiuto».
Ci vorrebbe un riccone...
«C’è un riccone in Italia che può comprare il manifesto per farlo restare così com’è? Un tempo c’erano gli Agnelli, i Pirelli... Quando ero giovane i grandi capitalisti guardavano al futuro, ora pensano tutti alla mezz’ora prossi ma. L’Italia non ha più ideali».
E così, per scongiurare che il manifesto muoia di «grande depressione», lei chiede una «longa manus» ai lettori-editori.
«Il 28 aprile dell’anno prossimo facciamo quarant’anni e chissà se festeggiamo il compleanno. Le vendite calano e forse è anche per nostro demerito, dobbiamo confessarlo. Ma io penso che ci sia dell’altro». Ragioni politiche? «In questa crisi della sinistra, la cui critica alla destra è debole, un giornale storico come il nostro rischia di saltare. La crisi dei partiti investe anche noi, che eravamo sinistra sinistrissima». Eravate? «Continuiamo a chiamarci "quotidiano comunista" quando solo Berlusconi usa ancora quel termine».
Basterebbe modificare la testata...
«No, piuttosto lascio la presidenza. Non credo che sia la parola comunista ad allontanare i lettori. Ma devo riconoscere che la qualifica oggi è in difficoltà». Perché non la toglie? «Perché credo ancora nel comunismo come speranza di cambiamento».
Vendola dice che la sinistra può cambiare l’Italia.
«Il problema è che Vendola, come Diliberto o Ferrero, attacca Berlusconi con formule berlusconiane. Mentre il governatore della Banca d’Italia avverte che il Paese sta morendo di precariato, noi ci occupiamo di Ruby».
Cosa dovrebbe fare la sinistra?
«Sa cosa temo, io? Un 25 luglio senza un 25 aprile».
La caduta di Mussolini senza la Liberazione...