sabato 27 novembre 2010

l’Unità 27.11.10
Bersani: «Governo irresponsabile» Stoccate a Vendola e Montezemolo
Il leader Pd conclude il convegno dei gruppi parlamentari con un attacco alle «irresponsabili» prese di posizione del consiglio dei ministri. Nuovi margini per la sfiducia. E se si va al voto? «Tocca a noi giocarci quella carta...»
di Simone Collini


Manca ancora troppo tempo al 14 dicembre e cambiano ancora troppo da un giorno all'altro i posizionamenti dei protagonisti sulla scena. Ma a questo punto Bersani inizia a crederci. Le «irresponsabili» uscite di Frattini che dimostrano la debolezza del governo, le solite promesse di un Berlusconi che ormai non riesce neanche più a nascondere i «traccheggiamenti» a cui è costretto, la mobilitazione nel Paese di studenti («i giovani fanno bene a ribellarsi un po’») e lavoratori («per noi il lavoro resta centrale, non è un tema da modernariato»), per non parlare del messaggio di Fini al premier sul fatto che non si andrà a votare con questa legge elettorale e che non c'è un'alternativa tra fiducia e voto perché ogni decisione spetta al Quirinale: per il leader del Pd ci sono tutte le condizioni per un «cambio di scenario» e per la nascita di quello che definisce «un governo di responsabilità istituzionale e di stabilità finanziaria ed economica».
Bersani chiude il convegno organizzato dai gruppi parlamentari nell' Abbazia di Spineto dicendo che del modo in cui si deve «giocare la carta del consenso» se ne potrà parlare un' altra volta, mentre ora bisogna spiegare agli italiani che la situazione può richiedere scelte magari impopolari, ma sicuramente necessarie. «Sono consentite oneste omissioni ma non raccontar balle», dice ai deputati e senatori confessando anche che gli «dà fastidio» l'espressione (molto usata da Vendola) «narrazione» («cos’è, una favola?»). Il pensiero va al piano di rientro del debito chiesto dall'Europa, e al fatto che il 16 dicembre Tremonti dovrà andare all’Ecofin. «Ci andrà per forza di cose zoppicante, at-
taccato a un voto così», e fa il gesto del braccino corto. E qui Bersani rovescia l’impostazione di chi sostiene che si debba sostenere ancora il governo Berlusconi in nome della stabilità: «Non dobbiamo far passare l'idea che siamo noi a volere l'instabilità. Han fatto tutto loro. Noi dobbiamo garantire un governo di stabilità economica e finanziaria».
Questo rimane l'obiettivo del Pd, e ieri i parlamentari si sono salutati scambiandosi qualche sorriso in più. La situazione è tutt'altro che chiara e la meta tutt'altro che vicina, ma i segnali di nervosismo mostrati dal governo vengono interpretati come un'ammissione di debolezza, pericolosa per il Paese. Dice Bersani riferendosi alle parole di Frattini: «Un governo che solleva argomenti del genere lasciandoli in aria mostra una totale irresponsabilità. È la prova provata che un esecutivo che non c'è più può provocare solo una pericolosa instabilità». Il leader del Pd, anche sulle ultime uscite del premier, un po' ironizza («ha realizzato i cinque punti del programma?, bene, può andarsene a casa contento») un po’ si mostra preoccupato. Se il capo del governo dice che sarebbe suicida attaccare un patrimonio del Paese come Finmeccanica, Bersani dice che proprio perché «tutti teniamo a Finmeccanica tutti dobbiamo tenere anche alla chiarezza». E se si dovesse andare al voto? Quello che dice il leader del Pd ai parlamentari è che «il berlusconismo è l'escrescenza più tragica di un problema di fondo della democrazia» e sarebbe «paradossale se ora che anche quelli di là hanno capito che la personalizzazione della politica non funziona, di qua pensassimo che adesso tocca a noi giocarci quella carta lì». E in sala molti pensano a Vendola. Altri a Montezemolo.

Repubblica 27.11.10
Bersani: non serve l´uomo della Provvidenza
"Elezioni una martellata al Paese". E attacca Vendola: la narrazione? Favole
A Sarteano Prodi parla del "tramonto" del berlusconismo e dei rischi di crisi
di Giovanna Casadio


SARTEANO - Bersani elenca gli errori in cui il Pd non deve cadere. Deve evitare ad esempio, di parlare di "narrazione", parola che al segretario democratico fa venire l´orticaria, forse perché il copyright nella sinistra italiana ce l´ha Nichi Vendola. Narrazione è, come scrive Orazio, «"de te fabula narratur", favola, appunto. Noi dobbiamo avere la nostra cifra». E nella "cifra" dei Democratici c´è «la sobrietà» e un imperativo categorico: «Non dobbiamo fare i berlusconiani». Niente personalismi, partito-liquido alla Veltroni; suggestione alla Vendola; attesa dell´uomo della Provvidenza che qualcuno vede in Montezemolo. Insomma, ora che il governo è in crisi profonda non sia mai - esorta Bersani - che accada «il paradosso, per cui nel campo di là hanno percepito che il berlusconismo non funziona e non vorrei che di qua pensassimo che adesso tocca a noi giocarci quella carta». Ma il berlusconismo è «l´escrescenza di un problema di fondo rappresentato dalla crisi della nostra democrazia: la sinistra non si faccia tentare. Berlusconi ha ormai perso la testa». Nel centrosinistra c´è bisogno di pensare alle riforme vere («Riapriamo il tema delle riforme istituzionali»), una volta risolta la crisi di governo con un «governo di transizione» oggi più che mai necessario. Un governo di «stabilità finanziaria ed economica», sul quale non vanno raccontate «balle: sogni sì, ma con le gambe». Elezioni subito con questa legge elettorale sarebbero «una martellata al paese».
Nell´abbazia medioevale di Spineto il conclave dei deputati, riuniti da Dario Franceschini, si conclude con qualche ora di anticipo, tra grandinate e freddo, ma con «soddisfazione politica», soprattutto per il ritorno di Prodi a una convention Pd. Il Professore è partito giovedì sera dopo una "lectio" di politica estera e di economia, dopo avere spronato il partito, una sosta breve a cena (ma ha sventato i canti alpini di Bersani nel dopocena). Aveva fatto anche un´intervista a Bloomberg tv, mandata in onda ieri, nella quale dice: «L´epoca di Berlusconi è al tramonto, è al declino. Siamo all´agonia dell´agonia. Ma quanto può durare nessuno può dirlo, questi sono passaggi sempre difficili». E il Professore ragiona anche sui due anni di governo e su una coalizione di centrodestra che si vedeva subito non poteva tenere, non condividendo gli obiettivi e «inadatta a porre fine alla lunga crisi del paese». Il messaggio-chiave dell´ex premier è però verso l´estero: «Il nostro deficit non è oggi fuori controllo come non era fuori controllo ieri, quindi i mercati internazionali dovrebbero capire che anche un cambiamento di governo non produce danni irreparabili. Certo se ci fosse un lungo vuoto di potere, i mercati potrebbero allarmarsi ma mi auguro che questo non avvenga». Quindi, il governo di transizione è indispensabile. E Draghi? Tanto per cominciare, «merita la successione a Trichet alla Bce».
Bersani ieri replica all´accusa che il governo muove al Pd, cioè di volere l´instabilità. Non è così: «Hanno fatto tutto loro. All´Ecofin il 15 dicembre Tremonti andrà bene che gli vada attaccato a un voto, oppure "zoppo". Berlusconi dice di non essere preoccupato della crisi? È lui preoccupante». Al premier sono riservate bordate e battute: «Sostiene di avere attuato i cinque punti? Bene, può andarsene a casa contento»; «L´11 dicembre manifesta anche il Pdl, nello stesso giorno della nostra manifestazione? Facciamo una bella gara». Con Veltroni, che ieri ha convocato la convention del suo Movimento, è scambio di cortesie: Bersani anticipa il discorso a Sarteano per non sovrapporsi all´appuntamento veltroniano; Veltroni resta ad ascoltarlo. Franceschini, il promotore della due giorni, lascia spazio agli altri e dà appuntamento a maggio per un altro conclave. Anche se da qui ad allora, c´è la trincea parlamentare. E Bersani: «Noi non siamo un gruppo parlamentare da Transatlantico ma da emiciclo e da territorio».

Corriere della Sera 27.11.10
Veltroni-D’Alema, strategia contro l’«Opa Vendola»
I democratici preoccupati dalla sfida con il governatore pugliese alle primarie


ROMA — E se Pier Luigi Bersani non ce la facesse? Se alla primarie Nichi Vendola lo battesse? Allora il Partito democratico potrebbe chiudere i battenti, a soli tre anni dalla sua nascita. È questo l’incubo che agita i dirigenti del Pd. È una preoccupazione trasversale, che unisce dalemiani e veltroniani, ex popolari ed «ecodem».
L’esperienza del primo governo Prodi termina nel 1998, quando il presidente del Consiglio non ottiene la fiducia alla Camera per un solo voto, e si dimette. Dopo gli esecutivi guidati da D’Alema e Amato si arriva alle urne nel 2001 e Berlusconi, battendo Francesco Rutelli, torna a Palazzo Chigi Il secondo scontro fra i due risale alle elezioni dell’aprile 2006, e anche in quel caso è Romano Prodi (che nel frattempo è stato Presidente della Commissione europea) a vincere le elezioni: il suo secondo governo, però, resta in carica solo 2 anni. Nel 2008 si torna alle urne e il candidato del centrosinistra è Veltroni, che viene sconfitto dal Cavaliere
L’altro giorno, nel Transatlantico di Montecitorio, il governatore della Puglia camminava a braccetto con uno dei suoi luogotenenti, Gennaro Migliore. Il quale poi è stato avvicinato da Walter Veltroni. Poche frasi di rito, quindi l’avvertimento dell’ex segretario: «Guardate che non vi potete espandere oltre». Come a dire: non pensate di lanciare un’Opa sul Pd. Migliore ha fatto finta di niente e ha replicato: «Noi proponiamo solo di fare le primarie tra Nichi e Bersani». Immediata la reazione di Veltroni: «So che state già godendo come matti perché questo è lo schema che conviene a voi».
Suppergiù nello stesso momento, nell’aula di Montecitorio, Massimo D’Alema spiegava a qualche compagno di partito: «Il disegno di Vendola è chiarissimo: lanciare un Opa su di noi. Prima ci ha provato Di Pietro, ora ci prova lui». Il fatto che il presidente del Copasir e l’ex leader del Pd svolgano ragionamenti analoghi non significa certo che tra i due sia stata siglata la pace. Rimangono lontani anni luce, anche se D’Alema ha ammesso: «Quando io e Walter siamo d’accordo facciamo cose buone».
Nessun armistizio, dunque, o tanto meno un patto. Una comune preoccupazione sì, però. Come ammette il dalemiano di ferro Alessandro Nannicini, che ieri giocava «fuori casa», perché era all’assemblea del Modem (il movimento di Veltroni), aperta da un intervento di suo figlio Tommaso, economista della Bocconi. «Io penso che alla fine, se la situazione si fa difficile, sarà Massimo a dire: superiamo il dualismo Bersani-Vendola trovando un terzo nome. E sarà lo stesso Pier Luigi a muoversi in questo senso, perché non è un uomo attaccato agli incarichi: ha a cuore solo il partito».
Quale che sia l’esito delle vicende di casa Pd, che ci sia grande allarme lo si è capito ieri, alla convention della minoranza. Dove circolavano sondaggi che danno il partito tra il 23,8 e il 24,2. Walter Veltroni, che ha chiuso l’incontro, ha lanciato il «Pd pride». Secondo lui ce n’è gran bisogno: «Se avessimo mantenuto l’ispirazione del Lingotto saremmo centrali nella vita politica italiana. C’è bisogno di un Lingotto 2 e lo faremo a gennaio». Già, perché il terrore di Veltroni e dei suoi è che il Pd non abbia più identità e proposte. E che per questo Bersani si rifugi nel tentativo di ridar vita al fu Pci. «Il partito strutturato come negli anni Settanta non funziona più», è stato l’ammonimento dell’ex segretario. E ancora: «Bersani parla solo di sinistra e non di democratici».
Sul palco della Convention sono saliti in tanti. Tutti con la propria scorta di critiche e timori. Per Sergio Chiamparino il Pd soffre di «subalternità verso gli altri partiti»: «Va bene salire sul tetto, come ha fatto Bersani, ma il problema è andare a dire quello che pensiamo noi, cosa che non facciamo». Netto anche Paolo Gentiloni: «Quanto tempo ci vuole — si è chiesto — per capire che è sbagliata l’idea di un partito identitario che si rifà alla sinistra del Novecento?». Critico pure Marco Follini. Ma il più duro di tutti è stato Beppe Fioroni. L’unico a evocare apertamente dal palco l’incubo del Partito democratico. E l’unico a prefigurare il possibile cambio di leadership: «Se si perdono le elezioni e le primarie, non vanno cambiati gli strumenti o i progetti, ma la linea politica e gli uomini che la perseguono. In democrazia si fa così». E giù applausi dalla platea.

Avvenire, quotidiano della Cei 26.11.10
Ssst! Sta parlando il silenzio di Dio
Secondo il filosofo Massimo Cacciari con Abramo come con Giobbe il Signore tace non per ira o perché non sa che cosa dire Egli è un padre nascosto ed esige d’essere cercato non tanto con parole o risposte, bensì con la «rivelazione» abissale del suo stare zitto
di Massimo Cacciari


La «voce di vento leggero» che si rivolge a Elia (1Re 19,12) suona nell’originale ebraico, secondo André Neher, come «la voce sottile del silenzio». La voce del silenzio, oltre ancora quella del soffio più impercettibile, è per lui la forma più autentica del manifestarsi del Signore. La sua è, letteralmente, una teo-logia del Silenzio, ovvero una teologia che fa del Silenzio il Logos stesso di Dio.
Questo Silenzio va anzitutto ascoltato. Non basta insistere sul fatto che l’imperativo non riguarda il credere o l’imparare. Il vero paradosso sta nell’ascoltare il Silenzio, poiché il Silenzio soltanto è in-finito, non si lascia catturare da alcun logos, né de­finire «filosoficamente» come sostanza o fondamento. La tradizione è anch’essa, a pieno titolo, rivelazione del Signore, ed inizia già con le sue prime parole. Il Silenzio, dunque, parla, e proprio nel suo «tradirsi» in parola interpretante ri-vela se stesso.
Al Silenzio inaccessibile dell’Arché divina il profeta si rivolge colmo di fiducia; egli spera incrollabilmente proprio in colui che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe (Is 8,17).
Potremmo dire che il profeta è essenzialmente chi giunge non solo ad ascoltarne, ma a vederne il Silenzio (Is 6,1). La sua parola diviene così lode del Silenzio stesso e dialogo ininterrotto col suo eterno manifestarsi – che è presidio contro ogni preghiera idolatrica, contro ogni esigere risposta. Quello di Giobbe può essere definito da Neher il libro del Silenzio per antonomasia proprio perché è, a suo giudizio, testimonianza del più drammatico dialogo tra mortale e Silenzio di Dio.
L’istanza radicale che muove la ricerca di Neher consiste nell’intendere il Silenzio come dimensione essenziale della stessa Rivelazione, non come momento, non come momentanea eclisse della Parola, non come il semplice effetto del «peccato» di Israele che allontana da lui il suo Signore. Non è il Silenzio un segno dell’«ira» di Dio.
È vero, invece, che Israele è sordo alla sua chiamata, che ha appunto luogo attraverso la «voce sottile del Silenzio». E tale sordità non potrà essere compiutamente eliminata che all’ultimo. La perfetta capacità di ascolto è infatti promessa escatologica, come il vedere il Signore. Ma chi è sordo al Silenzio, neppure saprà davvero ascoltare, e non sapendo ascoltare neppure potrà entrare in autentico colloquio. In questi nessi si gioca il drama , o play, come dice Neher, tra uomo e Dio: il Dio nascosto esige d’essere cercato; l’uomo non sa cercarlo perché cerca soltanto parole-risposte, perché non sa ascoltare l’abissalità del suo Silenzio. Dio ama il cuore di coloro che cercano – ma non per ricevere, come dall’idolo, consolanti certezze, rassicurazioni, fondamenti. La forma ultima dell’avvenire del Signore si ri­vela proprio nel suo Silenzio, che nessuna parola può annichilire, che a nessun dis-correre appare riducibile.
Così, grandiosamente, esso si manifesta nel Libro di Giobbe. (...) Libertà è il «luogo» cui si rivolge il Silenzio. A essa, nel suo libero agire, in silentio Dio stesso si rivolge. Nel suo essere libero egli riflette la Libertà ineffabile da cui proviene. E allora, davvero, tace. Il suo Silenzio è, allora, il thauma, lo «spettacolo» più tremendo. Nell’istante che tace, nell’istante che perviene a questa estrema misura del Silenzio, l’Esistente rimane sospeso tra il Logos e il ritirarsi nel Chaos. Di questo istante supremo la traccia non si trova nel libro di Giobbe, ma nel sacrificio di Abramo. Né comunque la «prova» cui Abramo è chiamato è comparabile con quella di Giobbe; nessuna sofferenza eguaglia quella che colpisce Abramo. A Giobbe è sottratta ogni cosa – a Abramo lo stesso futuro. I doni di cui Giobbe aveva goduto sono meno che polvere, bona impedimenta, avrebbero detto i Padri, metafisicamente distinti dal bene ricevuto da Abramo, suo figlio Isacco.
Abramo, l’uomo dell’«eccomi!», del perfetto ascolto, fa-esodo ancora una volta, e questa volta verso la miseria estrema, lo svuotamento totale. Lo fa in perfetto silenzio, a immagine del Silenzio del suo Dio. Nulla dice al figlio, come nulla gli dice il Signore, dopo il tremendo comando. Un deserto di Silenzio li accomuna, li stringe in un patto di cui nessun altro deve sapere. Questo è il Silenzio decisivo. Abramo non può che tacere sulla libertà del Signore che comanda e fa-essere ciò che liberamente vuole.
Solo il suo silenzio può corrispondere all’ineffabile della libertà divina. Ma essa è ineffabile poiché espressione della Libertà da cui proviene. Il Signore tace ad Abramo. La tragica scena non è disturbata dal rumore degli «amici» che pretendono di parlare al posto di Dio e di Giobbe: ma neppure dal lamento di Giobbe o da retoriche teofanie conclusive.
Breviloquio insuperabile, dove tutto l’essenziale mostra sé nel Silenzio: Abramo mostra nel suo silenzio che Dio non è determinabile-calcolabile, che il suo stesso «amore» non è nulla di necessario, che la sua Parola è traccia di una libertà che eccede ogni «logica». Dio non parla a Abramo durante quell’itinerario di morte non perché nulla voglia dirgli, per lasciarlo solo, ma perché nulla può dire e perché è solo di fronte alla Libertà da cui proviene. Questo vincolo di Silenzio li serra insieme.