Repubblica 29.10.10
Bersani: "A casa il Cavaliere e le sue singolari abitudini"
Zanda: su polizia grave ingerenza del governo
D’Alema: c´è uno smarrimento e un involgarimento del discorso pubblico, la Chiesa reagisca
ROMA A casa. Perché il governo non governa, perché è impegnato solo nelle «questioni esoteriche del lodo Alfano». Ma anche perché è travolto da altri «temi che non voglio titolare. Che portano al centro le singolari abitudini del presidente del Consiglio». Pier Luigi Bersani va all´attacco di Berlusconi e cita indirettamente il caso della minorenne marocchina che avrebbe partecipato alle feste di Arcore. «Basta è l´appello del segretario Pd -. Qualcuno stacchi la spina. Il Paese ha problemi seri». Alla Lega, a Fini, allo stesso Pdl il Partito democratico chiede di chiudere il sipario. «Se ha tanto buon cuore, in queste ore ci sono migliaia di persone fermate per furti... Li lascia abbandonati così?», è la sola battuta che si concede il leader. Ma tutto il Pd assedia il premier. Chi con gli strumenti parlamentari, chi parlando di tutt´altro in una sede così lontana dalle stanze arcoriane. Massimo D´Alema partecipa a un convegno con monsignor Rino Fisichella, neopresidente del Pontificio consiglio per la nuova rievangelizzazione. E agli uomini di fede si rivolge così: «C´è uno smarrimento e un involgarimento del discorso pubblico. Altro che chiedere alla Chiesa di non ingerire. Io vorrei dirvi: ingerite! Se non ora, quando?».
Il vicecapogruppo del Senato Luigi Zanda concentra la sua attenzione su un aspetto della vicenda. Preparandosi a chiedere al governo di riferire all´aula di Palazzo Madama. «Tralascio la parte privata della vicenda. Ma se la questura è stata indotta a favorire il rilascio della minorenne su pressioni di Palazzo Chigi allora la vicenda sarebbe incredibile. E avremmo di fronte il segnale di uno spappolamento dello Stato che il potere e la cultura berlusconiani lasceranno all´Italia». Il presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro parla di «grave abuso» per l´intervento sulla Questura milanese. «Deve venire in Parlamento. La sua credibilità personale è quello che è, ma la telefonata alla polizia è istituzionalmente inaccettabile». La richiesta viene confermata dal capogruppo alla Camera Dario Franceschini: «In un altro paese il presidente del Consiglio che telefona alla Questura avrebbe portato alle immediate dimissioni dello stesso. Un intervento che Berlusconi rivendica allegramente». Antonio Di Pietro si occupa di un altro piano: «Sul versante politico-istituzionale io credo che il presidente del Consiglio non debba essere ricattabile. Berlusconi ha questa caratteristica tutta sua: essere allo stesso tempo un ricattatore e un ricattato. Utilizza il sistema di dossieraggio per fermare gli avversari politici, come nel caso Boffo piuttosto che nella vicenda Favata».
(g.d.m.)
il Riformista 29.10.10
Stavolta Bersani salta sul sexgate: «Dimissioni»
Trame. «Abitudini singolari, il governo vada a casa». Il leader sente aria di tracollo, vede più vicina la possibilità di un governo tecnico e assesta subito un colpo al Cavaliere
di Ettore Colombo
qui
l’Unità 29.10.10
D’Alema: ingerenza della Chiesa «Se non ora quando?»
«Altro che chiedere alla Chiesa di non ingerire: fatelo. Se non ora quando?». Lo ha affermato il presidente del Copasir, Massimo D’Alema intervenendo ad un dibattito dal tema «Un’Europa cristiana?» insieme a monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, in cui ha chiamato la Chiesa e i politici cattolici a dare il loro contributo nel «discorso pubblico» del nostro Paese. D’Alema ha ricordato come «il contributo cattolico alla democrazia in Italia sia stato straordinario». «Mai come in questo momento ha proseguito c’è bisogno che si torni a lavorare insieme». «Davvero si può pensare ha aggiunto che questo nesso tra etica e politica lo si ricostruisca senza la presenza politica dei cattolici italiani? No, sarebbe una illusione. Sentiamo il bisogno ha concluso di un incontro tra politica e fede religiosa».
il Fatto 29.10.10
Radicali a Congresso
Cappato: “Fuori dal Pd”
D a oggi a lunedì (con l’elezione del nuovo segretario) i Radicali saranno a congresso a Chianciano Terme. Al centro del dibattito temi internazionali come la pena di morte inflitta a Tareq Aziz e le strategie di politica estera “del nostro Paese troppo connessa agli affari privati”, come chiesto ufficialmente dal deputato Matteo Mecacci al sottosegretario Carlo Giovanardi rispetto alla cancellazione del debito dell’Italia nei confronti di Antigua. Poi c’è il capitolo del rapporto con il Pd, Marco Cappato che chiede “autonomia politica” totale e l’uscita dai gruppi parlamentari democratici: “In queste condizioni mantenere una sorta di interlocuzione privilegiata è assurdo, perché la presenza nel gruppo politicamente qualcosa significa, e mi pare non abbia più senso”. Altrimenti “cosa vuol dire essere alternativi a tutto e tutti se poi stiamo dentro i gruppi del Pd? Raggiunto un limite dopo il quale qualcosa di intollerabile non va più tollerato e la nostra condizione lì dentro non ha più senso. Dobbiamo cogliere l’occasione del congresso per riconquistare anche sul piano della forma parlamentare un’assoluta autonomia”. Contrari Marco Pannella e Emma Bonino: siccome mai “illusa, neppure delusa, già all’epoca dell’accordo sapevamo il prezzo che avremmo pagato”.
l’Unità 29.10.10
Morbosi indifferenti e pure ipocriti
Dall’abbuffata mediatica (con sensi di colpa) sul caso di Sarah Scazzi fino all’omicidio di Maricica nella città dei pregiudizi
di Luigi Manconi
La battuta più efferata e irresistibile da me ascoltata in età adulta, le ferocie dell’adolescenza si disperdono più facilmente nella memoria, è quella pronunciata da Stefano Ricucci: “sta a fa’ er frocio cor culo de ‘n antro”. Tradotta in italiano, quella frase evoca la sindrome del FARSI BELLI a SPESE degli ALTRI. Due sublimi manifestazioni di quella sindrome si sono palesate recentemente intorno a due categorie esibite come morali, ma che rimandano in realtà a radici materiali e a comportamenti sociali. Mi riferisco a quell’insieme di atteggiamenti e pulsioni che ricadono sotto la classificazione di Morbosità e a quell’altro insieme, ancora più complicato, di gesti e sentimenti definibili come Indifferenza. In proposito, il motto cui ha dato nuova linfa Stefano Ricucci è assai pertinente perché morbosità e indifferenza, nei casi in questione, vengono attribuite agli altri, a tutti gli altri, da chi ne è complice determinante, al fine di acquisire credito morale e di menarne, appunto, vanto. Cosicché chi ha contribuito in maniera decisiva, a produrre Morbosità e Indifferenza, può rapido come un furetto spostarsi di lato per sottrarsi alle proprie responsabilità e per meglio moraleggiare.
Nell’ultimo mese, infatti, è accaduto che un’indignazione grande come una casa ha attraversato le nostre chiacchiere sussiegose, riempendo trasmissioni televisive e articoli di giornali. Titolo: Uh, come siamo morbosi! Tra i reperti dei Ris e le troppe impronte digitali sull’incavo di quel telefonino, tra facebook e Netlog, il delitto di Avetrana lascia l’eco stridente dell’ultima manifestazione dell’ipocrisia nazionale. L’oggetto è la morbosità: ovvero quella curiosità un po’ umida e un po’ torbida che si concentra su quanto è accaduto a Sarah Scazzi e indugia e indulge in sguardi indiscreti, domande invadenti, ricerche insinuanti. E, dunque, tutti noi grandi moralisti e piccoli peccatori con tono grave e scuotendo malinconicamente il capino, esprimiamo il nostro sdegno in due versioni: a) ma lasciamola finalmente in pace, la povera Sarah; b) ma che scandalo tanta indecente attenzione da parte di giornali e tv! Sono d’accordo a patto di dire onestamente che tutta quella curiosità non è l’esclusivo risultato di un’accorta strategia del mercato dell’informazione. E a patto che si riconosca che lo stesso mercato dell’informazione non blandisce e titilla – come si sente dire – solo “i più bassi umori polari”, ma vezzeggia gli ancestrali sentimenti di ognuno di noi. Ovviamente, io, come milioni di italiani, ho seguito l’intera epica puntata di “Chi l’ha visto?” dove la mamma di Sarah apprese della morte della figlia. Ovviamente sono stato incollato davanti al televisore per tutto il tempo: e trovo tutto ciò, oltre che un po’ vergognoso per me e per milioni di concittadini, “umano troppo umano” . Perché, senza bisogno di evocare la tragedia greca, in quella terribile vicenda c’è qualcosa che richiama elementi fondamentali della nostra antropologia: il sesso nelle sue forme primitive (vere o presunte) e il sangue (versato in famiglia), l’odio torvo e l’omertà più cupa. Ciò non appartiene esclusivamente al passato remoto e a comunità lontane e straniere. Ci riguarda tutti (nella gran parte dei casi, e per fortuna, in maniera incruenta) ed è per questa ragione che tanto ci appassiona. Almeno lo si dica.
In caso contrario, parafrasando Samuel Johnson, si deve proprio pensare che il moralismo sia l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Se ne è avuta un’ulteriore prova quando si è assistito, le scorse settimane, allo scatenarsi della grande campagna “contro” l’Indifferenza. Coloro che hanno meticolosamente costruito l’ansia securitaria (ovvero il panico morale per le insidie contro “la sicurezza delle nostre case e delle nostre donne”, a opera degli stranieri), proprio loro hanno lamentato che nessuno si sia chinato sul corpo dell’infermiera romena Maricica Hahaianu uccisa nella metropolitana di Roma.
Prima hanno alacremente lavorato perché qualunque straniero o nomade, vagabondo o infermo di mente, tossicomane o emarginato venisse vissuto come un pericolo pubblico: e, ora, criticano quanti non si chinano misericordiosamente su un corpo che, appunto, potrebbe appartenere a uno straniero o a un nomade, a un vagabondo o a un infermo di mente, a un tossicomane o a un emarginato. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, minaccia di denunciare per omissione di soccorso coloro che invece di piegarsi su quel corpo a portare conforto sono passati oltre. Ah, come piacerebbe essere Stefano Ricucci per poter replicare: te possino caricatte (vedi il Dizionario romanesco, Newton Compton, 2005).
l’Unità 29.10.10
Vite a perdere nelle carceri italiane La Cgil: «10 proposte contro l’emergenza»
Sit in organizzato dal comparto sicurezza della Funzione Pubblica Cgil per denunciare la grave emergenza carceri del nostro paese e presentare 10 proposte per contribuire a risolvere i problemi di sovraffollamento.
di Massimo Solani
Le carceri italiane esplodono nel disinteresse della politica. La popolazione carceraria aumenta, l’organico degli agenti di polizia penitenziaria è gravemente carente e decessi e suicidi ricordano ogni giorno quanto grave sia il problema negli istituti di pena. Eppure il piano carceri elaborati del ministro della Giustizia Alfano e del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta sembra sparito, causa assenza di fondi adeguati, da un’agenda politica monopolizzata dai problemi con la giustizia del premier Berlusconi. Per questo ieri la Funzione Pubblica della Cigl ha deciso di portare in piazza i problemi di chi ogni giorno vive il carcerealdiquaealdiladellesbarre.E non in una piazza qualunque, ma in piazza Montecitorio davanti a quella Camera da troppo tempo sorda ai problemi dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria. Una protesta di grande impatto quella del sindacato (hanno aderito anche il Partito Democratico, i Radicali, Antigone, Radiocarcere, Magistratura Democratica e l’Unione delle Camere Penali) che fin davanti alla Camera ha portato la riproduzione di tre celle e “manichini detenuti”, per raccontare quali siano le condizioni di vita di chi in carcere lavora o sconta la propria pena. «Una emergenza umanitaria fuori controllo ha spiegato il responsabile Nazionale Comparto Sicurezza Fp-Cgil Francesco Quinti soprattutto in assenza di un progetto chiaro per uscire dalla crisi».
Per questo il comparto sicurezza del sindacato di Corso Italia ieri ha rilanciato la propria ricetta per aiutare il sistema carceri ad uscire dall’emergenza sovraffollamento e recuperare la vivibilità necessaria. Dieci proposte, hanno spiegato, che vanno dalla modifica della normativa sulla custodia cautelare alla messa in prova, dalla modifiche alle leggi Fini-Giovanardi (in materia di droga) e Bossi-Fini (contrasto all’immigrazione) all’adeguamento dell’organico della Polizia Penitenziaria con l’assunzione di almeno 6mila agenti. Il tutto, ovviamente, passando per una concreta redistribuzione dei fondi a disposizione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria («riportiamoli almeno ai livelli del 2001», chiedono) e per l’inserimento in Finanziaria di quel miliardo e mezzo di euro necessario al completamento del Piano Carceri. «Le nostre 10 proposte servono a questo ha spiegato Quinti a dare una via d’uscita, proponendo provvedimenti normativi, formule organizzative e strumenti nuovi per rendere il carcere un luogo di recupero e di reinserimento nella società, come garantisce la nostra Costituzione Repubblicana e la legge Gozzini, mai applicate del tutto. Il carcere è divenuto un luogo di reclusione e repressione del disagio sociale, un luogo angusto e malsano, tanto per i poliziotti quanto per i detenuti».
l’Unità 29.10.10
Schiavi di oggi. Cronaca di uno sgombero
Anselmo Botte, sindacalista della Cgil, è il testimone di un giorno da immigrati-braccianti a San Nicola Varco
di Flore Murard-Yovanovitch
Gli schiavi moderni sono braccianti nel Mezzogiorno. Il loro ambiente: la tana. Capanna di lamiera e teli di plastica, quelli usati per le serre, dove nella stagione del raccolto centinaia di migranti si spezzano la schiena per una ventina di euro. Una topaia con qualche coperta che puzza di lercio e un’unica fontanella per 800 persone: ecco il campo di San Nicola Varco. Eppure, per i marocchini che ci sopravvivevano fino a quella notte dell’11 novembre 2009, era un «rifugio», in assenza di altro, di meglio. Graziemila. Eboli, San Nicola Varco: cronaca di uno sgombero è la storia di quell’unica giornata raccontata, passo dopo passo, da un testimone d’eccezione come Anselmo Botte, sindacalista della Cgil.
A questi stagionali che facciamo venire ogni anno con i «decreti-flussi» è data soltanto una branda. E invece di una vera politica di alloggio da parte di imprese e amministrazioni comunali, si preferisce la mano autoritaria. Centinaia di poliziotti in tenuta anti-sommossa e mascherina contro immaginari virus, organizzano una mediatica caccia al clandestino. Quelli scampati, sono oggi sparpagliati nei fondi della Piana del Sele, fino a Rosarno; altri rimpatriati o rinchiusi nei Cie; ma la stragrande maggioranza è tornata nei campi, all’alba dell’indomani stesso: nessuna alternativa di fronte ai caporali. Il ghetto non c’è più, ma i braccianti sì. Ipocrisia di un sistema-mercato a cui questa forza-lavoro è indipensabile, ma che non intende garantirle alcun diritto e dignità. Figuriamoci un contratto e un’abitazione degna.
Anselmo Botte denuncia come i braccianti vengono così lasciati in balia di camorristi e intermediari senza scrupoli, che vanno fin nei Paesi di partenza a organizzare le loro «tratte».
Pagherai 7000 euro per un illusorio «lavoro e alloggio in Italia»; ti ritroverai sfruttato per meno di 25 euro, inclusa la tangente al caporale. Cristo si è fermato qualche chilometro prima di Eboli. Qui non ci è arrivato: ma la tua vita sì. Come in un monologo teatrale, i risvolti del lavoro nero ce li racconta la voce semplice di Dris Quastalani, marocchino quarantenne. Tra i ricordi dell’infanzia al bled e il quotidiano con i connazionali nella tana di San Nicola Varco: una musica berbera e un tè, le discussioni angosciate alla vigilia dello sgombero.
Storia e corpo alla «clandestinità», che è paura e sopravvivenza quotidiana; un’unica busta con i rari stracci sempre pronta e persino la reciproca solidarietà che si sgretola. La vita ridotta ai «bisogni». Randagia. Lo riassume Driss, con la lucidità di chi sa di essere una merce sfruttata: «quel poco di umano che era in me era annientato».
Si esce da «Graziemila» con la sensazione non solo di avere toccato con mano la disuguaglianza contemporanea, ma anche di essersi addentrati nell’annullamento dei nuovi migranti. E molto spiega delle recenti rivolte.
«Graziemila. Eboli, San Nicola Varco: cronaca di uno sgombero» di Anselmo Botte, edizioni Ediesse
l’Unità 29.10.10
Sciopero degli stranieri, «in piazza per la dignità»
Lavoro e dignità. All’insegna di questi due diritti, che dovrebbero essere garantiti a tutti indipendentemente dal colore della pelle e dall’etnia, i lavoratori italiani e migranti scenderanno in piazza oggi pomeriggio in 4 città della penisola, con uno sciopero organizzato dalla Confederazione unitaria di base (Cub) e dal Comitato immigrati in Italia. Insieme a Roma, Bari e Milano, anche Firenze ospiterà la manifestazione, prevista per le 10.00 in via Cavour, davanti alla sede della prefettura. In Toscana, del resto, la manodopera straniera ha un peso molto rilevante, poichè rappresenta oltre il 10% dell’intera forza lavoro. La manifestazione è nata «per rivendicare lavoro, più reddito e dignità» e con l’intento, dicono gli organizzatori, di provare «l'unità dei lavoratori, italiani e migranti» contro «la cosiddetta “cura Marchionne”». L'astensione da lavoro riguarderà anche le Ferrovie dello Stato dalle 10.00 alle 18,00, mentre gli addetti agli impianti fissi (uffici e officine delle Fs) si fermeranno per l'intera giornata. In una nota, anche l'ospedale Le Scotte di Siena annuncia che a causa dello sciopero potrebbero «verificarsi disagi e variazioni nel normale svolgimento delle attività ambulatoriali». V. BUT.
Corriere della Sera 29.10.10
Il diritto dei figli a essere amati (per legge)
Via la distinzione tra naturali e legittimi. Dovranno mantenere i genitori in difficoltà
ROMA — Uguali in tutto e per tutto. Senza più neppure una differenza, anche piccolissima. Non più figli di serie A e di serie B, non più bambini diversi anche se nati da uno stesso genitore. Sarà approvato oggi dal Consiglio dei ministri il disegno di legge delega per l’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi. Un ddl delega che dovrebbe tracciare un percorso veloce per l’approvazione di una legge fortemente sentita dalla gente, ora che in Italia la percentuale dei figli nati fuori dal matrimonio è superiore al 18 per cento, ed è più che raddoppiata in dieci anni; una legge che non incontra più alcun ostacolo culturale; una legge voluta dal ministero delle Pari Opportunità di Mara Carfagna e dal Sottosegretario per la famiglia Carlo Giovanardi. Un disegno di legge che potrebbe finalmente diventare realtà, dopo il tentativo fatto nel 2007 dall’allora ministro per la Famiglia Rosy Bindi, che era riuscita a far approvare dal governo Prodi un provvedimento analogo che però non era mai diventato norma.
Figli uguali, senza differenze: l’ordinamento giuridico non conoscerà più neppure la distinzione linguistica tra figli naturali e figli legittimi, si parlerà solo di figli, con una rivoluzione lessicale che sarà estesa a tutto l’ordinamento giuridico, a cominciare dal codice civile.
Figli uguali senza differenza significa che cadono anche le ultime disparità di trattamento per quanto riguarda i diritti ereditari. E non è cosa da poco. Il figlio naturale, che oggi può essere liquidato dai fratellastri con una somma di denaro, e così escluso dall’asse ereditario, ne entra adesso pienamente a far parte, con piena tutela dei suoi interessi e senza diritti diminuiti in nessun modo. Figli uguali significa anche che sono parenti dei parenti del genitore, come i figli legittimi hanno nonni e zii senza differenze.
Ma non c’è solo l’equiparazione in caso di eredità, che pure è la cosa più importante. In questo ddl c’è anche l’affermazione di un principio fondamentale: tutti i figli, senza alcuna distinzione, hanno diritto ad essere amati e a ricevere dai genitori non solo il sostegno economico ma anche quello morale, un carico affettivo necessario per una crescita armoniosa. E accanto ai diritti, per tutti i figli, anche quelli nati fuori dal matrimonio, si sancisce il dovere di contribuire al reddito familiare, in pratica di mantenere i genitori in difficoltà, con l’evidente intenzione di spingere il figlio ormai grande a cercare concretamente un lavoro per aiutare la famiglia se resta nella casa dei genitori, norma questa che potrebbe modificare molte sentenze della Cassazione che fino ad oggi hanno dato ragione ai figli, obbligando genitori anche anziani a mantenerli oltre ogni ragionevolezza.
C’è poi una rivisitazione della dichiarazione di stato di abbandono, che consentirebbe alla magistratura di interpretare in maniera più ampia la situazione che precede l’adottabilità di un minore. E si stabilisce il diritto dei figli ad essere sempre ascoltati quando si prendono decisioni che li riguardano.
Corriere della Sera 29.10.10
Naturali o no, i figli vanno amati per istinto e d’ora in poi per legge
di Isabella Bossi Fedrigotti
Sempre più figli nascono fuori dal matrimonio e vengono concepiti artificialmente. La società cambia e i codici si adeguano. Dispone un nuovo disegno di legge che i figli sono uguali in ogni senso, non più distinti in legittimi e naturali, i quali finora erano parificati come figli, ma non come nipoti e cugini. D’ora in poi, invece, saranno per diritto parenti dei parenti di entrambi i loro genitori e dovranno poterli frequentare. Per la gioia dei nonni «illegittimi» che da tempo lamentavano l’ingiustizia reclamando questo riconoscimento.
La suggestiva e abbastanza inattesa novità consiste, tuttavia, nel fatto che gli articoli del disegno di legge parlano di amore. Amore e assistenza che ai figli — tutti i tipi di figli — spetteranno per diritto, esattamente come già spettavano loro l’educazione e il mantenimento. Il che non è un fatto così ovvio come potrebbe sembrare, visto che esistono non pochi genitori, in genere padri ma non mancano nemmeno le madri, che, rifattasi altrove una vita sentimentale, magari lontano e con nuovi figli, provvedono al mantenimento e all’educazione (scolastica) dei loro bambini e ragazzi di primo letto, assai meno, però, all’assistenza e all’amore. Sempre ammesso che una legge, peraltro in tutto e per tutto coincidente con quella istintiva e naturale, esistente fin dalla notte dei tempi, riesca davvero a insegnare l’amore o, in mancanza, a imporlo a certi, malauguratamente recalcitranti, genitori.
Il disegno di legge prevede però anche — di nuovo adeguandosi ai mutamenti della società — che i figli abbiano a loro volta dei doveri: dovranno, cioè, se già hanno un lavoro e ancora vivono in famiglia, contribuire al suo mantenimento. Come dire, insomma, che i bamboccioni — là dove esistano — saranno d’ora in poi obbligati a darsi una mossa, a non più considerare la casa famigliare come una pensione gratuita, la mamma come una governante tuttofare e il papà magari, alternativamente, ora come fattorino ora come bancomat.
l’Unità Firenze 29.10.10
Biblioteca Nazionale dal governo nessuna certezza
Interrogazione del deputato fiorentino Ventura al sottosegretario Giro. Blocco-turnover: in arrivo personale di altri enti per aprire il pomeriggio
di Tommaso Galgani
Il pomeriggio si chiude. E dall’anno prossimo servizi ridotti. Per la Biblioteca Nazionale di Firenze, grazie ai tagli del governo alla cultura, sono due rischi che restano concreti. Il tema ieri è stato affrontato alla Camera, con un’interrogazione del deputato fiorentino del Pd Michele Ventura al sottosegretario ai Beni Culturali Francesco Giro. Tra le questioni posta da Ventura, il tema del turnover («abbiamo un blocco del turnover, che è stato particolarmente pesante e grave; il personale è di circa 190 unità, a fronte delle 2.500 di Parigi e delle 1.200 di Londra. L’età media di questo personale è di 55 anni e non vi è stata immissione di nessuna forza con competenze particolari, soprattutto del mondo giovanile»), la mancanza di certezze sull’espletamento dei concorsi e sulle assunzioni straordinarie, l’ipotesi di nuovi spazi: «Sarebbe interessante sapere come il governo intenda intervenire per la ristrutturazione e il completamento, dopo l'accordo con il demanio, per assegnare alla biblioteca l'ex caserma Curtatone e Montanara, in via Tripoli, che dovrebbe costituire un volano per consentire la conservazione e la catalogazione nei prossimi anni», ha detto Ventura. Giro ha risposto sciorinando numeri e qualche promessa. Senza soddisfare l’interrogante.
Viene descritto uno scenario: «Per la carenza di personale, problema di carattere generale per il settore e legato al blocco del turnover in tutto il comparto, si sta valutando la possibilità di transiti alla biblioteca di personale appartenente ad enti disciolti, possibilmente già presenti sul territorio fiorentino. Va altresì ricordato che il processo di autonomia non solo scientifica ma anche amministrativa, gestionale e finanziaria della biblioteca è ancora in una fase fisiologica di transizione. A pieno regime, tale autonomia consentirà di attingere a varie altre forme di finanziamento», ha spiegato Giro. Ha replicato Ventura: «Ci hanno risposto in maniera ragioneristica dimostrando ancora una volta come sia profondamente sbagliata l’idea dei tagli lineari. Alla Biblioteca di Firenze, il principale centro bibliografico d’Italia, non si può contrapporre la ragionieristica e generalizzata riduzione del 30% delle risorse. Vista la risposta burocratica del sottosegretario, in attesa di leggi speciali e di interventi aggiuntivi di cui ho sentito parlare, mi accontenterei di interventi ordinari». Intanto, martedì ci sarà il concerto del Maggio davanti alla biblioteca.
il Fatto 29.10.10
“Eravamo a un passo dal salvare Saddam, poi Bush rovinò tutto”
Pannella ricorda Tareq Aziz e i giorni dell’operazione-esilio
di Stefano Citati
“Caino al cento per cento”. Così Marco Pannella definisce Tareq Aziz: e proprio come il primo assassino della storia (biblica) l’ex vice primo ministro iracheno ha il diritto di avere salva la vita. Dunque “nessuno tocchi Caino” (associazione contro la pena di morte affiliata al Partito radicale). Al terzo piano del palazzo di via di Torre Argentina, centro storico di Roma, con sopra e sotto i locali delle suore benedettine, il leader storico dei radicali racconta l’impegno preso per Aziz, sciopero della fame (dal 2 ottobre, per la situazione nelle carceri italiane) e della sete (deciso dopo l’annuncio della condanna a morte dell’ex ministro iracheno) e soprattutto ricorda come nell’inverno 2003 si fu a un passo dal salvare Saddam Hussein permetendogli l’esilio dall’Iraq.
“COME HA ricordato Furio Colombo (articolo su il Fatto di mercoledì, ndr) si era creata la straordinaria possibilità di risolvere altrimenti la situazione, non con le armi, ma attraverso l’esilio del dittatore: per noi era essenziale che Saddam se ne andasse per smettere la guerra civile contro il suo popolo. Non era un atteggiamento pacifista; sono sempre stato considerato un amerikano (sì, con il kappa), e mi sono sempre definito anche un uomo della Cia, in modo fosse chiaro che per noi il punto-chiave era la cacciata di Saddam. È successo tutto molto in fretta, parallelamente alla creazione del consenso bellico: il 10 dicembre Io, Emma e i nostri 7 parlamentari europei decidemmo di porre la questione dell’esilio; il 19 gennaio presentammo il progetto alla Camera dei deputati e solo un mese dopo, il 19 febbraio il Parlamento vota la proposta radicale (345 sì, 38 no, 52 astenuti), che impegna il governo Berlusconi a ‘sostenere presso tutti gli organismi internazionali, a iniziare dal Consiglio di sicurezza Onu l’ipotesi dell’esilio del dittatore iracheno’. I nostri tempi erano perfetti: le manifestazioni pro-Saddam (e anti-americane) si moltiplicavano non solo nel mondo arabo ma anche nell’Occidente. Avevamo precedenti illustri, come Bokassa (ex dittatore del centrafrica rifugiato in Costa d’Avorio); avevamo preso contatti con chi si stava impegnando nelle mediazioni (il greco Papandreou era presidente di turno della Ue, molti paesi arabi stavano cercando di convincere il presidente iracheno e abbiamo avuto contatti anche con Blair, che era indeciso sul da farsi). Insomma per noi il momento e l’opinione pubblica erano propizi (il 19 marzo, solo dopo l’ultimatum di 48 ore di Bush a Saddam, fu reso pubblico un sondaggio del 25 gennaio in cui il 62% degli americani si diceva favorevole all’esilio): ma a questo punto tutto è stato fatto naufragare dal ‘vertice della fattoria’. Il 22 febbraio a Crawford (il ranch dei Bush in Texas), il presidente americano respinse e affossò i tentativi del premier spagnolo Aznar di spingere per l’esilio: ‘Potrebbe essere ucciso entro due mesi; è un ladro, terrorista, criminale di guerra, al cui confronto Milosevic sarebbe Madre Teresa’, risponde il capo delle truppe americane.
BUSH TEMEVA che se fosse stato fatto fuori Saddam sarebbe caduto il motivo e la scusa per l’attacco. A precedente, ma ulteriore, conferma l’8 febbraio Bush ‘incarica’ Gheddafi, attraverso la mediazione di Berlusconi, ad andare da Saddam per convincerlo all’esilio; è la posizione della Lega Araba; ma il 1° marzo alla riunione del Cairo
(era presente Emma Bonino), il leader libico ruba la scena a tutti e di fatto blocca la discussione sul possibile esilio del dittatore che pure gli aveva dato la sua disponibilità: poco dopo la Libia verrà tolta dalla lista nera degli americani. Insomma, la possibilità di esilio di Saddam è stato fatto fallire e adesso ci ritroviamo con la condanna a morte del suo più vicino collaboratore (che tra il 13 e il 15 febbraio fu a Roma, incontrò il Papa, ma non fu forse ‘usato’ efficacemente per convincere Saddam) che sa tutto questo e potrebbe raccontare dell’“opzione impossibile” fatta saltare da chi non poteva fare a meno della guerra”.
Corriere della Sera 29.10.10
Ateismo, materialismo, rivoluzione Michel Onfray pasdaran dei Lumi
«Voltaire e Kant ipocriti bigotti. Meglio Meslier, d’Holbach, Sade»
di Pierluigi Panza
Ai radicalismi che si fronteggiano su scala planetaria dall’inizio del secolo (religiosi, etnici, economici), il filosofo francese anti-salotto buono parigino, Michel Onfray, ne vuole aggiungere un altro: l’Illuminismo radicale. È una posizione che rivendica come caratteristica dell’Europa nel saggio Illuminismo estremo (traduzione di Gregorio de Paola, Ponte alle Grazie, pp. 302, €20)
e che si fonda su almeno quattro aspetti: un marcato e netto ateismo; il riconoscimento del fondamento materialistico e meccanicistico delle cose e degli esseri viventi; la libertà di espressione per ogni forma di piaceri e l’elemento rivoluzionario come azione politica — essendo la rivoluzione francese l’atto caratterizzante l’Europa moderna.
Onfray è un coraggioso filosofo antiaccademico di estrazione popolare, ma che scrive davvero troppi libri perché siano tutti «importanti»: nel suo precedente a questo — una severa critica a Sigmund Freud fondata sul confronto tra pensiero e biografia — si è attirato numerose critiche dall’establishment dei maîtres à penser transalpini, i quali si sono dimenticati nell’occasione che pure il «guru» Michel Foucault era arrivato a interpretare il pensiero di Freud come estrema eredità del pensiero cattolico.
Forse sarà così anche questa volta, visto che Onfray — pur non invitando gli illuministi radicali a fare guerriglia o attentati nelle strade in nome della Ragione — mette sotto accusa i «padri nobili» dei Lumi: Diderot, d’Alembert, Voltaire e Kant. I quali sono colpevoli di insufficiente radicalismo, più spesso di ipocrisia, come minimo di non aver saputo tagliare i legami con il deismo e la religione o di esser stati quello che oggi si direbbe «politicamente scorretti». Dunque, gli avversari dello sviluppo dei Lumi non sarebbero stati solo gli ultimi occultisti alla Cagliostro, i mesmeristi che guarivano con la calamita, i frenologi che studiavano il bernoccolo della matematica, i seguaci della fisiognomica come Johann Kaspar Lavater o i settari e i dogmatici rifugiati nelle confraternite. No, anche loro, i Kant e i Voltaire, alla fin fine, lasciarono prosperare le due ossessioni di Onfray: il cattolicesimo e le monarchie.
Su che basi giunge a queste condanne? Come per Freud, Onfray procede mostrando la discrasia tra pensiero e comportamento individuale (popolarmente si direbbe «predicano bene e razzolano male»), ovvero comparando teoresi e buco della serratura — o quasi. Diderot è «assai acuto sui popoli dell’altro capo del mondo nel suo Supplemento al viaggio di Bougainville, ma un po’ meno eloquente quando incassa i benefici del suo capitale impegnato nella tratta dei negri». Stessa osservazione per Condorcet: «Pronto a condannare la schiavitù nelle Riflessioni sulla schiavitù dei negri, ma anche a chiedere una moratoria di ottant’anni per non danneggiare i proprietari». Quanto a Kant, la colpa è quella di aver classificato «le donne nella casella dei minorenni di fatto». Accuse anche al naturalista Buffon per l’affermazione che «i negri puzzano di porro» e a Montesquieu perché «difende la pena di morte».
Non si salva nessuno? Europa, ancora una volta, con il capo cosparso di cenere? No; si salvano gli ultrà dei Lumi, che rispondono ai quattro requisiti sopra enunciati. Sono: La Mettrie, Meslier, Helvétius, d’Holbach e il marchese de Sade.
Quello di Onfray è più un coraggioso manifesto per l’oggi che una controstoria. È vero che la storia delle idee si fa con «gli occhi del presente», e che qualsiasi storia è interpretazione; ma qui la volontà di non calare il pensiero nell’epoca della sua formulazione appare troppo evidente per parlare di «storia».
Lo registrano anche due osservatori italiani. L’epistemologo Giulio Giorello ritiene infatti che Onfray sia «un po’ offuscato da ossessioni personali, come fare i conti con il cristianesimo», e che la sua sia «un’utile provocazione intellettuale che dà voce al materialismo radicale di d’Holbach o Le Mettrie». Ma — e questa è una critica anche di altri — «non vorrei che si sostituisse l’idea di filosofia come ricerca di Dio, con la tesi opposta», dice Giorello. «Voltaire è un deista e ritiene necessaria una religione civile, ma smonta con ironia ogni fanatismo. Diderot ha sarcasmo; dire che possedeva degli schiavi è un gioco vecchio. Anche Thomas Jefferson e George Washington erano teisti e schiavisti: ma ciò toglie veridicità alla dichiarazione che tutti gli uomini sono nati liberi? Direi di no. Toglie valore all’esperimento democratico di Washington?». Il caso de Sade, poi, è curioso. In un libretto dove tracciava l’elogio di Charlotte Corday, l’assassina di Marat, Onfray esaltava la donna e stigmatizzava de Sade. «Sono contento — conclude Giorello — che ora lo rivaluti; Charlotte ammazzava e Sade no. Il marchese si esprime contro la pena di morte, nella sua Filosofia nel boudoir presenta un’idea di Stato minimo e dice che la rivoluzione non deve essere imposta. Se vale esportare la rivoluzione, come vorrebbe Onfray, allora vale anche esportare la democrazia! A Sade avrebbe fatto orrore la guerra in Iraq; a Onfray non so».
Per il filosofo cattolico Giovanni Reale, poi, Onfray prende proprio l’Illuminismo dalla parte sbagliata. «L’Illuminismo ha avuto una validità fondamentale, ma il suo nucleo pericoloso è proprio l’estremismo integralista, il radicalismo della Ragione che diventa dea al posto di Dio. L’Europa non è nata con l’Illuminismo, come pensano i neoilluministi anche di Bruxelles; ma con la cristianità. L’errore che compie l’Illuminismo radicale è negare la portata conoscitiva della fede. Persino epistemologi come Thomas Kuhn hanno mostrato che i passaggi di paradigmi scientifici avvengono per atti di fede». E conclude: «L’Illuminismo che combatte l’integralismo religioso non è un buon Illuminismo se diventa, a sua volta, integralista, come è Onfray».
L’Illuminismo dovrebbe presentarsi come anticorpo al radicalismo. «Senza ignorare», come scriveva Edgar Morin, «le ombre della Ragione». E senza trasformarsi in «contro-prassi», come si diceva ai tempi della Scuola di Francoforte. Visto che già Horkheimer e Adorno, con Dialettica dell’Illuminismo (1947), avevano mostrato i limiti e i rivolgimenti di una ragione radicale che diventa il suo opposto: la meccanizzazione che porta allo smog, la promozione che conduce alla sudditanza pubblicitaria… Se in Onfray va apprezzata la radicale guerra a ogni ipocrisia e a ogni falsa coscienza (e ce n’è bisogno), va però evidenziata anche l’ingenuità filosofica nel ritenere che il «pensiero» davvero possa partire da una tabula rasa e procedere senza «pre-giudizi».
Repubblica 29.10.10
Il business delle false malattie ecco i trucchi delle industrie per venderci farmaci inutili
Il costo per sanità pubblica e famiglie: 4 miliardi all’anno
di Michele Bocci
Non ce n´è nemmeno uno. Sul calendario non sono rimasti più mesi, settimane o giorni liberi da malattie. Da prevenire, scoprire prima possibile, sconfiggere, studiare o raccontare a chi sta bene. Cancro, alzheimer, sclerosi multipla, aids sono protagoniste ogni anno di giornate mondiali o italiane, regionali o cittadine. Ma anche la menopausa, l´osteoporosi, l´incontinenza e addirittura la stipsi hanno i loro periodi dedicati, con appuntamenti nelle piazze, davanti ai supermercati, negli ambulatori. Sotto gazebo montati in centro si misurano glicemia e pressione, si fanno valutazioni odontoiatriche e audiometriche ai passanti. C´è un palcoscenico per ogni problema, che sia infettivo e raro come la meningite oppure diffusissimo come l´ipertensione. Molti forse non sanno che in Italia si celebra anche il mese della prevenzione degli attacchi di panico.
Quanti sono gli appuntamenti dedicati alle malattie? Quelli nazionali almeno 60 l´anno, poi ci sono le manifestazioni locali e il numero sale a 300. In molti, tra medici, farmacologi e responsabili di associazioni di malati, sono convinti che sia troppo alto. Spesso l´invito agli screening e il messaggio che molti non sanno di avere una certa patologia, oltre ad avere effetti positivi, creano ansie e timori. E fanno consumare sempre più sanità: esami, visite e medicinali. È ciò che vuole l´industria farmaceutica, che in Italia fattura oltre 25 miliardi di euro all´anno. Lavora per far guarire da problemi seri ma anche per allargare il mercato, un po´ come si fa con i detersivi. Le giornate del malato, normalmente importanti, possono essere un efficace strumento di marketing, e diventare una delle linee di produzione della fabbrica delle malattie.
Quali sono i meccanismi utilizzati per riempire di medicine i nostri armadietti del bagno? Il punto di partenza è la ormai nota frase pronunciata oltre trent´anni fa dal pensionando direttore Merck, Henry Gadsen: «Sognamo di produrre farmaci per le persone sane». Da allora la fabbrica ha scoperto tanti medicinali importanti ma ha anche prodotto nuove patologie e nuovi malati. Eventi naturali della vita come l´invecchiamento e il parto o stati d´animo come la timidezza, oggi, nella grande corsa al benessere assoluto, sono considerati problemi di salute. Così nessuno di noi si sente sano fino in fondo. Probabilmente Gadsen ne sarebbe soddisfatto.
I problemi di salute in piazza
L´idea di partenza è meritoria: portare una patologia in piazza per farla conoscere e magari raccogliere soldi per ricerca e assistenza. Il sistema però è cresciuto a dismisura. «Si rischia di incentivare il consumo di prestazioni sanitarie e di medicine», dice Marco Bobbio, primario di cardiologia a Cuneo e autore per Einaudi del libro "Il malato immaginato". «Tra gli organizzatori delle giornate c´è certamente chi ha uno scopo specultativo. Anche perché nessuno ha mai verificato con studi scientifici se queste iniziative aiutano i pazienti a curarsi meglio o magari spingono qualcuno che ha scoperto i sintomi di un problema ad accentuare artatamente i suoi disturbi, sottoponendosi a esami inutili». E magari a consumare più farmaci. Ma quanti tra coloro che partecipano a una campagna sanno già di avere quel problema di salute?
«L´impressione è che si faccia coinvolgere chi è già seguito per la patologia a cui è dedicata la giornata dice Bobbio Chi fuma non va al banco per la prevenzione del tumore al polmone fuori dal supermarket».
A organizzare questi appuntamenti di solito sono associazioni di malati, con l´appoggio di una società scientifica e il contributo dell´industria. Un evento di medie dimensioni al privato può costare anche 100-150mila euro. Le case farmaceutiche credono in queste iniziative. E non solo loro. Sempre più aziende cercano visibilità per i loro prodotti attraverso i problemi di salute. La giornata dell´osteoporosi oltre a sponsor come Procter & Gamble (che vende un farmaco per questo problema a base di risedronato), o Lilly Italia, quest´anno ha avuto la partnership dell´acqua Sangemini. Sul suo sito la società spiega anche di aver pubblicato un «opuscolo esplicativo sulle proprietà dell´acqua Sangemini, sulla prevenzione e la cura dell´osteoporosi per la donna fashion, ma anche attenta al suo benessere». Il tutto per un problema passato negli ultimi anni da fattore di rischio a malattia, secondo alcuni proprio grazie all´impegno dell´industria. Negli Usa si calcola che le visite per l´osteoporosi siano triplicate dall´introduzione sul mercato del farmaco alendronato della Merck.
Al di là delle normali e lecite sponsorizzazioni, esistono appuntamenti organizzati a tavolino per vendere farmaci? Per dare una risposta basta la storia della "settimana nazionale per la diagnosi e la cura della stitichezza". «In Italia è stata fatta per ben tre anni consecutivi spiega Bobbio Si volevano sensibilizzare medici e cittadini sulla necessità di curare questo problema in previsione dell´arrivo sul mercato di un farmaco». Quel medicinale era a base di tegaserod ed era prodotto dalla Pfizer, che l´ha ritirato dal commercio in Europa nel 2007, perché sono stati segnalati casi di problemi cerebro-vascolari tra chi lo aveva preso. «E dall´anno dopo la settimana della stitichezza è scomparsa dice Bobbio dimostrando che il grande interesse "scientifico" era ingigantito per preparare il lancio commerciale».
Curare malattie che una volta non erano malattie
Le giornate del malato, come certi studi clinici, i convegni e le pubblicità, in alcuni casi possono essere utilizzate per il cosiddetto disease mongering, la creazione a tavolino delle malattie. La stessa osteoporosi, la menopausa, la timidezza, un tempo non erano considerate patologie, ora sì. Una recente ricerca scientifica svolta negli Usa e pubblicata da Social science & medicine, prende in considerazione una decina di situazioni (ansia, deficit di attenzione, insoddisfazione della propria immagine, disfunzione erettile, infertilità, calvizie, menopausa, gravidanza senza complicazioni, tristezza, obesità, disordini del sonno) che sono state medicalizzate, alcune magari anche giustamente, negli ultimi anni e calcola che costino ogni anno alla sanità Usa 77 miliardi di dollari, il 3,9% della spesa. Quanto costa in Italia medicalizzare le patologie che un tempo non esistevano? Rispettando le proporzioni con l´America, circa 4 miliardi di euro. Di recente il British medical journal ha pubblicato il lavoro di un ricercatore australiano, Ray Moynihan, il quale sostiene che il mito della scarsa libido delle donne è stato creato dalle case farmaceutiche, per vendere una versione femminile del Viagra fino ad ora mai scoperta.
Come si aumenta il numero di pazienti
La fabbrica delle malattie non si accontenta mai. Si muove anche per far crescere il numero di persone a rischio. «Basta abbassare il limite della pressione, della glicemia o del colesterolo considerati pericolosi», spiega Roberto Satolli, medico e giornalista dell´agenzia Zadig, che realizza il sito www.partecipasalute.it. «Negli anni Sessanta si era ipertesi con 160-90, negli anni Ottanta e Novanta con 140-90 e adesso con 120-80. Si sposta un po´ la soglia e milioni di persone vengono inserite tra coloro che devono prendere dei farmaci». Il colesterolo un tempo era considerato alto dai 240 in su, adesso anche ben al di sotto dei 200. Un sensibile allargamento del mercato potrebbe essere dovuto proprio in questo periodo al Crestor di AstraZeneca, uno dei medicinali della famiglia delle statine più efficaci per abbassare il colesterolo e quindi prevenire l´infarto. Di recente l´Fda, l´agenzia Usa per il controllo dei farmaci, ha approvato l´estensioni delle indicazioni alle persone senza problemi di colesterolo ma con alti livelli della proteina C-reattiva (un marcatore di infiammazione) e con un fattore di rischio cardiovascolare, come fumo, ipertensione, sovrappeso. Il New York Times ha spiegato come uno studio su larga scala dimostri che, rispetto al placebo, il Crestor per questi soggetti fa scendere la probabilità di un attacco di cuore da 0,37% a 0,17. Il quotidiano fa notare che per prevenire un infarto "a cui normalmente si può sopravvivere" vanno trattate 500 persone. Che magari sono grasse e quindi potrebbero abbassare quel fattore di rischio. Il Nyt calcola che, con l´allargamento dei parametri, 6,5 milioni di americani diventino potenziali utilizzatori del Crestor.
Le statine sono sempre più usate ovunque, da noi il consumo aumenta del 20% all´anno. Si tratta di farmaci che hanno rivoluzionato la cura dei problemi cardiovascolari. Lo sottolinea Sergio Dompé, presidente di Farmindustria: «Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una riduzione di queste patologie senza precedenti. Del resto, più in generale, oggi stiamo meglio di una volta, in 15 anni ne abbiamo guadagnati 3 di vita. Le aziende fanno i loro interessi, ma quando lavorano correttamente perseguono anche il bene della collettività. Certo, alcuni sprechi si possono ridurre. E come dico sempre: il miglior farmaco è avere un bravo medico». Uno dei pilastri della fabbrica delle malattie è il marketing. Ma come si fa a vendere un farmaco?
L´imbuto e il "disease awareness"
Bisogna essere oltre che disinvolti anche scientifici. «I medici sono classificati a seconda della loro capacità di condizionare i colleghi. In cima ci sono gli influenzatori, bravi a parlare in pubblico e seguiti da tanti altri dottori quando si tratta di fare una prescrizione. Poi ci sono gli influenzati ma anche categorie come gli early adopters, gli appassionati delle novità, che amano essere i primi a fare le cose». A parlare è Luca (il nome è finto), che da anni lavora negli uffici marketing del farmaceutico. «A parte l´utilizzo degli informatori, sono importanti i congressi. Si sponsorizzano gli organizzatori e si fanno mettere letture o tavole rotonde incentrate non sul brand del tuo farmaco, cosa vietata, ma sul principio attivo o sulla patologia. Avere questo spazio scientifico costa diverse decine di migliaia di euro. Per il tuo simposio ingaggi i relatori, che paghi tra i mille e 5mila euro, e anche il pubblico, cioè i medici che seguono la patologia di cui si parla e che ospiti al congresso». Il fine è quello di vendere più farmaci. «Si pensi a un imbuto dice Luca Se ho 100 persone che prendono determinati medicinali e la mia azienda copre il 50% del mercato, serve a poco ed è faticoso strappare alla concorrenza il 2 o 3%. A me che sono leader, conviene aumentare i pazienti, farli diventare 200 allargando l´ingresso di quell´imbuto. Si cerca di ridefinire la malattia per poter dire che ne soffre anche chi prima non l´aveva. E partono le campagne di disease awereness, cioè di consapevolezza, fatte un po´ in buona fede e un po´ in malafede. Esiste sempre una quota di persone che non sa di avere una certa malattia: è giusto fargliela scoprire. Così, ad esempio, si organizzano le giornate».
La ricerca in mani private
Le multinazionali hanno in mano la ricerca. Lo spiega Nicola Magrini, farmacologo direttore del Ceveas, che si occupa di valutazione e linee guida sull´uso dei farmaci per la Regione Emilia Romagna e per l´Istituto superiore di sanità. «Negli Usa, pubblico e privato investono nella ricerca il 50% a testa spiega Da noi il pubblico finanzia solo una piccola parte degli studi. Bisognerebbe almeno favorire l´effettuazione di ricerche a cui partecipano più aziende: confrontando più farmaci si bilanciano gli interessi di tutti». Ma cosa sanno i singoli medici dei risultati della ricerca scientifica? «Negli ambulatori arrivano depliant patinati, non informazioni. Il sistema sanitario dovrebbe dare la possibilità a ogni dottore di accedere alle migliori evidenze scientifiche». Crede nelle collaborazioni tra privati per la ricerca anche Dompé. «Capita sempre più spesso che più aziende investano sullo stesso progetto, il nuovo paradigma è collaborare per competere». Il presidente di Farmindustria spiega che nel settore in Italia c´è ancora da fare. «Siamo indietro senza dubbio come struttura industriale, e ancora di più come sistema paese. Ma stiamo crescendo. Il pubblico non può avere i soldi per pagare gli studi sui farmaci, che durano in media 12 anni e mezzo. Allora deve far in modo di individuare centri di eccellenza, e ce ne sono, in grado di competere a livello mondiale e investire solo su quelli».
Siamo tutti doloranti?
Proprio in questo periodo nel nostro paese potrebbe allargarsi il famoso imbuto. Sta partendo la campagna "dolore misterioso", negli studi dei medici di famiglia saranno messi volantini e poster per insegnare a riconoscere il dolore neuropatico e descriverlo (come bruciante, lancinante, formicolante, freddo o folgorante). È stato creato anche un sito www.doloremisterioso.it. L´iniziativa vede impegnate la Fimmg, sindacato dei medici di famiglia, la Simmg, la società scientifica di questi professionisti, e l´associazione Cittadinanzattiva. Sponsor è la Pfizer. Cioè l´azienda farmaceutica che produce il Lyrica, nato quando un prodotto simile della stessa azienda, il Neurontin, è diventato generico (peraltro dopo aver fatto prendere al produttore una multa della Fda da circa 450 milioni di dollari per campagne di marketing scorrette e mancata pubblicazione dei dati di studi negativi). Il Lyrica è a base del principio attivo pregabalin, indicato come terapia aggiuntiva negli adulti con attacchi epilettici, nell´ansia generalizzata ed è l´unico prodotto sul mercato per il trattamento del dolore neuropatico periferico, un problema che con l´approvazione della legge su cure palliative e terapia del dolore è diventato trattabile anche dai medici di famiglia, con gli specialisti. Intanto sul sito tutti possono fare un questionario sul proprio dolore, stamparlo e portarlo ai loro dottori. Se questi prescriveranno il Lyrica lo sapremo nei prossimi mesi. Quando si conosceranno i dati delle vendite.
Avvenire 29.10.10
Il Papa: «La scienza al servizio del bene»
Davanti ai membri della Pontificia Accademia delle scienze il Pontefice ieri si è soffermato sull’eredità lasciata dai progressi e dai fallimenti del ventesimo secolo
di Matteo Liut
I l successo della scienza del ventunesimo secolo «dipenderà sicuramente, in grande misura, dalla capacità dello scienziato di ricercare la verità e di applicare le scoperte in un modo che va di pari passo con la ricerca di ciò che è giusto e buono». Solo così la scienza potrà diventare «un luogo di dialogo, un incontro fra l’uomo e la natura e, potenzialmente, anche fra l’uomo e il suo Creatore». Questo l’auspicio espresso ieri mattina da Benedetto XVI che ha ricevuto in udienza i partecipanti all’Assemblea plenaria della Pontificia Accademia delle scienze, dedicata al tema «L’eredità scientifica del ventesimo secolo». Due, secondo il Papa, gli «elementi estremi» che caratterizzano la visione popolare della scienza del ventesimo secolo: da una parte essa «è considerata da alcuni come una panacea, dimostrata dai risultati importanti del secolo scorso», dall’altra «ci sono quelli che temono la scienza e se ne allontanano a causa di certi sviluppi che fanno riflettere, come la costruzione e l’uso terrificante di armi nucleari». Due volti che non definiscono la natura più autentica dell’attività scientifica, il cui compito, ha detto Ratzinger, «era e rimane una ricerca paziente e tuttavia appassionata della verità sul cosmo, sulla natura e sulla costituzione dell’essere umano». Un cammino fatto di «molti successi e molti fallimenti» nel quale «anche i risultati provvisori sono un contributo reale alla scoperta della corrispondenza fra l’intelletto e le realtà naturali, su cui le generazioni successive potranno basarsi per un ulteriore sviluppo». I progressi compiuti nel ventesimo secolo, inoltre, «hanno portato a una consapevolezza decisamente maggiore del posto che l’uomo e questo pianeta occupano nell’universo ». L’uomo ha compiuto «più progressi nello scorso secolo che in tutta la storia precedente dell’umanità, sebbene non sempre nella conoscenza di sé e di Dio, ma di certo in quella dei macro e dei microcosmi ». La Chiesa, ha aggiunto Benedetto XVI, ha piena stima «per la costante ricerca scientifica» ed è grata «per lo sforzo scientifico che incoraggia e di cui beneficia». D’altra parte oggi gli scienziati stessi «apprezzano sempre di più la necessità di essere aperti alla filosofia per scoprire il fondamento logico ed epistemologico della loro metodologia e delle loro conclusioni». Accogliendo così la convinzione della Chiesa che «l’attività scientifica benefici decisamente della consapevolezza della dimensione spirituale dell’uomo e della sua ricerca di risposte definitive ». Va ricordato, inoltre, che «gli scienziati non creano il mondo – ha sottolineato Ratzinger –. L’esperienza dello scienziato quale essere umano è quella di percepire una costante, una legge, un logos che egli non ha creato, ma che ha invece osservato». Così si arriva «ad ammettere l’esistenza di una Ragione onnipotente, che è altro da quella dell’uomo e che sostiene il mondo ». Questo, ha notato il Papa, «è il punto di incontro fra le scienze naturali e la religione».
Gettando uno sguardo al ventunesimo secolo Benedetto XVI ha voluto offrire due ulteriori spunti di riflessione. «In primo luogo – ha sottolineato –, nel momento in cui i risultati sempre più numerosi delle scienze accrescono la nostra meraviglia di fronte alla complessità della natura, viene sempre più percepita la necessità di un approccio interdisciplinare legato a una riflessione filosofica che porti a una sintesi». In questo nuovo secolo, inoltre, «la conquista scientifica dovrebbe essere sempre informata dagli imperativi di fraternità e di pace, contribuendo a risolvere i grandi problemi dell’umanità e orientando gli sforzi di ognuno verso l’autentico bene dell’uomo e lo sviluppo integrale dei popoli del mondo. L’esito positivo della scienza del ventunesimo secolo – ha concluso il Papa – dipenderà sicuramente, in grande misura, dalla capacità dello scienziato di ricercare la verità e di applicare le scoperte in un modo che va di pari passo con la ricerca di ciò che è giusto e buono».