domenica 26 settembre 2010

l’Unità 26.9.10
Bersani “vede” le elezioni:
«Fini non può votare la fiducia»
di Simone Collini


Il leader del Pd continua ad auspicare un governo di transizione ma si prepara alle urne
Riforma fiscale e patto sociale: le proposte del partito presentate alla platea di Confindustria
Bersani si aspetta «coerenza» da Fini, quando si voterà la fiducia al governo: «Si è rotto il patto che teneva insieme la maggioranza». Per il leader del Pd sulle accuse relative alla casa di Montecarlo «c’è ancora molto da chiarire»

Ora da Gianfranco Fini si aspetta «coerenza». Perché dopo questo discorso, difficilmente mercoledì il gruppo parlamentare di Futuro e libertà potrà votare la fiducia a Berlusconi. Pier Luigi Bersani lo dice dopo una giornata passata a Genova, per intervenire al convegno di Confindustria dedicata a «occupazione e competitività» e per incontrare un gruppo di sindacalisti della Fincantieri. Il leader del Pd ha guardato «con molta attenzione» il videomessaggio del presidente della Camera. Dice di aver apprezzato la «sincerità» con cui Fini ha annunciato le proprie dimissioni nel caso in cui fossero dimostrate le accuse relative alla casa di Montecarlo, «su cui c’è ancora molto da chiarire». Ma soprattutto, per Bersani l’intervento di Fini «fa emergere ancora una volta una frattura profonda che non promette nulla di buono per il governo del paese»: «Si è rotto il patto che teneva insieme la maggioranza. La crisi è evidente. In queste condizioni la destra non garantisce un governo al paese. E di fronte ai gravi problemi che bisogna affrontare, non si può più attendere che finisca il gioco del cerino».
Per questo, quando Berlusconi avrà parlato alla Camera e si procederà con le votazioni, il segretario del Pd si aspetta un atteggiamento «coerente» da parte del gruppo dei finiani. «Siamo di fronte a una politica avvilente e avvilita, pericolosamente lontana dai cittadini, non so come Berlusconi possa venire in Parlamento e dire che va tutto bene». È arrivato il momento di chiudere questa fase, per Bersani. Che però, rispetto anche a solo qualche giorno fa, rispetto ai passi successivi a una auspicabile crisi di governo si fa poche illusioni.
Bersani continua a ribadire che quando finalmente la crisi politica si tramuterà in crisi di governo la parola dovrà passare al Quirinale e continua ad auspicare un breve governo di transizione che modifichi la legge elettorale. Ma nelle ultime ore il leader del Pd si è andato convincendo che le urne si avvicinano. E si sta muovendo di conseguenza. Non a caso incontrando i segretari regionali e provinciali del Pd ha affrontato la questione di come dare «voce ai territori» nella compilazione delle liste. Non a caso ha detto ai dirigenti nazionali e locali di impostare come una vera e propria mobilitazione da campagna elettorale le tre settimane di “porta a porta” che partiranno il primo week end di novembre con 10 mila gazebo allestiti in tutta Italia. E non a caso ha avviato un giro di confronto con le parti sociali, illustrando quel che farebbe il Pd «se andassimo al governo domani».
CONFRONTO CON CONFINDUSTRIA
Lo ha fatto ieri a Genova, al convegno di Confindustria. In una quindicina di minuti ha dato rassicurazioni sul fatto che non intende impegnare il Pd in un’alleanza stile Unione «sono stato alla Festa di Rifondazione e Pdci e ce lo siamo detto chiaro, abbiamo già dato» perché «se c’è da governare non è cosa», e poi ha illustrato le proposte che lancerà il Pd con l’Assemblea nazionale dell’8 e 9 ottobre. A cominciare da «una riforma fiscale che alleggerisca il carico su imprese, lavoro e famiglie con redditi medio-bassi, caricando invece sui redditi da finanza e patrimonio». Ma di fronte agli imprenditori Bersani insiste anche sulla necessità di «un patto sociale», che però sarà difficile da raggiungere se il governo continua a lavorare per dividere il sindacato. Berlusconi ha anche questa responsabilità, per Bersani: «Se il governo accende i fuochi, chi è che poi li spegnerà?».
In sala gli applausi scattano più volte (in un’ora di intervento il ministro Sacconi non ne incassa neanche uno), quando Bersani assicura che non ci sarà un’alleanza con Prc e Pdci ma anche quando difende le liberalizzazioni e «un mercato pulito», criticando invece «i furbetti che si fanno le leggi per farsi gli affari loro». Poi va a sedersi e ascolta l’intervento della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, che dice al governo «stiamo perdendo la pazienza». Non è «la pazienza è finita» della campagna lanciata dal Pd, ma quasi. «Ci manca solo scherza Bersani con i suoi che dica anche rimbocchiamoci le maniche».

l’Unità 26.9.10
Marino
Pd, discutiamo con passione ma nelle sedi adeguate


Il senatore risponde a Pietro Ichino e Magda Negri che hanno firmato il documento Veltroni «Il discorso del Lingotto va integrato e sviluppato per candidarci a governare l’Italia»
Caro Pietro e cara Magda, la vostra riflessione su l’Unità di ieri mi offre l’occasione per approfondire e chiarire alcuni dei temi che ho affrontato alla Direzione Nazionale del Partito Democratico.

Da nativo del PD, non avendo mai avuto altre tessere di partito, condivido il percorso avviato da Walter Veltroni al Lingotto nel 2007 ma dobbiamo svilupparlo e integrarlo in modo dinamico e liberale, tenendo conto di una società che, spinta da sfide globali, come l’immigrazione, l’energia e la scienza non permette alla politica di addormentarsi né di portare nella borsa il libro delle ricette del secolo passato.
Io mi vergogno e, se possibile, mi adiro più di voi quando sento dire che non è il tempo giusto per proposte nette e moderne. Dieci giorni fa a Bruxelles, chiamato come presidente della Commissione di Inchiesta sul Servizio Sanitario italiano, mi sono sentito rimproverare da una europarlamentare olandese che in regioni come il Lazio l’obiezione di coscienza dei ginecologi ha superato l’80%, non garantendo l’applicazione della legge 194. L’Europa guarda con disorientamento all’Italia e si stupisce che esistano ancora paesi dove due persone dello stesso sesso non possano vivere la loro unione con il riconoscimento della legge. E quale ferita leggere, nell’estate scorsa, di ipotetiche “sante alleanze” che andrebbero dai Comunisti Italiani agli eredi del Movimento Sociale: non è questa l’amalgama che vorrei e che comunque non riuscirebbe a tenere insieme neanche il mago Merlino. Il Presidente del Consiglio ha realizzato in Italia il dantesco quadro: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province ma bordello» e proprio per questo il Pd deve prendere la guida e indicare la rotta sui temi che interessano le persone. Non possiamo perdere un solo istante per disegnare il Paese che ci impegniamo a realizzare: una scuola pubblica moderna non falciata, una sanità pubblica finanziata ma anche sottoposta a valutazioni e verifiche, un utilizzo delle risorse energetiche che provengono dal vento, dal sole e dal calore della terra, una cultura come obiettivo strategico e non vezzo collaterale. E poi, anzi, prima di tutto, il lavoro: con Cambialitalia realizzeremo a breve un incontro tematico dove, insieme a Pietro, spero di vedere tutti coloro che hanno un contributo da offrire a partire da Stefano Fassina, Cesare Damiano e Beniamino Lapadula.
Discutiamo con passione ma nelle sedi adeguate, con tutta l’energia e la convinzione che abbiamo e poi avanziamo la nostra proposta chiara e netta, nell’interesse di chi il lavoro lo vive e non solo ne parla. Ma soprattutto opponiamoci a questo vergognoso Governo, chiediamo di tornare alle urne per il bene del Paese e impegniamoci, con volti nuovi e credibili, a dimostrare che sappiamo leggere la modernità del nostro tempo e tradurla in programmi di governo.

il Fatto 26.9.10
Contro il governo intesa tra Cgil e Marcegaglia
Accordo tra parti sociali per reagire all’immobilismo della politica
di Salvatore Cannavò


“Imprese e cittadini stanno esaurendo la pazienza”, ha detto ieri il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, invitando però il governo ad “andare avanti” perché “ha il dovere di governare”. La tregua con la Cgil siglata ieri al convegno confindustriale di Genova sembra quasi indicare la nascita di un governo ombra “sociale”, contrapposto a un quadro politico che ormai sta stancando gli industriali. Anche nel '92-'93, nel solco della profonda instabilità creata da Tangentopoli, le parti sociali costruirono un clima di intesa e di equilibrio. Il fatto che il “disgelo di Genova” sia avvenuto in contemporanea allo scontro finale tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi fa pensare a una riedizione di quella stagione.
Le ragioni dell’accordo
L’INTESA con la Cgil era nell'aria e tutti ieri attendevano le parole del segretario generale Guglielmo Epifani e le conclusioni della Marcegaglia, nella giornata finale del convegno degli industriali a Genova. E l'intesa c'è stata. “Un bicchiere mezzo pieno” come l'ha definita la Marcegaglia: Confindustria e Cgil, dopo la distanza sull'accordo di Pomigliano (nello stabilimento Fiat), sono tornate a dialogare. Con inviti all'unità ma anche elogi alla Cisl di Raffaele Bonanni e alla Uil di Luigi Angeletti la leader degli industriali ha approfittato per lanciare un “Patto sociale per le riforme”. Cioè un tentativo di riunire attorno allo stesso tavolo la Confindustria, le altre associazioni imprenditoriali, tutti i sindacati “per un'agenda di riforme” a base di “ricerca, scuola, burocrazia, fisco, energia, mobilità e naturalmente contratti e relazioni sindacali”. Insomma, a Genova torna lo spirito fondativo della concertazione, quello che diede vita agli accordi di luglio del 1993 quando Cgil, Cisl, Uil, Confindustria e governo Ciampi firmarono l'intesa per agganciare gli aumenti salariali all'inflazione programmata.
A giustificare il clima solenne è stato soprattutto l'intervento di Guglielmo Epifani che doveva rispondere alla proposta fatta venerdì dal vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, di fare “il tagliando” all'accordo sul modello contrattuale del 2009 dando così modo alla stessa Cgil di sedersi nuovamente al tavolo, visto che all’epoca non l’aveva firmato.
Le concessioni del sindacato
EPIFANI NON HA deluso le attese di Confindustria. Dopo aver insistito sulla necessità che alla crisi risponda un “sistema-Paese” più efficace, con una politica di sviluppo industriale ed economico, il segretario della Cgil è intervenuto sul nodo complicato delle deroghe al contratto nazionale, condannando la pratica degli accordi separati ma indicando chiaramente la necessità di “innovare il sistema contrattuale” offrendo una proposta precisa: “Contratti nazionali più ampi degli attuali settori e più spazio alla contrattazione di secondo livello su orari e inquadramento”. Per inquadramento si intendono i livelli retributivi collegati alle mansioni, quindi anche il salario. “Un modo – dice Sergio Bellavita, della segreteria nazionale della Fiom – per svuotare il contratto nazionale perché con aumenti salariali vincolati all'inflazione, una volta spostato al secondo livello la trattativa su inquadramento e orari, del contratto nazionale resta solo la forma: ma chi ha deciso questa nuova linea?”. La proposta di Epifani è il frutto di un seminario interno della Cgil, tenutosi nei giorni scorsi a Todi, in cui quei due punti erano stati indicati come “cedibili” al negoziato. Epifani non parla di deroghe ma preferisce riferirsi a “nuove regole”, in cui inserisce l’ipotesi di una riforma della rappresentanza anche con referendum confermativi degli accordi in grado “di vincolare qualsiasi
organizzazione sindacale”. L'idea di “nuove regole” è stata subito accolta dalla Marcegaglia: “Quello che conta sono i contratti, non le parole, e a noi interessa l'adattabilità delle regole. Come ha giustamente detto Epifani abbiamo siglato nel 2009 ben 12 mila accordi; cerchiamo di fare 12 mila e uno”. Il riferimento ovviamente è alla Fiom che non ha voluto aderire all'accordo di Pomigliano e che ieri ha scioperato alla Sevel di Atessa (gruppo Fiat) contro gli straordinari di sabato. “Non vogliamo più il teatrino sindacale”, ha detto la Marcegaglia, riferendosi a pratiche sindacali “intollerabili” cioè contrarie agli accordi nazionali. Una richiesta, più o meno implicita, di risolvere il “problema Fiom” – a Pomigliano sono previste sanzioni per chi sciopera contro materie del contratto – e su cui Epifani non si è pronunciato. Cgil e Confindustria, dunque, confermano di non voler fare a meno l'una dell'altra. “La crisi della politica – ha commentato la Marcegaglia a margine del convegno spinge le forze sociali ad unirsi”. Se l'unione si tradurrà in accordi lo si vedrà nella discussione sul “Patto sociale per le riforme” che prenderà le mosse il 4 ottobre e che, nelle forme presentate ieri, condito anche da una presa di distanza dal “teatrino della politica”.

l’Unità 26.9.10
Intervista a Maurizio Landini
«Pronti a dialogare se prima si bloccano le trattative separate»

Il segretario Fiom: «Se venisse distrutto il contratto nazionale ci sarebbe uno strappo democratico non molto diverso da quelli di questo governo»

Tutto si può dire di Maurizio Landini, ma non che manchi di coerenza. Mentre il clima politico-sindacale si rischiara e le recenti aperture al dialogo tra Confindustria e Cgil promettono tentativi di disgelo, il segretario Fiom mantiene la linea tenuta finora. E sfida gli industriali a mostrare con fatti concreti lebelle parole pronunciate a Genova.
Il vicepresidente di Confindustria ha chiamato al confronto tutto il sindacato, anche quello che non ha firmato. Lei che cosa risponde?
«Se Bombassei vuole davvero ragionare con tutto il sindacato di crescita e competitività, allora deve invitare Federmeccanica ad interrompere le trattative separate con Fim e Uilm sul contratto dei metalmeccanici. Se Confindustria vuole davvero un confronto sulle regole rispettoso di tutte le parti, la prima cosa da fare è un accordo sulla democrazia e la rappresentanza sindacale».
Guglielmo Epifani, pur con cautela, ha risposto positivamente.
«Abbiamo recentemente fatto un seminario a Todi alla presenza di tutti i gruppi dirigenti della Cgil, ma nessun organismo direttivo del sindacato ha definito e approvato un piano di proposte. Mi limito ad osservare che se, nel frattempo, verrà distrutto il contratto delle tue blu, ci troveremo di fronte ad uno strappo democratico di Confindustria non molto diverso da quelli a cui ci ha abituato questo governo».
La presidente Emma Marcegaglia, però, ha preso le distanze dal governo. Pare abbia finito la pazienza. «Ma non si capisce che cosa debba riguardare il patto sulla produttività proposto dall’associazione. Finora Confindustria ha condiviso tutte le scelte del governo, compresi il piano di Sacconi per smantellare lo Statuto dei lavoratori e il condono fiscale. Sinceramente, accorgersi ora che siamo senza una politica industriale sembra una mossa politica in vista di possibili elezioni».
Purtroppo, però, risponde a realtà.
«Nel settore metalmeccanico siamo ben lontani dall’uscita dalla crisi, come dimostrano i settori della cantieristica, dell’automobile e degli elettrodomestici, dove la totale assenza di una politica di sostegno all’innovazione e alla ricerca ha effetti pesanti sui prodotti e sulle prospettive. All’estero si è scelto di sostenere le aziende che investivano e non licenziavano, qui ci si è limitati ad incentivi che, per assurdo, hanno favorito i prodotti più innovativi provenienti dall’estero».
E non abbiamo un ministro dello Sviluppo economico. «Da ben cinque mesi. Ma politiche di stampo europeo non si sono viste nemmeno quando un ministro c’era. L’unica politica industriale del governo si basa sulla limitazione dei diritti del lavoro. E questa arretratezza la sconta anche Confindustria, che sta usando la crisi per ridiscutere i contratti. Ma la produttività non si fa con lo sfruttamento, non si misura nella quantità, ma nel valore prodotto: il punto critico è la qualità della nostra produzione industriale. Anche per questo sarebbe un errore cancellare il contratto nazionale: le imprese devono competere da un certo livello in su, non al ribasso sul costo del lavoro».

Chi è
Il volto gentile e radicale dei metalmeccanici Cgil

Maurizio Landini inizia giovanissimo a lavorare come apprendista saldatore in una fabbrica metalmeccanica emiliana. Già segretario della Fiom di Reggio Emilia e dell’Emilia-Romagna, prima di entrare nella segreteria nazionale, dal luglio 2010 succede a Gianni Rinaldini e diventa segretario generale delle tute blu Cgil.
La Fiom continua a scegliere il conflitto. È una scelta che paga? «Noi stiamo semplicemente facendo il nostro lavoro di sindacato. Siamo senza una politica industriale, vogliono distruggere il contratto nazionale e chiudono le fabbriche: chiediamo solo che si affrontino i problemi delle persone che lavorano. E voglio ricordare che la Fiom è il sindacato che firma più accordi aziendali, come le imprese ben sanno».
La manifestazione Fiom del 16 ottobre ha forti contenuti politici. «Quella manifestazione nasce a Pomigliano, quindi ha contenuti decisamente sindacali. Ma certo la posta in gioco è alta la libertà dei lavoratori di contrattare la propria posizione e non riguarda solo le tute blu, ma tutti i lavoratori italiani. E solo attraverso la democrazia si può ricostruire l’unità sindacale: in caso di disaccordo tra i sindacati, o sono i lavoratori a decidere con il proprio voto, o solo le aziende a scegliere le organizzazioni che preferiscono».

il Fatto 26.9.10
Italia: notizie dai confini
L’uccisione della donna che ha denunciato lo stupratore della sua bimba, le intercettazioni di Cosentino inutilizzabili, Napoli di nuovo in fiamme: qualcosa lega questi fatti
di Furio Colombo


La frase è questa: “Lo so che poi tocca a me. Non è che mi faccio illusioni. Dico solo che qui siamo soli. Io vado avanti. Faccio il mio lavoro ma lo so che ogni giorno può succedere. Qui è così”. Voce di uomo, appena un po’ stanca, ma senza costernazione e senza lamento. È una mattina di settembre (mercoledì 22) , è un programma giornalistico quotidiano della radio di stato italiana (“Tutta la città ne parla”, RadioTre3, ore 10, conduce Giorgio Zanchini). La voce appena un poco stanca l’ho ascoltata dal luogo in cui una donna, Teresa Bonocore, era stata assassinata due giorni prima per aver denunciato e fatto condannare l’uomo che ha stuprato la sua bambina (e un’altra bambina) di otto anni. Colpevole o no, qui come nella vita politica della capitale, non importa il delitto, ma chi ti fiancheggia e chi ti protegge. E così Teresa Bonocore è stata uccisa da due ragazzi ventenni dietro compenso di cinquemila euro e la promessa di un posto di lavoro. Pochi giorni prima era stato ucciso il sindaco di Pollica (periferia di Salerno), Angelo Vassallo. Era solo, nove di sera, tornava a casa.
La voce appena un po’ stanca che riflette su questi delitti con il giornalista Zanchini è di Vincenzo Cuomo, sindaco di Portici, il borgo napoletano di Teresa Bonocore. Il sindaco parla alla radio di Stato della sua possibile uccisione, oggi, in Italia. E per quanto la trasmissione che diffonde quella voce sia unica per precisione e coraggio, non c’è, né sul momento né dopo, alcuna reazione o conseguenza o emozione o commento. Non so: un vescovo, un sociologo, la firma di un giornale, i cittadini.
Il caso Cosentino
C’È PERÒ una coincidenza. Quella stessa mattina la Camera dei deputati ha dovuto votare se permettere ai giudici di utilizzare le intercettazioni di un politico di rilievo, l’ex sottosegretario Nicola Cosentino, tuttora coordinatore del partito di governo (PDL) per la Campania, ovvero della regione di Pollica, di Portici, del sindaco ucciso e di quello che parla della sua possibile uccisione. E' la regione di Teresa Bonocore e del ben difeso stupratore di bambini, che però – si capisce – nella vita ha ben altri impegni. C’è esagerazione in queste righe? No, direi che c’è una triste pedanteria. Perché quelle intercettazioni richieste come prova processuale riguardavano l’accusa e l' arresto di un deputato potente per gravi reati di camorra. Non violavano il divieto di intercettare deputati perché le intercettazioni discusse riguardavano altre persone, e la presenza del deputato, allora al Governo (e il legame intimo con la malavita che le conversazioni registrate hanno dimostrato) è stata un importante imprevisto investigativo. Ma nessuno si preoccupi per eventuali offese ai diritti di personaggi eletti. Nonostante il peso e l’evidenza delle accuse e il legame di diretta responsabilità politica di Cosentino nei territori della morte di cui aveva parlato la mattina di quel giorno il programma di RadioTre dal titolo esemplare “Tutta la città ne parla”, la libera decisione dei deputati della Repubblica italiana è stata la seguente: 308 voti a sostegno di Nicola Cosentino, per impedire ai giudici di usare le intercettazioni che provano lo stretto legame del notabile politico con la camorra. 265 a sostegno dei giudici. Voto segreto che lascia capire che non tutti coloro che avevano annunciato di votare secondo la legge (che accusa Cosentino) lo hanno fatto. Evidentemente – voto segreto o no – qualcuno si è sentito a rischio. Chi ha verificato i tabulati suggerisce che persino dall’opposizione qualcuno si è messo al riparo dal rischio Berlusconi-Cosentino-camorra che, ammettiamolo, nell’Italia di oggi non è poca cosa.
Però qualcosa deve essersi incrinato nel filo di lunga armonia fra camorra e Governo. Tornano all’improvviso i cumuli di immondizia che bloccano Napoli. Ciascuna di queste storie spiega l’altra. I telegiornali mostrano le strade di Napoli come negli ultimi giorni di Prodi. Barricate di immondizia, popolazioni in rivolta nelle strade, camion di rifiuti incendiati, tumulti di donne contro i battaglioni di polizia in tenuta da sommossa, cronache concitate che non raccontano né l’inizio, né l’esito di ciò che sta accadendo. Si direbbe che il dio della camorra non è stato placato dai delitti, perché il sangue è il suo business (il sindaco di Portici, mentre parlava a RadioTre, ha elencato senza enfasi i nomi di altri sindaci uccisi, non la storia di anni, ma la cronaca di giorni). Il dio della camorra, che aveva realizzato il celebre miracolo (attenzione, è arrivato Berlusconi, oggi l’immondizia c’è, domani è sparita, strade pulite e cassonetti in ordine, mai vista una cosa simile?) adesso non si fida. Infatti il padrone di Cosentino appare rimpicciolito, spaventato dai suoi ribelli, troppa gente infida che lo sta abbandonando. Se c’è un patto, come farà – con tutta la buona volontà – a mantenere quel patto? La camorra non è un alleato politico che compensa questo con quello. È un socio d’affari . Se non vede dividendi, va a prenderseli. Per prenderseli entra in azione. Come fai a continuare a fidarti di un capo di Governo così piccolo, così debole, così distratto dalle vendette private? Ecco dunque che è guerra. Colpisce la sequenza dei fatti e la coincidenza dei tempi. Forse molti di noi, nell’euforia di avere notato l'inizio della caduta di Berlusconi, avevano prestato un’angosciata attenzione al furibondo vandalismo istituzionale che sta segnando quella caduta (distruggere dal bunker la terza carica dello Stato come modo di destabilizzare anche gli aspetti ordinari e quotidiani della vita pubblica e renderla impossibile). Ma non avevano previsto le conseguenze del frantumarsi di un patto fra illegalità e malavita, che controlla indisturbata un terzo dell’Italia, nonostante il tarlo di giudici ostinati, di sindaci che conoscono il proprio destino e lo possono anche raccontare a un Paese inerte, di poliziotti senza mezzi, persino senza benzina, che non hanno mai smesso di fare il proprio lavoro impossibile.
I precari del crimine
ECCOCI dunque al momento in cui la Repubblica Italiana fa il suo incontro, accanto al cadavere di Teresa Bonocore, con Enrico Perillo, di professione camorrista, che dal carcere è in grado di uccidere chi lo ha denunciato per lo stupro di una bambina e ci accorgiamo che – in questa scena – lo stupro è un dettaglio, l’uccisione è un lavoro quotidiano, (Roberto Saviano) gli esecutori di quel lavoro sono precari del crimine, che sparano a prezzi stracciati con la promessa di un posto, mentre sullo sfondo si accendono i fuochi di montagne di immondizia che rischiarano la torbida scena e danno un senso alla vita che stiamo vivendo e a quella che sta per venire. Ah, se avessimo un partito o uno schieramento politico per ritrovarci insieme a parlare di queste cose, a domandarci (ma per rispondere chiaro, subito): “Che cosa fare adesso? Che cosa fare dopo?”.

Repubblica 26.9.10
Se l'Europa caccia i Rom

di Nadia Urbinati

Forse, mai prima d´ora l´Unione Europea aveva attraversato una crisi così radicale. Non perché prima d´ora non vi fossero mai stati dissidi fra gli stati membri sulle politiche comunitarie, ma perché per la prima volta il dissenso riguarda i principi fondamentali sui quali l´Unione è nata. Il governo francese e quello italiano sono alla testa di questa crisi e portano la diretta responsabilità di un ritorno arrogante ad una politica delle frontiere quanto addirittura delle espulsioni di massa. L´Articolo 19 della Carta dei Diritti dell´Unione Europea stabilisce che «le espulsioni collettive sono vietate». Nel testo di questo articolo riecheggia la storia europea del Novecento, quelle terribili tragedie che portano i nomi di Olocausto, genocidio e pulizia etnica, la persecuzione e il massacro di individui colpevoli di appartenere a un gruppo etnico o nazionale o di professare una religione. Ebrei e gitani subirono morendo a milioni la conseguenza di una delle più orrende ideologie che abbia prodotto il nostro continente: la stigmatizzazione collettiva, la persecuzione di individui a causa della loro appartenenza a una comunità che non si conforma per una qualche ragione alla cultura e ai modi di vita della comunità nazionale di maggioranza. Le radici dell´Unione Europea sono nei campi di sterminio - da questa memoria occorrerebbe partire quando si giudicano le azioni dei governi.
Non consoliamoci dicendo che gli zingari espulsi in questi mesi dalla Francia, e quelli che il governo italiano promette di espellere ed espelle dal nostro paese, non sono spediti nei campi di concentramento; che, anzi, come nel caso francese, sono "invitati" ad andarsene e accompagnati alle frontiere con in tasca il biglietto di viaggio (di sola andata) pagato con le tasse dei contribuenti. La forma "civile" dell´accompagnamento al confine non cambia la natura gravissima del fatto al quale stiamo assistendo senza, purtroppo, preoccuparci abbastanza: una discriminazione collettiva, una violazione della libertà delle persone - tra l´altro europee - in ragione della loro identità, per ciò che sono. In violazione di un altro articolo della Carta dell´Unione, l´Articolo 21: «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l´origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l´appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l´età o le tendenze sessuali».
È triste e molto preoccupante che nessuna voce laica, nessuna voce politica si sia immediatamente alzata con chiarezza e coerenza per criticare queste proposte o decisioni, per esprimere dissenso e orrore per una pratica che il nostro governo ha reso se così si può dire ordinaria. È sconfortante vedere come la cultura dei diritti umani non sia patrimonio solido della politica culturale dei partiti e dell´opinione pubblica; come solo la Chiesa si alzi per criticare queste decisioni, che solo essa senta il dovere di ricordarci che il nostro paese, come la Francia, ha sottoscritto la Carta dei diritti e quindi anche gli Articoli 19 e 21; che dunque nessun governo europeo può autonomamente decidere in riferimento a una politica europea che stabilisce sostanzialmente il diritto di insediamento e di movimento; che i problemi di integrazione vanno affrontati con politiche di integrazione non con politiche di espulsione. Un discorso che è squisitamente politico e che, soprattutto, è essenziale per la vita dell´Unione. Eppure non sembra appartenere al linguaggio della nostra politica, dei nostri politici.
È significativo che questa recrudescenza della politica cosiddetta della sicurezza avvenga in queste settimane; significativo, perché sembra l´effetto di un´azione la cui regia fa capo a governi che cercano di distogliere con la propaganda contro i Rom l´attenzione per le difficoltà nelle quali versano le loro economie e di mettere a tacere la loro crisi di legittimità. È un caso che tra i punti del programma che il nostro governo ha sfornato (e del quale relazionerà tra qualche giorno il suo leader) vi sia in primo piano quello della sicurezza? È un caso che il Presidente Sarkozy, con un governo nella bufera per scandali e corruzione, con un consenso alle politiche economiche bassissimo, voglia distrarre l´opinione pubblica del suo paese aprendo un contenzioso con l´Unione Europea su un punto cruciale come questo? Il montante nazionalismo usato come espediente per salire nei sondaggi: in Italia come in Francia è questa la strategia che sta dietro la propaganda del "pugno duro" con gli zingari e gli immigrati. Anche a costo di mandare in frantumi una nobile cultura politica comunitaria. Il dissenso che si è aperto nell´Unione Europea prefigura una sfida gravissima ai valori dei diritti umani e della dignità delle persone sui quali è nata l´Unione.

l’Unità 26.9.10
Si è aperta ieri a Roma la due giorni di lavoro per il rilancio dell’istruzione pubblica
Oltre i tagli e gli addestramenti militari
Le ricette Pd per il rilancio della scuola
di Felice Diotallevi


Quattro gruppi di lavoro, due giorni di discussione, più di 300 fra insegnanti, esperti e sindacalisti. Si sono aperti ieri a Roma i lavori del Forum nazionale organizzato dal Pd sui problemi della scuola pubblica.

Il tempo pieno e il modulo a 30 ore con le compresenze nella primaria e un sistema di valutazione che aiuti le scuole a migliorare i livelli di apprendimento degli studenti. Sono alcuni dei punti sui quali verte la proposta del Pd «per una scuola pubblica di qualità» al centro, ieri e oggi, del forum organizzato dal partito a Roma, coinvolgendo circa 300 fra insegnanti, esperti, sindacalisti, rappresentanti delle associazioni di settore, divisi in quattro gruppi di lavoro. «Se il ministro Gelmini, dopo aver licenziato 132 mila fra insegnanti e collaboratori, si diverte con l’educazione militare insieme al ministro La Russa, il Pd ha affermato Francesca Puglisi, responsabile scuola dei Democratici è al lavoro per preparare la scuola pubblica aperta e di qualità di cui l’Italia ha bisogno per tornare a crescere». Da questo «percorso partecipato», dopo la prima Festa della Scuola a Bologna che ha dato avvio al confronto, nascerà la proposta complessiva che sarà presentata e discussa nell’assemblea nazionale del Pd, in programma a Varese l’8 e 9 ottobre. Tra le questioni ritenute prioritarie: l’investimento in educazione di qualità 0-6 anni, la necessità di «innovare profondamente» la scuola media e superiore, «partendo dalle buone pratiche didattiche sperimentate nelle scuole autonome, per combattere la dispersione scolastica e alzare i livelli di apprendimento degli studenti». Nel ventaglio delle proposte del Pd anche quella di tenere scuole aperte tutto il giorno e tutto l’anno «per far diventare la scuola il cuore pulsante delle comunità locali» e l’istituzione di un sistema di valutazione che oltre ad aiutare le scuole a crescere e migliorare i livelli di apprendimento degli studenti, sappia valorizzare i diversi percorsi di carriera degli insegnanti che si potranno realizzare all’interno della scuola autonoma.
«Una scuola responsabile, autonoma, capace di valutare ed essere valutata» è la ricetta proposta da Giovanni Bachelet, presidente del Forum. «Abbiamo voluto organizzare questa due giorni di seminari, aperta a tutti, anche ai partiti dell’opposizione ha spiegato inaugurando i lavori per capire dove è più urgente intervenire. Dove, da subito, dobbiamo mettere per prime le mani. La scuola del futuro dovrà formare cittadini anche nella personalità, intervenendo in senso civico e in senso di preparazione al lavoro, con insegnamenti continui che mirino ad elevare le capacità critiche». Punta più sull’autonomia, invece, Francesca Puglisi: «per dare gamba alla riforma del titolo V della Costituzione, e poi perché ce lo chiede la Ue». La responsabile scuola del del pd continua: «Nessuno meglio degli enti locali dice conosce bisogni educativi ed esigenze sociali del proprio territorio: l’istruzione italiana, nonostante tutto, si attesta su livelli d’eccellenza. Valorizziamo dunque le buone pratiche scolastiche, già esistenti nelle scuo-le dell’autonomia, che aiutano i ragazzi a raggiungere buon livelli di apprendimento». Per la puglisi «i gioielli di famiglia del settore sono, ad esempio le scuole primarie e dell’infanzia, il modulo della 30 ore di compresenza degli insegnanti, utilissime agli studenti rimasti un po’ indietro. Tutte cose che con i tagli della Gelmini possono essere svenduti».

il Fatto 26.9.10
Scuola, i sindacati uniti in piazza
La situazione è al collasso: Cgil, Cobas e gli altri sindacati di base devono trovare punti di convergenza: è ora di silenziare vecchi dissapori e fronteggiare l’emergenza
di Marina Boscaino


Da più di 2 anni la scuola italiana è in mobilitazione permanente. Vuoi nelle modalità collaborative e collegiali che appartengono alla bella cultura della scuola primaria, vuoi nella dimensione sfrangiata e quasi balbettante -spesso individuale che ormai da tempo caratterizza la superiore, la scuola protesta. È vero, sono stati i precari a restituirle la dignità del risveglio da lungo torpore; dallo stato di acquiescenza passiva che ne ha caratterizzato gli ultimi anni e ha confermato pericolose tendenze a divorare energie volontaristiche, entusiasmi a costo 0, che hanno tenuto a galla il sistema dell'istruzione, punte di diamante di una professionalità in declino, costretta da scelte bipartisan – prima tra tutte l'autonomia degli istituti – a convertire genuine vocazioni didattiche a logiche del mercato. Elemento neutro per gli strateghi del Miur – Gelmini, nonostante interrogazioni parlamentari, scioperi della fame, scuole al collasso continua nel suo silenzio autoreferenziale, confrontandosi solo con media compiacenti o interlocutori fidati -, la protesta ha riattratto la parte della società civile che avverte il disagio del presente. Varie le strategie di sensibilizzazione dei collegi docenti più motivati e responsabili: è bene, infatti, che più “utenti” (sic!) possibile capiscano che i tagli sul sistema-scuola non sono soltanto l'allontanamento coatto di 140.000 donne e uomini senza nome e volto. Ma si abbattono tragicamente sul funzionamento delle scuole. Non sto parlando di bonifica dall'amianto o messa in sicurezza degli istituti: sono progetti per un altro mondo. L'impoverimento nella scuola di tutti i giorni si tocca con mano: -72.4% i fondi per le supplenze; -50% i fondi per didattica e amministrazione; -25% per le pulizie. Il debito che il ministero ha contratto con gli istituti ammonta a 1,5 mld. Le scuole sono al collasso e si sostengono con gestioni virtuose dei pochi fondi che arrivano e al cosiddetto “contributo volontario” delle famiglie, che ormai è una tassa, di ammontare variabile e oggi sempre più adoperata per la gestione ordinaria. Che cosa succederebbe se le famiglie italiane decidessero di appellarsi alla “volontarietà” del pagamento e smettessero di versare, è facilmente immaginabile. Altrettanto immaginabile è cosa succederà se – come si sta proponendo – i docenti decideranno di smettere di fare attività aggiuntive; non accettare più nelle proprie classi studenti privi di sorveglianza di un docente assente o non aumentare il proprio orario contrattuale assumendosi gli spezzoni precedentemente assegnati ai precari, motivati e non sovraccarichi delle canoniche 18 ore: è questa la faccia più triste della strategia di “risparmio” che vari dirigenti scolastici attuano in mancanza di nomine. L'impoverimento dell'offerta formativa andrebbe a ricadere in primo luogo sugli alunni. Perché dovremmo cercare di attutire il disagio, di nascondere le difficoltà, che la “cura da cavallo” Gelmini-Tremonti ha creato e che si amplificano di anno in anno? È davvero civicamente responsabile ammortizzare i colpi del malgoverno e dello spregio che questa classe dirigente ha per la scuola pubblica? Una risposta l'avrei: chiedere ai più sensibili interlocutori dei lavoratori della scuola – la Cgil, i Cobas e altri sindacati di base– di trovare punti di convergenza per una giornata di sciopero unitario. È ora di silenziare vecchi dissapori e prepararsi a fronteggiare – insieme emergenze immediate e progetti di attacco a libertà di insegnamento e diritto alla dignità del lavoro.

l’Unità 26.9.10
I bambini e le nostre paure
di Andrea Boraschi


A Sonnino, qualche giorno addietro, è stato pacificamente risolto uno di quei casi piccini che, solitamente, rimbalzano sulle cronache nazionali per divenire presto parodia di guerre sante. Una madre di origine marocchina, residente da oltre un anno nella cittadina in provincia di Latina, era solita accompagnare il figlio all’asilo indossando un burqa (così stando alla stampa: invero, dalle foto che si son viste e dalla provenienza della signora, è più probabile indossasse un niqab). Ed ecco il “caso”: bambini così dicono – spaventati da questa insolita figura di genitore, mamme preoccupate per la reazione della loro prole e timorose per la non identificabilità di una persona che, pure, accede alla scuola quotidianamente. In molti cominciano a sollevare il problema, prima rivolgendosi alla direttrice dell’istituto poi al sindaco; con toni che non sono di ostracismo e che, tuttavia, chiedono soluzione a una controversia tanto culturale quanto pratica. E la controversia si risolve presto e serenamente: la donna e suo marito, imam, acconsentono a che il volto di lei rimanga scoperto all’interno dell’asilo. Niente più paura di quella “maestra nera” (così pare l’avessero ribattezzata i bambini), niente più dubbi sull’identità di chi entra, esce, porta via un minore affidato alla scuola.
Non è banale che la storia si sia risolta così, presto e con la disponibilità di tutte le parti a trovare un compromesso ragionevole. Ma il buon senso mostrato da chi, suo malgrado, ne è stato protagonista non risolve le questioni profonde che vi sono a monte. Incidentalmente chi scrive è padre di una bimba di poco più di due anni, che frequenta un asilo. In circostanze analoghe non sarei stato tra coloro che hanno chiesto alla madre maghrebina di scoprirsi il volto. La questione “identificabilità” di chi accede a una struttura simile è risibile: non ce lo vedo proprio no un malintenzionato che per non essere riconosciuto decide di indossare un velo integrale. Per il resto avrei parlato, qualora ve ne fosse stato bisogno, con mia figlia. Spiegandole qualcosa che non conosce e iniziando a farle capire che il mondo è un luogo ricco di infinite varietà di costumi, usi, credi, tradizioni. Non tutti condivisibili: ma tutti da rispettare sin quando non minacciano o ledono la nostra vita. Sapendo che i bambini possono sì coltivare paure, ansie: ma che spesso le riservano per cose che noi troviamo innocue e altre volte le ignorano per ciò che invece, a torto o ragione, ci fa davvero paura.
Quegli stessi bambini proverebbero disagio o timore di fronte a un uomo, genitore di un loro compagno di scuola, vestito da donna? E dinanzi a un “punkabbestia”? A una mamma maniaca del piercing? O forse la proverebbero, inducendola e coltivandola in loro, gli altri genitori?

il Fatto 26.9.10
L’appello dei Verdi: “Lavoriamo insieme”


È finita l’esperienza dei Verdi. Il “Sole che ride”, nato nel 1986 a Finale Ligure, tramonta per lasciare il posto ad un “nuovo soggetto ecologista, che nascerà dopo una Costituente, dal basso, ma che può già vantare le firme di personalità” come il meteorologo Luca Mercalli, il geologo Mario Tozzi e addirittura il regista Mario Monicelli. Angelo Bonelli, che nella storia dei Verdi sarà l’ultimo presidente, lancia un appello al Movimento 5 Stelle: “Il dialogo importante, possibile e concreto lo vedo con la gente di Beppe Grillo. Magari lui risponderà picche, ma sarebbe un buon segnale per il Paese. Poi, sia chiaro, non sto chiedendo a Grillo di dialogare con me, ma un confronto permanente con i nostri militanti e con i firmatari di questo nuovo progetto”, fra cui anche il comico Giobbe Covatta, la regista Francesca Comencini e l’economista Loretta Napoleoni.
LA SINISTRA? Dopo anni in cui i Verdi hanno camminato al fianco dei partiti della sinistra radicale, l’altra svolta di Bonelli è quella di abbandonare questo schema: “L’ecologia non è di sinistra, è un patrimonio di tutti i cittadini, quindi dobbiamo riuscire ad essere trasversali. Perché non è più accettabile che in Italia il movimento ecologista sia marginale. Se in Germani si può ottenere il 24 per cento e il 16 in Francia, dove è stata fatta un’esperienza analoga a quella che vogliamo avviare ora noi, si può anche qui. Ma andare oltre la destra e la sinistra – qui Bonelli parla proprio come Grillo – è quindi essenziale, anche perché non dimentichiamo che giunte di centrosinistra hanno cementificato interi pezzi d’Italia”.
VENDOLA ADDIO. Anche con il compagno Nichi Vendola, nel cui partito (Sinistra ecologia e libertà) sono confluiti pezzi della formazione di Bonelli, le strade si dividono nettamente: “Chi è andato con Vendola si è dato un obiettivo comprensibile e rispettabile: quello di rifare la sinistra. Noi abbiamo tutto un’altro progetto per il futuro. Per questo, ribadisco, l’unico vero dialogo possibile oggi lo vedo con il movimento di Grillo, il più sensibile a tematiche come le nostre”. Nel nuovo documento ecologista, infatti, si legge: “Va cambiato l’attuale modello di sviluppo economico e di consumi, responsabile dei cambiamenti climatici e globali in atto, basato sull’uso delle fonti fossili e su un consumo senza limiti delle risorse naturali, su produzioni intensive animali, che ha generato e genera nella Terra povertà, squilibri e guerre”. Per Bonelli “il nostro è un atto di amore e di coraggio, superarci per riaggregare”.

il Fatto 26.9.10
“La Chiesa risponderà di crimini contro l’umanità”
Prevista per fine ottobre a Roma una manifestazione internazionale contro il Vaticano
Nasce a Verona l’associazione italiana delle vittime dei preti pedofili sul modello americano
di Marco Politi


Le vittime cercano la     parola. Uomini e donne abusati dai preti nell’infanzia escono allo scoperto per rivendicare i loro diritti. A Verona li ha invitati il Gruppo “La Colpa”. Sono un centinaio di persone venute alla Gran Guardia, praticamente di fronte all’Arena, all’insegna di un manifesto dove un ragazzo trascina la sua croce, issato sulle spalle di un chierico minaccioso. Tra loro una quarantina di vittime e familiari. L’atmosfera è molto particolare. Loro, ex ragazzi con i capelli un po’ spruzzati di grigio, si sono ritrovati con il coraggio, la timidezza, la speranza e l’imbarazzo di chi per la prima volta in Italia deve dire all’opinione pubblica “Subivo in silenzio”. Tra gli stuprati c’è chi parla, chi si limita ad ascoltare, chi si nasconde, chi non se l’è sentita di venire e affida il suo racconto ad una mail. Fa impressione vedere qualcuno degli ex allievi del “Provolo” (l’istituto veronese per sordomuti, gestito dal clero, dov’è scoppiato uno scandalo nazionale) che articola faticosamente le parole, mimando il suo irrigidirsi quando il prete o l’assistente laico cominciava ad accarezzarlo. Gianni Bisoli racconta al Fatto il suo calvario iniziato a 13 anni con il prete che lo seguiva in bagno, lo chiamava di notte dal dormitorio, se lo portava in giro in macchina e lo sodomizzava. Per quattro volte, racconta, fu portato anche dal vescovo dell’epoca, che lo molestò. C’è chi comincia il suo racconto e bruscamente lo interrompe, perché non ce la fa a proseguire. Francesco da Padova ce la fa. E ricorda quei preti e quelle suore, che con la scusa di punire iniziavano a toccare. La cosa peggiore, dice, era sapere che i genitori non avrebbero creduto o avrebbero minimizzato: “E allora ti senti in colpa e anche bugiardo”.
Regalini, dolcetti e caramelle
INTERVIENE una donna ed è felice di non dover tacere. “Scusate se parlo disordinatamente – dice – perché sono tesa”. Ricorda le confessioni con il prete, che le chiedeva dove si grattasse sotto la gonna. Tornano ossessivamente nei discorsi i “regalini” dei predatori alle vittime. La caramella, il dolcetto, il gelato. Tra i messaggi di chi ha avuto vergogna a venire c’è quello di un uomo, che odia ancora oggi la “caramella al rabarbaro” e non ha dimenticato la riposta che il vescovo della sua città diede a sua madre, che era andata a denunciare le molestie del sacerdote amico di famiglia: “Il vescovo sconsigliò assolutamente di fare denunce per il bene mio (che ero adolescente) e per non dare dolore alla madre del prete!”. Una reazione classica da parte della gerarchia. “In Italia – sottolinea Salvatore Domolo, ex sacerdote e uno degli organizzatori del convegno – si è tentato di distinguere il prete pedofilo dall’istituzione, dimenticando l’assoluta complicità della gerarchia in questo enorme crimine”. C’è sempre stato il silenzio e l’atteggiamento della Chiesa di voler “difendere la propria immagine”, risolvendo il problema attraverso lo spostamento del colpevole da una parrocchia all’altra. Anche Domolo, che si è sbattezzato nel 2009, quando era ragazzo è stato abusato da un prete, poi si è fatto prete lui stesso e quando sono riemerse le angosce il suo padre spirituale lo accompagnava personalmente (e assisteva) alle sedute di terapia. “Così l’istituzione controlla. E quando non controlla, tenta di spiritualizzare il problema”, affogandolo nell’ideologia di una prova di sofferenza redentiva.
Ma i conti non tornano. Un messaggio arrivato al convegno è un grido: “Dall’età di dieci anni, hanno abusato di me per quattro anni. Poi ne sono uscito. Sono infelice. Ho perso il lavoro, ho tentato per tre volte il suicidio, il matrimonio è fallito, i figli mi odiano. Ho paura di avere tendenze pedofile, guardo i ragazzi in piscina... aiutatemi prima che mi uccida!”.
Francesco Zanardi di Savona si è trasformato da vittima in detective. Racconta che il pretepredatore Luciano Massaferro, già condannato a tre anni di carcere, se n’è andato in Svizzera e ora è tornato segretamente in Liguria. Un altro prete pedofilo pakistano, Yousuf Dominic, cacciato da Londra, emigrato nel Texas dove ha commesso altri crimini, aveva trovato ospitalità recentemente in un convento ligure. (Forse sentendosi scoperto, è morto d’infarto pochi giorni fa).
Testimonianze infinite. Ma nel convegno ci si è presi l’impegno di costruire una rete, un coordinamento delle “vittime italiane” per farsi sentire come negli Stati Uniti, in Irlanda, in Germania. A Roma, preannuncia Marco Lodi Rizzini, è in programma per il 31 ottobre una grande riunione delle associazioni internazionali di abusati dal clero per chiamare il Vaticano alle sue responsabilità. “Crimini contro l’umanità”, è l’accusa riecheggiata a Verona.
Perché l’inerzia della gerarchia è diffusa. A Verona, dopo violenti polemiche, il vescovo Zenti e il rappresentante delle vittime del “Provolo”, Giorgio Dalla Bernardina, si sono incontrati a luglio per deporre le armi ed è stato deciso di istituire una commissione d’inchiesta. Don Bruno Fasan, portavoce della diocesi, comunica che una prima relazione è già stata mandata nel 2009 alla Congregazione per la Dottrina della fede. Ora, spiega, sono
in corso audizioni degli ex allievi del “Provolo”. Replica Dalla Bernardina: “Tutte parole, niente fatti, Chiediamo un confronto pubblico tra le vittime e i colpevoli”.
E il cardinal Bagnasco non risponde
NEGLI ALTRI PAESI europei l’episcopato ha istituito commissioni d’inchiesta, numeri verdi e responsabili nazionali per ascoltare le vittime. In Italia non è successo finora nulla. Domani si riunisce il Consiglio permanente della Cei. C’è da vedere se porterà novità. Intanto Roberto Mirabile, presidente dell’associazione anti-pedofilia “Caramella Buona”, sta cercando da mesi di incontrare il cardinale Angelo Bagnasco per informarlo di due gravi casi. Il cardinale non vuole, il segretario non dà risposte, la segreteria telefonica è muta.

Corriere della Sera 26.9.10
Preti pedofili, le nuove denunce


VERONA — «Vorresti fermare il prete pedofilo che è lì, accanto ai bambini». È il sentimento nelle vittime di abusi sessuali commessi all’interno della Chiesa. È emerso durante il primo incontro pubblico «Noi vittime dei preti pedofili» nel Palazzo della Gran Guardia. «Vogliamo far vedere che esistiamo, che non possiamo più essere messi a tacere e che non siamo statistiche ma esseri umani» hanno detto. Una cinquantina di mail di denuncia di altri casi sono arrivate al gruppo «La Colpa», promotore dell’incontro. Lo ha spiegato Mario Lodi Rizzini, fratello di una delle sordomute dell’Istituto San Provolo di Verona, dove — secondo testimonianze dettagliate — ci furono numerosi casi di abuso.

Repubblica 26.9.10
La macchina da guerra che schiaccia il dissenso
di Eugenio Scalfari

Da un lato Gianfranco Fini e la famiglia Tulliani, dall´altro il comunicato di un ministro della Giustizia dell´isola caraibica di Santa Lucia, i giornali della famiglia di Silvio Berlusconi e lo stuolo di «aiutanti» che si sono prodigati per incastrare il presidente della Camera.
La posta dello scontro è la distruzione politica dell´uno o dell´altro con le conseguenze che possono derivarne per tutto il paese. Esamineremo tra poco queste conseguenze, ma prima dobbiamo mettere a fuoco il video con il quale Fini si è ieri sottoposto al giudizio dell´opinione pubblica nazionale e internazionale.
A tale proposito e a titolo di premessa anticipo una riflessione: la risposta di Fini è comunque tardiva, poteva e doveva arrivare molto prima, subito dopo le notizie pubblicate dal "Giornale" di Feltri. Il presidente della Camera disse allora con una pubblica dichiarazione (e l´ha ribadito nel video di ieri) che nulla aveva mai saputo fino a quel momento della vicenda concernente l´abitazione di Montecarlo a suo tempo venduta ad equo prezzo (secondo le valutazioni di allora) da Alleanza nazionale che ne era proprietaria. Aggiunse che il coinvolgimento di suo cognato in quella vicenda gli aveva causato un forte disagio. Alle parole avrebbero dovuto seguire i fatti e cioè la netta separazione tra lui e la famiglia Tulliani.
Comprendiamo benissimo che un comportamento del genere implicava non solo interessi ma soprattutto sentimenti, ma la responsabilità istituzionale avrebbe dovuto far premio su ogni altra considerazione anche a costo di mettere in gioco un assetto privato molto delicato.
Si parla spesso (e non sempre a proposito) dell´autonomia della politica. Ma questo concetto non può essere invocato soltanto per rivendicare i diritti, bensì anche i doveri che l´autonomia della politica impone a chi ne è protagonista. Fini non separò le sue responsabilità da quelle della famiglia. È stato un grave errore che ha purtroppo aperto la strada ad un imbarbarimento senza precedenti del quale Fini è stato al tempo stesso inconsapevole artefice e vittima, di fronte alla spregiudicatezza estrema del suo avversario sulla quale nessuno che lo conosca poteva aver dubbi. Chi ne ha sofferto il danno maggiore sono state le istituzioni della Repubblica e il danno non ha ancora terminato di generare i suoi effetti.
Ciò detto esaminiamo la risposta del presidente della Camera.
* * *
La risposta, cioè la verità di Fini, ribadisce i seguenti punti: Fini nulla sapeva. Apprese solo un mese fa che suo cognato era affittuario dell´appartamento di Montecarlo. Mostrò disagio, ebbe una violenta lite in famiglia, invitò il cognato a disdire il suo contratto di locazione e ancor oggi ha ripetuto l´invito con molto vigore.
Suo cognato continua a smentire privatamente e pubblicamente di essere non solo il locatario ma anche il proprietario dell´appartamento in questione. Fini ne prende atto ma dubita che il cognato dica la verità. Se sarà accertato dalla magistratura o da altra fonte ufficiale che suo cognato ha mentito e gli ha mentito, darà le dimissioni da presidente della Camera non perché abbia una responsabilità in quanto è accaduto ma per rispetto dell´etica pubblica che gli sta particolarmente a cuore. Contro di lui è partita una vergognosa campagna di killeraggio nel momento in cui ha manifestato un legittimo dissenso politico rispetto alla linea del partito di cui è stato cofondatore. Questa campagna è stata condotta da giornali di proprietà della famiglia Berlusconi e da televisioni asservite ai suoi ordini e ai suoi interessi.
Tali metodi sono stati adottati non solo contro di lui ma contro chiunque dissenta dalla voce del padrone. Questa è una gravissima ferita inferta alla democrazia. Riconosce d´aver commesso qualche ingenuità. Ma nessun reato è stato compiuto da nessuna delle persone implicate in questa vicenda nella quale non sono in gioco soldi pubblici e interessi della pubblica amministrazione. Infine per quanto lo riguarda non ha alcuna responsabilità in una vicenda privata che riguarda un appartamento di 50 metri quadrati.
Fin qui il video-messaggio del presidente della Camera il quale ha accompagnato queste sue dichiarazioni sui fatti ad una durissima requisitoria contro lo stile di governo e l´atmosfera di killeraggio che è diventata purtroppo una nota dominante e può colpire chiunque dissenta dal potere berlusconiano.
Oltre a prendere atto delle affermazioni di Fini, molte delle quali sono a nostro avviso pienamente condivisibili, bisogna anche leggerne in controluce alcuni passaggi.
Soprattutto quello che riguarda la sua «ingenuità» e la lite in famiglia quando alcuni fatti compiuti sono arrivati a sua conoscenza.
Abbiamo già scritto all´inizio che l´ingenuità - evidentemente connessa ai sentimenti più che ad un attento esame dei fatti - comporta un prezzo da pagare. Fini si è impegnato a pagarlo con le dimissioni se il fatto della proprietà del cognato (che non è un reato) sarà accertato.
Questa posizione è fragile. Ci si aspettava che Fini esibisse la prova che la proprietà non è di Tulliani ma questa prova non è stata data. Lo stesso Fini dice di dubitare della parola di Tulliani. Sarà quindi difficile che resista a lungo in una posizione di evidente difficoltà.
Resta un problema che ci porta ad esplorare che cosa è veramente accaduto a Palazzo Grazioli e dintorni. È accaduto ciò che sappiamo da tempo e che siamo in grado di prevedere in anticipo: la macchina da guerra berlusconiana entra in funzione per colpire il dissenso e per proteggere gli amici e gli amici degli amici. Se Fini si fosse sottoposto, la macchina da guerra contro di lui non avrebbe colpito. Ma per difendere Cosentino da ben altre colpe la macchina da guerra berlusconiana si è mossa, togliendo dalle mani dei giudici un elemento decisivo per le sorti del giudizio, cioè le intercettazioni dalle quali emergerebbe la prova dei legami tra l´imputato e le cosche camorristiche. Quell´elemento non soltanto non sarà reso noto alla pubblica opinione ma non potrà essere utilizzato in processo, per i giudici sarà come se non sia esistito.
A questo risultato la macchina da guerra è arrivata con l´intimidazione, le promesse, le lusinghe, la compravendita delle persone e del loro voto. Si parla molto di trasformismo, ma non è soltanto di questo che si tratta.
Il trasformismo è un vizio antico delle democrazie, in Italia particolarmente diffuso. Il voto di scambio, ottenuto attraverso la concessione di benefici o la minaccia di ritorsioni, è invece un reato previsto dal codice penale e come tale andrebbe perseguito.
Per concludere su quanto è accaduto a Palazzo Grazioli e dintorni: il caso Fini ha dimostrato per l´ennesima volta la natura del potere berlusconiano che si regge sullo slogan «o con me o contro di me», sul belante ritornello del «meno male che Silvio c´è» e sul dossieraggio ricattatorio come pratica di governo.
* * *
Le conclusioni di questa avvilente vicenda mi sembrano le seguenti: le elezioni si allontanano di qualche mese ma non di più. La legge elettorale resterà quella che è, strumento formidabile di pressione e corruzione. Le ipotesi di un terzo polo si fanno evanescenti perché anche Casini è nel mirino della macchina da guerra berlusconiana che alterna nei suoi confronti lusinghe e minacce. Berlusconi imporrà al Parlamento la legge sul processo breve e ritirerà fuori quella sulle intercettazioni.
Intanto l´economia è ansimante, la coesione sociale è a pezzi e nessuno se ne dà carico. Un bilancio che dire sconfortante è dir poco.

Corriere della Sera 26.9.10
«Hitler? Un grande uomo» Il viaggio-provocazione di Irving
Il negazionista guida in Polonia un gruppo di nostalgici
di Luigi Ofeddu


FORESTA DI POZEZDRZE (Polonia) — «Attenti, c’è un uomo fra quegli alberi, può essere uno di loro: lei non ha idea, i miei nemici arrivano dappertutto». Il professore afferra il fischietto che porta al collo, e soffia forte: chiama Jannette, la sua giovane assistente americana, perché dia un’ultima occhiata nel bosco. Lei arriva, con un altro fischietto e uno spray contro le zanzare: i «nemici» sono loro, oggi. David Irving si riferiva però ad altro: «ambienti ebraici, sì, anche se io ho avuto buoni rapporti con ebrei come Steven Spielberg o Walter Matthau…». E poi, coloro che lo chiamano negatore dell’Olocausto: «Io però non nego. Io s t udi o. Mi c hi a mi un c a ne sciolto, se proprio vuole...».
Ma qui nella foresta di Pozezdrze, sui laghi Masuri, dove si nasconde il quartier generale in rovina di Heinrich Himmler, a contestare Irving oggi non c’è nessuno. Gli 11 uomini che lo seguono in fila indiana fra i larici sono infatti gli iscritti — 2.650 dollari l’uno — al suo «tour storico» di 8 giorni nei luoghi del genocidio, nel lager di Treblinka, nella «Tana del lupo» di Hitler, e così via. Girano in segreto, spiegano, per evitare incidenti. Della comitiva fanno parte due signore, che però oggi sono andate a far compere. E alla Tana del Lupo, compariranno anche due mai invitati: poliziotti polacchi in borghese, che fotograferanno il gruppo da lontano.
Gli 11 «turisti» vengono da Germania, Usa, Gran Bretagna, e così via. C’è anche un australiano. Uno indossa una camicetta hawaiana, uno — Leroy, dell’Arizona — il cappellino di un gruppo cristiano integralista, tutto stampigliato: la sagoma degli Usa trafitta da una spada posata su una bibbia, e lo slogan: «Le Sacre Scritture per l’America». L’australiano raccoglie un frammento del bunker: «Per ricordo…». E chiacchiera con un gallese sulle prospettive dell’eugenetica. Un altro spiega: «Sapete, tutte le finanze dei re d’Europa le controllavano loro. Loro, gli ebrei…». Nei discorsi ricorre poi un «lui», Adolf Hitler: «Lui parlava tranquillo, fuori dai comizi: esiste un nastro con la sua voce "vera", io l’ho sentito. Lui per l’America è come Saddam Hussein: ne hanno fatto dei diavoli». Altre spiegazioni non servono, il linguaggio è a tratti quello di una confraternita.
L’età media dei «turisti» è sui 50 anni. Se si chiede loro una foto di gruppo, scatta il monito: «Sì, però il professore di faccia, e noi tutti di spalle». E niente cognomi: temono, spiegano anch’essi, «i nemici, che sono organizzatissimi in tutto il mondo».
E credono, invece, a quel che dice ora Irving: «Per questo siamo venuti, per documentarci. Ma non siamo nazisti». Irving scherza, bussa alla pietra dello spettrale bunker: «Herr Heinrich, ci senti? Lo sappiamo che hai fatto tutto tu, e il Führer non sapeva nulla...». Poi, serio: «Certo fa impressione star qui, perché qui vissero alcuni degli uomini più importanti d’Europa negli ultimi 500 anni...».
Irving sta scrivendo le sue memorie («Saranno dinamite!») e un libro su Himmler, e il terzo volume della biografia su Churchill: dice di avere indizi sul fatto che Hitler sapeva poco dell’Olocausto. Quanto agli altri enigmi, la sua versione la condivide ora con i «turisti»: «La Gestapo? Grandi poliziotti. Auschwitz? Fino a 300 mila vittime. Treblinka? Fino a 800 mila... Io non minimizzo, aspetto smentite. Sono pronto a cambiare idea. Ma di queste cose non voglio parlare qui in Polonia: possono arrestarmi, come in Austria». Altre domande fioccano: «Von Stauffenberg, l’ufficiale che attentò a Hitler? Un traditore». E Hitler, Hitler? «Un uomo grandissimo, uno dei più grandi europei nei secoli. Però sapeva essere molto crudele. Non era immorale, ma si circondò di gentucola. E poi, non seppe fermarsi. Ma per 6 anni, tenne testa a tutte le potenze del mondo. Proprio come Annibale: solo che nessuno ha mai negato la grandezza di Annibale».
Irving, lui, si presenta invece come un signore britannico estremamente cortese. Un britannico stregato da Hitler, e tuttavia non un uomo cui sia estranea la cognizione del dolore: «La mia figlia più grande è con gli angeli. Paralizzata e senza gambe per un terribile incidente, si tolse la vita poco prima del mio processo: e nei 14 mesi passati nella prigione austriaca, non c’è stato un solo giorno in cui io non abbia pensato a lei».

Alla sera, cena tutti insieme in una saletta dell’albergo, Irving a capotavola. Appena seduti, una voce forte e chiara fra loro: «Ehi, ma che odore, qui. Sembra di essere in una camera a gas». Alcuni tacciono. Diversi ridono.

Corriere della Sera 26.9.10
Lettere, appunti e correzioni: i bauli segreti di Kafka
di Francesco Battistini


I dieci forzieri aperti rivelano un patrimonio di manoscritti e missive. Ma infuria la battaglia tra Israele e Germania per aggiudicarseli

GERUSALEMME — «Non è una fortuna: è un tesoro». Chi quest’estate ha aperto i dieci forzieri coi manoscritti di Kafka, sei in una banca di Tel Aviv e quattro in un caveau dell’Ubs di Zurigo, a bocca aperta ora confida: «Non è immaginabile quel che c’è lì dentro. Centinaia di documenti. Lettere che Kafka scriveva a Thomas Mann e ad Arthur Schnitzler, a Stefan Zweig, a Jaroslav Hašek, a scrittori di tutt’Europa. Un elenco infinito. È come se la gente, a quei tempi, non facesse che scrivere...». C’è di tutto, lascia ora filtrare un giornale israeliano. Inediti da catalogare con pazienza: il block notes che lo scrittore usava per imparare l’ebraico (come si dice funerale? Come si scrive stupidità?), e poi appunti di vita quotidiana, il manoscritto del racconto Preparativi di nozze in campagna, la famosa Lettera al Padre, note e correzioni a margine del Castello, un promemoria per Riccardo e Samuele (romanzo mai finito), pagine di riflessioni indirizzate a Kurt Tucholsky e a Franz Werfel... «Una cosa si capisce: quando potremo leggere quelle carte, avremo recuperato solo una piccola parte d’una montagna di parole perdute per sempre».
Kafka bruciò il novanta per cento della sua produzione letteraria originale, ricordava ieri il «New York Times». Di quel che resta, due terzi sono a Oxford. E l’ultimo terzo sta in quelle casseforti: manoscritti che da quarant’anni sono al centro di un’interminabile contesa cultural-diplomatica fra Israele e la Germania, d’una sfinente sfida legale tra avvocati di eredi, privati e di fondazioni pubbliche. Da una parte, chi considera Kafka uno scrittore soprattutto ebreo e vorrebbe che tutto quel materiale restasse alla Biblioteca nazionale di Gerusalemme; dall’altra chi vorrebbe riavere gli originali nelle biblioteche tedesche, lingua in cui per altro il boemo austroungarico Franz scriveva. Mai s’era visto un conflitto simile fra istituzioni culturali dei due Paesi. Conflitto che scoppiò nel 1973, all’aeroporto Ben Gurion, quando una mite signora fu bloccata alla dogana israeliana con valigie piene di carte, destinazione Germania: era Esther Hoffe, segretaria e amante dello scrittore Max Brod morto quattro anni prima, intimo di Kafka. Sionista, nel ’39 Brod era scappato dai nazisti e a Tel Aviv — venendo meno alle volontà dell’amico Franz che avrebbe voluto fossero bruciati — s’era portato quei manoscritti, La metamorfosi e Il castello compresi, per regalarli infine all’amata assieme alle chiavi delle cassette di sicurezza. Assediata dai gatti e dai debiti, nel suo appartamentino telavivi al pianoterra del 23 di Spinoza Street, casette Bauhaus scrostate e puzzolenti in una vietta alberata dalle parti della centralissima Rothschild Avenue, Esther aveva cominciato a vendere tutto: due milioni di dollari per l’originale de Il processo, a Londra, più altre carte che ancora circolano nelle case d’aste europee e americane. Quando la signora Hoffe fu fermata, partì un processo per illegittima custodia che ancora dura alla corte di Tel Aviv, un’inchiesta sopravvissuta alla vecchia Esther, morta nel 2007, e che al momento coinvolge le di lei figlie, Hava e Ruti, quanto mai decise a nascondere nelle banche e a non mollare il malloppo se non ai tedeschi (che al contrario degl’israeliani sono disposti a pagarlo).
Ora che il contenuto dei forzieri è noto, gli appetiti crescono. «Quel mate r i a l e a p p a r t i e n e a Ger u s a - lemme — dice Mark Gelber, dell’università Ben Gurion —, come quello dell’ebreo Einstein. Kafka era sionista, si preparava a partire per la Palestina». «Quei documenti sono in tedesco — ribatte dalla Germania il più importante biografo kafkiano, Reiner Stach —. Definirli un’eredità della cultura israeliana mi sembra fuori luogo. In Israele, a Kafka non hanno dedicato nemmeno una strada». «Vorrei chiedere ai tedeschi — è la replica di Ilana Haber, direttrice degli archivi israeliani —: che sarebbe stato di Kafka se, anziché morire nel ’24 di tbc, fosse vissuto più a lungo? Sarebbe finito ad Auschwitz, come la sua famiglia». Il processo, kafkiano assai, continua.