lunedì 27 settembre 2010

Repubblica 27.9.10
L’era del New Labour è finita adesso torniano tra la gente
Famiglia e scuola ecco i valori del mio Labour
di Ed Miliband


Ieri il Partito laburista ha dato il via al lungo viaggio per tornare al potere. Una nuova generazione ha ricevuto il mandato di trasformare il partito e fare in modo che il Labour torni a difendere gli interessi delle famiglie di ogni parte della Gran Bretagna. Abbiamo molta strada da fare se vogliamo ricostruire quell´ampia base di consenso che nel 1997 ci portò al potere con una vittoria travolgente.
Il viaggio sarà difficile e richiederà tempo. Per arrivare a destinazione, dovremo fare tre cose. Trarre gli insegnamenti giusti dagli anni che abbiamo trascorso al governo, condurre un´opposizione responsabile e offrire un´alternativa costruttiva al governo in carica.
Io sono orgoglioso di gran parte di quello che ha realizzato il Labour negli anni in cui è stato maggioranza, ma non ritengo che dobbiamo difendere ogni decisione che abbiamo preso. Abbiamo commesso degli errori. È necessario riconoscerlo se vogliamo andare avanti e affrontare le sfide del futuro. Negli ultimi quattro mesi, durante la campagna per l´elezione a leader del partito, ho girato il paese in lungo e in largo, parlando con padri e madri di famiglia, piccoli imprenditori e capitani d´impresa, studenti e pensionati, e ho sentito dire tante cose sul perché il nostro partito ha perso la fiducia.
La gente si ritrova a lavorare più che mai, e nonostante questo fa più fatica ad andare avanti. La gente vuole che i propri figli abbiano opportunità migliori di quelle che hanno avuto loro, ma devono fare i conti con le tasse universitarie e la mancanza di abitazioni a prezzi abbordabili per chi compra casa per la prima volta.
Questa gente ha giocato rispettando le regole, ma ha la sensazione che la società non ricompensi chi dà prova di responsabilità, ed è preoccupata per l´immigrazione. Vogliono un Governo che difenda la Gran Bretagna, ma sull´Iraq - il test decisivo per la nostra esperienza di Governo per quello che riguarda la politica estera - hanno perso la fiducia in noi.
Dobbiamo riconoscere gli errori che abbiamo commesso in tutti questi ambiti, e dimostrare che siamo cambiati. Mai più dobbiamo perdere il contatto con la maggioranza del nostro Paese. Il secondo dovere che abbiamo è quello di condurre un´opposizione responsabile.
È fondamentale, per la nostra democrazia, che questo Governo sia obbligato a rispondere del suo operato. Ma farò opposizione senza cadere nella trappola dell´opportunismo. Sul piano antideficit, non ci opporremo a qualsiasi taglio. Dopo anni di espansione che hanno trasformato i nostri servizi pubblici, rispetto ai tempi dei soffitti gocciolanti e delle aule nei container, ora i nostri servizi pubblici dovranno imparare a fare di più con meno.
Ma questo non significa mandar giù senza fiatare il piano di tagli che il Governo propone. Non è giusto che troppo spesso a essere penalizzati siano quelli che non hanno avuto nessuna responsabilità nella crisi, mentre quelli che l´hanno scatenata vengono protetti. E tagli sbagliati nel momento sbagliato possono mettere a rischio la ripresa.
È economicamente sbagliato buttare a mare i progetti per la costruzione di nuove scuole, e lasciare senza lavoro gli operai edili in un momento in cui il settore è in difficoltà. È economicamente sbagliato buttare a mare i prestiti pubblici a quelle imprese britanniche che possono creare posti di lavoro nelle industrie del futuro.
Questo approccio è pericoloso per il nostro Paese, ed importante condurre queste battaglie. Oltre a offrire un´alternativa alle politiche sbagliate del Governo, noi daremo il nostro sostegno a questo esecutivo quando adotterà misure corrette.
Questo è l´approccio che ho adottato durante tutta la campagna per la guida del partito: ho sostenuto la tabella di marcia del Governo in Afghanistan, ho sostenuto le proposte di Ken Clarke sulla criminalità e ho sostenuto Vince Cable nella sua battaglia per abolire le tasse universitarie.
Per progredire, non ci limiteremo a riconoscere i nostri errori e offrire un´opposizione costruttiva. Proporremo i nostri piani per il futuro in modo da offrire un´alternativa costruttiva al Governo. Ci vorrà del tempo, ma è fondamentale per dimostrare che siamo pronti per governare. Proporremo un nuovo approccio che aumenti l´offerta di case e venga incontro ai timori degli studenti sul debito sostituendo il sistema delle tasse universitarie. Un nuovo approccio alla società che protegga le cose a cui attribuiamo valore nelle nostre comunità, e a cui il liberismo dei conservatori non attribuisce valore. Un nuovo approccio all´uguaglianza che contribuisca a forgiare una Gran Bretagna meno divisa. Ma che sia ben chiaro: io non intendo fare il capo dell´opposizione un giorno in più del necessario.
Il mio scopo è dimostrare che il nostro partito è al fianco delle classi medie in difficoltà nel nostro Paese, al fianco di tutti coloro che hanno lavorato duramente e vogliono riuscire ad andare avanti. Il mio scopo è riportare il nostro partito al potere. È una sfida impegnativa. È un viaggio lungo. Ma il nostro partito ha fatto il primo passo eleggendo un leader di una nuova generazione. Ora spetta a me concretizzare questo cambiamento. È una sfida che attendo con impazienza.
(Copyright Sunday Telegraph Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere della Sera 27.9.10
Fondi dimezzati, la Biblioteca muore
Il governo senza soldi non può accettare passivamente un disastro annunciato
La Nazionale di Firenze, memoria del Paese, è alla paralisi
di Ernesto Galli Della Loggia


Signor ministro, quella che si appresta a leggere è l’ennesima lettera che le viene indirizzata di questi tempi per lamentare le tristi condizioni economiche che affliggono un’istituzione culturale. Sono d’accordo con lei: c’è qualcosa di insopportabilmente petulante non scevro di una vaga supponenza in queste lamentele in nome della cultura. La cultura: una roba — come senz’altro deve averle detto più di una volta qualche suo collega in Consiglio dei ministri — che non produce un centesimo ma sta sempre a chiedere soldi.
Di soldi, questa volta, ha bisogno, un urgente e disperato bisogno, la Biblioteca Nazionale di Firenze. La Biblioteca — non sto certo a dirlo a lei, che di sicuro lo sa benissimo, ma a qualche lettore distratto — è la nostra massima istituzione libraria, il luogo della Penisola dove è conservata la stragrande maggioranza del nostro patrimonio a stampa specie degli ultimi due secoli. Oltre ai libri di ogni tipo, giornali, riviste, opuscoli: tutto ciò che in Italia si è pensato e scritto da un certo momento in avanti sta qui, in questi depositi, in questi schedari, in queste sale. Per far funzionare e mantenere le quali è stato speso quest’anno 1 milione circa di euro, cui il suo ministero ha contribuito con la cifra modesta di 716 mila euro (escluso il pagamento degli stipendi): cifra modesta in sé e tanto più, vorrà convenirne, rispetto all’importanza dell’istituzione finanziata. Che però, ciò nonostante, l’anno prossimo si vedrà decurtare la cifra suddetta a meno della metà: 350 mila euro. Si aggiunga, per completare il quadro, il blocco del turn over: in cinque anni il personale della Biblioteca è diminuito del 60 per cento.
Il risultato lo si può immaginare. La catalogazione dei libri, ripresa solo grazie alla generosità del Monte dei Paschi, copre solo il 10 per cento (il 10 per cento!) dei volumi pubblicati negli ultimi due anni; dappertutto arredi vecchi che cadono a pezzi, scarsa pulizia e per finire — e quel che più conta — è stato annunciato che ormai restano in cassa solo poche decine di migliaia di euro per pagare il personale della ditta che si occupa della distribuzione dei volumi al pubblico, il cui contratto scade alla fine di novembre. Dopo, quindi, bisognerà ridurre drasticamente anche gli orari di apertura della Biblioteca. In pratica, per un’istituzione come questa, l’inizio della fine.
Vede, signor ministro, se i soldi non ci sono, non ci sono, chi non lo capisce? (naturalmente per un certo tipo di cose non mancano mai, ma lasciamo perdere) e dunque nessuno intende farle una colpa di una cosa (l’entità del bilancio del suo ministero) che non dipende certo da lei. Ciò che però colpisce — che almeno colpisce le persone come me che hanno un qualche interesse diretto in questo genere di faccende — è il modo tranquillo, mi viene da dire quasi disinvolto e distratto, spesso addirittura infastidito verso chi se ne lamenta, con cui lei vive e rappresenta all’esterno questa situazione di penuria.
Lei è niente di meno che il ministro preposto all’arte, al cinema, ai musei, ai teatri, alle biblioteche, di un Paese che non è il Paraguay o il Madagascar (degni peraltro del più incondizionato rispetto), ma che è l’Italia. Lei sa che senza quelle cose, senza i musei, le biblioteche, il cinema, l’opera, l’Italia non è niente. «Noi» non siamo niente. Senza di esse anche la nostra storia, anche l’oggi citatissimo e celebratissimo Risorgimento, non significano più nulla, l’Italia scompare. Ma non solo l’Italia (come forse a qualcuno piacerebbe). Scompaiono anche, mettiamo, la provincia di Verona o quella di Bergamo; le quali senza le cose di cui stiamo dicendo diventerebbero nient’altro che due floridi distretti economici senza passato, senza radici, che potrebbero stare qui come in Cina o in Romania. Ricchi ma insignificanti: come tutto ciò che non ha identità.
Vede, signor ministro, nessuno le chiede di darsi fuoco per protesta davanti al ministero del Tesoro. Ma il Paese — per essere più modesti almeno quella sua parte che condivide il contenuto di questa lettera — le chiede se non altro di condividere pubblicamente le sue preoccupazioni, di dare a esse voce intervenendo nell’arena pubblica non solo per stigmatizzare questo o quell’indirizzo ideologico a lei sgradito. Ci acconteremmo che lei non si stancasse di spiegare all’opinione pubblica e alla classe politica che ogni euro sottratto alle biblioteche, ai musei, al cinema, ai teatri, è una ferita aperta nella nostra storia. Insomma: alla fine non le chiediamo altro che di condividere una pena, di partecipare a un dolore. Mi creda, se lei lo facesse sarebbe già moltissimo. Con il mio ossequio.

Repubblica 27.9.10
Veltroni: il leader c´è, è Bersani gli ex ppi escludono la scissione
Pd, Bindi in allarme per la giunta anomala in Sicilia
di g. d. m.


L´ex segretario rivendica però la necessità di dar voce al "disagio" nel partito. Anche Parisi punta il dito sulle "capriole" con Lombardo

ROMA - Adesso è qualcosa più di una tregua. Adesso l´effetto del documento dei 75 che aveva terremotato il Pd sembra superato. «La leadership del Partito democratico c´è e si chiama Pier Luigi Bersani», dice Walter Veltroni nella trasmissione "In 1/2 ora". «La discussione politica va avanti - spiega l´ex segretario - si confrontano opinioni diverse, si esprime un disagio che secondo me esiste e si sta manifestando. Ma il leader non è in discussione. Per me non è all´ordine del giorno il tema di un cambiamento. Bersani è il mio segretario, ha tutta la mia solidarietà per il lavoro che ha fatto, e il mio impegno unitario».
Questa pace non spinge Veltroni a dichiarare fin da oggi un sostegno a Bersani per la corsa a Palazzo Chigi. «Le elezioni sono tra tre anni. Non mi impegno sui nomi». L´impegno è sul partito, sulla sua capacità di innovazione, di riformismo. Su questo proseguirà il lavoro di chi ha firmato il documento dei 75. E a Rosy Bindi che oggi dice «il discorso del Lingotto non mi piacque neanche nel 2007» risponde: «Non voglio incrinare l´unità del partito. Ma penso ancora che quella sia la base di un partito riformista». Unità che Casini non riesce a vedere: «Mi sembrano in stato confusionale».
Un altro autore del documento, Beppe Fioroni, ha riunito a Orvieto gli amministratori locali ex popolari che si riconoscono nelle sue posizioni. È l´occasione che per dire che da questa area «non verrà mai nessun proposito di scissione, chi lo sostiene bestemmia». Semmai, spiega Fioroni, con l´iniziativa dei 75 «abbiamo rimotivato la nostra gente, l´elettorato moderato e cattolico che per la stragrande maggioranza sta con noi». All´assemblea di Orvieto c´erano sindaci, consiglieri, presidenti di provincia da tutta Italia. «Da noi Bersani non avrà mai il problema di finire in un indistinto gelatinoso. Diamo voce a una parte forte della società, vogliamo tenerla dentro il Partito democratico». E il segretario accetta le strette di mano: «Per l´amor di Dio, non esiste alcun rischio scissione».
A Milano Marittima la Bindi ha riunito l´associazione Democratici davvero, ha ospitato Bersani e ha preso di mira la nuova alleanza siciliana, dove il Pd è entrato nella maggioranza di Raffaele Lombardo. Bersani la sostiene, la presidente del Pd reagisce: «Lombardo è un personaggio su cui pendono interrogativi politico-giudiziari molto seri. Lui appartiene a quella prima Repubblica che ha preparato il disastro di questi anni». Arturo Parisi, che parla di «capriole», è contrario allo stesso modo. E vuole vedere gli effetti del Lombardo quater sulle logiche romane: «Non si capisce se il Pd ha aderito per i risultati virtuosi ottenuti da un governatore che due anni fa avevamo dipinto come il maestro del clientelismo - dice con un filo di ironia - . Qualcuno deve spiegare cosa c´è sotto».

La Stampa 27.9.
Per sfidare l'embargo
Veliero di pacifisti ebrei verso Gaza
Il «Jews for Justice for Palestinians» ha obiettivi pacifici
Sulla barca salpata da Cipro un sopravvissuto all'Olocausto

qui
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201009articoli/58885girata.asp

Repubblica 27.9.10
Alle elezioni in Stiria trionfa il movimento xenofobo. In calo i socialdemocratici
L’ultradestra vince anche in Austria e adesso trema il governo di Vienna
di Andrea Tarquini


Immigrazione e crisi economica temi dominanti in campagna elettorale: i partiti tradizionali non hanno dato risposte chiare

BERLINO - Nuovo successo dell´ultradestra in Europa, dopo l´Olanda e la Svezia. Ancora una volta, in uno dei paesi più prosperi e moderni del Vecchio continente, parole dure contro l´immigrazione islamica pagano. Conquistano in modo trasversale elettori conservatori o progressisti. Alle elezioni nella Stiria, bastione rosso e uno dei più importanti Stati federali austriaci, la Fpoe, cioè il partito nazionalconservatore e dichiaratamente anti-islamico, vola. Sottrae voti a tutti: alla socialdemocrazia (Spoe) che resta prima forza politica, ai democristiani (Oevp), e persino al Partito comunista austriaco (Kpoe). Una estrema propaganda online, con giochi internettiani in cui vinci se abbatti il minareto col muezzin o elimini la moschea dal paesaggio urbano austriaco, è stata la chiave del successo della destra radicale. Successo dei messaggi più espliciti, nello Stato la cui capitale, Graz, è la seconda città austriaca, moderna e multiculturale come Milano, Monaco o Lione.
«Grande vittoria, siamo molto soddisfatti», ha detto Heinz-Christian Strache, leader della Fpoe. A lui, erede politico del capo storico dell´ultradestra austriaca Joerg Haider, morto in un grave incidente d´auto, gli elettori stanno dando un ruolo sempre più centrale. Soprattutto in vista della partita decisiva. Cioè il 10 ottobre, quando la capitale Vienna voterà per il rinnovo del suo governo. Vienna è "città rossa" (socialdemocratica) fin dai tempi di Francesco Giuseppe, ma negli ultimi sondaggi la destra radicale è in decollo. È certa di conquistare tra il 20 e il 25 per cento dei consensi.
I risultati quasi definitivi del voto in Stiria, resi noti ieri sera, danno un´indicazione chiarissima. La socialdemocrazia resta primo partito col 38,2 per cento dei voti, ma perde 3,2 punti percentuali. I democristiani ne perdono 1,5, scendendo a 37,1. La destra radicale sale da poco più del 4 per cento al 10,8, insomma un risultato a metà tra raddoppio e tripletta. Inquieti e nervosi per le sfide della crisi economica internazionale e soprattutto dell´immigrazione musulmana, molti elettori hanno voltato le spalle ai partiti storici. Come in Olanda, come in Svezia. Il leader socialdemocratico della Stiria, Franz Voves, ha detto che per restare governatore tratterà con tutti, anche con la destra radicale. Uno sdoganamento chiarissimo, e quasi senza condizioni.
(Ha collaborato Luca Faccio)

Repubblica 27.9.10
Il libro di Veronesi "Perché il futuro è delle donne"
Perchè c’è bisogno di un nuovo matriarcato
di Umberto Veronesi


Anticipazione
Anticipiamo un brano dal libro di Dell´amore e del dolore delle donne (Einaudi, pagg. 158, euro 18) da domani in libreria.La guida del paese dovrebbe essere per metà in mani femminili. Il nuovo libro di Veronesi

Occorre rovesciare un´organizzazione sociale che oggi ruota essenzialmente intorno alla figura maschile Solo in questo modo è possibile garantire lo sviluppo della civiltà
Quando chiedo alle pazienti o alle mie collaboratrici se hanno mai provato ad alleviare l´affanno in cui le vedo dibattersi, mi sento dire: "Sa, professore faccio prima a fare io"

Credo di essere stato un buon padre per i miei figli, ma sono consapevole che non deve essere stato facile per loro confrontarsi con me. Avere accanto a me in ospedale Paolo, il mio figlio maggiore, e Giulia, la mia prima figlia femmina, è una soddisfazione immensa (...). A volte penso però che lo sforzo che hanno dovuto compiere per affermarsi sia stato, per certi versi, doppio rispetto a chi ha un cognome diverso dal loro. Per Giulia a quel cognome si aggiunge «il peso» del suo essere donna e mamma di tre bambini (...).
Ho visto in mia figlia il ritratto inaspettato e vero di una donna complessa, «multidimensionale», chirurga inappuntabile, ricercatrice metodica, medico empatico, madre attenta, compagna amorevole.
Mi colpisce sempre la capacità tutta femminile di pensare contemporaneamente a tante cose, anche lontanissime: i capricci dei bambini e i dati dei pazienti; e di passare da una dimensione all´altra in modo del tutto naturale (...). Nei clan familiari del secolo scorso le donne erano il nodo centrale di una rete di parentele sulle quali si intessevano rapporti solidali fortissimi e intoccabili (...). Mi ricordo che le donne che vivevano con noi in cascina, quando ero bambino, facevano molta vita di gruppo: lavoravano insieme negli orti e nei campi, cucivano, rassettavano, erano sempre affaccendate. Spesso mi permettevano di partecipare, e fingendomi impegnato in qualcosa mi divertivo a origliare i loro discorsi. Ricordo che una frase in particolare ricorreva spesso: «Non ti lamentare con tuo marito. Tanto, appena esce dalla porta di casa, fino a sera, la padrona sei tu» (...).
Oggi lasciare la famiglia d´origine equivale a conquistarsi la libertà, ma il prezzo che si paga per questa scelta è la perdita di una condivisione – di affetti e di compiti – che sarebbe preziosa per una donna «multifunzionale». Quello che stiamo attraversando, mi pare, è un momento di transizione: la protezione e la solidarietà del vecchio modello familiare non sono ancora state sostituite da un modello sociale che abbia funzioni analoghe, e che tenga conto dei ruoli effettivamente occupati dalla donna (...). L´organizzazione sociale oggi ruota essenzialmente intorno all´uomo, e invece dovrebbe ruotare intorno alla donna, perché la donna, in questo momento, è più adatta a garantire lo sviluppo della civiltà.
So che può sembrare un´affermazione utopistica, e certamente scatenerà l´indignazione di molti uomini, ma a ben pensarci una società matriarcale avrebbe vantaggi per tutti (...). Per esprimere la propria personalità, una donna era (e talvolta, ancora, è) obbligata a ricorrere a sotterfugi, proprio come quello, semplice, delle donne della cascina della mia infanzia, che aspettavano che il marito uscisse di casa per sentirsi finalmente libere. Per questo sono a favore di una cultura e di una civiltà coniugate al femminile (...).
Il dominio maschile ci ha traghettato in un´epoca di indubbio progresso civile e scientifico, ma adesso, inevitabilmente, il timone va passato alla donna. Per questo non mi stanco di ripetere che il futuro è donna. La mia convinzione, lo so bene, cozza in modo evidente con la realtà: se è vero che la donna è più «adatta» dell´uomo, – mi sento chiedere, – com´è che ancora non ha conquistato un ruolo non solo dominante, ma neppure paritario?
La prima ragione, a cui già ho accennato, è organizzativa: la società non è strutturata per favorire la carriera lavorativa della donna. In particolare, sulle sue spalle pesa un innegabile pregiudizio psicologico: la convinzione che l´uomo sia dotato di una maggiore capacità decisionale (...).
Il secondo ostacolo ha a che fare con il peso culturale delle religioni. La religione cristiana, ad esempio, rivela la sua indole maschilista nel divieto di sacerdozio imposto alle donne, che le estromette completamente dalla «carriera» religiosa. Gli apostoli, di cui i sacerdoti sono eredi, erano tutti maschi, anche se sotto la croce di Cristo morente c´erano solo donne, e i suoi seguaci fedeli si erano dileguati (...).
Infine, a frenare la conquista femminile della società, c´è forse un residuo senso di colpa nella coscienza delle donne, che faticano a trovare un equilibrio fra ruolo pubblico-professionale e ruolo materno-familiare (...).
Quando chiedo alle pazienti o alle mie collaboratrici se hanno mai provato ad alleviare l´affanno in cui le vedo dibattersi, mi sento dire: «Sa, professore, faccio prima a fare io (...)». È una frase, questa, dal forte potere rivelatore: esplicita la percezione che tutto quell´affollarsi di compiti – e allo stesso tempo ognuno di questi compiti – sia un elemento importante dell´essere donna, e dunque un aspetto irrinunciabile quanto è ormai irrinunciabile il ruolo lavorativo. Sono convinto che progressivamente la donna smetterà di percepire la «liberazione» da alcuni ruoli come una minaccia alla propria femminilità: è un processo che vedo già in atto nelle ragazze che si affacciano oggi al mondo del lavoro, e credo che l´ambiente sociale debba contribuire a questa evoluzione, infrangendo quel che resta dei tabù culturali che impediscono alle donne una partecipazione attiva.
Ma come? Entriamo qui nel capitolo delicatissimo del «che fare» per le nostre donne. E io, su questo tema, ho le idee molto chiare. La conduzione del paese dovrebbe essere per il 50 per cento in mani femminili. Metà dei parlamentari, cioè, dovrebbero essere donne, e la stessa partizione dovrebbe essere garantita per legge nelle regioni, nelle province e nei comuni nella composizione delle giunte, dei comitati e di ogni organo decisionale. È necessario che la presenza delle donne raggiunga la parità numerica ai vertici delle carriere universitarie, e nel sistema ospedaliero e assistenziale metà delle cariche di direzione generale e scientifica dovrebbero essere ricoperte da donne (...). Se solo ci soffermassimo a riflettere con più attenzione, non sarebbe difficile individuare gli incredibili punti di forza femminili che potrebbero migliorare sensibilmente le sorti della società odierna. Io ci ho provato, e ne ho individuato almeno dieci.
Il primo è biologico: alle donne è affidata la responsabilità della sopravvivenza della specie umana sul pianeta, attraverso la procreazione e l´accudimento della prole. Non dimentichiamo che i bambini sono esposti prima di tutto all´influenza materna, che ne determina prioritariamente l´educazione e la mentalità: il mondo dell´infanzia è un mondo femminile.
Il secondo unisce questa capacità procreativa con quella lavorativa: la sintesi di ruolo sociale e ruolo materno resta una fra le più importanti conquiste femminili recenti, dotata di un grande potenziale rivoluzionario.
Il terzo è la resistenza al dolore e alla fatica. Sono stato tante volte testimone dell´eccezionale capacità femminile di accettare e affrontare la malattia – e molte altre tragedie – fino a trasformarla in un pretesto per fare ordine nella propria vita, o persino in un´occasione di rinascita personale.
Il quarto punto è la motivazione che caratterizza il loro lavoro e l´attaccamento all´istituzione che rappresentano (...).
A questo è indirettamente collegato il quinto punto, che è il senso della giustizia. Metà dei nostri magistrati è donna e molte si distinguono e si trovano alla ribalta delle cronache per la loro integrità e fermezza nel giudizio.
Del sesto punto ho già parlato più volte: è la tendenza all´armonia, che enfatizza il senso femminile per la disciplina, l´organizzazione e l´ordine.
Il settimo è la maggiore sensibilità artistica e culturale. Basta guardarsi intorno nella sala di un cinema, a teatro, a un incontro letterario, a un concerto, a una mostra di pittura, scultura o fotografia, per rendersi conto che la maggioranza del pubblico è composta da donne.
L´ottavo è la capacità intellettuale di ragionamento e concentrazione. Per secoli si è detto che la donna non era adatta alle attività scientifiche, ma è vero il contrario: più della metà dei miei ricercatori è di sesso femminile, e la loro produttività e il loro ingegno sono straordinari.
Il nono punto è che le donne, contrariamente a quanto si crede, sono più brave degli uomini a decidere nei momenti critici. Quando un matrimonio fallisce, ad esempio, in molti casi è la donna che prende in mano la situazione e fa il passo di chiedere il divorzio (...).
Il decimo è che la donna è naturalmente meno aggressiva dell´uomo, non ama la violenza ed è portata a cercare soluzioni diplomatiche. E l´assenza di conflitti è la condizione imprescindibile per il moderno progresso della civiltà.

Corriere della Sera 27.9.10
Veronesi, la vita in rosa
«Presto il mondo vedrà una supremazia al femminile»
di Isabella Bossi Fedrigotti


Di uomini che odiano le donne, stando, almeno, oltre ai romanzi e alle cupe voci rancorose che salgono dalla rete, alle cronache che riportano di ammazzamenti, di violenze e di molestie di cui sono vittime mogli, compagne, fidanzate e amanti, sia in carica che ex, ce ne sono parecchi e forse anche in aumento, mano a mano che aumenta l’autonomia femminile. Nulla, ovviamente, di fronte alla massa di uomini che le donne continuano, bene o male, ad amarle, solo che questi ultimi sono per lo più silenziosi, non si dichiarano, forse, chissà, timorosi di mostrare il fianco e di concedere troppo vantaggio alla controparte con una precisa presa di posizione.
Nella lista dei coraggiosi si può, per contro, annoverare un grande uomo di scienza, Umberto Veronesi, che ha scritto un intero libro, Dell’amore e del dolore delle donne (Editore Einaudi, in libreria da domani), per spiegare come e perché lui le donne le ama senza riserve. Il che non è poco, soprattutto perché non soltanto gli piacciono nel modo in cui piacciono alla maggioranza, possibilmente belle, possibilmente sorridenti, seducenti e affettuose ma anche perché le stima, le ammira, è curioso dei loro pensieri e sentimenti, cerca di conoscerle nel profondo e volentieri fa tesoro di certe loro parole, di certi loro ragionamenti.
Oltre alle «sue» donne, madre, moglie, sorella, figlie, parenti e amiche, egli ci racconta delle innumerevoli pazienti — il professore è, infatti, un medico delle donne per eccellenza — molte delle quali sono diventate in un certo modo «sue» al pari di quelle altre. La prima della lista non può che essere la mamma che egli ricorda con tenerezza infinita, sapiente e amorosa signora della cascina nella periferia milanese dove viveva con marito e sei figli che le ubbidivano — quasi — a bacchetta. E ottanta o più anni dopo, Veronesi ancora conserva memoria del magico momento in cui, nella stagione fredda, ella passava lo scaldino sotto le coperte dei bambini, di modo che al momento andare a letto i piedi freddi trovavano tra le lenzuola il beato, accogliente tepore.
Seconda viene Angelina, l’indimenticabile portinaia del palazzo milanese dove la famiglia si trasferì dopo la morte prematura del papà, donna geniale e coraggiosa che, una mattina di fine ’43, fece salire in ascensore gli uomini delle SS venuti a cercare il diciottenne Umberto, nascosto in casa convalescente, dopo essere saltato su di una mina. Ma quando i militari furono a metà piano, Angelina chiamò su al citofono: «Umbertino, fai svelto, scappa!» e subito dopo tolse la corrente bloccando l’ascensore a mezza corsa. E grazie a lei Umbertino si salvò la vita.
Vengono poi, in ordine sparso, pazienti, colleghe, ricercatrici, infermiere, suore, donne in carriera, imprenditrici e politiche, anche di altissimo grado, come, per esempio, Margaret Thatcher. Molte hanno nome e cognome, moltissime sono anonime, però tutte quante ben presenti, anche tanto tempo dopo, nella mente del professore. Di loro Veronesi ricorda e riporta una frase, un atteggiamento, una conversazione, una confessione; oppure nessun parola in particolare però la forza di volontà, la passione, il dolore, l’intraprendenza, la dolcezza, la fantasia, la pietà: è un coro variopinto di donne che egli porta con sé, del quale si ha l’impressione che gli sia prezioso, una specie di tesoro accumulato nei suoi ottantacinque anni, che gli fa compagnia, che lo rasserena anche.
Difficile dire se di un libro di narrativa oppure di saggistica si tratta. I due generi sembrano, infatti, costantemente presenti e ora prevale l’uno, ora l’altro: memoria e riflessione si mescolano, insomma, e si alternano in modo armonioso. Del resto, cos’altro ci si può aspettare da un uomo di scienza che, segretamente, a volte, butta giù versi (salvo poi gettarli via subito dopo)?
Non sarebbe comunque da lui scrivere un libro fatto soltanto di amabili ricordi di sia pure straordinarie figure femminili: ed ecco allora i ragionamenti — sempre particolarmente lucidi e proiettati nel futuro, da uomo di scienza, appunto — sull’amore, sul dolore, sulla malattia, sulla religione, sulla famiglia, sul sesso. Azzarda, per esempio, Veronesi o, anzi, più che azzardare, profetizza, sulla base della crescente mascolinizzazione della donne e della contemporanea femminilizzazione degli uomini, per cui abbiamo per un verso soldatesse e anche generalesse e per l’altro sempre più numerosi «mammi», che la reciproca attrazione è destinata a calare ulteriormente (già adesso — sostiene — scarseggia, altrimenti non saremmo invasi da tanta pornografia finalizzata a risvegliare il desiderio stanco) tanto che la sessualità si esprimerà in molti modi diversi.
E profetizza anche, per esempio, che il mondo, domani — sempre meno bisognoso di forza fisica — vedrà una supremazia femminile. Per la ragione biologica della riproduzione, ovviamente, prima di tutto, ma subito dopo perché le donne non sono più così lontane da una svolta epocale, di riuscire, cioè, la sintesi del ruolo sociale e professionale con quello materno; ma anche perché sono più resistenti al dolore e alla fatica e perché hanno maggiore sensibilità artistica e culturale (e basta guardarsi intorno in libreria, al cinema, a teatro e ai concerti per rendersene conto). Infine, perché sono più brave a prendere una decisione nei momenti critici e perché sono meno aggressive e più portate a cercare soluzioni diplomatiche ai conflitti, attitudine indispensabile al progresso della civiltà.
Il professore — di questi tempi una vera rarità — è sicuramente di manica abbastanza larga con le donne, però il suo autentico, profondo femminismo non può che edificare le sue lettrici.

Repubblica 27.9.10
Cent'anni fa moriva il filosofo. Un libro di Campailla svela un segreto nella sua vita
Carlo Michelstaedter e il mistero di Nadia B.
Il giovane studioso goriziano s'innamorò della donna. Lei si uccise nel 1907 a Firenze, anticipando di tre anni il suicidio dell´autore di "La persuasione e la rettorica"
di Paolo Mauri


Il 17 ottobre saranno esattamente cent´anni che Carlo Michelstaedter s´è tolto la vita sparandosi alla tempia destra. Era il giorno del compleanno della madre Emma. Il sangue di Carlo schizzò anche sui fogli che stava riempiendo per la sua tesi di laurea, poi divenuta la sua opera più importante, La persuasione e la rettorica.
Carlo, goriziano, aveva studiato a Firenze e qui aveva incontrato una giovane russa, Nadia Baraden. Le aveva dato qualche lezione di italiano. Aveva tentato un approccio. Ma lei, bella e bionda, ufficialmente studentessa di belle arti, lo aveva tenuto a bada. Una storia come tante, se non fosse per il fatto che Nadia, l´11 aprile del 1907 si spara in piazza Vittorio Emanuele II a Firenze (oggi piazza della Repubblica). Carlo è a Gorizia: manda un telegramma alla padrona di casa di Nadia chiedendo notizie.
Ma chi era veramente Nadia Baraden? Lo racconta ora Sergio Campailla, studioso ed editore dell´opera di Michelstaedter, in un libro che ripercorre con passione tutte le sue puntigliose ricerche sulla ragazza e comincia con una confessione (Il segreto di Nadia B, Marsilio, pagg. 248, euro 19.50). Quando aveva ventisei anni Campailla si trovò ad assistere al trasloco delle carte di Carlo, destinate alla Biblioteca Civica di Gorizia. Era il 4 marzo 1973. La sorella di Carlo, Paula, era morta nel giugno dell´anno precedente e l´esecutore testamentario era ora suo figlio, Carlo Winteler. Prima d´ogni altra cosa l´ingegner Winteler annunciò di voler distruggere qualche foglio che riguardava terze persone. In breve si trattava di due lettere in tedesco di Nadia Baraden al giovane amico filosofo: nella prima, senza firma, lo invitava a tenere le mani a posto. Nella seconda, ben più importante e drammatica, annunciava d´aver deciso di morire, assumendo del veleno (cosa appena fatta) e poi sparandosi per essere certa dell´esito. La donna lo invitava però ad affrontare la vita e a non rinunciare mai a se stesso e gli rivelava la tragedia della propria esistenza: a 11 anni uno zio l´aveva "violée", distruggendola.
Campailla dice d´essersi deciso solo ora, quando i fatti sono ormai storia e non più cronaca indiscreta, a far chiarezza sulla figura di Nadia Baraden, già però citata nell´epistolario di Michelstaedter uscito a sua cura nel 1983. Comincia dunque così l´indagine dello studioso, che essendo anche romanziere non rinuncia alla narrazione, anzi vi indugia con piacere seguendo l´ordine cronologico degli eventi e vagliando e citando tutte le fonti (italiane ma anche russe) che riesce ad individuare.
Il suicidio nella celebre piazza fiorentina, quella dei grandi caffè letterari Paszkowski e Giubbe Rosse, naturalmente suscita un´attenzione morbosa e i cronisti per diversi giorni seguono la vicenda, dolorosa e misteriosa insieme. Chi è Nadia B.? Una terrorista russa (siamo a ridosso della rivoluzione del 1905) uscita da una ricca famiglia ebrea, incarcerata e condannata alla Siberia e poi salvata con l´esilio. Baraden è il nome di un marito subito abbandonato: era un agente doppiogiochista. Come in un romanzo dell´Ottocento a tinte fosche la suicida ha lasciato detto che si avverta della sua morte non il padre, ma lo zio: si presume lo stupratore. Pagherà lui le esequie. Intanto si viene a sapere che la ragazza è tutt´altro che passata inosservata a Firenze: un suo ritratto, fatto dal pittore Passigli, è stato addirittura esposto in Accademia ed è stata anche fotografata. Lo stesso Carlo, che ha una buona mano come pittore e disegnatore, le ha fatto un altro ritratto ad olio, in cui figura con una rosa sul seno.
Dai giornali fiorentini la notizia del suicidio rimbalza anche fuori e se ne occupa il Corriere della Sera a Milano. Molto si scrive sul funerale, un trasporto che passando per Vienna dovrà raggiungere Pietroburgo. Sfogliando i giornali d´epoca Campailla nota un affollarsi di suicidi. Un segno dei tempi? Difficile dirlo: Nadia veniva da un altro mondo, titolare di un nichilismo furioso alimentato da una biografia pesante.
Nella famiglia di Carlo c´era già stato il suicidio, tenuto nascosto, del fratello Gino emigrato in America. La ricerca dell´autentico in un groviglio di finzioni spinge Carlo più a cercare la vera vita che non la morte. Il 10 settembre del 1910 scrive alla madre una lettera che è, in questo senso, quasi un solenne manifesto. Poi tutto precipita. La scelta finale non è filosofica e resta insondabile. Non saprà mai di Nadia B. tutta la verità. Campailla aggiunge sorprese fino alla fine. Non le guasterò anticipandole. La sorte della breve vita di Carlo Michelstaedter è quella di far nascere libri. Suoi, come La melodia del giovane divino appena uscito da Adelphi (è una antologia di scritti, curata sempre da Campailla) o altrui. Come questo su Nadia B. O come quello, intenso e doloroso, di Claudio Magris, Un altro mare, dedicato alla vicenda di un intimo amico di Carlo, Enrico Mreule. Che partì per la Patagonia e lasciò a lui, fatalmente, la sua pistola.

Repubblica 27.9.10
Perché difendo l’uso del burqua
Nella nostra società non è certamente l´unico simbolo della supremazia maschile
di Martha Nussbaum


Ai primi di luglio, in Spagna, il parlamento catalano ha respinto per pochissimi voti una proposta di legge che avrebbe vietato il burqa musulmano in tutti gli spazi pubblici, capovolgendo l´esito del voto espresso una settimana prima dal Senato a favore del divieto. Proposte analoghe potrebbero diventare presto legge in Francia e in Belgio. Perfino il foulard è spesso fonte di problemi. In Francia, le ragazze non possono indossarlo a scuola. In Germania (così come in alcune zone del Belgio e dell´Olanda) in diverse regioni alle insegnanti di scuola pubblica è proibito portarlo in classe, malgrado a preti e suore sia consentito insegnare con l´abito talare. (...)
Partiamo da una considerazione ampiamente condivisa: tutti gli esseri umani sono uguali e hanno la medesima dignità. Pressoché ovunque si concorderà sul fatto che i governi devono rapportarsi a tale dignità con immutato rispetto. Ma cosa vuol dire trattare la gente con lo stesso rispetto in ambiti che hanno a che fare con le credenze e l´osservanza religiosa? Aggiungiamoci allora un´ulteriore premessa: la facoltà attraverso cui l´uomo ricerca il significato ultimo dell´esistenza - facoltà comunemente denominata "coscienza" - è una componente fondamentale della persona, strettamente legata alla sua dignità. E a questo punto possiamo puntualizzare con un´altra premessa ancora, che potremmo chiamare la "premessa della vulnerabilità": tale facoltà, infatti, può essere gravemente compromessa da condizioni ambientali globali ostili. (...).
Generalmente a favore delle proposte di legge che presuppongono il divieto vengono sostenute cinque argomentazioni. Vediamo se esse trattano tutti i cittadini con uguale rispetto. La prima riguarda il fatto che per esigenze di sicurezza gli individui devono mostrare il volto quando frequentano luoghi pubblici. La seconda, strettamente correlata alla prima, sostiene che la trasparenza e reciprocità proprie dei rapporti tra concittadini verrebbe minata dall´abitudine di coprirsi parte della faccia. (...) Il terzo punto, di gran rilievo attualmente, è che il burqa sia un simbolo di dominazione maschile che rappresenta l´oggettivazione della donna (vista non più come persona, ma come mero oggetto). Un legislatore catalano di recente l´ha definito una «prigione degradante». La prima cosa da dire riguardo a tale tesi è che coloro che generalmente la sostengono non sanno molto dell´islam e sicuramente non sono in grado di affermare cosa simboleggi cosa in tale religione. Ma la pecca più lampante consiste nel fatto che la nostra società è piena di simboli della supremazia maschile che trattano la donna come un oggetto. Riviste erotiche, foto di nudo, jeans attillati: tutti questi prodotti possono essere tacciati di ridurre la donna a un oggetto, così come la stessa accusa può essere rivolta a molteplici aspetti della nostra cultura mediatica. Che dire della «degradante prigione» della chirurgia plastica? (...)
Una quarta argomentazione è quella secondo cui le donne indosserebbero il burqa solo perché costrette. È una tesi abbastanza non plausibile da generalizzare. (...) In ultimo, ho sentito anche l´argomentazione secondo cui il burqa sarebbe di per sé non salutare, perché caldo e scomodo (non sorprende che tale tesi sia stata avanzata in Spagna). Mi sembra forse la più stupida di tutte. (...) Tutte e cinque le argomentazioni che ho riassunto sono discriminatorie. Non dobbiamo neanche scomodarci a toccare la delicata questione del compromesso su basi religiose per renderci conto che sono profondamente inaccettabili in una società dedita alla libertà e all´uguaglianza. Il pari rispetto di tutte le coscienze ci impone di rifiutarle.
(Traduzione di Chiara Rizzo)

Corriere della Sera 27.9.10
Sgarbi si difende da Travaglio La disputa sul «pezzo di m...»
Diventa esilarante la battaglia legale sulla parolaccia detta in tv
Gli avvocati del critico: non ci fu offesa, la natura non è volgare


Tutto cambiato: lo dicono gli avvocati di Vittorio Sgarbi. Che per difendere il cliente, sotto processo per aver definito Marco Travaglio «un pezzo di merda tutto intero», hanno scritto una memoria difensiva la cui tesi epocale è che la popò è sana, bella e «fa bene al corpo ed anche all’anima».
Cerchiamo di capirci: non è la prima volta che un difensore, costretto a difendere l’indifendibile, si arrampica sugli specchi. Resta indimenticabile, ad esempio, l’arringa fenomenale con cui Ippolita Ghedini, sorella del più cel e br e Niccol ò « Ma-va-l à » Ghedini, tentò di minimizzare le parole di Giancarlo Galan, che aveva bollato come comunisti dei giornalisti Rai di Venezia. A dispetto del Cavaliere e delle sue fobie anticomuniste, scrisse l’Ippolita, il soviet non era che un «organo elettivo e dunque espressione di quella democrazia reale che ancora oggi viene rimpianta da molti e l’aggettivo sovietico non ha certo valenza diffamatoria intrinseca». Spasibo tovarisha Ghedinova! Decisi a umiliare la collega nel campionato mondiale d’arrampicata sugli specchi, l’avvocato Giampaolo Cicconi e Fabrizio Maffiodo sono andati oltre. Scrivendo che Sgarbi con «la frase "è un pezzo di merda tutto intero" non ha comunque diffamato il dottor Travaglio, atteso che la frase non ha alcuna valenza offensiva».
Va detto che i due professionisti avevano un compito 2007, quando a Montecitorio si discusse fino a notte se dare o no l’autorizzazione a procedere: urlare a dei poliziotti «mi avete rotto i coglioni!» come aveva fatto Sgarbi rientrava nell’insindacabile esercizio delle funzioni parlamentari? Un dibattito unico al mondo.
Che vide il leghista Rizzi sbottare: «Sono due ore che si parla dei coglioni di Sgarbi, sinceramente ne ho pieni i coglioni». Il capolavoro fu di Filippo Mancuso, che invitò il collega, d’ora in poi, a chiamare i cosiddetti «tommasei», come faceva Leopardi per disprezzo verso l’autore del celebre dizionario. Totale degli interventi a favore e contro: 56.
La passione del critico d’arte, però, è sempre stata quella che i latini chiamavano stercus (genitivo: stercoris). Tra i tanti esempi, ne citiamo uno. Al dibattito parlamentare alla nascita del governo D’Alema, quando il nostro z a z z e r ut o mise a ver bal e : «Onorevole D’Alema, le darei volentieri il mio voto; sono molto tentato di farlo, per aggiungere la mia corruzione alla vostra, aggiungere merda a merda». Insomma, se non temessimo d’essere equivocati diremmo che ce l’ha sempre in bocca.
All’idea di perdere l’immunità, aveva confidato ad Aldo Cazzullo di non avere troppi timori: «Vinco una causa al giorno. Finora, 190 su 270; le altre sono in corso». Spiegò anzi di avere «pronto un libro: Le mie querele. L’editore non lo pubblica per paura di altre querele». In ogni caso sospirò quando fu chiaro che non fosse stato rieletto, avrebbe dovuto per sicurezza contenersi: «Mi toccherà diventare buono e insipido come Prodi». Macché: gli è impossibile.
Era appena stato condannato a pagare 30mila euro (più le spese) a Travaglio per essersi dilungato su questo genere di insulto ad AnnoZero quando, alla trasmissione domenicale su Canale 5 con Barbara D’Urso, rincarò appunto: Travaglio «è un pezzo di merda tutto intero». A quel punto i suoi due legali, presumibilmente su ispirazione «artistica» del loro stesso cliente, hanno steso una memoria difensiva che resterà negli annali. Per loro, infatti, quella lì non è un’offesa. Può essere mai volgare la natura? «Se in un agriturismo ci forniscono prodotti dell’agricoltura biologica significa che essi sono fatti con la merda nel senso che l’agricoltura biologica vuol dire coltivazioni in terreni concimati non con prodotti industriali ma con letame, con la merda, appunto, la quale serve a fertilizzare i terreni». Bucolici.
Inoltre «giova osservare che, un tempo, il letame accumulatosi per tutto l’anno veniva, con la zappa (in genere nel mese di settembre), rivoltato, sbriciolato, miscelato, messo sul carro e sparso nel campo ove si seminavano le fave ed in cui, l’anno appresso, si sarebbe piantato di grano. Le merde, invece, che le mucche depositavano nei campi durante il periodo estivo ed essiccate dal sole formavano delle dense "torte" che venivano raccolte ed immagazzinate e poi usate come combustibile per cucinare la minestra di fave...
(il seguito dell’articolo è disponibile nelle edicole)