martedì 12 ottobre 2010

l’Unità 12.10.10
Ad Elmas gli immigrati, per lo più rifugiati, hanno occupato il centro e la pista dell’aeroporto
Blitz delle forze dell’ordine In nove sono stati arrestati per danneggiamenti e resistenza
Cagliari, rivolta nel Cpa I migranti occupano lo scalo
Giornata di caos e tensioni allo scalo di Cagliari. Un centinaio di migranti ha occupato il Cpa e la pista. Traffico aereo in tilt fino alle 18. Poi blitz della polizia. Nove sono stati arrestati per danneggiamenti.
di Francesca Ortalli


Venti extracomunitari fermati e nove arrestati. È il bilancio finale della rivolta scoppiata intorno alle 14,30 di ieri al centro di prima accoglienza (CPA) di Elmas, nello scalo cagliaritano “Mario Mameli”. Il blocco del traffico aereo, inizialmente previsto fino alle 22, è stato riattivato verso le 18 ma la cancellazione definitiva di alcuni voli internazionali ha creato disagi ai passeggeri. E mentre qualcuno si chiedeva stupito il perché di tutta quella polizia, con gli elicotteri in volo e le macchine in mezzo alla pista, lì accanto, in quella palazzina verde e gialla un tempo appartenuta dell’aeroporto militare, si stava consumando l’ennesima tragedia frutto di una politica d’immigrazione che imprigiona chi sta fuggendo dalla guerra e dalla fame. Così gli extracomunitari ospitati nella struttura hanno deciso di dire basta alle condizioni di vita disumane che spengono anche l’ultimo brandello di speranza. E hanno organizzato una rivolta impossessandosi dell’edificio. Approfittando della confusione sette nord africani hanno scavalcato le barriere di sicurezza e sono scappati. Lì a pochi metri c’è la pista dell’aeroporto, quattro sono stati bloccati mentre correvano in mezzo agli aerei, gli altri invece sono stati individuati nelle vicinanze. Una volta terminata quella che è sembrata una vera e propria caccia all’uomo, la polizia ha fatto irruzione nel Cpa. Dopo il lancio dei lacrimogeni ha sfondato gli ingressi identificando tutti i presenti.
SISTEMA FRAGILE
Finisce così l’ordinario pomeriggio di follia che ha messo allo scoperto la fragilità di un sistema che tratta da criminale chi in realtà è alla ricerca di una nuova patria perché semplicemente nella sua non ci può più vivere. Sono questi i centri di prima accoglienza che dovrebbero accogliere e invece respingono. Quelli dove vengono rinchiusi tutti, pure i rifu-
giati politici che invece dovrebbero essere protetti. In realtà era tutto già scritto. Perché la rivolta di ieri non è stata nient’altro che l’epilogo di una tensione che nel centro di Elmas andava avanti da settimane, con ben due tentativi di rivolta nelle ultime settimane. La prima scintilla era scoppiata il 1 ̊ ottobre , quando dopo aver spaccato le telecamere di sorveglianza erano stati incendiati materassi e lenzuola. Lo stesso era accaduto cinque giorni dopo. Il tutto per impedire il trasferimento di alcuni immigrati algerini nei centri d’identificazione della penisola. Ma ultimamente la situazione era diventata
particolarmente invivibile per l’eccessivo affollamento. I recenti sbarchi sulle coste del Sulcis hanno portato nuovi inquilini nella palazzina, con un piano inagibile a causa dei recenti disordini, stipandola come un uovo. In queste condizioni il limite di sopportazione si raggiunge facilmente, anche perché il centro di Elmas era nato nel 2008 per accogliere chi chiedeva asilo politico.
LE NUOVE ROTTE
Invece finiscono lì anche i nuovi disperati che sbarcano sulle spiagge dorate della Sardegna, meno controllate rispetto alle solite rotte. In teoria la permanenza dei clandestini nel Cpa di Elmas dovrebbe essere limitata allo stretto necessario e invece rimangono lì per mesi, abbandonati perché nessuno sa cosa fare. E così come racconta Lino, senegalese in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato politico, succede che chi non ha commesso nessun reato viene incarcerato. Lui aveva chiesto asilo ed è rimasto lì dentro per mesi, «in condizioni al limite dell’umano e nell’indifferenza totale delle istituzioni. Io volevo un’altra patria perché nella mia rischiavo la morte. Invece mi hanno impedito di
essere un uomo». E quattro esponenti dell’associazione “No Border” che manifestavano con slogan a favore degli immigrati sono stati aggrediti da una ventina di passeggeri imbufaliti. Solo l’intervento della polizia ha evitato il peggio. Nel frattempo Marco Pacciotti coordinatore del Forum Immigrazione del PD chiede al Governo di riferire in Parlamento sull’intera vicenda e annuncia nei prossimi giorni la visita al centro di Elmas di una delegazione parlamentare.

il Fatto 12.10.10
Cagliari. Caccia all’uomo, bloccato lo scalo
Trattati come bestie
Rivolta di immigrati
Un gruppo scappa dal centro di prima accoglienza e occupa l’aeroporto. Ma nei Cpa la situazione è insostenibile
di Furio Colombo


Quanti punti sono una rivolta nel cosiddetto centro di accoglienza presso l’aeroporto di Cagliari? Gli “stranier i”    (come    scr ivono prudentemente le agenzie) dimostrano l’istinto di violenza della giungla o stanno avvertendo la brava gente padana che non si trattano così neanche gli animali (lo impedirebbe di slancio l’animalista Michela Brambilla)? È vero che, come Paese, siamo tutti impegnati in una delicata riflessione con il ministro della Difesa La Russa: in una missione di pace, un buon rapporto con le popolazioni assistite si realizza meglio con o senza un carico di bombe sui nostri aerei? Cito la perplessità dei nostri più alti livelli sull’Afghanistan perché la situazione di Cagliari ci propone un dilemma simile. Esiste al mondo un modo umano, civile e utile per affrontare l’immigrazione (visto che i migranti arrivano, visto che servono, visto che lavorano, visto che sono poco pagati ma molto cercati) o la sola risposta – come le bombe per la pace – è trattarli da bestie perché così diamo senso di sicurezza ai cittadini? Una volta domata la rivolta, quanti punti toglieremo ai riottosi? Voi direte: domanda inutile, quelli sono “accolti” nei campi-prigione per essere cacciati. Inoltre la legge dei punti, sulla cui nobile natura (qualcuno avrà l’autorità di dare punti a esseri umani per vivere o per morire), gareggiano destra e sinistra, non è ancora in vigore. Peccato.
Pensate quante cose sulla cultura, la civiltà, gli usi, i costumi e le tradizioni italiane hanno imparato a botte i rivoltosi che non ce la facevano più a sopportare la nostra accoglienza. Potrebbero dare l’esame subito. Chi ha visto il “centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria” a Roma (rivolta e fiamme nel giugno scorso), chi ricorda le condizioni del campo di Gradisca (lo scorso agosto), chi non ha dimenticato l’insurrezione di luglio e di agosto nel campo di concentramento detto C.I.E. di Milano, chi ha negli occhi le immagini delle due notti di Rosarno (8 gennaio 2010), sa una cosa con certezza: un governo cattivo e ottuso guidato dalla Lega Nord, ha devastato la civiltà di questa Repubblica prima di spaccarla. La rivolta di Mohammed Spartacus è un simbolo, anzi un avvertimento che ci riguarda.

il Fatto 12.10.10
Fuga dal Centro, la rivolta dei clandestini
Un centinaio di immigrati scappa dal Cpa e blocca l’aeroporto di Cagliari
di Cinzia Simbula


Aeroporto Mario Mameli di Elmas chiuso per quasi tre ore, undici voli cancellati, quattro dirottati in altri scali, una decina di arrestati e un numero imprecisato di feriti. È allarmante il bilancio della rivolta degli extracomunitari ospitati nel Centro di prima accoglienza di Elmas. Allarmante in tutti i sensi, visto che un gruppo di stranieri composto da quattro persone è riuscito a raggiungere la pista dello scalo civile di Cagliari che, essendo area sensibile, non avrebbe dovuto essere così vulnerabile. Ma forse è il Cpa stesso che non dovrebbe essere attaccato all’aeroporto. Le avvisaglie di un malessere all’interno della struttura, assolutamente off limits per telecamere e giornalisti, c’erano da tempo e anche i sindacati di polizia avevano lanciato l’allarme. Quella di ieri, la terza rivolta in quindici giorni, seppure le altre non siano state così preoccupanti.
SONO CIRCA LE 14:30
quando un centinaio di ospiti prende il controllo della struttura, alcuni nordafricani si calano dalla finestra del secondo piano della palazzina (sede, in passato, degli avieri in servizio all’aeroporto militare), riuscendo a fare strada ai compagni. Una quindicina riescono a scappare nell’area attorno allo scalo civile e quattro raggiungono la
pista. Le autorità aeroportuali fanno scattare tutte le procedure di sicurezza, la Polaria decide la chiusura del Mario Mameli mentre carabinieri, polizia e guardia di Finanza, anche con l’ausilio di un elicottero, fanno partire una vera e propria caccia all’uomo. Al tempo stesso si sentono le sirene delle ambulanze, si parla di feriti anche all’interno della struttura (dove sarebbero stati lanciati lacrimogeni per sedare la rivolta), ma al riguardo trapelano pochissime informazioni. Una situazione di caos, preoccupazione ed enormi disagi per i voli in partenza e in arrivo. Dalle 14:52 alle 17:15 vengono cancellati quattro voli in arrivo e sette in partenza. Altri aerei diretti a Elmas sono dirottati sugli altri aeroporti sardi, con grande disappunto da parte dei passeggeri. A Elmas molti di loro hanno già imbarcato i bagagli, ma non sanno quando potranno partire. Gli agenti della Polaria, supportati da altro personale mandato dalla Questura di Cagliari, effettuano un vero e proprio rastrellamento della pista dell’aeroporto e di tutta l’area adiacente all’aerostazione civile. A Elmas lo stato di massima allerta dura diverse ore per impedire agli immigrati provenienti dal Centro di prima accoglienza di raggiungere gli aerei in sosta e la zona partenze e arrivi dello scalo cagliaritano. La palazzina dell’aeroporto militare, dove è stato realizzato il Cpa, si trova ad appena 150 metri di distanza dalla torre di controllo, e viene circondata dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa. Sono le 18:15 quando a Elmas ritorna una situazione di apparente normalità, con il decollo del volo Meridiana per Roma-Fiumicino che sarebbe dovuto partire alle 16:30.
INTANTO INFURIA la polemica su quanto accaduto e, soprattutto, sulla sede scelta per il Cpa. Giulio Calvisi, deputato del Partito democratico, sollecita il governo a riferire immediatamente in Parlamento: “Solo l’attenzione della torre di controllo e delle forze dell’ordine ha evitato una tragedia. La rivolta nel Cpa e la fuga degli immigrati nello scalo sardo sono fatti gravissimi che dimostrano come sia del tutto fuori luogo la scelta dell’area. Si pone senz’altro il problema di una delocalizzazione lontano dall’aeroporto”. Il parlamentare sardo evienzia anche altri aspetti, che meritano di essere approfonditi: “Da quanto si è appreso sembra che la rivolta sia scoppiata perché gli immigrati avevano saputo di un imminente trasferimento. Ci chiediamo quale fosse la destinazione prevista e perché questo spostamento?”. Non è l’unico dubbio sollevato da Calvisi, il quale ricorda che “il Cpa era stato costruito per l’accoglienza delle persone immigrate sbarcate sull’isola e dei richiedenti asilo. Vogliamo chiarimenti dal governo anche sulla trasformazione della natura di questo luogo: in particolare se sia vero che il centro ospiti anche immigrati che escono dal carcere e coloro che hanno già avuto un decreto di espulsione. La vicenda – aggiunge il parlamentare – è una nuova, tragica dimostrazione del fallimento delle politiche del governo: la detenzione di sei mesi in queste strutture prevista dalla legge attuale non poteva non essere foriera di incidenti, caos e sofferenze per chi vi è costretto”.

il Fatto 12.10.10
Lager col timbro di Stato
Sempre più scontri, feriti e proteste
di Francesco Carbone


Le strutture che accolgono gli immigrati irregolari sono distinguibili in tre tipologie: centri di accoglienza (CDA), centri di accoglienza richiedenti asilo (CARA), centri di identificazione ed espulsione (CIE). I CDA sono destinati a garantire un primo soccorso allo straniero irregolare rintracciato sul territorio nazionale. L’accoglienza nel centro è limitata al tempo necessario per stabilire l’identità e la legittimità della sua permanenza sul territorio o per disporne l’allontanamento. Agrigento con 804 posti, Bari Palese (994), Brindisi (128), Cagliari (220), Caltanissetta (360), Crotone (978), Foggia (716). Nei CARA, invece, viene ospitato per un periodo variabile di 20 o 35 giorni lo straniero richiedente asilo, privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera, per consentire l’identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato. Caltanissetta con 96 posti, Crotone (256), Foggia (198), Gorizia (138), Trapani, Salina Grande (310), Mazara del Vallo (100), Valderice (200), Marsala (114), Castelvetrano (121). I CIE sono strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri
extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione. Il termine massimo di permanenza degli stranieri è passato da 60 a 180 giorni complessivi. Attualmente i centri operativi sono 13: Bari-Palese con 196 posti, Bologna (95) Caltanissetta (96), Catanzaro (75), Gorizia (248), Milano (132), Modena (60), Roma (364), Torino (204), Trapani (43), Brindisi (83), Lampedusa (200), Crotone (124). Per un totale di 1814 posti. Diverse sono state le rivolte in questi centri. Una delle più gravi a Bari, il 30 luglio 2010, dove rimasero ferite 19 persone tra cui 4 militari. Un mese dopo, a Gradisca d’Isonzo (Gorizia) una trentina di extracomunitari sorpresero i controllori, inscenando una rivolta sul tetto del Cie e incendiando un materasso. Le forze dell’ordine furono oggetto di un lancio di bottigliette, un diversivo per favorire la fuga di nove immigrati. A Lampedusa, il 18 luglio 2009, 24 persone rimasero ferite. Una cinquantina, tra poliziotti, carabinieri e immigrati, riportarono contusioni provocate dagli oggetti lanciati dagli extracomunitari che raggiunsero il tetto della struttura. Nello stesso centro, a Ferragosto fuggirono 25 ospiti extracomunitari.

il Fatto 12.10.10
“Trattati come delle bestie e ignorati dalla politica”
Il giornalista Gatti racconta quello che ha visto nelle strutture in cui vivono gli irregolari
Con la legge attuale la reclusione del clandestino può trasformarsi
in un ergastolo
di Beatrice Borromeo


Fabrizio Gatti, giornalista d’inchiesta de L’espresso che per due volte si è finto clandestino per raccontare la vita nei “centri di detenzione” per immigrati, non si stupisce affatto quando legge della rivolta di Cagliari. E spiega: “Non mi meraviglia che gli immigrati, trattati come animali, col cielo oscurato da reti di metallo per impedire la fuga, possano perdere la calma e decidere o di uccidersi oppure di scappare e bloccare per protesta la pista di un aeroporto”. È l’unico modo per far sapere quello che succede dentro i centri? Sì e questo è drammatico. Ci sono centri in cui non distribuiscono più le schede telefoniche perché c’era chi le usava per tagliarsi le vene. Nel 2000 lei si è finto romeno ed è stato nel Centro per immigrati di Milano. Dopo il suo articolo l’hanno chiuso. C’era un recinto d’acciaio, filo spinato e stavamo in container di ferro. Feci per il Corriere della Sera un reportage sulle condizioni igieniche, l’ammassamento e la promiscuità fra ragazzi e ragazze. Ci furono anche violenze sessuali e un’epidemia di scabbia.
Poi, nel 2005, si è fatta catturare nel mare di Lampedusa. Sono stato in quel centro otto giorni. La capienza massima era di 190 persone, invece eravamo 1200. I gabinetti non avevano lo scarico e per andare in bagno si dovevano mettere i piedi in una melma di urina e feci. Quali sono le cose più gravi che ha visto?
L’assoluto isolamento delle persone rinchiuse e la violazione totale delle garanzie costituzionali, come l’udienza con un magistrato entro le 48 ore, oltre alla possibilità di chiedere l’asilo politico.
E le autorità che fanno?
Una volta i carabinieri hanno fatto il gioco militare del ‘corridoio’: gli immigrati appena sbarcati, i più deboli, venivano fatti passare in mezzo a due file di militari addetti alla loro perquisizione e presi a schiaffi sulla testa. Ho visto che urlavano a qualcuno di sedersi, in italiano o in inglese.
E chi non capiva l’ordine veniva picchiato. Un ragazzo è stato preso a calci. Cos’altro facevano i carabinieri? Avvicinavano i minorenni, che in teoria là dentro non avrebbero proprio dovuto esserci e li obbligavano a vedere immagini pornografiche sui loro telefonini.
I centri sono anche molto costosi. C’è un dossier di Medici senza frontiere secondo cui solo il 40 per cento dei detenuti nei centri viene effettivamente rimpatriata. Con i tagli di quest’anno i rimpatri, a carico dello Stato, verranno ridotti ancora. E i nostri potenziali richiedenti asilo, soprattutto eritrei e somali, sono incarcerati in Libia grazie ai nostri accordi con Gheddafi.
Ma i centri sono utili a mantenere l’ordine, almeno? Sono una grande messa in scena, più utile a rassicurare gli italiani che a garantire la sicurezza o a scoprire l’identità, le intenzioni o i diritti di rifugio di chi sbarca.
Gli sbarchi però sono diminuiti.
Da 176 mila respingimenti del 2008 si è passati a 106 mila del 2009 e questo è un indicatore importante per capire che entrano meno persone. Ma è dovuto soprattutto alla crisi economica.
Nel 2005, quando lei fu “ospite” del Cie di Milano, il periodo massimo di detenzione era molto inferiore rispetto a oggi. Si stava dagli otto giorni alle due settimane. Il limite massimo previsto dalla legge Turco-Napolitano era di 30 giorni. Poi gli immigrati venivano smistati in altri centri o rimandati in Libia, anche se la loro identificazione era sommaria.
Oggi possono detenerli fino a sei mesi. E per di più nulla impedisce che, una volta liberati, possano essere fermati e trattenuti di nuovo. In teoria, un irregolare che esce dal centro dopo i sei mesi potrebbe attraversare la strada ed essere fermato nuovamente. E quindi, potenzialmente, la permanenza nel centro può diventare un ergastolo.
Lei è stato a Lampedusa otto giorni. Riesce a immaginare sei mesi lì dentro? No. E da quando sono usciti dal Parlamento i piccoli partiti, come Rifondazione e i Verdi, che più si occupavano di immigrazione, nessuno visita i centri. Noi giornalisti, se vogliamo vederne uno, dobbiamo chiederlo con un preavviso di almeno un mese, rendendo impossibile un vero controllo della situazione. Il senso di abbandono per chi vi è recluso è ancora più forte che allora. La rivolta di Cagliari lo dimostra.

il Fatto 12.10.10
I timori della Fiom
Sabato si rischiano fischi al segretario Epifani Ma Landini non rinuncia alla linea dura
di Salvatore Cannavò


Non è la prima manifestazione importante che la Fiom organizza. Nel corso della sua storia ne ha fatte altre forse ancora più rilevanti. Ma quella del 16 ottobre a Roma (in Piazza S. Giovanni) è certamente molto delicata. Perché la Fiom esce da una fase in cui è stata messa all’angolo dalla Fiat, con la vertenza Pomigliano, poi da Federmeccanica e Confindustria, con l’avvio delle trattative separate per le deroghe al contratto nazionale. E' stata attaccata dai segretari confederali di Cisl e Uil, Bonanni e Angeletti, pronti a rimproverare al sindacato di Maurizio Landini, irresponsabilità e poco senso della negoziazione. Con Cisl e Uil ci sono stati poi scontri aspri davanti alle sedi sindacali. Infine, si trova a dover gestire una difficile partita in casa, con il sindacato diretto da Guglielmo Epifani in procinto di riaprire la concertazione con la Confindustria di Emma Marcegaglia che prima o poi dovrà affrontare gli stessi temi che affliggono la Fiom.
QUEST'ULTIMO aspetto è certamente il più delicato, perché la Fiom è parte della Cgil e un conflitto tra le due organizzazioni avrebbe conseguenze distruttive. Guglielmo Epifani parlerà il 16 in piazza, sarà lui a chiudere la manifestazione e non è un mistero che dopo le tensioni dei giorni scorsi di fronte alle sedi della Cisl, ci sia anche il timore di una contestazione di piazza nei confronti del segretario generale della Cgil.
IN REALTÀ, se tensione ci sarà, avverrà sul piano squisitamente politico. Perché ormai è chiaro che Landini dirà apertamente che di fronte alle richieste di Fiat e Federmeccanica, definite “incostituzionali”, per la Cgil è tempo di dichiarare lo sciopero generale. Lo ha detto ieri mattina all'attivo dei delegati della Fiom lombarda, lo ripete nelle riunioni riservate, lo ha detto anche ieri pomeriggio nel confronto a quattr'occhi avuto proprio con Epifani.
E anche questo incontro è sintomo di una relazione delicata. Convocato come riunione congiunta delle segreterie di Fiom e Cgil per discutere della manifestazione del 16, l’appuntamento è stato “declassato” dallo stesso Landini a colloquio personale dopo che la Cgil aveva dato l'idea di voler ottenere delle sanzioni disciplinari nei confronti dei militanti Fiom di Bergamo e di Livorno che avevano manifestato davanti alla Cisl. Il no alle sanzioni è stato ribadito ancora ieri da Landini anche se la Fiom non si tirerà indietro quando si tratterà di condannare politicamente atti di intolleranza o elementi di tensione. Ma il punto resta la manifestazione del 16. Che succederà quando parlerà Epifani? I più ottimisti credono che sarà la piazza a dare la risposta scandendo con molta forza lo slogan “sciopero generale” e facendo così la dovuta pressione sul resto della Cgil che, da parte sua, non ha minimamente messo all'ordine del giorno una simile prospettiva.
L'unica scadenza finora messa in agenda è una manifestazione nazionale prevista per il prossimo 27 novembre. Un po’ troppo in là per soddisfare la necessità della Fiom di segnare qualche risultato e resistere alla vertenza che è già avviata all'interno del gruppo Fiat, ma non solo.
LA PRESSIONE ci sarà perché la manifestazione del 16 sarà anche una grande manifestazione popolare. Le adesioni continuano a crescere, come si legge sul sito della Fiom. Ci sono quelle politiche, dall’Idv a varie forze di sinistra. Non il Partito democratico (almeno finora, ma all'assemblea di Varese il tema non è stato toccato), quelle sociali. Ieri il sindacato metalmeccanico ha avuto due incontri preliminari, con gli studenti universitari e con il comitato promotore del referendum sull'acqua. Dalle università, che la scorsa settimana sono tornate a mobilitarsi contro il ddl Gelmini, la partecipazione è in pieno movimento. Ieri, oggi e ancora domani ci saranno assemblee nelle varie facoltà, il 14 ci sarà “l'assedio” a Montecitorio e il movimento si prepara a una grande partecipazione il 16 con un proprio corteo autonomo che partirà proprio dalla Sapienza. Grande disponibilità alla partecipazione anche dai comitati per l'acqua pubblica dopo che lo stesso Landini aveva partecipato alla loro assemblea nazionale del 17 settembre a Firenze.
E POI CI SONO la società civile e i movimenti. La rivista MicroMega ha laciato un appello firmato da Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri, Margherita Hack e Don Andrea Gallo, a cui hanno aderito molti altri da Sabina Guzzanti ad Antonio Tabucchi. Dal mondo universitario adesioni anche del fisico Giorgio Parisi, dello storico Angelo D'Orsi. Ora la Fiom attende anche l'adesione del “Popolo viola.

il Fatto 12.10.10
Liu Xiaobo e l’infinita libertà del dissenso
Vent’anni di battaglie da piazza Tien an men al Nobel per la Pace
di Carlo Antonio Biscotto


Liu Xiaobo ha appreso di aver ricevuto il Nobel per la Pace in carcere dalla moglie Liu Xia. È stata lei stessa a darne conferma dopo che per due giorni era praticamente scomparsa. Prelevata venerdì nel suo appartamento per essere scortata nella prigione di Jinzhou, dove il marito sta scontando 11 anni di reclusione, Liu Xia ha potuto vedere Liu Xiaobo solamente domenica. Alla notizia, riferisce Liu Xia, il marito “è scoppiato a piangere” poi ha dedicato il premio “a tutti i martiri di Tien an men, che il 4 giugno 1989 hanno sacrificato le loro vite per la causa democratica”. La dedica ha commosso in modo particolare le “madri di Tien an men” che quel giorno hanno perso i loro figli. “Il premio non è solo per Liu, ma simbolicamente per tutti coloro che hanno dato la vita per la libertà e la democrazia”, ha detto Zhang Xialing, 73 anni, i cui figli, di 21 e 19 anni, hanno perso la vita in quella drammatica giornata.
Tra la prigione e una vita da “sorvegliato”
PURTROPPO l’ottimismo manifestato da Liu Xia qualche giorno prima del conferimento del Nobel parlando con i giornalisti stranieri – “se gli daranno il Nobel verrà rilasciato. Come potrebbero tenere in carcere un premio Nobel?” – si è scontrato con l’assoluta chiusura delle autorità di Pechino tanto che ora la moglie del Nobel si trova ai domiciliari, sorvegliata dalla polizia, priva di cellulare e impedita dall’avere contatti con la
stampa internazionale, con i diplomatici occidentali e persino con un funzionario dell’Ue che voleva consegnarle una lettera di Barroso. L’Occidente ha sentito parlare per la prima volta di Liu Xiaobo in occasione dei disordini di Piazza Tien an men. All’epoca Liu aveva già 34 anni, insegnava Letteratura all’Università di Pechino e non nascondeva la sua avversione per il regime. In quelle terribili giornate fu lui a negoziare con l’esercito e a salvare numerose vite. Il prezzo che ha pagato è stato durissimo: da allora ha subito quattro condanne a pene detentive o ai lavori forzati. E quando non era in prigione viveva da “sorvegliato speciale”.
Il movimento dei contadini
UNA VITA quella di Liu, tutta spesa per allargare gli spazi di democrazia nel suo Paese. Nato nel 1955 da una famiglia di intellettuali a Changchun, nella provincia di Jilin – ai confini con la Corea del Nord e la Mongolia – il giovane Liu venne condotto dal padre in Mongolia Interna quando aveva appena 14 anni e vi rimase fino al 1973. Probabilmente fu proprio lì – dove in quegli anni era sorto un forte “movimento dei contadini” che rivendicava maggiore libertà ma venne soffocato con la forza dalle autorità cinesi – che il giovane Liu cominciò a riflettere sulla vera natura del “comunismo cinese”. Tornato nella sua provincia natale, si iscrisse all’università e conseguì il diploma in letteratura nel 1982. Trasferitosi a Pechino ottenne la laurea presso la Normale nel 1984 e poi, nella stessa università, nel 1988, il dottorato di ricerca. Tra il 1988 e il 1989 fu lettore e “visiting professor” alla Columbia University, all’Università di Oslo e altre ancora. Ma Liu aveva già iniziato la sua attività di scrittore e di attivista. E proprio negli anni ’80 aveva scritto i suoi saggi più importanti: Critica delle scelte – dialogo con Li Zehou e Estetica e libertà dell’uomo. Nel primo scritto polemizzava aspramente con il famoso pensatore cinese Li Zehou sostenendo che gli intellettuali come lui, che avevano rivalutato gli aspetti più elitari del confucianesimo, erano la sponda ideale per il potere autocratico dell’establishment cinese. Dopo il massacro di piazza Tien an men la giustizia cinese lo prese di mira. Condannato una prima volta nel 1991 per “propaganda contro-rivoluzionaria” senza essere rinchiuso in carcere, nel 1996 fu costretto a trascorrere tre anni in un campo di rieducazione per “disturbo dell’ordine pubblico”. Il disturbo era consistito nell’aver criticato in alcuni articoli il Partito Comunista cinese. Allora, Liu Xiabao era ormai noto in tutto il mondo per le sue posizioni di intransigente condanna della dittatura e nel 2004 fu insignito del premio “Fondation de France” da Reportes sans frontières per la sua opera di difensore della libertà di stampa.
In occasione del sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, Liu Xiaobo fu tra i promotori di “Carta 08”, un manifesto ispirato alla “Carta 77” redatta negli anni ’70 dai dissidenti cecoslovacchi guidati da Dubcek.
Il documento chiedeva “la fine del regime monopartitico comunista e l’istituzione di un sistema basato sui diritti umani, lo stato di diritto e la democrazia”. Poche ore prima che l’appello fosse reso pubblico, Liu Xiaobo venne nuovamente arrestato e processato per “tentata sovversione” . Nella sentenza si sottolineava che “il documento intendeva sovvertire l’ordine costituito”. Liu Xiaobo, in assenza di significative reazioni da parte dell’opinione pubblica internazionale, venne condannato a 11 anni di reclusione. Entrando in carcere, commento’: “Quando si ha la disgrazia di vivere in un Paese autoritario il primo passo verso la libertà è sempre un passo verso la prigione”.
Candidatura promossa dal Dalai Lama
NEMMENO UN ANNO dopo, per l’esattezza il 18 gennaio 2010, Liu è stato candidato al premio Nobel per la Pace da un gruppo di oltre 300 studiosi, avvocati, intellettuali tra i quali spiccavano Vaclav Havel (tra i promotori di Carta 77), il Dalai Lama, Andrè Glucksmann, Vartan Gregorian, Michael Moore, Karel Schwarzenberg... Malgrado le pressioni di Pechino – che poi definirà “oscena” l’assegnazione del premio a Liu – il 7 ottobre Liu Xiaobo ce l’ha fatta. Il Nobel per la Pace va a lui “per aver difeso, per oltre due decenni, i diritti fondamentali dell’uomo e per essere stato tra i promotori e i firmatari di “Carta 08”, manifesto per la democrazia in Cina”.

il Fatto 12.10.10
Afghanistan, storia di un’invasione
di Massimo Fini


Sarà pur lecito a un popolo esercitare il legittimo diritto di resistere a un'occupazione straniera, comunque motivata
L'Afghanistan non ha mai aggredito nessuno
Non c'era un solo afghano nei commando che abbatterono le Torri gemelle. Non un solo afghano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di al Qaeda

Ogni volta che muore un soldato italiano in Afghanistan ci chiediamo “Che cosa ci stiamo a fare lì?”. Ma c'è un'altra domanda da farsi: cosa abbiamo fatto in Afghanistan e all'Afghanistan?
Altro che peace keeping

DISMESSE le pelose giustificazioni che siamo in Afghanistan per regalare le caramelle ai bambini, per "ricostruire quel disgraziato Paese", per imporre alle donne di liberarsi del burqa, perché, con tutta evidenza, quella in Afghanistan, dopo dieci anni di occupazione violenta, non può essere gabellata per un'operazione di "peace keeping", ma è una guerra agli afghani, l'unica motivazione rimasta agli Stati Uniti e ai loro alleati occidentali, per legittimare il massacro agli occhi delle proprie opinioni pubbliche e anche a quelli dei propri soldati, demotivati perché a loro volta non capiscono “che cosa ci stiamo a fare quì”, è che noi in Afghanistan ci battiamo "per la nostra sicurezza" per contrastare il "terrorismo internazionale". È una menzogna colossale. Gli afghani e quindi anche i talebani, non sono mai stati terroristi. Non c'era un solo afghano nei commando che abbatterono le Torri gemelle. Non un solo afghano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di al Qaeda. Nei dieci, durissimi, anni di conflitto contro gli invasori sovietici non c'è stato un solo atto di terrorismo, tantomeno kamikaze, né dentro né fuori il Paese. E se dal 2006, dopo cinque anni di occupazione si sono decisi ad adottare contro gli invasori anche metodi terroristici è perché mentre i sovietici avevano almeno la decenza di stare sul campo, gli occidentali combattono quasi esclusivamente con i bombardieri, spesso Dardo e Predator senza equipaggio, ma comandati da Nellis nel Nevada. Contro un nemico invisibile che cosa resta a una resistenza?
Bin Laden non c’è più
NEL 2001 in Afghanistan c'era Bin Laden. Ma Osama costituiva un problema anche per il governo talebano, tanto è vero che quando nel 1998 Clinton propose ai talebani di farlo fuori, il Mullah Omar si disse d'accordo purché la responsabilità dell'assassinio del Califfo saudita se la prendessero gli americani. Ma Clinton all'ultimo momento si tirò indietro (documento del Dipartimento di Stato dell'agosto 2005). Comunque sia oggi Bin Laden non c'è più e in Afghanistan non ci sono più nemmeno i suoi uomini. La Cia ha calcolato che su 50 mila guerriglieri solo 359 sono stranieri. Ma sono ubzechi, ceceni, turchi, cioè non arabi, non waabiti, non appartenenti a quel jihad internazionale che odia gli americani, gli occidentali, gli "infedeli" e vuole vederli scomparire dalla faccia della terra. Agli afghani e quindi ai talebani, interessa solo il loro Paese. E sarà pur lecito a un popolo o a una parte di esso esercitare il legittimo diritto di resistere a un'occupazione straniera, comunque motivata. L'Afghanistan, nella sua storia, non ha mai
aggredito nessuno e armato rudimentalmente com'è non può costituire un pericolo per nessuno.
La guerra civile
PER AVERE un'idea delle devastazioni di cui siamo responsabili in Afghanistan bisogna capire perché i talebani vi si sono affermati agli inizi degli anni ‘90. Sconfitti i sovietici i leggendari comandanti militari che li avevano combattuti (i "signori della guerra"), gli Ismail Khan, gli Heckmatjar, i Dostum, i Massud, diedero vita a una sanguinosa guerra civile e, per armare le loro milizie, si trasformarono con i loro uomini in bande di taglieggiatori, di borseggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più pieno arbitrio e vessavano in ogni modo la popolazione. I talebani furono la reazione a questo stato di cose. Con l'appoggio della popolazione, che non ne poteva più, sconfissero i "signori della guerra", li cacciarono dal Paese e riportarono l'ordine e la legge. Sia pur un duro ordine e una dura legge, quella coranica, che peraltro non è estranea alla cultura di quella gente.
a) Nell'Afghanistan talebano c'era sicurezza. Vi si poteva viaggiare tranquillamente anche di notte come mi ha raccontato Gino Strada che vi ha vissuto e vi ha potuto operare con i suoi ospedali. Gli occidentali gli ospedali li chiudono come è avvenuto a Lashkar Gah. b) In quell'Afghanistan non c'era corruzione. Per la semplice ragione che la spiccia ma efficace giustizia talebana tagliava le mani ai corrotti. Ancora oggi, nella vastissima realtà rurale dell'Afghanistan, la gente, per avere giustizia, preferisce rivolgersi ai talebani piuttosto che alla corrotta magistratura del Quisling Karzai dove basta pagare per avere una sentenza favorevole. c) Nel 1998 e nel 1999 il Mullah Omar aveva proposto alle Nazioni Unite il blocco della coltivazione del papavero, da cui si ricava l'oppio, in cambio del riconoscimento internazionale del suo governo. Nonostante quella di boicottare la coltivazione del papavero fosse un'annosa richiesta dell'Agenzia contro il narcotraffico dell'Onu la risposta, sotto la pressione degli Stati Uniti, fu negativa. All'inizio del 2001 il Mullah Omar prese autonomamente la decisione di bloccare la coltivazione del papavero. Decisione difficilissima non solo perché su questa coltivazione vivevano moltissimi contadini afghani, a cui andava peraltro un misero 1% del ricavato, ma perché il traffico di stupefacenti serviva anche al governo talebano per comprare grano dal Pakistan. Ma per Omar il Corano, che vieta la produzione e il consumo di stupefacenti, era più importante dell'economia. Aveva l'autorità e il prestigio per prendere una decisione del genere che fu così efficace da far crollare la produzione dell'oppio quasi a zero (prospetto del Corrie-
re della Sera 17/6/2006). Insomma il talebanismo era la soluzione che gli afghani avevano trovato, almeno momentaneamente, per i propri problemi. Noi abbiamo preteso di sostituire a una storia afghana una storia occidentale. Con i seguenti risultati.
Il Paese più insicuro
OGGI l'Afghanistan è il Paese più insicuro del mondo. E, con tutta evidenza, è la presenza delle truppe straniere a renderlo tale. Incalcolabili sono le vittime civili provocate, direttamente o indirettamente dalla presenza delle truppe occidentali. Vorrei anche rammentare, in queste ore di pianto per i nostri caduti, che anche gli afghani e persino i guerriglieri talebani hanno madri, padri, mogli e figli che non sono diversi dai nostri. Inoltre in Afghanistan sono tornati a spadroneggiare i "signori della guerra" alcuni dei quali siedono nel governo del Quisling Karzai. La corruzione, nel governo, nell'esercito, nella polizia, nelle autorità amministrative è endemica. Ha detto Ashraf Ghani, un medico, terzo candidato alle elezioni farsa di agosto e il più filoccidentale di tutti: “Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo una nostra moralità. Questo profluvio di dollari che si è riversato sull'Afghanistan ha distrutto la nostra integrità”. Infine oggi l'Afghanistan "liberato" produce il 93% dell'oppio mondiale. Ma c'è di peggio. Armando e addestrando l'esercito e la polizia del governo fantoccio di Karzai, noi abbiamo posto le premesse, quando le truppe occidentali se ne saranno andate, per una nuova guerra civile. La sola speranza è il buon senso degli afghani prevalga. Qualche segnale c'è. Shukri Barakazai, una parlamentare che si batte per i diritti delle donne afghane, ha detto: “I talebani sono nostri connazionali. Hanno idee diverse dalle nostre, ma se siamo democratici dobbiamo accettarle”. Da un anno, in Arabia Saudita sotto il patrocinio del principe Abdullah, sono in corso colloqui fra emissari del Mullah Omar e del governo Karzai. Ma prima di iniziare una seria trattativa ufficiale Omar, di fatto vincitore sul campo, pretende che tutte le truppe straniere sloggino. Non ha impiegato trenta dei suoi 48 anni di vita a combattere per vedersi imporre una "pax americana".
E allora perché rimaniamo in Afghanistan e anzi il ministro della Difesa Ignazio La Russa, un ripugnante prototipo dell'"armiamoci e partite", vuole dotare i nostri aerei di bombe? Lo ha spiegato, senza vergognarsi, Sergio Romano sul Corriere del 10/10: perché la lealtà all'"amico americano" ci darà un prestigio che potremo in futuro sfruttare nei confronti degli altri Paesi occidentali. Gli olandesi e i canadesi se ne sono già andati, stufi di farsi ammazzare e di ammazzare, per questioni di prestigio, gli spagnoli se ne andranno fra poco. Rimaniamo noi, sleali, perché fino a poco tempo fa abbiamo pagato i talebani perché ci lasciassero in pace, ma fe-
deli come solo i cani lo sono. Gli Stati Uniti spendono 100 miliardi di dollari l'anno per questa guerra insensata, ingiusta e vigliacchissima (robot contro uomini). L'Italia spende 68 milioni di euro al mese, circa 800 milioni l'anno. Denaro che potrebbe essere utilizzato per risolvere molte situazioni, fra cui quelle di disoccupazione o di sottoccupazione che affliggono alcune regioni da cui partono molti dei nostri ragazzi per guadagnare qualche dollaro in più e farsi ammazzare e ammazzare senza sapere nemmeno perché.

Repubblica 12.10.10
90mila uomini e 3 miliardi di euro
Ecco il vero volto della guerra
Dal 2003 a oggi lo scopo e i modi dell’intervento sono cambiati: lo dicono i numeri
di Carlo Bonini


ROMA - In principio, marzo del 2003, furono un colonnello, mille uomini, una promessa di impiego non superiore ai sei mesi e una bolletta da 100 milioni di euro. Una fiche per sedere al tavolo della "War on Terror". E su un fronte, quello afgano, degradato, con l´avvio dell´offensiva alleata in Iraq, a retrovia. Sette anni e 90mila uomini dopo (tanti sono i nostri soldati ruotati tra i distretti di Kabul, Herat, Farah), ci "scopriamo" in guerra. Con un contingente che, tra due mesi, arriverà a 3mila 950 uomini, articolato in tre "battle group", una task force di reazione rapida (la "TF 45"), una robusta forza aerea di attacco (caccia "Amx", elicotteri "Mangusta", droni "Predator", elicotteri multi-uso dell´Aviazione e, proprio da ieri, anche della Marina), unità meccanizzate (carri armati "Dardo", blindati pesanti da trasporto "Freccia"), per un costo di missione che toccherà i 675 milioni di euro annui, 56 milioni al mese. Oltre 3 miliardi di euro dall´inizio di questa avventura.
Ora, il Parlamento, stupito, chiede come sia stato possibile ritrovarsi impantanati nell´inferno afgano. Eppure, il nostro "surge" ha avuto padri bipartisan. I numeri, nel tempo, sono stati sotto gli occhi di tutti, solo a volerli vedere. Esattamente come il progressivo build-up militare concordato dall´Italia all´interno della Nato. Con un anno - il 2006 - a fare da spartiacque. Tra il maggio e il giugno di 4 anni fa, alla vigilia dell´assunzione del comando Nato per le operazioni belliche nel sud dell´Afghanistan (luglio), il governo Prodi, con il sostegno dell´allora opposizione di centro-destra, battezza nuove regole di ingaggio per il nostro contingente, autorizzando le operazioni offensive di "search and destroy" (ricerca e distruzione del nemico) previo nulla osta del governo entro 72 ore dalla richiesta di ingaggio. Di più. Il nostro contingente sale a oltre 2.300 uomini e Palazzo Chigi dà luce verde al dispiegamento nel teatro delle operazioni di Farah (Afghanistan occidentale) della più grande unità di forze speciali mai impiegata dai tempi della Somalia. Viene battezzata "Task Force 45". È composta da 200 uomini selezionati tra i ranger del 4° reggimento alpini, gli incursori di marina del Comsubin, il 9° reggimento paracadutisti Col Moschin, il 185° Rao della Folgore.
È un´epifania. Nell´aprile del 2007, infatti, mentre il costo della missione sfonda per la prima volta il tetto dei 300 milioni di euro annui, è ancora il governo Prodi a disporre l´invio al fronte di carri armati "Dardo" (i "carri neri degli italiani", li battezza l´insorgenza afgana) e di elicotteri d´attacco "Mangusta". Mentre nel febbraio 2008, quando il centro-sinistra si prepara a lasciare Palazzo Chigi, nel distretto di Farah, viene costituito il primo "battle group" destinato ad affiancare nelle operazioni di "search and destroy" la Task Force 45.
A giugno del 2008, Silvio Berlusconi è a Palazzo Chigi per il suo secondo mandato. La spesa per finanziare la missione sale a 349 milioni di euro. Necessari a salire un altro gradino del nostro build-up. In settembre, arriva infatti nel teatro delle operazioni una prima coppia di caccia "Tornado" e, due mesi dopo, viene costituito, sempre nel distretto di Farah, un secondo "battle group" con un incremento dei nostri effettivi di 500 uomini. Anche i "caveat" imposti ai nostri Stati Maggiori si modificano significativamente. E nel prendere atto che 72 ore sono un tempo infinito per un esercito in guerra, il termine temporale per l´autorizzazione di Palazzo Chigi a operazioni offensive di "search and destroy" scende a 6 ore. La notte per il giorno. Il giorno per la notte.
Insomma, già nel gennaio del 2009, un Paese meno distratto potrebbe concludere che in Afghanistan i nostri uomini stanno combattendo una guerra. Anche perché, con l´aumento della spesa, anche il cosiddetto "dispositivo" d´arma si è modificato. Lungo la linea del fronte, con l´impiego dei carri "Dardo" e dei "Mangusta", è infatti diventato di routine l´uso dei potenti mortai da 120 millimetri Thompson, che consentono il bombardamento a distanza delle postazioni dell´insorgenza Talebana. Ma il Parlamento non discute. E così, anche il 2009, passa con la ratifica burocratica di un nuovo incremento di spesa (che sfiorerà i 600 milioni di euro) e di un nuovo rafforzamento del "nostro dispositivo". A gennaio di quest´anno, il contingente supera i 3200 uomini, 4 caccia Amx, dopo un lungo addestramento nel deserto del Nevada, sostituiscono i "Tornado". E nell´estate scorsa, a sud di Herat fanno la loro comparsa 17 blindati "Freccia". Bestioni da 28 tonnellate su ruote (quattro volte il peso dei "Lince"), inadatti alle montagne afgane, ma necessari al trasporto rapido di unità da combattimento (ogni mezzo carica 11 militari) lungo le poche rotabili.
Poi, la strage degli alpini. L´invito del ministro della Difesa («il Parlamento decida se dotare i caccia Amx di bombe»). L´affacciarsi dell´oziosa domanda («siamo in guerra?»). E, intanto, una nuova partenza per il fronte. Storia di ieri. Tre elicotteri EH-101 della Marina militare addestrati al volo notturno, alle operazioni speciali e alla guida caccia.

il Fatto 12.10.10
L’Antitrust d’Europa avvia un’indagine sugli «sconti» goduti dalle strutture ecclesiastiche
Niente Ici e sconto del 50% sull’imposta di reddito. Per Bruxelles sono aiuti di Stato
«Vantaggi fiscali alla Chiesa» L’Italia nel mirino della Ue
Centomila fabbricati della Chiesa godono di particolari vantaggi: qui non si paga l’Ici, ad esempio. E Bruxelles vuole vederci chiaro: avviata un’inchiesta per capire se si tratta di aiuti di Stato.
di Marco Mongiello


I risparmi goduti
Secondo uno studio il Vaticano risparmia oltre 2,2 miliardi l’anno

Dopo quattro anni di tira e molla tra Roma e Bruxelles lo Stato italiano torna nel mirino dell’Antitrust europeo per i vantaggi fiscali concessi alla Chiesa cattolica. Ieri, nel corso dei sinodo dei vescovi del Medio Oriente, Papa Benedetto XVI aveva messo in guardia contro il “potere distruttivo” della finanza senza controlli. E proprio oggi per pura coincidenza arriveranno i controlli, ma sulla finanza della Chiesa. Questo pomeriggio infatti il collegio dei commissari della Commissione europea autorizzerà l’apertura di una procedura di indagine formale per stabilire se gli sconti fiscali goduti dalle strutture ecclesiastiche siano da considerarsi aiuti di Stato proibiti dalle normative comunitarie sulla concorrenza. In Italia infatti gli enti ecclesiastici non pagano l’Ici e godono di uno sconto del 50% sull’imposta sul reddito delle società, l’Ires. Tra scuole, alberghi, ospedali e attività commerciali si tratta di un patrimonio immobiliare di 100.000 fabbricati. Secondo le stime dell’Ares, Agenzia Ricerca Economico Sociale, con queste agevolazioni il Vaticano risparmia 2,2 miliardi euro l’anno di tasse. Solo a Roma nel 2006 il mancato pagamento dell’Ici ha comportato una perdita per il Comune di 26 milioni di euro. Un bel gruzzolo sottratto alle casse pubbliche che inoltre, secondo le conclusioni preliminari di Bruxelles, permette alla Chiesa di fare concorrenza sleale ad altri operatori economici. La Commissione, si legge sulla comunicazione che sarà inviata oggi alle autorità italiane, “ritiene che le misure di esenzione costituiscano un aiuto di Stato” e “dubita che questi aiuti siano compatibili” con le normative comunitarie in materia. In teoria le esenzioni concesse dallo Stato italiano sono state giustificate spiegando che queste sono legate ad attività senza fini di lucro, ma gli esperti della Commissione non sembrano pensarla allo stesso modo. I servizi offerti dagli enti ecclesiastici, continua il testo della comunicazione, “sembrano essere in competizione con servizi simili offerti da altri operatori economici” che non beneficiano delle stesse agevolazioni. L’apertura del dossier risale al 2006, quando l’avvocato Alessandro Nucara aveva presentato alla Commissione la denuncia del radicale Maurizio Turco e del fiscalista Carlo Pontesilli, segretario di anticlericale. net. Visto il coinvolgimento della Santa Sede e la sensibilità delle autorità italiane la Commissione europea ha usato il guanti bianchi, i tempi per gli scambi di informazioni si sono allungati e il caso è stato archiviato senza fare troppe domande per ben due volte, l’ultima lo scorso 15 febbraio.
Contro quest’ultima decisione, ritenuta frettolosa e non sufficientemente motivata, il 26 febbraio lo stesso avvocato Nucara ha presentato alla Corte di giustizia europea il ricorso a nome di Pietro Ferracci e della Scuola Elementare MariaMontessori di Roma. Il rischio per la Commissione è che i giudici di Lussemburgo diano ragione ai ricorrenti e condannino l’esecutivo comunitario per inazione. Per questo il commissario Ue alla Concorrenza, Joaquin Almunia, che quest’anno è succeduto alla testa dell’Antitrust europeo all’olandese Neelie Kroes, ha deciso di riaprire il dossier, ottenendo così la sospensione del ricorso alla Corte di giustizia europea. Ora l’indagine formale durerà al massimo 18 mesi e se alla fine dell’inchiesta l’esecutivo Ue confermerà i propri sospetti lo Stato italiano sarà obbligato a farsi restituire dalla Chiesa i soldi non versati grazie alle agevolazioni.

Repubblica 12.10.10
"Noi consenzienti e colpevoli" la Germania nazista in mostra
Inaugurazione venerdì al Museo storico. Con un obiettivo: conservare la memoria
La mostra su Hitler che scuote la Germania
di Andrea Tarquini


Guardate, è il nostro "come eravamo": consenzienti, consapevoli e colpevoli. Il messaggio, lanciato con freddo rigore scientifico, suona così. Non era mai accaduto prima nel dopoguerra diviso e poi riunificato della Germania. "Hitler e i tedeschi, comunità nazionale e crimine", s´intitola la mostra che apre questo venerdì a Berlino unita.
La mostra è ospitata nel Deutsches historisches Museum, nell´edificio che il geniale architetto cinese Ieoh Ming Pei costruì per volontà del padre della riunificazione Helmut Kohl sull´Unter den Linden. Là, a un passo dal Luogo dove i nazisti inscenarono il Rogo dei libri, il paese che oggi è la più solida democrazia europea fa ancora una volta, senza pietà con se stesso, i conti con la Storia.
Val la pena di venire qui per vedere la mostra. E constatare come, in un´Europa dove riemergono ovunque i fantasmi del passato, il paese-leader si flagella in pubblico pur di tentare di esorcizzarli. Ecco i primi manifesti del regime, le foto di folle che accolgono il Führer sedotte da un futuro radioso, ecco i busti di Hitler in ghisa prodotti a milioni per ogni devota famiglia, o i poster della Luftwaffe risorta che pochi anni dopo avrebbe raso al suolo Guernica e Varsavia, Rotterdam e Coventry.
Non dobbiamo dimenticare, chiediamoci perché scendemmo negli Inferi di quell´entusiasmo, è il messaggio della mostra. Lo ha spiegato in sostanza il massimo curatore, lo storico Hans-Ulrich Thamer. Sottolineando anche un criterio che è discriminante decisiva: l´esposizione vuole illustrare ogni aspetto della vita quotidiana nella Germania di allora, ma non si è risparmiata autocensure. Ne sono esclusi l´enorme ritratto di Hitler, 156 per 120, che dopo la fine della guerra i soldati vittoriosi della U.S. Army sequestrarono in uno dei palazzi del tiranno. E sono assenti anche uniformi del Führer o dei suoi reparti scelti, in massima parte ancora custoditi a Mosca fin da quando le armate e i cacciabombardieri Shturmovik del Maresciallo Zhukov a maggio ´45 presero Berlino. Autocensura ovvia, spiega Thamer: la mostra deve mostrare l´abisso, non diventare attrazione per i nostalgici e gli estremisti vecchi e nuovi.
Autocensura ma non per assolversi. Ecco il manifesto che ritrae un biondo, arianissimo ragazzino con la camicia bruna e Hitler sullo sfondo. "I giovani servono il Führer, tutti da dieci anni d´età in poi nella Hitlerjugend". O l´arazzo regalato al regime dalle organizzazioni femminili di massa naziste, che invita a "portare la svastica in Chiesa": ritrae plotoni della Hutlerjugend e delle SA che marciano compatti in formazione a croce. Immagine di perfetta efficacia propagandistica, manca solo il sonoro di allora, voci giovanili che intonavano lo Horst-Wessel-Lied, l´inno nazista.
"Come potè il popolo più civile e colto d´Europa scendere a tale abisso?". La domanda, che il premio Nobel per la pace Elie Wiesel ripete ogni volta che Angela Merkel lo riceve a Berlino, risuonerà come un grido nella coscienza, per chiunque da venerdì vedrà la mostra. I curatori citano lo storico inglese Ian Kershaw: una delle chiavi del successo di massa di Hitler fu il suo messaggio messianico, quasi religioso. Kershaw ricorda una frase rivelatoria d´un discorso del Fuehrer del 1936: "Il fatto che mi abbiate trovato tra tanti milioni di persone è il miracolo della nostra epoca, e la fortuna della Germania è che sia stato io a trovarvi". Messianismo e immagine del leader come padre amoroso, come uno di noi. Ecco la raccolta di istantanee di Heinrich Hoffmann, il fotografo prediletto del tiranno, che convinse i tedeschi mostrando "Hitler wie Ihn Keiner kennt", lo Hitler del privato e del quotidiano come nessuno lo conosceva. O il "Fuehrerquartett", cioè Hitler insieme al presidente nazionalconservatore Hindenburg e ad altri grandi del regime. E documenti che provano il clima di delazione di massa, quell´atmosfera – spiegano i curatori della mostra – in cui la maggioranza della gente si adeguò passiva all´alternativa tra il consenso e la spirale di isolamento, denuncia, repressione. Così i tedeschi di allora marciarono alla guerra e alla catastrofe del 1945. I tedeschi di oggi non chiudono gli occhi, scelgono il monito della Memoria.

Repubblica 12.10.10
Parla Michael Stuermer, ex consigliere di Kohl e massimo storico conservatore tedesco
"Per i tedeschi resta una pagina oscura dovremo farne i conti per un altro secolo"


BERLINO Ex consigliere di Kohl, professor Michael Stuermer lei è il massimo storico conservatore tedesco. Che cosa ci ricorda questa mostra a Berlino?
«I tedeschi erano mortalmente infelici per il Trattato di Versailles e la depressione economica. Non seppero vedere nella crisi una chance. Non videro gli aspetti dinamici di Weimar, che aveva troppo pochi seguaci: i più furono nazisti o comunisti. I democratici furono troppo deboli, il presidente Hindenburg e il suo team inetti e corrotti. I nazisti ebbero gioco facile».
Ma come conquistarono tanto consenso?
«Prima con un´efficacissima propaganda: lavoro per tutti, sicurezza. Poi ai dubbi rispose la repressione perfetta: voci critiche spedite nei Lager, giornali chiusi. La mistura diabolica convinse. Coprì menzogne colossali: il pieno impiego fu raggiunto con la coscrizione di milioni di giovani e lavori pubblici che indebitarono lo Stato rendendo poi la guerra scelta inevitabile».
La mostra risveglia la coscienza?
«Da 60 anni per fortuna i tedeschi fanno i conti col nazismo, e li faranno ancora per cent´anni e oltre. Hitler fu la massima incarnazione del Male assoluto. Paradossalmente il primo a capirlo fu Mussolini, non ebbe la forza di trarne le conseguenze».
Fin quando durò il consenso?
"In guerra cambiò. Dal 1942 la Gestapo aveva tutto in pugno, non restò più traccia d´umori della gente. E intanto, dopo le sconfitte della Battaglia d´Inghilterra e di Stalingrado e l´entrata in guerra dell´America, per il regime eseguire l´Olocausto era divenuto più importante che vincere contro gli Alleati».
a.t.

l’Unità 12.10.10
Tremila firme alla Coop contro i prodotti dalle colonie israeliane


Tremila firme (oltre il 50% di soci Coop) contro la conclusione di accordi commerciali tra Coop Italia e la Agrexco (esportatore israeliano di prodotti agricoli) verranno consegnate oggi alla società cooperativa, nella sede di Casalecchio di Reno (Bologna). Le firme, raccolte on line e anche nei supermercati di varie città italiane con la petizione «No ai prodotti illegali nella mia Coop», saranno consegnate alle 11.30 dagli esponenti della Coalizione contro l’Agrexco e dal coordinamento Campagna Bds di Bologna e «testimoniano la preoccupazione di un numero consistente di soci e clienti per la decisione di Coop Italia di continuare a commercializzare i prodotti provenienti dalle colonie israeliane e di mantenere rapporti commerciali con aziende che traggono profitti dal regime di occupazione illegale dei territori palestinesi». Secondo i manifestanti, «non può essere considerato legittimo nè etico commercializzare merci prodotte in un regime di occupazione militare», a prescindere dall’etichetta.

… ed ecco di nuovo il solito viperino e velenosetto Telese che cerca sempre di aiutare come può il suo amichetto Nichi Vendola
il Fatto 12.10.10
Piddì, qualcosa di destra
Sondaggi a picco, voci discordanti. Dall’Afghanistan alla Fiat, agli immigrati: posizioni (quasi) mai di sinistra
di Luca Telese


Per dire. L’ultimo sondaggio in ordine di tempo, quello realizzato dal Cfi group per In Onda-La7 solo sabato scorso (un campione di 800 persone) forniva un responso-choc. Il Pd è oggi, secondo questa ricerca, al 22.6% dei consensi con un dato (per farsi un’idea) ai livelli toccati dal solo Pds nel 1996. Per tutti gli altri istituti, una settimana prima, il partito oscillava comunque tra il 24 e 25%. Per Walter Veltroni, che ha attaccato la segreteria di Pier Luigi Bersani, il partito è al 24.6%. Dati che fanno paura se confrontati con il 33.1 raccolto dall’ex sindaco alle elezioni politiche. Concorrenza a sinistra. Difficile capire dove si fermi esattamente il boccino, oggi, di fronte a un elettorato che a sinistra si muove con grande emotività: sale Beppe Grillo, ormai stabile intorno al 2% con il suo movimento Cinque stelle; esplodono Nichi Vendola e Sinistra e libertà (secondo il Cfi al 6.2%, secondo Manneheimer al 5.5%), tiene l’Italia dei Valori (tra il 7 e l’8% a seconda degli istituti). Insomma, la situazione di emergenza nell’emorragia di consensi è innegabile. Il Pd era, dopo le politiche, l’architrave della nuova possibile coalizione: ora è l’anello debole dell’opposizione. Se si cerca una spiegazione, la risposta è semplice: dall’Afghanistan (dove Piero Fassino prima chiede i bombardamenti e poi si corregge), alla Fiat (dove il partito sostiene posizioni equidistanti fra Marchionne e gli operai), al rapporto con Berlusconi e la giustizia, alle primarie le poche prese di posizione note all’opinione pubblica sono di segno moderato, se non “di destra” (per stare alle categorie politologiche). La lotta fra le correnti imperversa a base di lettere astruse e documenti criptati, l’emorragia di dirigenti verso le formazioni centriste è forte: dopo l’addìo, di Francesco Rutelli, Enzo Carra e Paola Binetti, persino un capocorrente come Giuseppe Fioroni minaccia strappi. Contropiede mediatico. I timori per questa situazione trasparivano nell’intervista difensiva di Bersani, domenica scorsa a Che tempo che fa: “Non sono per fare l’autolesionismo ha detto però il Pd non è la salmeria di nessuno”. Ma forse per capire le sue difficoltà bisogna ricostruire l’analisi del leader prima e dopo il congresso. Bersani, infatti, vince contro Dario Franceschini proponendosi come ritorno alla normalità e al buonsenso: ripete in tutte le salse: “Non farò il candidato premier”. Spiega che vuole ricostruire la coalizione, archiviare la “vocazione maggioritaria” Di Veltroni, che aveva portato il partito a un risultato elettorale deludente, ma non drammatico: e che però aveva sterminato gli alleati condannando il centrosinistra alla minorità. Voltafaccia. Dopo aver battuto Franceschini, però, Bersani stravolge la linea. Il primo ad aprire le danze, nei rapporti con il centrodestra è il vice, Enrico Letta (“C’è n’è uno di sinistra secondo una nota battuta di Vendola è quello che sta a Palazzo Chigi”). Letta stupisce tutti con un’intervista a Il Corriere della sera. Berlusconi sosteneva “Ha diritto a difendersi nel processo e dal processo”. Due giorni dopo (sempre al Corsera), D’Alema va oltre: “Se per evitare il suo processo (di Silvio Berlusconi, ndr) devono liberare centinaia di imputati di gravi reati, è quasi meglio se facciamo una leggina ad personam per limitare il danno”. Due aperture molto forti, il tentativo di “pacificare” il conf litto e recuperare “lo spirito della Bicamerale”. È il moderatismo la bussola del nuovo gruppo dirigente. A far saltare l’intesa è la radicalizzazione di Berlusconi, che ignora le profferte del Pd. Non può più accettarle: Fini lo sta attaccando proprio sulla legalità.
Il caso Puglia. Bersani e D’Alema sbagliano totalmente la partita in Puglia, il secondo errore strategico. Puntano su un candidato centrista (Boccia) e sulla deposizione di Vendola. Ottengono il risultato opposto. Poi scommettono sulla
sconfitta alle elezioni. E invece Vendola è l’unico presidente di sinistra che vince fuori dalle regioni rosse. Vendola si candida alle primarie nazionali. Bersani dice che “È prematuro”. Ieri cambia idea. La Bindi e Letta dicono: “Il candidato è lui”. Però scende in campo anche Sergio Chiamparino. Scoppia la guerra del referendum a Pomigliano? La Cgil si schiera contro la Fiom che difende il contratto,
Bersani dice: “Gli operai sanno cosa votare” (cioè sì). Il responsabile industria, Matteo Colaninno aggiunge: “Ha torto la Fiom: Marchionne sbaglia, ma non si può dire di no alla Fiat”. Mentre Fini chiede diritti per gli immigrati, a Veltroni propone un permesso di soggiorno restrittivo “a punti”. La Russa chiede i bombardieri? L’ex segretario si illumina: “Parliamone”. Poi, dopo un coro di insulti fa retromarcia. L’altro nodo strategico: “Il terzo polo”. Su cui scommette, ancora una volta, Enrico Letta: “Se noi ci alleassimo con Fini e Casini, separandoci da Di Pietro e da Vendola potremmo vincere”. Bersani deve correggere il tiro anche lì, forse troppo tardi. Torna attuale una storica battuta di D’Alema. A Ferdinando Adornato, che aveva scritto un saggio intitolato Oltre la sinistra, disse: “Nando, ricordati che oltre la sinistra c’è solo la destra”. Capito Pier Luigi?

Corriere della Sera 12.10.10
Sospeso il pioniere della pillola abortiva «Vendetta politica»
di Ilaria Sacchettoni


Litigio con un’infermiera. Lei: mi ha rotto un dito

MILANO — Sospeso «in via cautelare» per 25 giorni, Silvio Viale, ginecologo del Sant’Anna e primo collaudatore in Italia del farmaco abortivo Ru486. «Porcata» commenta lui. «Provvedimento necessario per rasserenare gli animi» giurano dalla direzione ospedaliera. Intransigente applicazione delle procedure da parte della direzione dell’ospedale torinese? O ritorsione nei conf r o nt i de l medico c he , da l 2005, sperimenta l’aborto farmacologico?
Stavolta il mefipristone non c’entra (pare), il problema è piuttosto la «frattura della seconda falange del dito mignolo della mano sinistra» — da referto in possesso del Sant’Anna — dell’infermiera Tiziana Adamo. La vicenda risale al 30 settembre scorso quando l’Adamo, caposala del reparto di ostetricia, litiga con Viale per via di una partoriente. Discussione «al riparo dalle pazienti» s’affrettano a puntualizzare dal Sant’Anna, temendo di finire in coda a recenti cronache ospedaliere.
Lite accesa ma superata assicura Viale offrendo la propria versione: «Quale ferita? Non sono un picchiatore. C’è stato un battibecco. Siamo una struttura in cui i carichi sono pesanti, l’organizzazione è complessa e, oltre al personale, mancano anche le barelle». E, insomma, in quell’occasione, dice Viale «avevo chiesto all’infermiera di trasportare una paziente in sala parto mentre, lei rifiutava. E per farla breve, devo dirla tutta? Alla fine l’ho dovuta trasportare io».
Incidente superato? Per il ginecologo assolutamente sì: «Dieci giorni dopo ero al suo compleanno».
La versione della direzione dell’Istituto Sant’Anna è però diversa: «C’è stata un’istruttoria sull’incidente e serviva un gesto per rasserenare gli animi. Abbiamo deciso una sospensione cautelare. L’ultima parola spetta comunque alla commissione (composta da un medico e due amministrativi, ndr), che deciderà entro 90 giorni. Difficilmente ci saranno sanzioni nei confronti di Viale».
Nessuna multa, dunque. A maggior ragione il provvedimento «cautelare» si presterebbe, secondo Viale e i radicali italiani che lo sostengono fin dall’inizio della sperimentazione sulla Ru486 a essere interpretato come «censura politica».
Dal Sant’Anna smentiscono: «Provvedimento disciplinare e non politico. Lo avremmo fatto con qualunque altro medico. A Pinerolo un caso analogo non ha destato lo stesso scalpore».
Ma il ginecologo della Ru486, ieri, era in vena di riepiloghi: «Dal 2005 ho avuto due ispezioni ministeriali, due procedimenti penali avviati e ora questo disciplinare. Sconto l’avvio di una sperimentazione che, in Italia, non si è mai voluta. Che sta andando bene e che ha contribuito a far conoscere in Italia il Sant’Anna di Torino».
La Ru486 non sarebbe ancora stata digerita da politici e istituzioni sostiene Viale: «Cota non è certo contento che il 50% del mefipristone si consumi nel "suo" Piemonte. E alle nomine dei nuovi direttori ospedalieri mancano 3 mesi».
L’allusione a un possibile riposizionamento politico dei vertici ospedalieri è una certezza per Igor Boni e Giulio Manfredi dell’associazione radicale Adelaide Aglietta, che definiscono la vicenda «un atto della peggiore politica che ha il solo scopo di colpire il simbolo della vittoria sulla RU486, cercando di cancellare l’ultima conquista delle donne italiane».
«Falso» assicurano dal Sant’Anna ma, in cuor loro, pregano «che la commissione disciplinare decida anche prima dei 90 giorni previsti».

Corriere della Sera 12.10.10
La letteratura non raccontò l’Italia
Il toscano preferito ai dialetti: così agli scrittori è mancata una lingua viva
di Franco Brevini


Tra i pilastri dell’identità italiana una funzione portante è stata assegnata alla lingua e alla letteratura. Per secoli esse sono state il cemento di quella strana nazione senza Stato che era l’Italia. Eppure, chi si proponesse di conoscere gli italiani partendo dalla loro letteratura, resterebbe deluso. Un Paese che spicca per la ricchezza e la varietà delle sue culture resta assente dalla sua letteratura. Tutto questo perché i nostri scrittori non hanno potuto contare su una lingua viva. A fronte del dilagare dei dialetti, per secoli la nostra letteratura ha fatto ricorso al toscano dei libri, con la conseguenza che un paese vivo ha affidato l’espressione delle passioni e dei sentimenti a una lingua morta. È questa la tesi di «La letteratura degli italiani» (Feltrinelli, pp. 168, e 17) di Franco Brevini, che insegna letteratura italiana all’università di Bergamo e allo Iulm di Milano. Brevini passa in rassegna le vicende sociolinguistiche che hanno accompagnato la nostra tradizione letteraria, denunciandone gli elementi di stranezza, le anomalie, gli aspetti paradossali derivanti dal precocissimo fissarsi della norma toscana, che gli scrittori sarebbero stati costretti a far propria con lo studio, perdendo ogni naturalezza di espressione. In questa pagina Brevini prova a fissare i caratteri di fondo della letteratura italiana.
La precoce egemonia del toscano letterario che si afferma fin dal Trecento e la sua definitiva codificazione cinquecentesca nei termini di una lingua morta che si sarebbe serbata pressoché immutabile per secoli hanno contribuito ad accentuare nella nostra letteratura i tratti di immobilità metastorica, di atemporalità, di fissità.
A questa staticità ha contribuito anche la rapida normalizzazione delle differenze geolinguistiche. La letteratura italiana ha puntato infatti su un’universalità conquistata liberando la pagina di tutti i tratti che la ancorassero alle concrete aree da cui nasceva. La continuità storica ha contato assai più della discontinuità geografica, la cogenza della tradizione ha agito più della variabilità dei contesti di provenienza. Le articolate realtà della penisola sono state respinte in una perifericità senza riscatto, appannaggio di esperienze minori come quelle dialettali, mentre il centro del sistema è stato occupato da un modello astratto e pseudounitario consegnato a una lingua sempre più anchilosata dall’esclusivo uso letterario.
Per secoli questo è stato l’orizzonte d’attesa della nostra letteratura, questo il modello istituzionalizzato. Per quanto possa sembrare anomalo, la produzione dialettale che partiva invece dalle lingue più immediatamente d’uso, non ha mai rappresentato la prima fra le opzioni. Scrivere in vernacolo era tutt’altro che scontato. Non per nulla la poesia in dialetto si è offerta sempre, non come esito naturale, ma come ribaltamento della poesia illustre, come antimodello di un modello che la precedeva e che le attribuiva senso. In ciò consiste l’asimmetria di fondo della nostra tradizione.
Sempre a causa di quella specialissima lingua mandarina precocemente ibernata, con una gigantesca operazione di sineddoche la letteratura italiana ha dovuto fortemente ridurre lo spettro della realtà rappresentata: pochi colori, per quanto ricchissimi di sfumature. Il toscano letterario disponeva di fitte serie sinonimiche per ambiti tematici ben circoscritti, come l’amore spiritualizzato, la materia cavalleresca, la convenzione pastorale, mentre risultava fortemente carente misurandosi con i mondi dell’esperienza quotidiana o della civiltà materiale, tradizionalmente appannaggio dei dialetti. A fronte dello sfacelo politico, la nostra letteratura si incamminava su una strada tanto più splendida quanto più affrancata, o forse sarebbe meglio dire sganciata, elusiva, rispetto alle rovinose vicende che avrebbero travagliato il paese per almeno tre secoli.
Quando un argomento non hanno proprio potuto eluderlo, ai nostri scrittori non è rimasta che la strada della genericità. Essa è stata la risposta sia alle carenze del vocabolario del toscano letterario rispetto a intere aree tematiche, sia alla conoscenza solo libresca che essi possedevano del codice. In questi casi i nostri autori hanno prudentemente adottato un lessico sommario, evasivo, impreciso, convenzionale.
Costretti a tradurre da un codice all’altro, dalla lingua nativa all’esperanto letterario, gli scrittori non hanno potuto pescare nelle zone più intime e profonde del proprio io, da sempre consegnate all’evocatività delle uniche lingue naturali, i dialetti. Per la maggior parte degli scrittori il toscano è inevitabilmente risultato la lingua esclusa da ogni legame profondo con le radici psichiche del soggetto. I nostri autori hanno pensato in dialetto e hanno tradotto in toscano. Con la conseguenza che, salvo per chi fosse nato nella terra di Dante, per secoli hanno avvertito l’illegittimità dei mondi che si portavano dentro insieme con le loro impresentabili lingue materne.
Eludendo realtà e argomenti cui provvedeva normalmente la selva dei dialetti, i nostri autori hanno preferito muoversi all’interno dei rassicuranti giardinetti della tradizione. Ecco dunque la propensione verso schemi e situazioni già attestati nel repertorio: in un certo senso, come Modigliani, anche la nostra letteratura ha dipinto sempre le stesse bottiglie. Vi è strettamente connessa una prassi compositiva tendente al modulismo, alla formula, all’imitazione e alla variazione. Il gioco stava nel costruire la pagina con un numero finito di elementi già mille volte replicati: un sofisticato ludus combinatorio variamente praticato dai «poeti-grammatici» su cui ironizzerà Erasmo. I nostri scrittori hanno operato con dei prelavorati linguistici, veri e propri moduli, che, come i mattoncini delle costruzioni Lego, andavano bene per ogni edificio testuale. Da noi il cannibalismo fisiologico di ogni letteratura, per cui i libri si nutrono di altri libri, ha assunto caratteri patologici. L’intertestualità classicistica, che riduce l’inventio alla rielaborazione di un patrimonio consacrato, appare per intere epoche del tutto prevaricante nella letteratura italiana, al punto che molto spesso l’opera si sviluppa esclusivamente lungo l’asse dei riferimenti intraletterari, senza aprirsi al nutrimento dei referenti extraletterari. È mancata insomma la presa diretta sulla realtà, sostituita da infinite variazioni a partire dai topoi attestati nella tradizione. Per questo Pascoli ha potuto affermare che la nostra letteratura sa più di lucerna che di plein air.
Il toscano degli scrittori ha fortemente condizionato anche le strategie della ricezione del testo. Per le sue stesse caratteristiche di codice solo letterario, è risultato una lingua a bassa densità denotativa e invece ad altissima valenza connotativa. Ciò ha fatto sì che in questo idioma inseparabile dalla sua tradizione letteraria ogni parola si offrisse già come una parola «poetica». Di qui l’operare degli autori prevalentemente attraverso procedimenti sopra indicati di variazione, ripresa, risemantizzazione, allusione, procedimenti che rinviano a loro volta alla fruizione di un lettore complice.
A forza di perseguire la purezza linguistica, di tirare a lucido, di imitare i sommi autori, i nostri scrittori hanno finito per avvitarsi in un’operazione totalmente autoreferenziale, perdendo ogni contatto con l’esperienza viva. In ostaggio delle poetiche intellettualistiche e del gusto classicistico, sono stati vichianamente poco «barbari». La loro è stata una scrittura al quadrato. Nessun’altra letteratura in Europa è risultata altrettanto avvitata su se stessa, gratuita, autosufficiente, autoreferenziale. E così la satira del letterato inteso alla celebrazione dei suoi sterili riti retorici ha potuto accompagnarsi all’ufficio di quegli stessi, immodificabili riti.

Repubblica 12.10.10
Il nuovo libro di Paul Ginsborg
Se nel Paese vincono le virtù democratiche
di Gustavo Zagrebelsky


Nel suo nuovo libro, lo storico inglese Paul Ginsborg riflette sulla nostra vita nazionale. E lancia un messaggio contro lo scetticismo
Fin dalle prime pagine, l´autore stigmatizza, usando le parole di Carlo Cattaneo, quel vizio tutto italiano di dir male della propria nazione
Fra i valori positivi, la "saggezza riflessiva" dei ceti medi, le tradizioni comunali, la mitezza che sa temperare attriti e conflitti

Nei primi decenni dell´Ottocento, la domanda era: «Si può fare l´Italia»; oggi, alle soglie dei 150 anni dell´Unità, è diventata: «La si può salvare»? L´una domanda era dettata da speranza, l´altra da disperanza. Nella spazio aperto tra queste due parole c´è il dramma del nostro Paese. Nel suo nuovo libro, Salviamo l´Italia (Einaudi, Vele, pagg.134, euro 10), Paul Ginsborg ragiona sulla condizione della nostra vita nazionale mettendo costantemente a confronto, come in contrappunto, gli italiani del tempo che è il nostro con i patrioti del Risorgimento, il loro pensiero, la loro azione. Nel dispiegarsi delle sue argomentazioni, gli accadimenti di oggi, che possono sembrarci difficoltà nuove e insormontabili, visti nel lungo periodo risultano lievi increspature nella continuità d´una storia dalle radici profonde. Dunque: nervi saldi e senso di responsabilità; niente catastrofismi, sterili piagnistei o inutili invettive.
Alla fatidica domanda se l´Italia si può salvare, Ginsborg risponde risolutamente di sì, accompagnando il suo entusiasmo con un pizzico d´anglosassone, autoironica presa di distanza, perché «bisogna diffidare dei neofiti: hanno spesso la tendenza a entusiasmarsi troppo». Ginsborg è un illustre storico inglese che ha dedicato gran parte dei suoi studi alla storia italiana. A differenza di molti di noi, che tanto più conoscono il proprio Paese, tanto meno lo amano, lui ha seguito un percorso opposto, che l´ha indotto a chiedere la cittadinanza italiana. All´amico stupito che gli chiedeva: «Ma chi te l´ha fatto fare, e proprio ora, poi», un altro ha risposto ironicamente per lui: «Così potrai dire assieme a tutti noi altri: "mi vergogno di essere italiano"».
Al contrario, il libro vuole essere un antidoto allo scetticismo che - inutile negarlo - di questi tempi portiamo dentro di noi. Per molti versi è una dichiarazione d´amore all´Italia che non sarebbe stata stonata sulle labbra di quei viaggiatori dal Nordeuropa che nei secoli scorsi scendevano da noi per il Grand Tour, alla scoperta della civiltà attraverso le meraviglie del nostro Paese. Del resto, fin dalle prime pagine, l´autore stigmatizza, con le parole di Carlo Cattaneo, «quel vizio tutto italiano di dir male del suo paese». Un vizio che il patriota milanese attribuiva a «una escandescenza di amor patrio», la stessa "escandescenza" che anche il neocittadino italiano Ginsborg è autorizzato a provare ma, nel suo caso, non per "dir male" e neppure per "dir bene" a priori ma per accostarsi al nostro Paese con atteggiamento di seria partecipazione ai suoi tanti problemi.
Quando ci poniamo una domanda come quella del libro: se e come "salvare l´Italia", dobbiamo essere consapevoli che non siamo parlando di qualcosa come uno spazio fisico, contenitore di esseri umani. L´Italia, così intesa, esisterà sempre e indipendentemente da noi. La domanda sarebbe insensata. Ha senso, invece, rispetto a ciò che oggi si esprime con la parola "identità". La domanda è se si possa salvare l´identità italiana. Ma la "identità" non è per nulla un dato oggettivo, il carattere "così com´è" di un popolo, tanto più di un popolo come il nostro, dalla storia plurimillenaria e composita, ricca di esperienze e contraddizioni, di molte luci e molte ombre. Non è una fotografia. È una proiezione nella quale mettiamo molto di noi stessi e delle nostre visioni, come accade tutte le volte in cui ragioniamo di un oggetto spirituale, non sperimenta(bi)le. «Gli Etiopi dicono che i loro dèi sono camusi e neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi», osservava Senofane di Colofone. Così è anche per quella divinità terrena che è la patria, che ognuno s´immagina ornata di tutte le qualità ch´egli stesso onora. Per questo, i discorsi sull´identità (pensiamo, come esempio, all´identità europea), invece di creare unità di sentimenti e proponimenti, si risolvono in controversie. Ciò che piace agli uni, dispiace ad altri. È identità italiana l´Accademia nazionale dei Lincei o il centurione che staziona, sotto il Colosseo, per farsi fotografare con i turisti? Un Leopardi definisce per qualche aspetto la nostra identità? Dipende. Si potrebbe perfino dire che la contraddice, che il suo pessimismo cosmico è il contrario della spensieratezza e della leggerezza tipiche del nostro modo di vivere.
Salvare l´Italia è dunque salvare la nostra idea di Italia, quella in cui proiettiamo tutto ciò che di bello, di buono e di giusto vi è secondo noi; al contrario, è sconfiggere ciò che di brutto, di cattivo e d´ingiusto vi si oppone. È dunque una battaglia. Il libro di Ginsborg è un libro combattente.
Quali sono le virtù italiane da salvare? Innanzitutto, la tradizione delle libertà comunali, concepite in modo aperto al mondo, secondo lo spirito che animava l´amor di patria risorgimentale e che Ginsborg ritrova nella vocazione europeista di uno Spinelli o di un Rossi. Vi è poi la "saggezza riflessiva" e moderata dei ceti medi, di cui viene sottolineata la capacità di mobilitazione per obiettivi altruistici e civili. Infine, virtù di tutte le altre virtù, la mitezza del popolo italiano che sa temperare nella benevolenza anche gli attriti e i conflitti che, in altri contesti, si risolverebbero in tragedie. La mitezza, intesa come abitudine al confronto civile, rispetto, spirito d´accoglienza è la base della democrazia. Dunque, l´Italia da salvare è quella delle virtù democratiche.
Davanti a queste ragioni di speranza e di possibile salvezza si ergono le ragioni di disperazione: l´acceso familismo, il machiavellismo, il clientelismo organizzato come sistema di potere, una certa permanente vocazione al ruere in servitium; un sistema politico sbilanciato dall´evanescenza delle opposizioni; una classe politica fiacca di fronte all´invadenza della Chiesa cattolica; la "supplenza" che questa esercita rispetto a quella; la criminalità che dilaga a ogni livello, da quella dei colletti bianchi a quella delle mafie; le disuguaglianze sociali e territoriali. Sono tutti fenomeni radicati nella nostra storia, dal Risorgimento a oggi, che il libro documenta ampiamente.
Di fronte a questo elenco, come possiamo guardare con fiducia alle virtù? Come parlare di mitezza in una «Repubblica dei dossier»? Di spirito federativo, quando abbiamo a che fare con cose come la «Repubblica dei Padani»? Di civismo "riflessivo" del ceto medio davanti al diffuso egoismo sempre più piccolo-borghese e al diffondersi di xenofobia e intolleranza? Le virtù saranno in grado di prevalere? Caro Paul, questa è la domanda, e la risposta è nell´invito a organizzarsi, a diffondere consapevolezza e ad agire affinché i caratteri positivi abbiano a prevalere su quelli negativi, invito che è il filo conduttore, nemmeno troppo nascosto, del tuo libro. Un invito consegnato alle future celebrazioni dell´Unità d´Italia, affinché non si riducano a vuote ed elusive rievocazioni.

Repubblica 12.10.10
Una mostra a Parigi sulle arti da Lenin a Stalin
Colori e musiche sull’orlo dei gulag
Gli artisti si sentivano parte di un sistema di cui intuivano la pericolosità


PARIGI. Quattro anni dopo la bella esposizione sulla Musica del III Reich, la Cité de la Musique offre un seguito ideale. Da oggi (al 16 gennaio) è la Russia di Lenin e Stalin a riempire le sale espositive della Villette. Ma il titolo, Lénine, Staline et la musique, non rende giustizia a una mostra che per forza di cose non avrebbe potuto restare ancorata alla musica. Molto più ampia della precedente, offre al visitatore le consuete cuffie sulle quali cambiare musica davanti a ogni teca. Ma questa volta non è l´udito il senso più sollecitato: è la vista che si riempie di colori, di emozioni, di quadri bellissimi di autori spesso a noi sconosciuti, dall´avanguardia a un mirabile modernissimo realismo. Opere di pittori, i quali, proprio come i musicisti, i poeti, gli scenografi, i costumisti, gli attori, i danzatori, i fotografi, dopo la Rivoluzione di Ottobre si trovarono a fare parte di un sistema del quale, spesso fin dal principio, intuirono la pericolosità. «Alcuni, come Stravinskij, se ne andarono addirittura prima dell´ottobre 1917» dice Pascal Huynh, giovanissimo commissario della mostra, alla seconda esperienza dopo il "III Reich". «Ma altri come Shostakovich, Prokofiev, Kachaturian, rimasero. Non sempre vivendo bene, soprattutto dopo l´arrivo di Stalin». I destini dei musicisti si unirono spesso a quelli di altri artisti. Eisenstein usò le musiche di Prokofiev (su piccoli schermi brani da Alexander Nevski e Ivan il terribile, figure amate dal regime staliniano), Malevic disegnò scene e costumi per Vittoria sul sole, opera cubofuturista di Kruchenyk e Matiuschin (del 1913, ma già di argomento rivoluzionario), nel 1929 La cimice di Majakovskij riunì la messa in scena di Meyerhold, le musiche di Shostakovich e le scene e i costumi di Rodtchenko, massimo fotografo dell´Unione Sovietica di quegli anni. «La rivoluzione politica del ´17 liberò straordinarie pulsioni creative», dice Pascal Huynh, «ma a un certo punto, specie dopo la morte di Lenin, la differenza tra arte popolare e arte colta divenne enorme. Per esempio, "colti" come Shostakovitch ebbero vita dura». Tanto che una piccola sezione è dedicata allo scandalo sollevato dalla Lady Macbeth nel distretto di Mzensk del ´34, opera ritenuta immorale e antirivoluzionaria in seguito alla quale Shostakovitch fu costretto a comporre melodie più adatte al popolo.
La mostra è divisa in due parti. La prima "Utopies" (tre sezioni: "Verso la Rivoluzione di Ottobre" con due quadri che valgono la mostra: un bellissimo ritratto di Lenin dipinto da Brodskij nel ´19 e la Festa in onore dell´apertura del secondo Comintern, 19 luglio 1920 di Kustodiev; "L´arte e la rivoluzione" con l´agghiacciante dipinto di Redko, Insurrezione, nel quale l´avvenire è già ben illustrato; e "Rivoluzioni sceniche" con le prime commemorazioni del Primo Maggio e gli spettacoli musicali di masse animate da esaltazioni rivoluzionarie che annunciano il realismo socialista ben prima dell´arrivo di Stalin) va dal ´17 al ´29. La seconda, "Realisme socialiste", parte dalla "grande svolta" di Stalin nel ´29 e termina con la sua morte nel ´53.
«La cultura diventa soprattutto propaganda e fa parte del Comitato Centrale», dice Pascal Huynh. E se Lenin aveva avuto accanto, come responsabile della cultura, l´"illuminato" Lunatcharski, Stalin sceglie il terribile Zdanov. Accanto a bellissimi quadri (per quattro anni Huynh ha fatto avanti e indietro con la Russia e i suoi musei, e la mostra fa parte dell´Année France-Russie 2010) di Pimenov, Plastov o Chagall (Il violinista sul tetto, ma anche un raro autoritratto giovanile), alle fotografie dell´assedio di Leningrado, arrivano i gulag con la loro arte disperata, il teatro statale Goset della comunità ebraica e le danze e le musiche del ghetto.

Repubblica 12.10.10
Paolo Conte: il mio "Nelson" contro la barbarie della realtà
Il cantautore di Asti presenta il nuovo album
Come uomo e come cittadino la realtà la vivo, ma con le mie canzoni preferisco volare libero
di Gino Castaldo


ROMA. Sarà anche stanco, scocciato di fare canzoni, o almeno così raccontava negli anni scorsi, ma non perde la capacità di graffiare con versi che sembrano scesi da un sillabario celeste, vedi "i pensieri che vanno scalzi per lontane vie, via da da te... via da me", che spicca nella prima, dolente, canzone che fa da incipit a Nelson, il nuovo album del più originale e ricercato, coi suoi aromi esotici, dei nostri cantautori. «Ma sì, è vero, che mi sentivo stanco» racconta, «poi però sono ripartito, la voglia ti viene facendo, componendo, arrangiando e suonando. Questo disco l´ho fatto con molta serenità, malgrado il lutto della perdita di Renzo Fantini, il mio manager e produttore. Lui ne aveva sentite molte di queste canzoni, mi è mancato il sano contraddittorio che avevo con lui, poi mi sono messo lì cercando di essere il più battagliero possibile».
Il disco, va detto, è la solita miniera di idee, un inizio dolente, ma subito smentito da sventagliate d´ironia, voli allegri e swingati, e molto presto si viene catturati in un viaggio dai contorni eccentrici, a tratti bizzarri, addirittura in quattro lingue oltre l´italiano (inglese, francese, spagnolo e napoletano), via dalla brutale realtà, in un sogno lieve di personaggi antichi, grotteschi, ammalianti. «Mi rendo conto che si possa avvertire un certo distacco dalla realtà» spiega, «io la vivo come uomo e cittadino, ma facendo le canzoni ho voglia di volare libero. Tante volte penso che sia meglio non parlare di realtà, per non sollecitare brutte abitudini. Diciamo che sì. Può essere un bell´antidoto, del resto non ho mai creduto alle pretese di cambiare il mondo con le canzoni. Ma possono aiutare a farti ridere, immalinconire, possono farti morbida compagnia».
Insomma una netta presa di distanza da volgarità, cattivo gusto, slealtà, cattiveria, ovvero i segni che incombono imperiosi dal mondo reale. C´è una Storia minima, un Clown, una Nina che "s´ingegna a darmi amor", ci sono orchestrine e calembour, ragazzi prodigio e massaggiatrici, pezzi di jazz che a brandelli evocano musiche da sogno, e il tutto cantato, per la prima volta in cinque lingue: «Mi sono preso molta libertà, sentivo atmosfere che magari andavano bene con lingue diverse. Intendiamoci non è che voglio compiacere il pubblico straniero, anzi mi vergogno anche un po´, ma veniva naturale. E poi io scrivo sempre le musiche prima e le musiche timbrano una certa atmosfera, poi subiscono quasi un adattamento, ce n´è qualcuna che è più allegra, volutamente, ma non è un problema di mia situazione psichica, è proprio che vengono così. Nessuna, in ogni caso, scende nell´autobiografico, perché mi piace di più fare quello che racconta da fuori». Tranne il titolo, il fantomatico Nelson, che non compare in nessun pezzo del disco, e che quindi merita una spiegazione: «Semplice, Nelson era il mio cane, di una bellezza superlativa, un pastore francese, bellissimo anche se di carattere difficile, ne eravamo affascinati, e siamo rimasti addolorati quando è morto, due anni fa, però non era entrato in nessuna canzone, allora ho deciso di dedicargli il titolo». E dunque via, lontano da tutto, tra Fellini e Woodehouse (del quale in Jeeves Conte rievoca l´impareggiabile maggiordomo), con ruvide soffiate di voce, burbere e sornione, immerse in suoni jazzati, chitarre, fisarmoniche, sassofoni ruggenti. È il solito Conte, certo, ma come non essere fedeli a questo popolo immaginario che nel corso del tempo, e dei tanti dischi incisi da Conte, ha composto una saga degna di Cent´anni di solitudine, personaggi che nel loro distaccarsi dalla realtà, ce la fanno sentire con ancora più dolorante passione. Quelli di Conte non farebbero mai male a nessuno. Sono pura letteratura della canzone, esemplare e innocentemente blasfema.

Repubblica 12.10.10
La causa dell´Adhd? "Questione di geni"
Uno studio su "Lancet" individua il colpevole del Deficit di attenzione che colpisce alcuni bambini nel recettore della dopamina: "L'ambiente non c´entra"
di Paolo Cornaglia Ferraris


Il deficit di attenzione con iperattività (Adhd) è una malattia? Le cause sono genetiche, ambientali o sociali? Le risposte che arrivano da Lancet chiariscono il mistero, anche se non mancheranno contestazioni. Non è difficile, infatti, confondere i veri malati coi bimbi che reagiscono a stimoli negativi. I "veri" Adhd non sanno concentrarsi, sono sempre in movimento, sono impulsivi, si distraggono continuamente e provocano incidenti a casa e a scuola. Da adolescenti vanno incontro a depressione, anche grave (Annals of Psychiatry). Molti credono si tratti di "maleducati", altri danno la colpa a diete con troppi zuccheri. C´è chi nega l´Adhd, "una finta malattia sostenuta da chi vende psicofarmaci". La ricerca pubblicata ora su Lancet identifica un colpevole: manca un pezzo di Dna. Anita Thapar, Kate Langley, Nigel Williams (Cardiff University, Uk), ne hanno anticipato i contenuti. Adhd viaggia spesso con autismo, dislessia e disordine del comportamento (Cd). Tratti ereditari che riconducono a un pezzo di Dna che coinvolge il gene del recettore D4 della dopamina (Drd4) e quelli accanto. Si può trattare di copie ripetute in numero variabile. Anche altri recettori, transporter e geni mutati sono "coinvolti". Genetica, dunque, non servono altri dettagli. Cosa serve invece al lettore? Sapere che ogni cervello è originale per funzioni e predisposizioni. La base dell´originalità è ereditaria, ma fattori ambientali condizionano i comportamenti. Lo fanno modificando l´architettura con cui i neuroni affollano le varie zone del cervello e creano connessioni. Mentre si forma nell´utero materno, viene dato al cervello e al sistema immunitario (soprattutto) il permesso di spezzare e riattaccare il Dna creando variazioni che potrebbero rivelarsi utili ad affrontare mutamenti dell´ambiente esterno. In tal modo, nascono individui capaci di resistere o reagire a nuove evenienze. Chi nasce con dopamina e suoi recettori modificati, potrebbe ricordare meglio, agire più in fretta, o agire d´impulso. Oppure rischiare l´autismo perché sente o vede dettagli infinitesimali e ne ha memoria fotografica indelebile. Sono malati? Oppure "esperimenti" che la natura propone per aumentare la nostra possibilità di sopravvivere? Oggi su Lancet si conferma che il cervello Adhd fa ed è predisposto a fare cose che altri non sanno fare. Se poi autismo e Adhd siano malattie, oppure differenze socialmente utili, dipende da come organizziamo la nostra società.