Repubblica 31.10.10
Bersani: "Il premier si dimetta mette a rischio la dignità del Paese"
di Alberto D’Argenio
ROMA - Opposizione compatta nel chiedere le dimissioni del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Motivazione: la telefonata del premier alla questura milanese per far rilasciare la minorenne Ruby costituisce un «intollerabile abuso di potere». Non usa mezzi termini il segretario del Partito democratico Pierluigi Bersani, secondo il quale «le notizie che emergono da Milano ci dicono una cosa chiara: Berlusconi non può stare un minuto di più in un ruolo pubblico che ha indecorosamente tradito». Il numero uno del Pd sottolinea che «l´Italia ha una dignità che non può essere messa a repentaglio davanti al mondo» dai comportamenti del suo primo ministro. E poi, aggiunge, il Paese ha una serie di problemi che «devono essere finalmente affrontati in un clima di serietà e di impegno. Ormai il tempo è finito. Bisogna aprire una fase nuova».
Il vice segretario Enrico Letta guarda al gruppo dei finiani quando dice: «Ci aspettiamo che gli alleati stessi del presidente del Consiglio vadano a voltare pagina perché dopo questa vicenda le cose non possono restare così». Anche se, aggiunge, le dimissioni «dovrebbero essere una cosa naturale» per chi telefona alla questura chiedendo il rilascio di una persona fermata per furto e oltretutto espone il Paese «al ludibrio globale». E a chi gli chiede se il Pd presenterà una mozione di sfiducia, Letta risponde: «Ragioneremo sul da farsi». Il capogruppo democratico, Enrico Franceschini, bolla la vicenda della telefonata a via Fatebenefratelli come «un intollerabile miscuglio di menzogne e reati inconciliabili con il ruolo di premier». Quindi chiede al ministro dell´Interno, il leghista Roberto Maroni, di «riferire immediatamente al Parlamento» su quanto successo la notte del 27 maggio. Per il numero due dei senatori pd Luigi Zanda, Berlusconi ha commesso un «abuso di potere». Riferendosi poi al fatto che il Cavaliere abbia giustificato la necessità del rilascio della giovanissima Ruby dicendo alla questura che si trattava della nipote del presidente egiziano Mubarak osserva: «Una menzogna, aggravata dall´averla detta alla polizia e dal fatto che coinvolge un capo di Stato di un grande Paese come l´Egitto, è assolutamente intollerabile e da sola costituisce un motivo per richiedere le dimissioni immediate di Berlusconi».
E come il Pd la vedono i centristi di Pier Ferdinando Casini. Come il Pd anche l´Udc non appoggia la mozione di sfiducia al premier dell´Idv, ma come il Pd anche l´Udc attende le mosse del Fli e intanto ritiene che il Cavaliere debba lasciare Palazzo Chigi. Lo dice il suo segretario Lorenzo Cesa per il quale «le vicende degli ultimi giorni» legate al "Rubygate" dimostrano che «il governo ormai naviga al buio e si occupa di tutto tranne dei problemi degli italiani». Ecco perché occorre aprire al più presto «una fase politica nuova» e per questo chiediamo «le dimissioni del governo». Nell´interesse del Paese e dello stesso centrodestra, aggiunge Cesa, che da questa situazione di «paralisi» non può che uscirne con le ossa rotte. Attacca anche l´Idv quando Antonio Di Pietro dice: «Berlusconi è umiliante, si dimetta. E se non vuole farlo per gli italiani, lo faccia per se stesso, ha bisogno di curarsi prima che sia troppo tardi».
Corriere della Sera 31.10.10
Malessere dei radicali verso gli alleati. L’attacco a D’Alema
ROMA — «Complimenti Massimo D’Alema: hai ordinato e subito ti hanno risposto. Compagno Massimo sei potente, anche il Papa si pronuncia su una tua imbeccata». Marco Pannella, al nono Congresso dei Radicali a Chianciano, attacca l’ex ministro degli Esteri. Ma chiarisce: «Criticare D’Alema non è andare contro il Pd, dal quale non mi voglio staccare». Pannella è al ventottesimo giorno di sciopero della fame e al quarto della sete, un satyagraha per protestare contro la condanna a morte di Tarek Aziz. Ma sono anche altre le «urgenze» radicali: Stato di diritto, anagrafe degli eletti e ripristino delle regole democratiche. Pannella parla di Silvio Berlusconi: «Sta andando verso il baratro, la forza di gravità lo sta portando al disastro finale». La situazione è grave: «Bisognerà salvarlo da piazzale Loreto». Ma è il Pd il centro del discorso. Molti radicali, a cominciare da Marco Cappato, sono insoddisfatti di quelle che Mario Staderini ha definito «pratiche antiradicali». Pannella chiarisce che non vuole la rottura con il Pd, «perché è una vita che ne stiamo parlando». Ma i motivi di insoddisfazione sono molti. Simboleggiati nella figura di D’Alema, criticato per aver chiesto «l’ingerenza della Chiesa, per ottenere una scomunica». E accusato di «inciucio»: «Massimo non è lo stesso nominato tre volte da Berlusconi? Ma lui è sopra tutto».
l’Unità 31.10.10
Caso Ior, quel flusso di milioni spostato da Italia a Germania
di Angela Camuso
Ma dove vanno a finire, da dieci mesi a questa parte, tutti i soldi della Chiesa cattolica, compresi quelli dell’otto per mille? E per quale motivo, a partire da una data, gennaio 2010, cioè da quando Banca d’Italia ha intensificato i controlli antiriciclaggio, nè la farmacia del Vaticano e neppure i celebri Musei depositano più i loro incassi presso i conti aperti dalla Santa Sede nelle banche italiane, soprattutto presso il mega-conto Ior dell’agenzia Unicredit all’ombra del Cupolone, quella di via della Conciliazione, che invece fino al 2009 movimentava qualcosa come 50 milioni di euro in tre giorni? A Paolo Cipriani, il direttore dell’Istituto opere religiose indagato a Roma, com’è noto, insieme al presidente Gotti Tedeschi per violazione delle norme antiriciclaggio, queste domande hanno posto, ripetutamente, durante l’interrogatorio del 30 settembre scorso, il procuratore aggiunto Nello Rossi e il pm Rocco Fava. La guardia di finanza ha scoperto infatti che lo Ior una banca che conta circa 45.000 clienti – ha bruscamente ridotto le sue movimentazioni in Italia, dall’inizio dell’anno, nell’ordine del 90%. E la circostanza è stata confermata dallo stesso Cipriani, che ai pm ha detto che recentemente lo Ior preferisce utilizzare, in luogo delle banche italiane, due istituti di credito di Francoforte (la Deutsche Bank per le rimesse assegni e la Jp Morgan per la liquidità) adducendo motivi strategici ed economici, quali le esose commissioni richieste dalle banche nostrane. Ora, è sulla consistenza o meno di tali motivazioni che gli inquirenti hanno intenzione di vedere chiaro. Anche perché, dalla lettura delle carte finora inedite, c’è un altro dettaglio che rischia di ingarbugliare la posizione di Cipriani. Si è scoperto infatti che fu lo stesso direttore generale dello Ior a comunicare formalmente, con tanto di firma, a Unicredit la falsa identificazione della sedicente signora Maria Rossi.
La donna nel 2009 ha incassato una quarantina assegni provenienti da fondi di San Marino a loro volta movimentati da un avvocato-imprenditore, il tutto su conto intestato a un reverendo cliente Ior che ora si scopre essere monsignor Emilio Messina, nato nel 1940 e residente a Roma, capo dell’Arcidiocesi di Camerino-San Severino Marche, nonché cappellano presso tre case di cura gestite da religiosi, tutte con sede nella capitale. «Senta, tornando al contante voi ora perché non depositate come prima presso le banche italiane.... Com’è che improvvisamente, da gennaio 2010, non versate più quel contante che invece versavate sempre tutti i mesi presso quella banca?», chiede il pm Fava a Cipriani come si legge sul foglio 43 e seguenti della trascrizione dell’interrogatorio, lunga 88 pagine. «Perché prima c’era molto più contante rispetto adesso, non so come spiegarmi», risponde il banchiere. Il pm incalza: «Ma che cosa è cambiato, dico nelle attività commerciali, istituzionali..avete chiuso gli esercizi, il supermercato?». Ciprani: «No no, io non ho chiuso nessun esercizio, ma ad esempio i musei ricevono molti pagamenti per l’ingresso in via informatica, quindi non c’è più la gente che va lì a versare il contante». Pm: «Ma come si spiega che la farmacia non versa più i 600mila euro in contanti al mese? Oppure li continua a versare e va da un’altra parte?». Cipriani: «No, se versano... portano il contante, noi facciamo la documentazione valutaria, vanno in dogana». Pm: «Dunque lei mi dice che i soldi arrivano con i corrieri direttamente alle missioni. Ma non sarebbe stato più semplice continuare a versare il denaro contante presso Unicredit.... invece voi avete preferito fare un’altra strada, per non fornire informazioni». «No, no, perché per non fornire?... Abbiamo fatto una scelta diversa, questo fa parte anche un po’ della strategia dell’azienda». Pm: «Perché? Perché? Lei non risponde, diciamo, alle domande...». Gli inquirenti stanno cercando di scoprire la provenienza dei soldi movimentati sul conto del monsignore Emilio Messina da Enrico Pennaforti, avvocato civilista di Roma, che sul conto del prelato ha incassato 300mila euro di assegni in un’unica trance. «Il reverendo Messina ha dichiarato che Maria Rossi è madre del signor Pennaforti», è scritto nella nota a firma di Cipriani inviata a Unicredit, dopo che la finanza aveva chiesto alla banca a quale titolo la misteriosa signora, che in realtà si chiama Anna Maria Brunozzi e di Pennaforti non è parente, incassasse assegni Ior. Cipriani ai pm ha ribadito di aver sempre agito in buona fede. Tant’è che lo Ior, appena accortosi di quelle irregolarità sul conto corrente del reverendo, avrebbe avviato un monitoraggio su tutti i clienti: per capire, ha detto Cipriani, «quante fossero le posizioni rischiose come quelle del monsignore».
l’Unità 31.10.10
Una grande corteo di protesta contro la riforma della scuola
Ha percorso le vie di Napoli mettendo insieme docenti, studenti e amministrativi. Alla fine liberati centinaia di palloncini con la scritta “Gelmini vola via”.
di Marco Ventimiglia
La protesta, se non la rabbia, contro una riforma della scuola che appare piuttosto come una procedura fallimentare, ma anche la fantasia, una materia prima che per fortuna a Napoli non è mai mancata. E così, alla fine della manifestazione a cui hanno partecipato in migliaia, si sono liberati verso il cielo centinaia di palloncini colorati, con una scritta eloquente: “Gelmini vola via”. Si è conclusa così nel capoluogo campano, in piazza del Gesù, la manifestazione nazionale dei precari della scuola, che alla prova dei fatti ha raccolto tutte le categorie toccate dal provvedimento governativo, docenti, studenti, personale amministrativo e “semplici” genitori. Un lungo corteo che ha attraversato la città, scandendo slogan contro il ministro dell’Istruzione e contro l’esecutivo. In testa c'erano i disabili dell'associazione napoletana «Tutti a scuola», che a loro volta rivendicano più insegnanti di sostegno.
DA TUTTO IL PAESE
Gli insegnanti sono arrivati a Napoli dalla Sicilia, dalla Puglia, dalle regioni del Nord Italia, oltre che naturalmente dalla Campania, per protestare contro i tagli alla scuola pubblica. «Sono 270 mila i precari iscritti nelle liste a scorrimento delle graduatorie in Italia ha spiegato il segretario nazionale precari della Cgil, Luigi Rossi -. Quest'anno sono stati tagliati 40 mila docenti e 15.600 Ata (acronimo che sta per personale amministrativo, tecnico e ausiliario, ndr). I tagli hanno interessato maggiormente il Sud, ed è per questo che oggi siamo a Napoli, perché proprio in Campania la situazione è complessa».
In totale, hanno aggiunto i rappresentati della Cgil, sarebbero circa 400mila i precari della scuola nel Paese, divisi tra graduatorie docenti e Ata, e considerando anche quelle di istituto sulle quali è impossibile fare un conteggio preciso. «Questa è una battaglia per la liberazione del precariato hanno spiegato i rappresentanti dei docenti precari nella scuola si toccano con mano i risultati della politica irresponsabile del governo che sta distruggendo il sistema pubblico della conoscenza».
RECLUTAMENTO E FORMAZIONE
«Il fatto grave ha aggiunto Rossi è che la media dei neo assunti è di 45 anni, ciò significa che queste persone sono vicine alla pensione. E nei prossimi anni ci aspettiamo gli stessi tagli». Al centro della protesta anche il sistema di reclutamento, non ancora chiarito dal ministero dell' Istruzione, e la formazione per i docenti sulla quale non c'è alcuna risorsa a disposizione. Al centro del corteo, a rivendicare una scuola pubblica senza tagli, c'erano gli studenti. I ragazzi chiedono aule, docenti, istituti a norma, e soprattutto continuità didattica, insomma una scuola di qualità. «Non è solo solidarietà la nostra hanno spiegato gli studenti di UdS e Link siamo consapevoli di combattere la stessa battaglia. Siamo insieme ai precari per il diritto allo studio, il diritto alla continuità didattica, ad un'educazione di qualità».
Una manifestazione di grande protesta e coivolgimento, che però si è svolta in modo tranquillo, senza il minimo incidente, con i partecipanti che una volta giunti in piazza del Gesù hanno ascoltato alcuni rappresentanti dei sindacati Flc Cgil e Fiom, nonché i precari dei coordinamenti.
Repubblica 31.10.10
Se l’insegnante è scelto dal vescovo
risponde Corrado Augias
Caro Augias, sono un insegnante di religione cattolica, colpito dalla scarsa conoscenza che alcuni insegnanti hanno delle norme che regolano questa disciplina scolastica. Gli insegnanti di religione cattolica non sono mai stati pagati dalla Chiesa fin dalla riforma Gentile, perché già da allora si riconosceva a tale disciplina dignità di materia scolastica. Non si capisce perché dalla formazione dell'uomo e del cittadino deve essere esclusa la formazione religiosa, in nome di quale sublime concezione della persona o di quale particolare idea di istruzione. Obietto anche a quanto da lei scritto sull'inutilità di questo insegnamento " spreco di tempo e di danaro ". Uno studioso fuori discussione, Mircea Eliade, annoverava il linguaggio religioso tra quelli fondamentali che, tra l'altro, non vanno confusi con la formazione catechistica o dottrinale, imputabile ad altre agenzie educative. Lei ha trascurato i risultati formativi, non solo cognitivi, che tale disciplina permette di realizzare nella scuola, educando coloro che la scelgono ad essere uomini liberi da qualsiasi concezione fondamentalista ed integralista. I miei alunni la "religione" la studiano ricavandone ampi risultati formativi e didattici. Gli allievi sono numerosi, di variegata provenienza sociale, interessati alla disciplina.
Angelo Michele Pappagallo bivimichele@libero.it
La rubrica sull'insegnamento della religione cattolica ha suscitato qualche dissenso di cui è esempio la lettera del prof Pappagallo. Un altro insegnante, Corrado Stillo ( corradostillo@tiscali.it ), dopo aver reclamato 'maggiore rispetto' per gli insegnanti di religione, scrive: «La religione a scuola non è il catechismo. È cultura necessaria in questa epoca di globalizzazione. L'ignoranza di cui lei parla si può solo colmare con la cultura. Io insegno da 32 anni, il 14 novembre partirò con i miei alunni per Auschwitz. Ci saranno alunni cattolici, mussulmani, ebrei e non credenti». Ho il massimo rispetto (vorrei essere creduto) per chiunque insegni con competenza qualunque materia. La questione infatti riguarda l'istituto non i singoli insegnanti. In primis trovo improprio che la 'religione' venga considerata 'materia scolastica' come la matematica o il latino. Più grave il fatto che lo Stato abbia appaltato alla Chiesa un insegnamento. Non importa che si tratti o no di catechismo, importa che gli insegnanti sono scelti dal vescovo e che dal suo gradimento, dal suo controllo perfino sulla loro vita privata, dipenda la conservazione della cattedra. L'insegnamento diventa in pratica l'estensione della catechesi, comunque non può discostarsi dal dogma; la Costituzione garantisce invece (art. 33) che "l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento". Lì è il punto.
Repubblica 31.10.10
Immigrati, corteo per i permessi scontri a Brescia con la polizia
MILANO - Un corteo a sostegno degli immigrati finito con qualche scontro, un arresto e con alcuni manifestanti saliti su una gru, a 25 metri d´altezza, per issare uno striscione con la scritta "sanatoria", per chiedere la regolarizzazione di chi ha fatto domanda lo scorso anno. Ieri pomeriggio a Brescia ci sono stati momenti di tensione per una manifestazione non autorizzata, formata da un centinaio di persone, partita durante le celebrazioni del 90esimo anniversario degli Alpini. Per due volte la polizia ha tentato di fermare il corteo, mentre la gente gridava "permesso per tutti". Il corteo è riuscito ad entrare nel cantiere della metropolitana, in piazza Battisti, e un cassonetto è stato incendiato. Alla fine un uomo, bresciano, tra i protagonisti degli scontri, è stato arrestato.
Repubblica 31.10.10
“Il gene umano non si può brevettare"
L´annuncio del Dipartimento di giustizia Usa. Insorgono le aziende biotech
"Non invenzioni ma patrimonio dell´umanità" Ma già piovono i ricorsi
di Angelo Aquaro
NEW YORK - Quei gran geni del Dipartimento di giustizia americana si sono accorti dopo decine di anni e 40mila brevetti concessi che i geni dell´uomo non sono brevettabili. Per il mondo delle biotecnologie è una rivoluzione che fa esultare i propugnatori del brevetto libero e gridare allo scandalo le grandi compagnie che nella ricerca genetica a scopo di lucro hanno speso milioni di dollari. Adesso toccherà all´Ufficio brevetti federale decidere se accogliere o meno la decisione del ministero. Presa seguendo la procedura dell´amicus brief: che in giurisprudenza è l´intervento di una corte super partes cioè non chiamata direttamente in causa. La lite infatti è quella tra due non profit - l´American Civil Liberties Union e la Public Patent Foundation - e quella Myriad Genetics che con l´Università dell´Utah ha brevettato due geni chiamati BRCA1 e BRAC2. L´obiettivo della compagnia e dei ricercatori è scoprire se questi geni predispongono al tumore alle ovaie e al seno. Ma per farlo hanno proprio bisogno di brevettare le due "scoperte"? Un tribunale ha già decretato di no ma Myriad si è appellata e la causa continua.
Dice però adesso il documento del ministero Usa che «la struttura chimica dei geni umani è un prodotto della natura»: i geni non sono "invenzioni" e dovrebbero quindi essere patrimonio dell´umanità intera. I propugnatori del brevetto non ci stanno: i geni isolati dal corpo sono strutture chimiche differenti da quelle che si trovano nel corpo e quindi si possono brevettare. Ma gli esperti del governo ri-ribattono: anche quando la struttura è "isolata" dal suo ambiente naturale resta prodotto della natura. Né più né meno «delle fibre di cotone che vengono separate dai semi del cotone. O del carbone che viene estratto dalla terra».
Detto così sembra lapalissiano. Ma il New York Times che ha svelato la decisione del ministero il professor James Evans dell´Università della Carolina del Nord parla di «tappa importante: una linea tracciata nella sabbia». Le sabbie però sono mobili per definizione e il pressing delle grandi compagnie sull´Ufficio brevetti è appena cominciato.
Il venti per cento del genoma umano è già stato brevettato. L´iniziativa più nota è quella dell´Human Genome Project lanciato proprio dal governo degli Stati Uniti negli Anni ‘90 che però è stato subito surclassato dagli sforzi privati della Celera di Craig Venter. Proprio nei giorni scorsi la creatura dello scienziato-imprenditore ha fatto registrare un boom del 30 per cento dei guadagni e il business delle biotecnologie è uno dei più floridi del momento passato praticamente indenne attraverso la recessione.
Il ministero della giustizia adesso riconosce che la decisione non solo è un vero e proprio cambio di rotta rispetto alla linea fin qui suggerita ma contrasta con la politica di altre strutture pubbliche: dall´Ufficio brevetti fino addirittura al National Institute of Heath che negli ultimi anni ha chiesto e ottenuto direttamente brevetti per l´isolamento del Dna. Ma gli esperti della giustizia sostengono che l´impatto sull´industria biotecnologica non sarebbe così grave: le manipolazioni del Dna - tipo quelle usate per creare i transgenici o particolari terapie genetiche - possono continuare a essere brevettate perché appunto «prodotte dell´ingegno dell´uomo». Sempre che la linea tracciata nella sabbia non si sposti ancora un po´.
Repubblica 31.10.10
Giovanni Neri, direttore dell´Istituto di genetica medica della Cattolica
"È una decisione corretta ma la ricerca ne soffrirà"
C’è il rischio che da ora in poi i lavori scientifici siano pubblicati con più cautela
ROMA - Professore Giovanni Neri, lei dirige l´Istituto di genetica medica dell´Università Cattolica. Come giudica lo stop ai brevetti sui geni umani?
«Mi sembra una decisione giusta, anche se vorrei capire meglio se non brevettabilità riguarda soltanto il gene in sé, o anche i metodi per analizzare questo gene. La brevettabilità di un test genetico mi sembra infatti cosa ragionevole e ammissibile. Diversa è la brevettabilità di un gene in sé, che credo non abbia fondamento, poiché un gene è di tutti».
Questo divieto potrebbe avere delle ripercussioni negative sulla ricerca?
«Sì, la ricerca potrebbe soffrirne. Tuttavia, una volta determinati i limiti e l´estensione di questo divieto, non credo che paralizzerà. Potrà però rendere i gruppi di ricerca più cauti nel pubblicare i loro lavori perché si cercherà di farlo solo dopo aver avviato un procedimento per la brevettabilità».
Quali altre conseguenze potrebbe comportare questa decisione?
«Nella peggiore delle ipotesi potrebbe impedire che si stabilisca una sana concorrenza tra gruppi di ricerca per dare degli apporti sempre maggiori rispetto allo studio di determinata malattia connessa con un determinato gene. È infatti improbabile che un solo team di scienziati possa scoprire qualcosa di così miracoloso da poter risolvere tutti i problemi in una volta. C´è quindi il rischio di escludere contributi molti utili che vengono da team di ricerca non sono inclusi nel brevetto».
(p.d.r.)
l’Unità 31.10.10
L’autismo e la Regione Lazio
risponde Luigi cancrini
La Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile nelle proprie linee guida per l'autismo stabilisce che un intervento riabilitativo va quantificato in 25/30 ore di terapia settimanale. La Regione Lazio fornisce, nel mio caso personale (ho una figlia autistica di 12 anni) 4 ore settimanali di terapia che io, pagando 330 euro al mese, porto a 10.
Sergio Carbonari
RISPOSTA. Il bambino autistico e la sua famiglia hanno bisogni lontanissimi da quelli previsti dalla sanità di molte regioni italiane. La ricerca dei perché chiama in causa i politici e gli amministratori perché la povertà dei fondi stanziati dipende da loro. Quella su cui dobbiamo riflettere di più, tuttavia, è la responsabilità d’una cultura sanitaria ancora dominata dal sapere medico e dal paradigma della malattia del corpo. L’atteggiamento di sufficienza che tanti medici e dirigenti sanitarii troppo esposti alle promesse dell’ industria farmaceutica continuano ad avere nei confronti delle risposte basate sull’integrazione psicologica e sociale e sul sostegno psicoterapeutico delle famiglie e dei care-givers ha un’importanza decisiva, infatti, nel definirsi del vero e proprio stato d’abbandono in cui questi pazienti così spesso vengono lasciati. Quando il problema sanitario ha connotazioni chiaramente mediche, il nostro sistema spende con molta, a volte troppa, facilità. Quando il problema è la persona i cordoni della borsa si stringono. Per un difetto, ripeto, che è culturale prima che politico.
il Fatto 31.10.10
“Malato di mente”, morto di carcere
Il 13 dicembre potrebbero essere rinviate a giudizio le due professioniste milanesi che avevano in cura Luca
di Silvia D’Onghia
Luca Campanale aveva 28 anni, da undici – subito dopo un grave incidente stradale – soffriva di problemi psichici. Il 12 agosto 2009 si è ucciso impiccandosi nel bagno della sua cella del carcere milanese di San Vittore, dove era recluso dopo due sentenze di condanna. “Non ha più retto”, denuncia ora il padre, Michele, che è in attesa – il prossimo 13 dicembre – di guardare negli occhi la psichiatra del penitenziario e la psicologa della Asl che avevano in cura suo figlio e per le quali il pm ha chiesto il rinvio a giudizio. Abbandono di persona incapace aggravato da morte, è l’accusa nei loro confronti. Il gip dovrà decidere se archiviare o rinviare a giudizio. “Dopo l’incidente – racconta Michele Campanale – Luca è entrato in coma, poi è rimasto sei mesi su una sedia a rotelle. Ha dovuto reimparare a leggere e scrivere, poi ha frequentato un corso di telelavoro. Ed è stato assunto, come invalido, dalla Coca Cola. Io e mia moglie pensavamo si stesse riprendendo”. E invece Luca, a detta dei suoi genitori, ha incontrato “cattive compagnie”, ha cominciato a far uso di alcool e cocaina, “saltuariamente. In casa eravamo costretti a nascondere tutto, perché spariva tutto. Nel 2000 è stato condannato per direttissima per uno scippo. Poi, per cinque anni, è stato tranquillo”. Ma la mente di Luca non era più la stessa.
“NEL 2008 è stato arrestato per aver scippato e tirato un pugno a una donna – ancora Michele –. Non era una persona normale, perchè una persona normale non picchia una donna. E poi, se uno ha in mente di compiere uno scippo, sa che deve poter scappare; e lui non riusciva a correre. Lo hanno arrestato, speravo che lo avrebbero curato. Invece il pm ha chiesto 11 mesi di carcere e 6 di ospedale psichiatrico giudiziario. Gliele hanno dati due di reclusione e sei di Opg”. E questo nonostante una perizia psichiatrica presentata dal legale della famiglia sostenesse che Luca era incapace di intendere e di volere. “Nessuno ha capito il dramma di questo ragazzo”, insiste il padre. Subito dopo un’altra donna lo ha riconosciuto come autore di un’aggressione, avvenuta cinque minuti prima dello scippo, e Luca si è beccato un’altra condanna. “Mi hanno accusato di una cosa che non ho fatto”, ha scritto sul suo diario dal carcere, mentre iniziava a deperire.
LA SUA FAMIGLIA ha tentato in tutti i modi di tirarlo fuori dal carcere, e invece Luca è passato da San Vittore a Pavia e di nuovo a San Vittore. Inutili le lettere inviate alle direzioni sanitarie dei penitenziari e le istanze presentate per “l’immediato ricovero in idonee strutture sanitarie”. Era destinato al Centro di osservazione neuro-psichiatrico interno, e invece non c’erano posti. “Mio figlio ha tentato due volte il suicidio, ha ingoiato una lametta, si è provocato 80 lesioni – racconta ancora Michele –. Una volta siamo andati a trovarlo a Pavia, si è presentato al colloquio con mezz’ora di ritardo, vestito al contrario e con la barba incolta perchè gli avevano tolto il rasoio. A Milano l’ho visto più volte fuori di testa. L’ultima volta che l’ho visto mi ha detto: ‘Papà, stasera torno a casa’. Poi ha abbracciato sua madre ma non ha avuto il coraggio di guardarla negli occhi”. Luca non ce l’ha fatta. Il regime carcerario l’ha ucciso. E la sua famiglia ha trovato il coraggio di denunciare la propria tragedia: il giorno dopo la sua morte, il padre ha scritto alla senatrice radicale Poretti, che ha presentato un’interrogazione parlamentare. Poi si è rivolto all’associazione “Il detenuto ignoto”. “Nella condizione di illegalità sistematica e di sempre più drammatico tradimento dello Stato di Diritto che qualificano il nostro sistema penale e spesso quello sanitario ad esso collegato – il commento della segretaria, Irene Testa – è sempre più facile che anche il peggio possa sempre più spesso accadere. Credo che si debba aprire subito una commissione parlamentare d’inchiesta”.
Repubblica 31.10.10
Matteo Ricci. L’uomo che scoprì lla Cina
Le celebrazioni per i quattrocento anni dalla morte del gesuita, che in Oriente preferì l´integrazione alla conquista, invitano a riflettere sui tanti aspetti non solo economici ma anche culturali di un rapporto complesso
di Renata Pisu
Li Madou è uomo davvero di grande pregio e cultura ma non capisco cosa sia venuto a fare qui. Penso che se volesse sostituire i suoi insegnamenti a quelli di Confucio sarebbe cosa troppo stupida». Così scriveva nel 1589 il letterato Li Zhi che, a Nanchino, aveva frequentato padre Matteo Ricci, il missionario gesuita di Macerata il quale aveva scelto un nome cinese, appunto Li Madou, e si era fatto "cinese tra i cinesi", vestendo come i mandarini confuciani, dopo aver tentato di predicare il vangelo camuffato da bonzo buddista, con il cranio rasato, il saio lacero, per "andare verso il popolo"; ma il popolo che gli si accalcava attorno non ascoltava i suoi sermoni, limitandosi a far gran meraviglia dei suoi occhi chiari, del suo naso aquilino, dei lunghi peli che gli spuntavano su gambe e braccia.
Così Ricci aveva infine deciso di vestire i panni dei letterati e di guadagnarsi il rispetto dei notabili del grande Paese perché riteneva che «piuttosto boni cristiani che molta turba». E buoni cristiani, gente convinta e convertita alla fede con senno e ragionamento, avrebbero potuto essere in primis i letterati di alto rango che, con la loro autorità, avrebbero rassicurato coloro che temevano la novità della religione dell´Occidente, come scriveva in una lettera del febbraio 1609, quando ormai da otto anni risiedeva a Pechino, la capitale della corte dei Ming che aveva anelato di raggiungere sin da quando, nel 1582, era sbarcato a Macao.
Nei lunghi anni che trascorse in Cina, Ricci ebbe modo di incontrare molti letterati e di stupirli con le sue conoscenze. Sapeva infatti di matematica, di astronomia, di geografia, di scienze, della misurazione del tempo e dello spazio: aveva studiato tutte queste discipline al noviziato dei gesuiti, poi al Collegio romano, approfondendo anche la conoscenza di altre discipline considerate minori come il teatro, la musica, la pittura, la danza. Era insomma il compendio vivente della civiltà europea nel suo complesso, classica e cristiana. Ma con tenacia e passione era riuscito anche a impadronirsi della lingua e della cultura della Cina, spinto dall´osservazione che «qui si fa più con i libri che con le parole», e affascinava i letterati con i quali scambiava frequenti visite, sia con la sua conversazione in cinese fluente condita con dotte citazioni dai loro classici, i Quattro libri della scuola confuciana, sia con le sue opere, come il De amicitia, in cui presentava in lingua cinese dotta il pensiero dei maggiori autori dell´Occidente su quel nobile tema.
Fu però la traduzione in cinese dei testi illustrativi che accompagnavano la carta geografica del mondo così come era visto dagli europei, a suscitare l´interesse dei mandarini. Infatti, come scrive Matteo Ricci «i cinesi fino allora avevano stampato molti mappamondi i quali erano tutti, occupando il campo con le quindici provincie della Cina et all´intorno pingevano un puoco di mare nel quale facevano certe isolette , nelle quali scrivevano i nomi di tutti i Regni (stranieri)».
Tale fu il successo del suo Mappamondo che ne fece parecchie edizioni e pubblicò opere di teologia e filosofia, tradusse in cinese i primi sei libri della geometria di Euclide, avviò la riforma del calendario, incantò la corte con i suoi orologi meccanici, gli astrolabi, le sfere armillari e con altri doni provenienti dall´Europa come prismi di Venezia, pitture a olio, stoffe.
Sulla sua opera di evangelizzatore non è il caso di soffermarsi in questa sede, basta comunque ricordare che quattrocento anni fa, con la sua adesione alla cultura e alla civiltà della Cina, Ricci aveva aperto la porta non tanto alla fede cristiana ma al dialogo tra le due culture. Aveva riconosciuto nella Cina un mondo totalmente "altro" e vi si era accostato con rispetto e considerazione. Mai avrebbe tentato di cancellare gli insegnamenti di Confucio, come temeva Li Zhi, sarebbe stato "troppo stupido" davvero. E fu proprio la sua convinzione che le cerimonie in onore di Confucio non fossero contrarie alla fede cristiana, essendo onoranze di genere civile, a scatenare la "questione dei riti", la diatriba teologica che portò il papato a proibire, per i cinesi convertiti, qualsiasi cerimonia in onore del Saggio. Soltanto nel 1939 Pio XII riconobbe che di cerimonie civili si trattava. Il danno comunque era stato fatto, il dialogo avviato magistralmente da Ricci era stato interrotto e ancora fatica a essere correttamente ripreso da entrambe le parti.
Repubblica 31.10.10
Sacro e osceno, dialogo per organi
di Dario Fo
"...Fanno uso di me come manco fossi ´na pantofola, ´na sciavatta! Avànte me se fanno moine e serenate, il sangue scorre come impazzito e po´ quando me se son goduti ce se deméntica della infiòrita mia..."
"Ciollo", "spacchiusu", "parpaja". Da Nord a Sud, dalla Lombardia alla Sicilia, dall´Atlantico all´India le espressioni triviali e il linguaggio sconcio sono strumenti di sberleffo di ogni potere costituito. Con il suo nuovo libro il premio Nobel torna al suo primo comandamento: il giullare è il vero volto di Dio e Dio si presta al gioco
Per gli abitanti della Trinacria Cerere, Dea Madre presso i romani, chiamata Demetra dalle popolazioni di origine greca, aveva un grande valore mitico. A questo proposito ricordo di aver ammirato nello straordinario museo di Gela una scultura di grande potenza raffigurante la dea seduta in trono nel gesto di offrire ai fedeli un melograno: è risaputo che quel frutto raffigurava, e lo raffigura ancora, l´utero della donna e quindi anche della Grande Madre. Nello stesso museo è esposta una tavola medioevale dove è rappresentata la Madonna, nell´atto di offrire a sua volta il melograno da cui era nato il proprio figliolo.
Questa è di certo la ragione per cui in Sicilia è impossibile trovare qualcuno che si permetta di fare commenti osceni sul sesso femminile. È un fenomeno parallelo a quello di cui abbiamo trattato riguardo all´atteggiamento rispettoso verso la parpàja, e gli altri termini collegati, in quasi tutto il Nord Italia. Anche in Sicilia troviamo poi un lemma che indica la fortuna e la bellezza analogo a figo: spacchiùsu, col quale si allude a un uomo o a una femmina attraente e affascinante. La radice è quella di pàcchio: pacchiùzza, cioè appunto il sesso femminile chiamato anche stìcchiu, di genere stranamente maschile. Il termine stìcchiu trova la sua etimologia nel latino osticulum ovvero piccola bocca (da os) con evidente riferimento alla forma dei genitali femminili.
Un altro valore etimologico importante lo rinveniamo nella lingua portoghese, dove per tradurre «fortuna» si usa il termine figa con tutti i derivati enfigao, enfigu, figant eccetera.
A sostegno del rispetto di cui gode, nella tradizione dell´isola a tre punte, l´organo femminile, ci permettiamo di scomodare uno dei più grandi interpreti della tradizione popolare siciliana. Si tratta di Giuseppe Pitrè, che nella sua raccolta di conte popolari accenna a un dibattito davvero surreale di cui sono protagonisti gli organi che compongono il corpo umano, in particolare quello femminile. Giudice di questa specie di processo è addirittura il Padreterno.
I convenuti, cuore, cervello eccetera, si rivolgono al Creatore denunciando disperati la protesta di uno di loro.
«Si rischia la paralisi! Se tu, Santissimo Signore, non intervieni immediatamente, qui si schiatta…»
«Di che si tratta? Chi protesta?» chiede l´Altissimo.
«Lo sticchio!»
E tutti gli organi si fanno in là per mostrare al centro della scena «u´ pàcchio femmenóso» che ritto su uno sgabello urla: «Chiamo te, o Segnore. Tu hai fatto ‘nu capolavoro: ogni organo è essenziale alla vita delle creature, masculi e fèmmene. Io che sto sita in la fèmmena, ho deciso di non compiere più né un gesto né un respiro, tutta bloccata mi costringo a stare».
«E perché? Per protestare contro chi?» chiede il Creatore.
«Contro tutti l´altri organi».
«E per quale raggióne?»
«Per lo fatto che me se manca de réspecto! Fanno uso di me come manco fossi ‘na pantofola, peggio, ‘na sciavàtta! Avànte me se fanno moine e serenate, il cuore sbatte, il cervello va in stràmbola, il sangue scorre come impazzùto, non vi dico che succede allu màsculo col só spetàcchio rizzo… frémiti e po´ quando me se son goduti ce se deméntica della infiorìta mia come fussi l´ultimo dell´organi… e dire che so´ quella che dà la vita e per fa´ ‘sto miracolo tutta me struzzo e spalanco urlando de dolore, attraverso l´ammore che do, se ‘ngravida lu ventre e nàscheno le creature».
Il Padreterno si alza e dice: «Issa infiorìta ha raggióne, tutte le raggióni! E, cari organi, ve voglio dire che anch´io so´ imbestialito come a chidda, ve ce ho creati tutti iguàli senza darve ‘nu numero de emportànza assoluta; ognuno è pe´ me assoluto, se a stu corpo che tenete ce manca l´uòcchi va a sbatte contro ogni albero o parete. Senza l´orecchi, sordi come pétre divenite… E desgraziàti séte, senza la bocca e co´ lu core spento mala vita tenete! E così pe´ tutti l´altri mancamenti, ma se ve´ canzèlla lu stìcchiu fiorito, filli mei, séte perduti! Che illa è la fenèstra de llu sentimento. Nullo se mòve se issa no´ respira… lu pallore allo viso e lu russore non véne, lo còre no´ sbatte… lu fiato no´ se fa fitto… lu ventre no´ freme… lu occhi no´ sbatteno, no´ chiàgneno e no´ rideno co´ la bocca assieme! Morte v´attende zacché col vostro ‘spezzamento serrate a vite lo pertùso da che sorte ogne dolzore».
(Tratto da L´osceno è sacro di . Testo e traduzioni
a cura di Franca Rame © 2010 Ugo Guanda Editore)
Repubblica 31.10.10
Lo scurrile poetico da Ruzzante a Bataille
di Valerio Magrelli
«Un grande libro dello scurrile poetico». A questo mira Dario Fo nel suo ultimo lavoro, L´osceno è sacro, curato da Franca Rame per Guanda e arricchito da centotrentatré disegni dell´autore. Spaziando dalla letteratura classica a Shakespeare, da Ruzzante a Molière, dalla tradizione giullaresca medievale al Le mille e una notte, questo bel volume multicolore rivendica una visione giocosa e solare della sessualità. I veri protagonisti del testo e delle sue illustrazioni sono infatti gli organi maschili e femminili, intesi però come pura fonte di piacere, e non come strumenti riproduttivi.
Sotto il segno del critico russo Michail Bachtin (non a caso studioso del Gargantua di Rabelais), Fo si dedica a una sorta di "carnevalizzazione" dell´esistente, lottando contro i poteri che da sempre censurano la libertà dei sensi. «È un filone continuo», ha dichiarato: «C´è il rito della religione e c´è uno spingere verso l´osceno, verso l´orgia, che è una costante sia fra i greci sia nelle antiche manifestazioni religiose popolari italiane, che esaltano gioia e sessualità con l´arrivo della primavera e la rinascita di Cristo».
Ma questo festoso elogio del turpiloquio, questo ricondurre le pulsioni erotiche nella sfera del sacro hanno i loro presupposti in un´illustre famiglia di pensatori. Con il Saggio sulla natura e sulla funzione del sacrificio (1899) Marcel Mauss e Henri Hubert furono tra i primi a indagare tale dimensione, lo stesso anno in cui usciva L´interpretazione dei sogni di Freud. Le loro tesi furono riprese da Emile Durkheim, con Le forme elementari della vita religiosa (1912), e soprattutto da Rudolf Otto, con Il Sacro (1917). Sotto il profilo antropologico, le ricerche proseguiranno con Claude Lévi-Strauss ed Ernesto De Martino, mentre più tardi gli stessi temi porteranno a Il sacro e il profano (1956) del rumeno Mircea Eliade, e a Homo Sacer (1995), di Giorgio Agamben. Tuttavia, per individuare il laboratorio più estremo di simili indagini bisogna rivolgersi a Parigi.
Qui, verso gli anni Trenta, Roger Caillois assiste alle conferenze di Marcel Mauss, oltre che dello storico delle religioni Georges Dumézil. Da questi incontri nascerà il suo L´uomo e il sacro (1939). L´evento più importante è però un altro: la fondazione, nel 1938, del cosiddetto Collegio di Sociologia ("sociologia sacra" era il titolo completo). Vi partecipano, con Caillois, l´etnografo e scrittore Michel Leiris e Georges Bataille. Siamo così arrivati all´autore che forse più di ogni altro ha sondato gli inestricabili rapporti fra sacralità ed erotismo.
Il Collegio, che indagava il sacrificio cruento inteso come base dell´aggregazione sociale, si sciolse poco tempo dopo, ma Bataille proseguì lo scavo dei rapporti fra eros e thanatos. Lo dimostra il racconto Madame Edwarda (1941), il cui protagonista viene sconvolto da una prostituta che gli si presenta come Dio in persona. Siamo di fronte alla vertigine della blasfemia. Adesso Dario Fo è davvero lontano, anche se il titolo del suo libro, L´osceno e il sacro, presenta più di un legame con Bataille. Potremmo allora dire che il maestro francese costituisce lo sfondo oscuro su cui l´attore italiano tesse le sue riflessioni, proponendo l´idea di una sessualità ridente e liberata.
Corriere della Sera 31.10.10
Fede e ragione, la guerra è finita Ma la pace resta difficile
di Alberto Melloni
La Chiesa a confronto con il pensiero moderno: le condanne passate, l’accettazione dei diritti umani, le prospettive future Dal cattolicesimo liberale a Teilhard de Chardin Il naufragio dell’eurocentrismo apre nuove sfide
Da subito e da sempre il cristianesimo vive misurandosi con ciò che gli è estraneo. Qualcosa che è altro perché o gli pre-esiste o gli resiste. È un rapporto nel quale ogni interlocutore fa ricorso a diversi registri. Quello della condanna, che mette in dubbio la possibilità che si possa incontrare la stessa verità muovendo da principi diversi dai propri. Quello dell’incorporazione, che intende assorbire la diversità dentro le proprie categorie. Quello del rispetto, che assume la complessità come sfondo: sfondo dell’annuncio evangelico che esiste solo nella libertà o sfondo di una ricerca che da niente, tanto meno da una fede, deve difendersi. È un dato storico corposo che val la pena di ricordare quando si riprendono in mano i classici del «pensiero libero» che il «Corriere» offre ai suoi lettori. Perché è ben noto che su molti autori oggi sfogliati come classici sono cadute condanne, per quanto revocate dal tempo o cassate dalla desuetudine.
Misurarsi con culture «altre», infatti, non è stato una particolarità della modernità e non si è sempre risolto in modo univoco. La cultura ellenistica, che il cristianesimo primitivo riteneva coessenziale alla idolatria e alle sue teologie politiche dell’impero, entra nella dottrina cristiana al punto che il pensiero greco — secondo una famosa espressione dell’allora professor Joseph Ratzinger del 1969 — ha acquisito un «diritto di cittadinanza perpetuo e irrevocabile» nella espressione della fede. La cultura mandarina, che fin dal Seicento i gesuiti avevano imparato a rispettare per costruire una inculturazione non meno originale e decisiva di quella greca, non trovò la sua strada: e ancora oggi, al di là delle tecnicalità politico-diplomatiche, è il disinteresse per questo aspetto il problema del cristianesimo in Cina. Si potrebbe andare avanti con altri esempi ed evocare il neoplatonismo, il diritto romano, la cultura politica dell’impero cristiano, l’aristotelismo appreso dai filosofi arabi grazie al quale un fraticello dell’Italia centrale diventerà san Tommaso d’Aquino. Tutte vicende nelle quali quei tre tasti — condannare, inglobare, comprendere — sono stati suonati formando temi ben noti.
Anche il rapporto che è intercorso fra esperienze religiose e pensiero «libero» è passato da tutti questi registri. È stato un rapporto, e anche un conflitto, su cui s’è ripetuto molto a lungo il luogo comune dell’antagonismo fra assoluto e relativo, fra autonomia e vincolo, fra verità e ricerca. Da un lato della barricata una visione illuminata dell’uomo e dall’altra l’oscurantismo come fatto connaturale ad una fede religiosa che, dato che dipende da una verità rivelata, non può che essere intollerante e chiusa, come pretendono anticlericali e tradizionalisti. O viceversa l’idea che solo con un po’ di religiosità, al limite affettata o ipotetica, si possa costruire una buona società, mentre la passione che induce a «seguir virtute e canoscenza», porta al sonno della «vera» ragione e fatalmente produce mostri.
Certo: la modernità ha spezzato per sempre l’illusione ecclesiastica di coincidere con la società. La ricerca scientifica con Galileo, la filosofia con l’illuminismo, la politica con le rivoluzioni marcano una svolta decisiva. In questa stagione si affilano le condanne (quelle dei Papi «Pio» più familiari in Italia, ma anche quelle del calvinismo olandese del partito antirivoluzionario di Kuypers); e si elabora l’idea che la decristianizzazione, la secolarizzazione, la laicizzazione del potere formino una catena di errori, connessi l’uno all’altro, iniziati con l’individualismo immaginario di Lutero e giunti, attraverso l’illuminismo e la rivoluzione, al socialismo, al comunismo, ai totalitarismi, al laicismo e via dicendo.
In questa visione, ovviamente, il pensiero moderno è un bersaglio: per polemizzare in nome di una esaltazione del passato, specie di quello «medievale», che un uomo come padre Agostino Gemelli trasformerà in ideologia; per colpire con gli strumenti canonici, come capiterà con la messa all’indice dei libri proibiti delle opere ritenute pericolose nella filosofia moderna, marxista e perfino idealista — come accadde all’Opera omnia di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, la cui condanna è oggetto d’un importante libro di Guido Verucci. Una tale strategia viene ricambiata dalla peggior apologetica agnostica, che negli stessi decenni pretende di dimostrare l’irragionevolezza di qualunque credenza e l’ammette solo o come religione civile o come tranquillante sociale. Ma l’una e l’altra retorica lasciano il tempo che trovano.
D’altronde i tentativi dal basso di incorporare un pensiero che si voleva non religioso nella comprensione fondamentale dell’atto di fede non hanno avuto grandi successi. L’espressione «cattolico liberale», non è mai diventata un complimento nell’Europa dell’Otto-Novecento. La fatica di un grande teologo come Teilhard de Chardin, che cercava di parlare la lingua della scienza e di trovare una «spiritualità» della ricerca scientifica, è stata oggetto di una condanna piena di rancore. O ancora più vicino a noi l’uso di un marxismo minimale nella «teologia della liberazione» ha meritato una sanzione senza appello: anche a costo di consegnare, come è accaduto, l’America Latina a un protestantesimo evangelico fondamentalista che ha eroso un cattolicesimo tradizionale e popolare. E dall’alto, per dir così, lo stesso magistero ecclesiastico non ha avuto miglior fortuna: ha incorporato il dato scientifico nel proprio magistero morale, ha argomentato sull’armonizzazione fra fede e ragione, ha accettato la democrazia non solo come metodo ma come espressione di una visione dell’essere umano, ha fatto suoi, dalla Pacem in terris in poi, i diritti dell’uomo e il valore delle organizzazioni internazionali. Ma questo non ha reso più comprensibile o eloquente né la sua dottrina morale, né la sua teologia, né la sua politica e ha perfino finito per eroderne il prestigio spirituale.
Così, fra condanne e mediazioni, fra tensioni ed eroismi individuali, la storia è arrivata in una nuova terra, davanti a nuove differenze, collocate al di là delle colonne d’Ercole della modernità culturale e politica. L’utopia che la libertà coincida con l’autodeterminazione dell’individuo in senso borghese nello Stato è finita prima sotto il peso dei razzismi totalitari, contro i quali si sono fissati principi costituzionali non più negoziabili, poi sotto la frana della stessa forma moderna di Stato. La speranza che l’assunzione di una generica ipotesi di Dio garantisse una sociabilità più umana, s’è scontrata con la vampata fondamentalista: che ha mostrato come la malvagità umana non abbia bisogno dell’ateismo per dispiegarsi, ma se la possa cavare benissimo col «Dio lo vuole». L’intuizione di Charles Taylor sulla società postsecolare ha infine reso tutti consapevoli che il ritorno del sacro nella forma di religione civile può dar momentaneo sollievo a società frantumate, ma minaccia da dentro il cuore d’ogni autenticità contemplativa.
Tutti dunque navigano il mare aperto. Un mare aperto nel quale la differenza non passa fra il pensare «libero» e il pensare la rivelazione, quasi che uno fosse una rotta e l’altro una deriva o viceversa. La differenza passa fra chi cerca i freni della barca della storia e chi punta al largo — duc in altum, diceva la lettera apostolica Tertio millennio di Papa Wojtyla — sapendo che la perdita di centralità di quell’euromondo di credenti ed ex credenti è un’opportunità per cercare una «concordia» più grande, più profonda, sotto la quale le pietre miliari d’ogni pensiero sono preziose, perché sono pensiero che combatte la sirena della superficialità.
Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fatale
Saggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis
Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.
Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?
Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.
Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?
La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.
Questo cosa cambia?
Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.
Chi ha interesse a rimuovere questo problema?
La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.
Perché parlarne proprio ora?
Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.
Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte