venerdì 26 novembre 2010

l’Unità 26.11.10Il ministro della pubblica Istruzione attacca il leader del Pd durante Mattino 5
La replica «Ecco gli esami. Ora quelli del ministro. Ci metta anche la gita a Reggio Calabria»
«Bersani un ripetente» «No, da trenta e lode»
Quella «furbetta della toga» abilitata nel 2001 in fretta e furia
di Gianluca Ursini

Un caldo giugno, estate 2001. La praticante legale Maria Stella Gelmini gira da forsennata per aule, tribunali e uffici in Reggio, sullo Stretto, distretto giudiziario calabrese. Agli esami scritti e orali della prima sessione 2002, l’allora coordinatrice lombarda del Pdl, avrebbe poi conseguito l’«abilitazione alla professione forense», come iscritta al Foro reggino. Mica difficile: allora a Reggio e Catanzaro la media dei promossi sfiorava il 90%. A Milano, nel 2002 passò il 31% degli esaminandi e a Brescia, sua città, il 24. Così il 17 marzo 2001 il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Reggio C. rilascia a Gelmini Maria Stella già iscritta all’Ordine di Brescia nel ‘99 libretto “di pratica” numero 2879, con cui totalizzerà udienze 25, presso lo studio dell’avvocato Renato Vitetta, vicino a Fi e conoscente dell’attuale sindaco di Brescia, Adriano Parodi, anche lui abilitato a Reggio nel 2000. Ma la signora si dimostra una “furbetta della toga”, che, nel rispetto formale delle disposizioni per la Pratica forense, sfrutta al massimo ogni escamotage per abbreviare i tempi, senza sottilizzare su compilazione dei verbali: si registra fittiziamente come residente in Calabria, rimanendo a brigare le sue faccende in Lombardia. Tutte le udienze sono concentrate in tre blitz: 10-11 aprile, 4; 12, 13 e 14 giugno, udienze 6, e rush finale dal 18 al 22, spaziando dalle separazioni matrimoniali agli sfratti per morosità. Chissà se vorrà spiegare agli alunni “indisciplinati” perché tutti i suoi verbali d’udienza, pubblici e dei quali l’Unità ha copia, risultano vergati da uguale penna con uguale grafia? «L‘abbiamo fatto tutti», diranno i giovani avvocati reggini. Ma un futuro ministro può fare la “furbetta della toga”, senza aspettare la verbalizzazione di ogni udienza? Che fretta, Maria Stella, in quell’estate 2001 in cui scappava da una aula all’altra...

l’Unità 26.11.10
Intervista a Susanna Camusso
Torna l’alleanza tra operai e studenti
«Studenti e operai dicono che il governo è arrivato alla fine»
Bersani: in piazza con la Cgil
di Rinaldo Gianola

Il segretario della Cgil sostiene che le lotte sociali rappresentano l’epilogo dell’illusione del governo. L’opposizione? Meno formule e più alternativa

Susanna Camusso guiderà domani a Roma la sua prima manifestazione da segretario generale della Cgil. Un’iniziativa pensata e decisa in altri tempi, ma che cade in un momento molto delicato per il Paese. La mobilitazione degli studenti, le lotte degli operai rompono la finzione di Silvio Berlusconi che probabilmente vive la sua ultima stagione politica. Con il leader della Cgil affrontiamo i temi più importanti dell’agenda politica e sindacale. Segretario Camusso, qual è il segno della protesta così estesa degli studenti? Cosa ci dicono le lotte degli operai della Vinyls a Porto Marghera e di molte altre fabbriche? «Sono il segno di un Paese che non tollera più le illusioni, le menzogne di Silvio Berlusconi. Non si può più raccontare una storia diversa dalla realtà, non si può più affermare che la crisi non c’è quando le fabbriche si fermano, quando i commissari della Vynils non sono in grado di riavviare gli impianti. Siamo al dunque, si gioca il futuro dell’Italia. Ce lo dicono i giovani, gli studenti, i precari che hanno piena coscienza che questo governo sta togliendo la speranza, la possibilità di studiare, di crescere». Come giudica le proteste degli studenti? L’occupazione dei monumenti?
«Sono iniziative giuste, pienamente condivisibili. L’intervento della Gelmini sull’università, mi rifiuto di chiamarla riforma, deve essere contrastato fino al suo ritiro. La coscienza di questi giovani si ribella al tentativo di tagliare ancora la formazione, l’università, non vogliono diventare invisibili. È una grande battaglia che merita sostegno e solidarietà. Invito tutti gli studenti a rispettare i monumenti perchè noi, al contrario di Tremonti, amiamo la cultura, la Divina Commedia, il nostro patrimonio artistico».
Perchè arriviamo a questi scontri sociali? «Perchè il Paese non discute più di problemi reali, di lavoratori, di studenti, delle famiglie. Non ci danno nemmeno lo spazio per confrontarci. È una continua forzatura. Il governo va avanti senza ascoltare nessuno, senza interlocutori, senza esaminare le ragioni degli altri. La rappresentazione della realtà è una finzione, è falsa come si vede nei tg e su certi giornali. Le lotte di questi giorni, sui monumenti, sulle gru, sui tetti, gli scioperi della fame sono un messaggio chiaro: i lavoratori, i cittadini si mettono in gioco in prima persona per difendere il diritto al lavoro, a una speranza di futuro. Bisogna rispettare queste persone ed è grave che certe istituzioni alimentino paure e minacce di fronte alle proteste sociali».
A cosa si riferisce?
«Ritengono irresponsabile come ha fatto il presidente del Senato Schifani immaginare violenze e disastri che nascerebbero dalle proteste di questi giorni. Lo stesso aveva fatto il ministro dell’Interno Maroni prima della manifestazione, grande e pacifica, della Fiom evocando infiltrazioni e violenze».
Le lotte sui tetti, sulle gru interrogano anche il sindacato? «Certo. Ma voglio dire che queste proteste nascono dentro il sindacato, sono accompagnate da noi, non sono qualcosa di estraneo da noi. Certo non sono lotte tradizionali, ma sono il segno della vitalità e dell’ampia articolazione del movimento dei lavoratori» Cade il governo?
«Se cadesse oggi vorrebbe dire che anche noi siamo un Paese normale. Il governo è finito, ce lo dicono gli studenti e gli operai».
Non teme un vuoto di potere, la mancanza di un esecutivo in una fase così delicata per l’economia? «In queste ore sono molto più preoccupata dei veleni e dei ricatti che il berlusconismo in crisi può spargere nel Paese. Pur di salvare se stessi Berlusconi e il governo potrebbero compiere atti disperati».
Domani a Roma c’è la manifestazione nazionale della Cgil. Come sarà? «Sarà una grande, pacifica manifestazione popolare che rappresenterà l’altra Italia, quella che non si merita questo governo. La partecipazione sarà enorme, sta crescendo di ora in ora quasi ci fosse un risveglio sociale. Soprattutto ci aspettiamo tanti studenti, precari e giovani lavoratori. Vogliamo farci vedere, vogliamo esprimere la nostra voglia di lottare. Uno degli obiettivi principali della Cgil è contrastare fino in fondo il collegato al lavoro. Un provvedimento sbagliato e ingiusto». Cosa volete fare per battere questa controriforma del lavoro?
«La Cgil sarà in prima fila, questa legge non ci piace e produce danni enormi. La Cgil metterà a disposizione tutte le sue strutture e le sue competenze per aiutare i lavoratori, i precari a impugnare i provvedimenti, a chiedere giustizia contro i con-
tratti irregolari».
Come giudica il comportamento dell’opposizione, del Pd, in questa fase? «Vedo segnali positivi come, ad esempio, la decisione di convocare la manifestazione a dicembre. Ma mi pare che ci sia bisogno di uno sforzo in più. Ci sono ancora troppe discussioni sulle formule politiche mentre bisogna dedicarsi alla creazione di una vera proposta alternativa di programma, di governo». Segretario, lei è milanese. È rimasta sorpresa dalle primarie di Milano? «Mi ha sorpreso la bassa partecipazione al voto. Speravo ci andasse più gente. Vedo Milano vittima di un degrado politico e morale insopportabile. Una volta era la città della solidarietà e accusava Torino di ghettizzare gli immigrati meridionali. Vorrei che tornasse quella città». A proposito di Torino, oggi parte il confronto su Mirafiori. Si aspetta un cambiamento di linea da parte della Fiat?
«Temo che non ci saranno cambiamenti. Ma vorrei dare un sommesso suggerimento a Sergio Marchionne: sarebbe utile dire cosa è Fabbrica Italia e iniziare a lavorare insieme. Oggi vorremmo avere informazioni chiare non solo sulla Carrozzeria di Mirafiori, ma anche sugli Enti centrali, la testa, la progettazione. Purtroppo le parole di Marchionne, la continua contrapposizione tra America e Italia, i giudizi insopportabili sui lavoratori italiani non fanno pensare a niente di positivo».
Com’è andato ieri il suo incontro con Berlusconi? «Ha fatto la solita battuta, ha detto che io non potevo essere peggio di Rosy Bindi. Alla fine mi ha avvicinato e ha detto che lui scherza. Gli ho risposto che molte delle sue battute non sono uno scherzo».
Pare che Montezemolo scenda nell’arena politica... «È strana questa ossessione verso persone che hanno un ruolo dirigente e vogliono fare politica. Trovo legittimo, forse anche utile, che Montezemolo faccia politica. Però vorrei che finisse questa storia degli annunci e dei mezzi annunci: se Montezemolo vuole fare altro lo faccia senza tante storie».


l’Unità 26.11.10
Violenza contro le donne Nella giornata mondiale presentato rapporto shock sulla tratta
Oltre 500 sono state uccise Duecento in poco più di due anni. L’inferno nelle nostre città
La strage delle nigeriane portate in Italia da schiave
di Cristiana Cella

Isoke Aikpitanyi ha scelto la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne per presentare l’indagine sulla tratta delle nigeriane. È una delle fondatrici dell’Associazione Vittime ed Ex Vittime della tratta.

La città, in Italia, nasconde, tortura, uccide, seppellisce. Città grandi e piccoli paesi, campagne, ovunque, in tutte le regioni, si può vivere all’inferno. Proprio lì, accanto, nella strada di tutti i giorni. Un mondo sommerso, un passo più in là del nostro. E’ qui che abitano le giovani nigeriane, vittime della tratta, le schiave della porta accanto o del marciapiede di fronte. Un traffico che coinvolge da vent’anni decine di migliaia di giovani donne. Hanno nomi leggeri, Joy. Gladys, Rose e una vita di piombo. E continuano ad arrivare, sempre più giovani adesso, bambine, adolescenti.
LA LISTA NERA
Oltre 500 sono state uccise, 200 in poco più di due anni. I cadaveri, devastati, abbandonati nei campi, nelle discariche, nei luoghi oscuri delle nostre civilissime città. Altre, stuprate, picchiate, massacrate, riescono a restare in vita. Se vita si può chiamare. Poche riescono a salvarsi. Sono centinaia le storie agghiaccianti raccolte da Isoke Aikpitanyi, nella inda-
gine che viene presentata in questi giorni, portata avanti insieme ad altre due donne, come lei ex vittime della tratta, e con il sostegno del Ministero delle Pari Opportunità. I campioni della ricerca sono 500 ragazze ma le storie si allargano alle amiche e coprono circa 20.000 donne. Solo una fetta del traffico più esteso che fa capo alla potente e violentissima mafia nigeriana, in collusione con quelle di casa nostra. Un esercito fragile, “con il corpo leggero come una foglia di mais”. Vite diverse, ma il percorso è sempre lo stesso. Comincia in Nigeria, dalle famiglie: le spingono a partire, hanno bisogno dei loro soldi, le costringono, le vendono. Anche i padri, i mariti, i fratelli. 476 su 500 donne del campione, sono il sostegno della famiglia. Passano in mano agli “italos”, i trafficanti. Sanno o non sanno. Il futuro è nebuloso, fa paura. Alcune sono convinte con le lusinghe di una bella vita, di un lavoro, altre devono cedere, anche se non vogliono. Il viaggio può durare mesi, attraverso il deserto e il mare, merce usata, trasportata, rivenduta, spartita.
In Italia, comincia la nuova vita, all’ombra della «maman», inflessibile carceriera e maestra del mestiere. La gerarchia para-familiare della tratta, che imita quella del villaggio. Accanto alle «maman», i brothers, le sisters e le baby, cioè le minorenni. Obbedire è la legge. Tornare indietro non si può più. Devono ripagare il debito, enorme, infinito. Può arrivare anche a 80.000 euro.
L’INCUBO DEL DEBITO
Chi si ribella, chi non vuole, chi parla, chi denuncia, chi incontra giornalisti, viene punita duramente, la famiglia al paese, minacciata. La «maman» pensa a tutto, anche ai permessi di soggiorno, legali, ottenuti illegalmente, il cui costo si aggiunge al debito. Ma non per tutte. La paura di essere arrestate e rimandate indietro serve. Tiene al guinzaglio. Serve sempre la paura. In patria le aspetta il rifiuto dei parenti, la prigione, luoghi di violenze terribili, un nuovo viaggio, la morte. Peggio di qui, perché allora muore anche quel filo di speranza.
Lo stupro multiplo iniziale è parte della formazione. Sciamano per la città, si disperdono, conquistano altri territori, in piccoli
gruppi, per non dare nell’occhio, lavorano al chiuso, ovunque. Il mondo sommerso si approfondisce, scompare. Le organizzazioni di assistenza adesso fanno fatica a trovarle. Alcune cambiano continuamente città, o vivono all’estero e diventano pendolari di frontiera. Una migrazione perenne. Irraggiungibili, tranne che per i clienti e per le ex vittime, come Isoke e le sue compagne. Il lavoro quotidiano dura 10/12 ore. Scendono in strada seminude, con i tacchi a spillo, pronte a essere usate. Esposte. Al freddo, alla violenza, qualunque, bersagli in attesa. Prima di iniziare, ogni giorno, per tutte, la stessa preghiera: «Fa che oggi non mi succeda niente». Di tutto , infatti, può succedere.
Ci sono clienti tranquilli, gentili perfino, ci sono anche i «polli» da spennare, ma ci vuole molta fortuna. Spesso quello che cercano non è solo sesso. Le ragazze li chiamano « stupratori a pagamento». Vogliono fare di tutto perché hanno paga-
to. Comprano la possibilità di realizzare l’orrore che hanno dentro, impuniti. Gesti e parole che dormivano, di cui forse non pensavano di essere capaci. Bestie italiane, uomini del nostro paese. Sfogare la rabbia, la frustrazione, le fantasie da film porno e sadomaso, tutto quello che non hanno il coraggio di fare con la moglie. Tanto nessuno lo verrà mai a sapere.
Dice Isoke: «Ogni nigeriana stuprata è un’italiana salvata». Spesso ci si mettono in tanti ad accanirsi. Il disprezzo aiuta. Donna, giovanissima, immigrata, nera e prostituta. Assorbe qualsiasi sfogo, tutto è lecito. Quando hanno finito, le abbandonano nei posti deserti, ferite, distrutte, lontano chilometri dall’abitazione, dopo averle derubate. In ospedale ci vanno solo se stanno per morire, si può essere denunciate. La paura. Sempre, di nuovo. Si curano in qualche modo e poi di nuovo si trascinano sulla strada. Il corpo diventa estraneo, ostile, abbandonato al suo destino. Se fanno pena tanto meglio, a volte i clienti fanno l’elemosina. E la «maman» le accoglie con un sorriso: «Vedi, di che ti lamenti? Lavori lo stesso e senza fare niente».
Per fortuna i clienti non sono tutti carnefici. Possono diventare «risorsa», fondamentale, per sottrarre le ragazze al traffico. Molti di loro, avvicinati dai collaboratori di Isoke, hanno deciso di aiutare la sua Associazione, diventare veicoli del riscatto. Si difendono, con risposte scontate, «perché no?», «Come lo so che è minorenne?». Ma poi ci pensano su e cambiano strada. «Abbandonano l’egoismo» così dicono. Alcuni informano, convincono, altri usano la «disobbedienza civile»: matrimoni di comodo, assunzioni fittizie, per far ottenere alle ragazze il permesso di soggiorno.
LA SPERANZA
Missioni che hanno spesso successo con l’uscita definitiva delle ragazze dalla schiavitù della tratta. Alcune trovano lavoro, si sposano, mettano su famiglia. E spesso, aiutano le altre che sono rimaste all’inferno. Così trasformano il dolore.

l’Unità 26.11.10
La denuncia In 80 fuggiti dalla Libia pagando duemila euro
Da settimane prigionieri dei trafficanti di uomini: vogliono 8mila euro
Eritrei sequestrati nel deserto al confine tra Egitto e Israele
Ottanta profughi eritrei sequestrati dai trafficanti di uomini nel deserto, ai confini fra Egitto e Israele. Senza cibo, incatenati, ridotti come schiavi. Erano partiti da Tripoli (Libia). L’appello accorato di Don Mussie Zerai.
di U. D. G.

Nelle mani dei trafficanti d’uomini. Ostaggi nel deserto. Una storia sconvolgente. Una storia vera. A raccontarla a l’Unità è un sacerdote coraggioso: Don Mussie Zerai, missionario eritreo, responsabile dell’Ong Habeshia che si occupa dell’accoglienza di migranti africani in Italia. «Abbiamo ricevuto dice Don Zerai una richiesta di aiuto da 80 profughi eritrei sequestrati al confine tra Egitto ed Israele, dai trafficanti che pretendono il pagamento di 8.000 dollari per rilasciarli. Questi profughi raccontano che sono partiti da Tripoli (Libia), per andare in Israele, hanno già pagato il prezzo pattuito di 2.000 dollari, invece i trafficanti hanno tradito gli accordi presi, voglio di più. Il racconto dei profughi si fa drammatico sulla loro condizione, sono già un mese che sono tenuti legati con le catene ai piedi, come si faceva una volta con il commercio degli schiavi, continuamente minacciati, da 20 giorni che non toccano acqua per lavarsi, sono segregati nelle case nel deserto di Sinai, sotto la minaccia di morte se non pagano questi 8.000 dollari. Mi riferiscono prosegue il sacerdote eritreo che ci sono molti altri profughi eritrei, etiopi, somali, sudanesi nella zona Sinai in simili condizioni, si parla di circa 600 persone in totale. Questa modalità di ricatto diventata nel tempo redditizia per questi trafficanti che sfruttano la disperazione di questi profughi...».
SEQUESTRATI
«Questa situazione rimarca Don Zerai è anche frutto della chiusura delle frontiere dell'Europa con accordi bilaterali, che non hanno offerto alternative ai richiedenti asilo politico provenienti dal Corno D'Africa, ora costretti sempre di più ad affidarsi a questi sensali di carne umana, trafficanti di esseri umani. La politica di respingimenti e di chiusura, sta favorendo l’arricchimento dei trafficanti e criminali, che raggirano i disperati che fuggono da situazioni di guerre, persecuzioni, fame». Il racconto straziante si conclude con un appello: «Chiediamo l'intervento della Comunità Europea, per spingere il Governo egiziano a liberare queste persone senza mettere in pericolo le vite umane, in questo gruppo di profughi ci sono anche donne in condizioni fortemente debilitate dalla mancanza di cibo, igiene personale, sono in situazione di totale degrado e degradante della dignità umana».
IL RICATTO
La denuncia e l’appello di Habeshia sono rilanciati dall’organizzazione EveryOne. «Questa modalità di ricatto è diventata nel tempo redditizia per i trafficanti che sfruttano la disperazione dei profughi», spiega EveryOne in una nota, «questa situazione è anche frutto della chiusura delle frontiere dell'Europa con accordi bilaterali che non hanno offerto alternative ai richiedenti asilo politico provenienti dal Corno D'Africa, ora costretti sempre più ad affidarsi ai trafficanti». Per questo l'organizzazione chiede l'intervento dell'Alto Commissario Onu per i Rifugiati (Unhcr), dell'Alto Commissario Onu per i Diritti Umani, del Parlamento europeo, della Commissione Ue, del Consiglio d'Europa e dei Paesi dell'Unione, nonché la piena collaborazione del Governo egiziano. «È fondamentale», concludono i co-presidenti di EveryOne Malini, Pegoraro e Picciau, «che il governo della Repubblica araba dell'Egitto liberi queste persone senza mettere in pericolo le loro vite». E anche l’Italia può e deve fare la sua parte. A sollecitarlo in una interrogazione urgente al Presidente del Consiglio e al ministro per gli Affari esteri è Pietro Marcenaro (Pd), presidente della Commissione per i Diritti umani del Senato. «Il racconto dei profughi è drammatico, riguardo alla loro condizione: riferiscono di essere tenuti legati con le catene ai piedi da un mese, come si faceva una volta nel commercio degli schiavi, e di essere continuamente minacciati e maltrattati...», rimarca Marcenaro, che nell’interrogazione chiede al ministro degli Esteri, Franco Frattini «di verificare quale sia la reale situazione di questi profughi; nel caso che queste informazioni venissero confermate, di muovere i passi necessari nei confronti del governo egiziano affinché queste persone vengano liberate e siano garantite loro incolumità e sicurezza; di riferire sul punto dei colloqui in corso con la Grande Repubblica Araba di Libia Popolare e Socialista sulle possibilità e modalità di esercizio del diritto alla protezione umanitaria».


l’Unità 26.11.10
Il numero oscuro, le vittime in casa
La Francia persegue la violenza morale
Tra le mura domestiche ci sono 460 delitti ogni anno Uscito un libro «La manipulation affective dans la couple» di Pascale Chapeaux Morelli. La crescita dei suicidi
di Emanuela Valente

Il numero oscuro. Lo chiamano così, quel numero che nessuno conosce e che raccoglie le donne vittime ogni anno di violenza. Nella giornata internazionale di lotta contro la violenza alle donne, il dato che maggiormente colpisce é quello che non si conosce, ma che si può ricavare intrecciando gli eventi: secondo le cifre raccolte dal ministero degli Interni francese e la polizia parigina, il 92% delle donne che subisce violenza non sporge denuncia. Ogni anno circa 40mila donne rimangono vittime silenti, mentre ogni due giorni e mezzo una donna viene uccisa dal marito. Contro appena l'8% di incremento delle denunce, si registra un aumento del 14% dei delitti coniugali, cui devono essere aggiunti 460 decessi (tra donne, uomini e bambini) riconducibili alle violenze avvenute in famiglia, di cui oltre il 50% costituito da donne che si sono suicidate in seguito alle violenze subite.
Questi i dati allarmanti raccolti da un paese, la Francia, che ha proclamato il 2010 anno di lotta alla violenza sulle donne, considerandola causa nazionale, e che ha approvato, il 10 luglio scorso, una legge che per la prima volta include tra i reati anche la violenza morale e psicologica. Pascale Chapeaux Morelli, Presidente dell'Associazione di Aiuto alle Vittime di Violenze Psicologiche, spiega perché i maltrattamenti e la manipolazione affettiva costituiscano un vero e proprio delitto. «Finora si é considerata la violenza morale e psicologica quasi una normalità nei rapporti di coppia, qualcosa di intangibile in cui la legge, e l'esterno in genere, non avevano diritto di entrare. Ma la violenza é violenza, in qualsiasi forma si manifesti, e non può essere considerata più o meno grave solo per la difficoltà di inserire dei criteri o di provarne l'esistenza. Questo valeva anche per lo stupro coniugale, che é stato riconosciuto solo da pochi anni e che fortunatamente oggi non viene considerato meno grave per l'esistenza di un legame affettivo o legale tra le persone. Così come oggi, per la nuova legge francese, anche il matrimonio forzato rientra tra le aggravanti, e non più tra le attenuanti, di un delitto che prima veniva considerato "d'onore». La violenza all'interno di una famiglia può esprimersi attraverso vari modi e i segni che lascia spesso non possono essere certificati al Pronto Soccorso, eppure non per questo hanno meno conseguenze. Nel suo libro La manipulation affective dans la couple, La manipolazione affettiva nella coppia, (già pubblicato in Francia e che uscirà in Italia a febbraio), Pascale Chapeaux Morelli traccia un quadro esatto di una delle forme più diffuse di violenza psicologica, con cui un coniuge (in 3 casi su 4 l'uomo) impone sostanzialmente all'altro una forma di asservimento totale, attraverso una crescente denigrazione che porta la vittima a perdere fiducia in se stessa, finanche a perdere il lavoro e ad allontanarsi dai propri amici e parenti.
L'isolamento e la dipendenza psichica e materiale fanno di queste vittime delle vittime di se stesse, poiché cosi vengono percepite all'esterno, mentre si tratta di persone generalmente dotate di molte capacità dato che, come sottolinea Chapeaux Morelli «non si ruba mai una scatola vuota». Il primo passo da fare é parlare e parlarne, contrariamente a quanto é stato insegnato per secoli. Come recita lo spot contro la violenza che ammonisce in ogni angolo di Parigi: «Se stai tranquilla, se sei obbediente, se stai zitta, ti ammazza».

PERCHÈ? SENNÒ?!?
Vendola: «Comunque vada a Bologna, nessuno pensi di sabotare le primarie nazionale, sarebbe un atto di puro masochismo».
E l’Amelia si concede una battuta: «Se vinco io il Pd finisce dall’analista»
Andrea Carugati sull’Unità di oggi

il Fatto 26.11.10
Vendola a Bologna
Al Comune presenta la Frascaroli Ma pensa alle (sue) primarie
di Luca Telese

Folla fin sulle scale della circoscrizione per l’inaugurazione in periferia di un circolo di fabbrica intitolato a Sergio Sabattini detto “faccia d’Ananas” (mitico quadro operaio, ex segretario della Fiom). Massa di studenti che si riversano come la sabbia di una clessidra nel caffè di piazza Verdi dove si tiene la conferenza stampa, trasformandola in una sorta di comizio happening. Tutto esaurito nel cinema multisala (due sale da 500 posti l’una) che ospita l’evento clou della serata, con il faccia a faccia fra Nichi Vendola e Amelia Frascaroli, la candidata cattolica (di estrazione prodiana, amica personale della first lady Flavia) che sfida il candidato ufficiale del Pd alle primarie per il Comune di Bologna. Se ti affacci a Bologna scopri che il grande vento delle primarie non cala, anzi, prende forza di città in città, portando scosse elettriche e facendo sventolare folle e bandiere.
Il leader di Sinistra e libertà arriva a Bologna per il suo tour di sostegno alla Frascaroli, per radicare la forza di Sel all’ombra delle Due Torri (un sondaggio della Dire quota il suo partito al 13%), e scopre che anche il suo momento magico continua. E così diventa inevitabile il gioco di rimbalzo fra Bologna e la ribalta nazionale: “Dicono che se vince anche Amelia non si faranno più le primarie nazionali? Mi sembrerebbe una follia. Non è possibile che saltino. Anzi: è solo con le primarie che si ricostruisce la coalizione per battere Berlusconi!”.
Sta di fatto che a Bologna l’effetto Vendola-Frascaroli sta togliendo il sonno ai dirigenti cittadini del Pd, che continuano a studiare possibili contromosse ma anche a non trovare la quadra.
ECCO IL RIASSUNTO della telenovela. Si dimette Flavio Delbono, si apre una faida. La vince il popolarissimo Cevenini, ma quando l’ex presidente della Provincia agguanta la designazione un problema cardiaco lo mette fuori gioco. Dramma. Si riapre la faida dentro il Pd, stavolta corrono tre candidati. La Frascaroli, ex dirigente della Caritas, cattolica sociale, scende in campo e viene considerata poco più di una outsider. Il nome forte è quello di Andrea De Maria, storico segretario del partito bolognese, all’ombra del Pci-Pds-Ds-Pd fin da quando aveva i calzoncini corti. Dopo la vittoria di Giuliano Pisapia a Milano, ottenuta battendo Stefano Boeri, candidato del Pd: anche il partito bolognese si spaventa. Dopo una tormentata riunione, due candidati fanno un passo indietro e viene lanciata la candidatura unica dell’ex assessore della giunta Cofferati, Virginio Mero-la. Partita chiusa? Macché. Anche per l’onda che parte da Milano la Frascaroli nei primi sondaggi risulta la più forte delle candidature in campo, malgrado la presenza di un altro candidato di estrazione sociale e cattolica, il pacifista Benedetto Zacchiroli. Si stabilisce, fra l’altro una curiosa analogia con l’esperienza pugliese: Merola, nelle precedenti primarie (quelle che avevano incoronato Delbono) era il candidato che si era classificato per ultimo (!). Così – è notizia di ieri – si riapre la faida nel Pd, dove i sostenitori di De Maria sostengono che si può vincere solo con lui e vorrebbero riaprire la nomination in casa democratica.
È IN QUESTO scenario che arriva in città Vendola. Il leader di Sel si incontra con la Frascaroli nel pomeriggio. Fra i due sembra un idillio: “Sono molto affascinato dalla coerenza di Amelia”, racconta Vendola. “Ho avvertito una sintonia particolare” rilancia lei. La candidata è molto vicina a don Nicolini, “il sacerdote degli ultimi” e dice che sul recupero dei più deboli vuole incentrare la campagna elettorale. “C’è la possibilità di fare primarie vere – spiega la Frascaroli – la mia parola chiave sarà: ‘Partecipazione’. Resuscitare a Bologna una coscienza civile sommersa e un tessuto che in questi anni di sbandamento non si è distrutto è possibile”. Di sera il discorso si apre con un altro omaggio al laboratorio pugliese: “Voglio citare la bellissima esperienza del comune di Nardò , che ha fatto un lavoro straordinario con i braccianti immigrati!” e giù applausi.
E VENDOLA? Fedele alla sua nuova icona ultra-ecumenica dice di voler bandire ogni conflitto: “In una competizione normale il sostegno al candidato, come quello che io voglio dare, non è un’occasione per battaglie ideologiche, ma un semplice augurio”. Figurarsi. Subito dopo, infatti, dicendo apparentemente quello che si augura di non vedere, tratteggia lo scenario che è sotto gli occhi di tutti: “Le primarie qui devono essere una bella gara e non una competizione militarizzata!” (applausi). “Non possono diventare il crocevia dei rancori e delle ambizioni personali! Non possono essere un’occasione per schierare le truppe personali e combattere casamatta per casamatta”. I mille di Bologna iniziano a spellarsi le mani. Arriva il pezzo forte: “Bologna oggi è malata. La politica bolognese è malata, afflitta da depressione. Questa malattia va curata per far ritornare la città quello che si merita – grida Vendola – una grande capitale europea”. Poi le stoccate sulla politica nazionale: “Oggi Berlusconi vara il Piano per il Mezzogiorno. Un provvedimento curioso, visto che questo è il governo più nordista e antimeridionalista della storia d’Italia!”. E poi: “Io non sono il leader di una fantomatica ‘sinistra radicale’… Io – conclude Vendola – sono qui per dire che bisogna imparare dalle nostre sconfitte, superando il minoritarismo di quella sinistra che è sempre innamorata della bella sconfitta. E il compatibilismo di quei moderati che votano tutto in nome del governo a tutti i costi”. Si parla di Bologna. Ma anche dell’Italia. E se il mondo di Amelia diventa il film delle Due torri, cambia il finale anche per le telenovelas di Roma.


«Da Foa ho imparato che non bisogna disperare mai»
Corriere della Sera 26.11.10
Pavone: non servono memorie condivise
«Sminuire le ragioni della lotta tra fascisti e partigiani significa banalizzare la storia»
di Antonio Carioti

La denuncia dell’autore che compie novant’anni: trascurato lo studio dei crimini di guerra italiani dal 1940 al 1943

«Oggi viene spesso criticata la decisione di esigere la resa incondizionata del nemico, assunta dagli Alleati alla conferenza di Casablanca nel 1943. Si dice che prolungò la guerra. Ma io non sono d’accordo. Credo sia stata una scelta giusta, che consentì in Germania una ricostruzione democratica radicale, con un’epurazione seria che non ha lasciato spazio alle scorie del nazismo». Alla vigilia dei novant’anni, che compie il 30 novembre, lo storico Claudio Pavone conserva intatta la capacità di spiazzare i suoi interlocutori. Come quando nel 1991 intitolò Una guerra civile (Bollati Boringhieri) il suo fondamentale libro sulla lotta partigiana, legittimando l’uso di un’espressione fino allora ritenuta sconveniente per definire la Resistenza.
In questo caso invece Pavone si ricollega ai suoi studi sulla continuità dello Stato dal fascismo alla Repubblica: «In Italia, rispetto alla Germania, ci siamo portati dietro un’eredità del passato regime molto più consistente. E abbiamo rischiato che, dopo l’armistizio del 1943, quasi tutto rimanesse come prima, con lo Statuto albertino, la monarchia e la corte, la vecchia legge elettorale prefascista . Quando il generale Eisenhower, a Malta, chiese a Pietro Badoglio se non avesse pensato di lasciare a un civile la guida del governo italiano, l’altro rispose facendo il nome di Dino Grandi, l’ex ministro degli Esteri che con il suo ordine del giorno aveva provocato la caduta del Duce. Eisenhower ribatté: "I nostri ragazzi non sono morti per sostituire Mussolini con un altro fascista"».
Il merito maggiore della Resistenza, secondo Pavone, è aver evitato soluzioni del genere: «Grazie alla lotta partigiana abbiamo avuto la Costituzione, frutto di una grande assunzione di responsabilità da parte di forze politiche che erano divise su tante questioni importanti, ma riuscirono a realizzare un compromesso di alto livello tra le culture cattolica, liberale e marxista. E infatti per molti anni le sinistre e i moderati hanno sempre considerato la Resistenza un evento positivo, anche se le attribuivano, polemizzando tra loro, significati diversi».
Oggi invece si tende a svalutarla, si dice che a sconfiggere il Terzo Reich furono gli Alleati, non certo i partigiani: «È un’ovvietà. Del resto nell’autunno 1943 i tedeschi erano ormai sulla difensiva e si poteva anche pensare di limitarsi ad attendere l’avanzata angloamericana, senza fare nulla. Ma proprio questo aumenta il valore etico della scelta resistenziale: i partigiani presero le armi e rischiarono la vita, anche se non era strettamente necessario dal punto di vista militare, perché non vollero essere liberati dagli eserciti stranieri, senza contribuire alla lotta contro il nazismo. Del resto, se nessuno si fosse mosso, credo che gli attuali critici della Resistenza sarebbero i primi a dire: vedete, mentre tutti i popoli d’Europa insorgevano contro Hitler, solo in Italia non succedeva nulla».
Pavone inoltre considera ingiusto il termine «vulgata resistenziale», usato per liquidare l’opera degli Istituti per la storia del movimento di Liberazione: «In realtà hanno compiuto un lavoro enorme, raccogliendo una documentazione fondamentale per tutti gli studiosi. E sono anche usciti dalla visione oleografica ed eroica della lotta partigiana. In quest’ambito vanno ricordate le ricerche sulla resistenza civile e sulla presenza delle donne realizzate da Anna Bravo, a partire dal saggio di Jacques Sémelin Senz’armi di fronte a Hitler. Oppure ai precoci studi di Guido Crainz sulle uccisioni di fascisti dopo la Liberazione, ben più serie e attendibili delle polemiche attuali sul "sangue dei vinti". La stessa visione sessantottina, riassumibile nello slogan "La Resistenza è rossa, non democristiana", ha avuto una sua utilità: ha aiutato a superare la ritualità ufficiale e la retorica unitaria del Pci, per analizzare il movimento partigiano nelle sue diverse componenti, anche se poi i contestatori ne valorizzavano solo una, quella classista, e trascuravano le altre».
Dunque la storiografia ha fatto la sua parte? «C’è ancora tantissimo da studiare. Ad esempio serve una visione più complessiva del ruolo svolto dall’Italia nella Seconda guerra mondiale, che non si concentri solo sul periodo 1943-45, ma indaghi a fondo i tre anni precedenti, compresi i delitti commessi dai nostri militari soprattutto nei Balcani, per i quali non c’è stata alcuna punizione. Sarà un caso, ma i due giovani studiosi che si sono occupati maggiormente dell’argomento, Davide Rodogno e Lidia Santarelli, non hanno trovato posto nell’università italiana e lavorano all’estero. Ma ci sono anche le atrocità commesse dai vincitori, che sono state rimosse fino a poco tempo fa: dai bombardamenti indiscriminati sulle città tedesche, privi di reale utilità bellica, all’espulsione violenta di intere popolazioni dalle zone orientali della Germania».
Tuttavia Pavone non apprezza i richiami alla «memoria comune», né alla buona fede dei ragazzi di Salò: «La sincerità di un combattente — osserva — non può riscattare una causa sbagliata. Del resto Hitler fu sempre in buona fede: fin dall’inizio non nascose le sue intenzioni e le mise in pratica con assoluta coerenza. Quanto alla memoria comune, è un concetto privo di senso. Non c’è niente di più soggettivo della memoria: un ex partigiano e un reduce della Rsi non potranno mai avere la stessa visione del passato. Erano italiani entrambi, ma volevano due Italie diverse, inconciliabili. Mettere una pietra sopra alle ragioni del conflitto non è un progresso né civile né storiografico. Tra l’altro così si finisce per banalizzare il fascismo che invece fu un fenomeno storico molto serio».
D’altronde, sostiene Pavone, l’auspicio della memoria comune è presto scaduto nel tentativo di mettere le due parti sullo stesso piano e di squalificare la lotta partigiana: «La destra italiana ha bisogno di un nemico: i comunisti, la sinistra e anche la Resistenza. Di recente il ministro Gelmini ha dichiarato che la sua riforma serve a superare l’egemonia comunista nella scuola. Ma vorrei che mi elencasse i ministri della Pubblica istruzione che ha avuto il Pci dal 1945 in poi».
Eppure Silvio Berlusconi, lo scorso 25 aprile, ha celebrato la Resistenza in Abruzzo, con un fazzoletto partigiano al collo: «Non mi ha convinto affatto — replica Pavone — perché il berlusconismo esalta proprio il sottofondo peggiore della nostra cultura nazionale: il conformismo, la mancanza di senso dello Stato, il primato assoluto dell’interesse privato. Per giunta consente alla Lega di diffondere il veleno della divisione tra Nord e Sud. No, Berlusconi può mettersi al collo tutti i fazzoletti che vuole, ma nei fatti rappresenta l’anti-Resistenza».
Insomma, Pavone è molto preoccupato: «Sì, anche se ricordo quello che mi diceva Vittorio Foa: nel carcere fascista, perfino quando Hitler sembrava avere la vittoria in pugno, non aveva mai perso la fiducia. Anche di fronte alle tante sconfitte della sinistra, ripeteva che c’è sempre una via d’uscita e non bisogna smettere di cercarla. Era il segreto della sua vivacità intellettuale, che gli permetteva di dialogare con i giovani in età molto avanzata. Da Foa ho imparato che non bisogna disperare mai».

Corriere della Sera 26.11.10
Un appello di 600 intellettuali: i Beni culturali stanno morendo

Ormai siamo «al collasso»: gli stanziamenti per i Beni culturali sono lo 0,2% del bilancio dello Stato contro lo 0,9 in Francia e l’1,2 in Gran Bretagna, per non parlare dei «clamorosi errori commessi nell’Aquila post terremoto e a Pompei». È il grido di dolore lanciato dall’Associazione nazionale dei tecnici per la tutela dei beni culturali e ambientali, con l’Associazione archeologi, il Comitato per la bellezza, Italia Nostra e la Rete dei comitati per la difesa del territorio, firmato da 600 intellettuali italiani e stranieri, tecnici, urbanisti ed ex sovrintendenti. Chiedono le dimissioni di Sandro Bondi, definito un «ministro fantasma», «liquidatore del ministero per i Beni culturali».
L’appello, intitolato «No alla morte della cultura», è stato indirizzato al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano (nella foto). Duro l’ex soprintendente di Pompei, Piergiovanni Guzzo: «I crolli sono stati causati da errori della Protezione civile che un modesto archeologo avrebbe saputo evitare». «Al ministero non ci sono più neanche i soldi per pagare le bollette» ha rincarato Irene Berling. Seguita da Vittorio Emiliani: «Bondi passa il suo tempo a via dell’Umiltà. Fa meglio quando non c’è».
In serata la replica del ministro: «L'appello a favore delle mie dimissioni è importante — afferma Bondi — perché è l'espressione di un mondo che nulla ha a che fare con la vera cultura e che è all’origine dei mali di cui soffre oggi il nostro Paese e in particolare della crisi in cui versa il sistema dei beni culturali»


Repubblica 26.11.10
I figli sorpassano a destra i genitori la spinta da maschi e regioni rosse
Replicato test del ’75 sull’”ereditarietà” delle idee politiche
di Michele Smargiassi

Sondaggio degli Istituti Gramsci e Cattaneo. Il tasso di "fedeltà" tra generazioni risulta comunque più alto nelle famiglie progressiste
I post-sessantottini erano molto più informati. Oggi metà dei ragazzi non sanno indicare con chiarezza le differenze tra gli schieramenti

BOLOGNA - La mela continua a cadere abbastanza vicino all´albero. Ma adesso cade dalla parte opposta. Trentacinque anni fa i figli scavalcavano a sinistra i genitori: oggi li scavalcano a destra. Se i figli sono il futuro di un paese, tira brutta aria per la sinistra italiana, ma i numeri parlano chiaro: quella che sembrava un´ovvietà antropologico-sociale al limite del luogo comune ("a vent´anni siamo tutti rivoluzionari") viene smentita da una ricerca congiunta dell´Istituto Gramsci e dell´Istituto Cattaneo di Bologna che verrà resa pubblica oggi. Frugando in una vecchia indagine del 1975 sull´orientamento politico degli italiani, i tre ricercatori (Piergiorgio Corbetta, Dario Tuorto, Nicoletta Cavazza) si sono imbattuti in una piccola miniera non ancora sfruttata: alcune centinaia di questionari compilati in parallelo da genitori e figli delle stesse famiglie. Hanno incrociato quei dati, poi hanno deciso di ripetere il sondaggio oggidì, a una generazione di distanza, intervistando oltre quattrocento coppie genitori-figli.
Quel che hanno scoperto è una vera e propria inversione di tendenza nella trasmissione ereditaria di valori e ideologie: i figli sono diventati più conservatori dei padri. Visto che c´è una generazione di mezzo, si può anche dire: chi la fa l´aspetti: chi trent´anni fa aveva abbandonato "da sinistra" i propri padri, ora si trova aggirato a destra dai propri figli. Unico elemento costante: sono sempre loro a muoversi, i ragazzi. Infatti, allora come oggi, il gruppo dei genitori si colloca più o meno al centro dello spettro destra-sinistra; ma il gruppo irrequieto dei figli, che nel ´75 era più a sinistra del gruppo dei genitori di circa un punto (in un arco convenzionale da 0=sinistra a 6=destra), oggi è più a destra di 0,3 punti. I maggiori responsabili dell´inversione a U, altro dettaglio che non farà piacere ai progressisti, sono i rampolli (soprattutto i maschi) delle famiglie meno istruite, meno ricche e che vivono nelle regioni "rosse": quelle dove l´omogeneità ideale tra padri e figli una volta era più forte. Insomma è proprio lo "zoccolo duro" dell´insediamento elettorale storico della sinistra, le famiglie unite, proletarie, laboriose, tutte casa e cellula, che si sta sfarinando.
Eppure, a ben vedere, la grande maggioranza delle famiglie continua a trasmettere ai figli le proprie visioni del mondo. Il "tasso di dissimilarità" generazionale italiano è in fondo piuttosto limitato (1,6 punti su una scala di dieci), la grande maggioranza dei figli somigliano ai padri, si rassicurino dunque i genitori: sono buoni pedagoghi politici. E i genitori di sinistra, nonostante la frana, riescono ancora a tenere i figli dalla loro parte più spesso di quelli di destra. Su cento genitori che votano un partito di sinistra, 75 hanno figli che li imitano, mentre su cento genitori di destra solo 60 hanno figli che votano come loro. La famiglia progressista insomma "convince" di più. Ipotesi lusinghiera: i suoi valori sono più robusti, moralmente superiori e resistenti all´usura. Ipotesi realistica e tecnica: è più facile riconoscere una continuità nei partiti di sinistra (Pci-Ds-Pd) che nei partiti di destra (la novità assoluta della Lega ha spaccato le famiglie dell´ex area Dc). In ogni caso, le distanze tra il proselitismo familiare di sinistra e quello di destra si sono drasticamente accorciate: nel ´75 le percentuali di "ereditarietà" politica erano di 86 a 36 a favore dei genitori di sinistra. Un altro sorpasso probabilmente è in vista.
Ora, però, non è il caso di tirare conclusioni epocali. Il ribaltone intra-familiare avviene in realtà in un contesto in cui la politica ha perso spessore, significato, autorevolezza. Dalle domande di controllo sulla preparazione e l´attività politica effettivamente svolta, si scopre che i figli di quell´epoca immediatamente post-sessantottina erano più informati, coinvolti e impegnati dei loro genitori: oggi è l´inverso. E metà dei figli intervistati oggi non sa dare una convincente spiegazione della differenza fra sinistra e destra: erano solo il 30% nel ´75. Allora, le baruffe domestiche esplodevano perché i ragazzi erano "impegnati" politicamente e i genitori apatici e qualunquisti; oggi per l´esatto contrario. Dunque, di che parliamo? «Di famiglie che condividono molto più spesso l´indifferenza che l´impegno, dove la polarità destra-sinistra ha perso quasi ogni significato», sintetizza il professor Corbetta. Le mele cadono vicino all´albero, ma hanno sempre meno sapore.

Avvenire, quotidiano della Cei 26.11.10
Ssst! Sta parlando il silenzio di Dio
Secondo il filosofo Massimo Cacciari con Abramo come con Giobbe il Signore tace non per ira o perché non sa che cosa dire Egli è un padre nascosto ed esige d’essere cercato non tanto con parole o risposte, bensì con la «rivelazione» abissale del suo stare zitto
di Massimo Cacciari


La «voce di vento leggero» che si rivolge a Elia (1Re 19,12) suona nell’originale ebraico, secondo André Neher, come «la voce sottile del silenzio». La voce del silenzio, oltre ancora quella del soffio più impercettibile, è per lui la forma più autentica del manifestarsi del Signore. La sua è, letteralmente, una teo-logia del Silenzio, ovvero una teologia che fa del Silenzio il Logos stesso di Dio.
Questo Silenzio va anzitutto ascoltato. Non basta insistere sul fatto che l’imperativo non riguarda il credere o l’imparare. Il vero paradosso sta nell’ascoltare il Silenzio, poiché il Silenzio soltanto è in-finito, non si lascia catturare da alcun logos, né de­finire «filosoficamente» come sostanza o fondamento. La tradizione è anch’essa, a pieno titolo, rivelazione del Signore, ed inizia già con le sue prime parole. Il Silenzio, dunque, parla, e proprio nel suo «tradirsi» in parola interpretante ri-vela se stesso.
Al Silenzio inaccessibile dell’Arché divina il profeta si rivolge colmo di fiducia; egli spera incrollabilmente proprio in colui che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe (Is 8,17).
Potremmo dire che il profeta è essenzialmente chi giunge non solo ad ascoltarne, ma a vederne il Silenzio (Is 6,1). La sua parola diviene così lode del Silenzio stesso e dialogo ininterrotto col suo eterno manifestarsi – che è presidio contro ogni preghiera idolatrica, contro ogni esigere risposta. Quello di Giobbe può essere definito da Neher il libro del Silenzio per antonomasia proprio perché è, a suo giudizio, testimonianza del più drammatico dialogo tra mortale e Silenzio di Dio.
L’istanza radicale che muove la ricerca di Neher consiste nell’intendere il Silenzio come dimensione essenziale della stessa Rivelazione, non come momento, non come momentanea eclisse della Parola, non come il semplice effetto del «peccato» di Israele che allontana da lui il suo Signore. Non è il Silenzio un segno dell’«ira» di Dio.
È vero, invece, che Israele è sordo alla sua chiamata, che ha appunto luogo attraverso la «voce sottile del Silenzio». E tale sordità non potrà essere compiutamente eliminata che all’ultimo. La perfetta capacità di ascolto è infatti promessa escatologica, come il vedere il Signore. Ma chi è sordo al Silenzio, neppure saprà davvero ascoltare, e non sapendo ascoltare neppure potrà entrare in autentico colloquio. In questi nessi si gioca il drama , o play, come dice Neher, tra uomo e Dio: il Dio nascosto esige d’essere cercato; l’uomo non sa cercarlo perché cerca soltanto parole-risposte, perché non sa ascoltare l’abissalità del suo Silenzio. Dio ama il cuore di coloro che cercano – ma non per ricevere, come dall’idolo, consolanti certezze, rassicurazioni, fondamenti. La forma ultima dell’avvenire del Signore si ri­vela proprio nel suo Silenzio, che nessuna parola può annichilire, che a nessun dis-correre appare riducibile.
Così, grandiosamente, esso si manifesta nel Libro di Giobbe. (...) Libertà è il «luogo» cui si rivolge il Silenzio. A essa, nel suo libero agire, in silentio Dio stesso si rivolge. Nel suo essere libero egli riflette la Libertà ineffabile da cui proviene. E allora, davvero, tace. Il suo Silenzio è, allora, il thauma, lo «spettacolo» più tremendo. Nell’istante che tace, nell’istante che perviene a questa estrema misura del Silenzio, l’Esistente rimane sospeso tra il Logos e il ritirarsi nel Chaos. Di questo istante supremo la traccia non si trova nel libro di Giobbe, ma nel sacrificio di Abramo. Né comunque la «prova» cui Abramo è chiamato è comparabile con quella di Giobbe; nessuna sofferenza eguaglia quella che colpisce Abramo. A Giobbe è sottratta ogni cosa – a Abramo lo stesso futuro. I doni di cui Giobbe aveva goduto sono meno che polvere, bona impedimenta, avrebbero detto i Padri, metafisicamente distinti dal bene ricevuto da Abramo, suo figlio Isacco.
Abramo, l’uomo dell’«eccomi!», del perfetto ascolto, fa-esodo ancora una volta, e questa volta verso la miseria estrema, lo svuotamento totale. Lo fa in perfetto silenzio, a immagine del Silenzio del suo Dio. Nulla dice al figlio, come nulla gli dice il Signore, dopo il tremendo comando. Un deserto di Silenzio li accomuna, li stringe in un patto di cui nessun altro deve sapere. Questo è il Silenzio decisivo. Abramo non può che tacere sulla libertà del Signore che comanda e fa-essere ciò che liberamente vuole.
Solo il suo silenzio può corrispondere all’ineffabile della libertà divina. Ma essa è ineffabile poiché espressione della Libertà da cui proviene. Il Signore tace ad Abramo. La tragica scena non è disturbata dal rumore degli «amici» che pretendono di parlare al posto di Dio e di Giobbe: ma neppure dal lamento di Giobbe o da retoriche teofanie conclusive.
Breviloquio insuperabile, dove tutto l’essenziale mostra sé nel Silenzio: Abramo mostra nel suo silenzio che Dio non è determinabile-calcolabile, che il suo stesso «amore» non è nulla di necessario, che la sua Parola è traccia di una libertà che eccede ogni «logica». Dio non parla a Abramo durante quell’itinerario di morte non perché nulla voglia dirgli, per lasciarlo solo, ma perché nulla può dire e perché è solo di fronte alla Libertà da cui proviene. Questo vincolo di Silenzio li serra insieme.