l’Unità 21.9.10
Anniversari A cent’anni dalla nascita, il suo pensiero rimane profetico, inquieto e modernissimo
Sfide Provocatoriamente ottimista, negli ultimi anni mise l’individuo al centro del suo pensiero
Foa, storia di un antifascista che non si sentiva vittima
di Bruno Gravagnuolo
La freschezza del suo pensiero, le sue posizioni sempre un «passo oltre il novecento», la capacità di sfidare le troppe certezze della sinistra italiana. Era nato cent’anni fa, Vittorio Foa: eppure ci pare ancora tanto giovane.
Vittorio Foa lo abbiamo conosciuto a Roma negli anni 90 e andavamo ad incontrarlo a Via degli Avignonesi, stradina parallela della celebre Via Rasella, in una casetta dove abitava con la seconda moglie Sesa Tatò. «Vai a sentire cosa dice Foa», ci
dicevano al giornale, allora diretto dal figlio di Vittorio, Renzo. Invito tante volte reiterato anche dopo che Renzo Foa non fu più direttore, e accolto sempre di buon grado anche perché, era a due passi da Via Due Macelli traversata via del Tritone eri già lì ma soprattutto perché incontrare quel vecchio signore circonfuso di leggenda era un privilegio. Arrivavi e lui già ti squadrava benevolo, con gli occhi chiari dietro quelle spesse lenti, in camicia a scacchi e bretelle.
Quel che ci colpiva di più? La bonomia, l’antiretorica, e l’apertura curiosa verso l’interlocutore, venata di ironia quasi a levigare giudizi a volte anche netti e trancianti, spesso inattesi da un uomo che ai nostri occhi era il simbolo di un radicalismo intransigente e utopico, refrattario al realismo, specie quello togliattiano e comunista. Ad esempio una volta ci stupì quando, nonostante i suoi antichi trascorsi interventisti e gobettiani, rivalutò la saggezza di Giovanni Giolitti. E quando, autocriticò la sua scelta frontista di socialista filo Pci nel 1948. Oppure ancora quando ci dichiarò candidamente che la tradizione del movimento operaio era integralmente finita e che il «lavoro» non era poi così più centrale nella società moderna, lui che del lavoro e della classe operaia «in movimento» aveva fatto l’alfa e l’omega del suo azionismo socialista e sindacal-rivoluzionario (preferiva parlare di «lavoro creativo» in generale). E potremmo continuare all’infinito, sulle tante sorprese, non sempre condivise, che quei dialoghi ci riservavano, dai primi incontri anni novanta all’ultima intervista, l’ultima su questo giornale, domenica 6 luglio 2008, poco prima della morte avvenuta nel suo buen retiro di Formia il 20 ottobre di quell’anno (era nato il 21 settembre 1910 a Torino).
Ad esempio proprio in quell’ultimo rendiconto al telefono ci disse lapidario che l’anomalia italiana («destra profonda» e Berlusconi) nasceva anche dal «ruolo pervasivo della Chiesa e della famosa questione vaticana». Coerente Foa in questo con la sua ebraicità laica di lungo corso, ma in controtendenza rispetto a un Partito democratico che, malgrado la « contaminazione» coi cattolici, egli aveva fortemente voluto e appoggiato (e di questo discutevamo molto...).
E però chi era in realtà quel cocciuto signore piemontese dalle eloquio intriso di «nevvero?», segnato, lo si sapeva, dalle tante sconfitte e disillusioni, eppure da ultimo così provocatoriamente ottimista e antipassatista,o «nuovista»? Era un giovane figlio della buona borghesia ebraica torinese, allievo al D’Azeglio con Bobbio, Giua, Pajetta, Galante Garrone, che avrebbe potuto condurre una tranquilla esistenza da avvocato o da studioso e che invece scelse e fu scelto dall’antifascismo («sono un persecutore -diceva non una vittima del fascismo»). Come scelse? Sul filo del rifiuto etico dell’indifferenza, in quell’Italia ingiusta e antiproletaria. Decisivi quindi gli incontri con Salvemini, Gobetti (solo intellettuale), Rosselli. Lussu, Carlo Levi, Leone Ginzburg, che gli fece da tramite, dopo la galera, verso il Partito d’Azione.
Già, la galera, per una spiata di Dino Segre, alias Pitigrilli: condanna a 15 anni per cospirazione (divenne l’anima dei Quaderni di Giustizia e libertà e dell’ononimo movimento a Torino). E poi in galera Regina Coeli, Civitavecchia, Castelfranco Emilia la sua università: Ernesto Rossi, Massimo Mila, Riccardo Bauer come compagni, e i libri di Croce come compagnia (ma anche Celine, Trotsky, Svevo, Steinbeck). Di quell’esperienza Foa ci regalò il bellissimo «diario» nel 1998. le Lettere della giovinezza (Einaudi). Denso di profezie e idee. Tra le prime, l’intuizione dell’antisemitismo, preconizzata attraverso lo sterminio degli Armeni raccontato da un romanzo di Franz Werfel. E poi la critica al bolscevismo: mistura di volontarismo dispotico e fatalismo storico, diagnosticata attraverso le pagine dell’ammirato Trotzsky. Ed è il carcere la retrovia culturale del suo futuro liberal-socialismo, già assorbito da Rosselli e poi trapiantato con i Nuovi Quaderni di Gl nella «sua» Resistenza, da protagonista del Clnai (con Valiani e Parri).
OLTRE IL NOVECENTO
Quale socialismo il suo? Eccolo: economia mista. Con un forte stato programmatore e welfarista ma non collettivista. E con dentro i consigli di gestione e l’azionariato degli operai nelle aziende private. E ancora: intreccio di democrazia diretta e delegata. Ovvero consigli locali e operai con parlamento e partiti. Su tali basi Foa avrebbe voluto veder conclusa la Resistenza, nel solco della discontinuità antifascista e di una Costituzione libertario-socialista (più che liberal-socialista). E fu questa la cifra etico-politica che marcò tutto il suo impegno da parlamentare, sindacalista Fiom e Cgil, militante e fondatore del Psiup, del Pdup e Dp, fino al ruolo di senatore indipendente per il Pci nel 1987. Insomma «classe operaia e antifascismo». Poi negli ultimi due decenni la sua prospettiva mutò. E al centro, con le autocritiche, balzarono i diritti, l’individuo, la società civile e l’idea di un partito progressista che fosse «oltre» il 900: il Pd. Era per Foa una trasformazione «realista» del suo vecchio Partito d’Azione. Chissà cosa ne direbbe oggi. Ma a modo suo forse gli sarebbe di aiuto, e senza troppi sconti sulle sue divisioni.
Il convegno
Da Bertinotti a Epifani Oggi alla Camera
La Fondazione della Camera per il centenario della nascita, promuove, oggi, una giornata di studio su Vittorio Foa sindacalista, politico, scrittore. L’iniziativa è per oggi alle 11 alla Sala della Lupa di Montecitorio. All’introduzione del Presidente della Fondazione, Fausto Bertinotti, seguiranno le relazioni di Guglielmo Epifani, Pietro Marcenaro ed Ernesto Ferrero. I lavori proseguiranno alle ore 16 alla Sala del Mappamondo con gli interventi di Iginio Ariemma, Luigi Ferrajoli, Federica Montevecchi e Andrea Ricciardi, e con le testimonianze di Giancarlo Bosetti, Anna Foa, Carlo Ghezzi, Elio Giovannini, Guglielmo Ragozzino e Andrea Ranieri. Introdurrà il dibattito Giovanni De Luna. Il convegno sarà trasmesso in diretta sulla webtv di Montecitorio (http://webtv.camera.it). È di questi giorni l’uscita di Vittorio Foa, «Scritti politici», a cura di Chiara Colombini e Andrea Ricciardi (Bollati Boringhieri, pp 284, Euro 18).
l’Unità 21.9.10
Il leader Pd a Taranto: «Da Walter uno sforzo per chiarire, ma basta congressi ogni giorno»
Lavoro al centro «Un salario minimo per chi è senza contratto. Serve un nuovo patto sociale»
Bersani: «Anche tra noi una vena di berlusconismo»
di Simone Collini
Il lavoro al primo posto. Lo dice Bersani alla festa Pd a Taranto, invitando il partito a parlare delle cose che preoccupano la gente. E rilancia le proposte contro il precariato e per il «salario minimo garantito».
La difficoltà del Pd? Per Pier Luigi Bersani è una sola, «riuscire a sfondare il muro del suono»: «Dobbiamo arrivare alle orecchie delle persone parlando delle questioni che stanno loro a cuore, dei problemi che più preoccupano». E il lavoro, dice il leader del Pd, in questa lista occupa il primo posto. Per questo mentre veltroniani e franceschiniani non si risparmiano fendenti, Bersani sbarca a Taranto per l’intervento conclusivo della Festa democratica dedicata proprio al lavoro. I giornalisti che incontra sul cancello della Villa Peripateto, nel cuore della città, gli chiedono dell’iniziativa a cui ha dato vita Walter Veltroni: «All’assemblea del partito a Veltroni dirò che dobbiamo lavorare per l’unità del Pd e ribadirò che dobbiamo concentrarci sull’Italia, sui problemi della gente. Il Pd ha la forza per rispondere alle esigenze dei cittadini e proporsi alla guida del paese».
E così nel giorno delle proteste degli operai Fincantieri e degli arresti di sei ispettori Asl a Capua con l’accusa di aver addomesticato le verifiche sulla sicurezza sul lavoro, Bersani insiste: «I posti giusti per discutere le nostre cose sono la Direzione e l’Assemblea nazionale. Fuori da qui dobbiamo parlare solo dell’Italia. Non accetterò che ci si guardi la punta delle scarpe mentre il paese ha problemi enormi». E il problema numero uno è fatto di crisi economica, restringimento della base produttiva, una globalizzazione che impone sfide sempre nuove e un mercato del lavoro che slitta progressivamente verso i più diversi modelli di precariato.
«Per non farci battere dai cinesi non possiamo diventare noi cinesi», dice con una battuta. «Ci vogliono leggi rigorose».
LA SICUREZZA NON È UN LUSSO
Un discorso che vale per la sicurezza sul lavoro, perché sbaglia profondamente Tremonti a dire che «non possiamo permetterci la 626», ma che deve valere anche sulla più generale regolamentazione del mercato del lavoro: «Un’ora di lavoro precario non può costare meno di un’ora di lavoro a tempo indeterminato», dice Bersani iniziando a elencare le proposte del Pd su questa materia. Eliminare i vantaggi di costo dei contratti a tempo determinato è la prima (si parla di «diritto unico al lavoro», mentre Veltroni è sostenitore del contratto unico ipotizzato da Pietro Ichino), ma poi c’è la necessità di garantire un sistema di ammortizzatori sociali anche ai non assunti stabilmente e anche un «salario minimo garantito per legge a tutti coloro che non hanno un contratto nazionale di lavoro»: «In Europa c'è dice Bersani da noi ci sono invece salari che non consentono di arrivare alla sopravvivenza».
Bersani infila una serie di accuse al governo. Non solo perché di fronte alla crisi economica ha fatto finta di niente per mesi, non solo per lo «scandalo» di un ministro per lo Sviluppo economico che doveva essere sostituito nel giro di un paio di settimane e che manca all'appello da 140 giorni («ma neanche Berlusconi crede più a quello che dice, come che durerà tre anni»), ma anche perché da quando ha assunto l’incarico «il governo ha lavorato per dividere il mondo del lavoro». Per Bersani è anche giusto invocare «un nuovo patto sociale», ma sarà impossibile finché il governo punterà a dividere i sindacati.
il Fatto 21.9.10
Guerra epistolare
Caro nemico ti scrivo: lettere da un partito mai nato
di Paola Zanca
Comunicazione importante. Domenica 10 ottobre al Teatro Dal Verme di Milano si terrà la premiazione del Festival delle Lettere, quest’anno dedicato al tema “Lettera a un giornalista”. Per fortuna il termine per l’invio degli elaborati è scaduto il 15 maggio scorso. Altrimenti, i leader del Pd sarebbero riusciti a litigare pure su quel palco. Meglio la prima lettera agli italiani di Veltroni sul “Corriere” o la suonata di campane affidata a “Repubblica” da Bersani? Più comprensibile la seconda lettera agli italiani di Veltroni (stavolta su “Repubblica”) o la lettera-intervista di D'Alema a “La Stampa”? In assenza del verdetto della giuria, non resta che affidarsi al giudizio popolare, in questo caso quello dei commentatori web. Con tutti i rischi del caso. “Signor Veltroni non sono riuscito a leggere oltre la frase: ‘Noi, moderni Ugolino...’” scrive ‘pigmaglione’ sul sito di “Repubblica”. Brutta notizia per il leader del movimento dei 75: quella frase non è nemmeno a metà delle 120 righe messe a disposizione dal quotidiano di Ezio Mauro per il carteggio democratico. Ma tutto sommato, il lettore che ha girato pagina prima di arrivare alla fine, è uno dei più teneri. Contro la lettera dal titolo “Il Papa straniero non sono io” ieri si è scatenato un putiferio. Si va dal sintetico “Consiglio al centrosinistra: ignorate Veltroni” all’interrogativo: “Mi chiedo perché è sempre così inopportuno”. Dal compassionevole: “È in buona fede ma un po’ bamboccione” fino alla bocciatura: “Se foste miei alunni vi direi che non potete neanche aspirare alla licenza media, in quanto sprovvisti di quel minimo di maturità che fa mettere da parte i propri piccoli egoismi per imparare a collaborare”. Un massacro nemmeno troppo imprevedibile, dopo che la stessa “Repubblica” aveva ufficialmente bollato l’uscita di Veltroni come “soccorso rosso” al governo e considerando che la lettera stessa era un replica all’articolo del giorno prima, dove si raccontava la “rabbia” di chi crede che il “contributo” di Veltroni non sia altro che una pista di lancio per sé. Lui giura che non è così, ma insiste con la teoria per cui il candidato premier va cercato fuori dal Pd. Gli risponde Dario Franceschini in un’altra “lettera”, questa volta video, a RepubblicaTv: “L’articolo dello Statuto in base al quale il segretario del Pd è anche il candidato premier lo ha voluto lui. Se vale, vale indipendentemente da chi fa il segretario del Pd”. D’altronde, l’amaro in bocca per quell’esperienza finita troppo presto, Veltroni l’aveva già tirato fuori il 24 agosto, data d’inizio dell’epistolario democratico. Sul “Corriere”, l’ex segretario spiegava: “Mi permetto di scrivere agli italiani solo perché sento di avere un minimo di titolo per farlo. In fondo due anni fa, quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato alla presidenza del Consiglio”. È così che la lettera al giornale diventa lo strumento per riconquistarsi quella visibilità che ti hanno portato via. Non a caso, due giorni dopo, prende carta e penna anche il segretario vero, Pier Luigi Bersani. Non una risposta ufficiale a Veltroni, ma con il lancio del Nuovo Ulivo Bersani ricordava, a chi se ne fosse dimenticato, che la linea, adesso, è lui che la detta. Peccato che non tutti l’abbiano capita. “Caro Pierluigi, ho dovuto leggere 2 volte la lettera (è un po’ lunga). Quello che voglio dirti è sicuramente banale, ma perchè non la ‘traduci’ in un linguaggio ancor più semplice, anche per i ‘tuoi’ militanti, i tuoi simpatizzanti, ecc?”. Aggiunge un altro lettore: “Lettera bella, interessante, condivisibile, etc etc ma se non si recupera un po’ la piazza visto che la televisione ce l’hanno gli altri mi spiegate come si fa a dare al paese la sensazione che ci sia ancora un’opposizione? Queste cose servono, ma vanno seguite da azioni concrete. Altrimenti restano caratteri su un giornale. Mica tutti leggono “Repubblica”, Bersani, dai. Alza un po’ la testa. E il tiro. Fatti sentire”. Poi cominceranno i giorni delle interviste. Renzi il rottamatore, D’Alema in difesa del segretario. Ancora Veltroni su “Gioia” (memorabile il ““Ma la vita è Ma Anche!”). E di nuovo su RepubblicaTv, prima Chiamparino, poi un’altra volta Veltroni. Pare che Bersani abbia deciso di chiudere con le missive. Dopo l’ultima di Veltroni, ha detto: “Alle lettere preferisco le discussioni nelle sedi”, come “la direzione di giovedì”. Non sappiamo questa mattina chi avrà scritto a chi. Ma resta aperta la gara sui documenti. Oggi due “ambasciatori” del documento dei 75 andranno da Dario Franceschini, finora capo della minoranza Pd, a spiegargli che il testo che hanno firmato – e che gli ha provocato “grande amarezza personale e politica” è molto “meno duro” di quello che lui aveva pronunciato a Cortona, durante l’assemblea di area. Franceschini ha chiesto ai 75 di ritirarlo, invitandoli a discuterne nella riunione convocata per mercoledì sera. Ma tra i 75 c’è chi medita di non presentarsi proprio, a quell’appuntamento, visti i toni con cui Franceschini ha reagito al movimento con la m minuscola. Si ammorbidisce, invece, il vicesegretario Enrico Letta: “Mi pare che, dopo giorni caotici, la lettera di Veltroni rappresenti un segnale utile”. Domenica i movimentisti tornano a Orvieto. Oggi, invece, alla presidenza del gruppo Pd della Camera si decide se presentare una mozione di sfiducia a Berlusconi come capo del governo o semplicemente come ministro ad interim dello Sviluppo economico. Il postino è avvisato.
Repubblica 21.9.10
Quel coraggio che manca al pd
di Nadia Urbinati
Dice bene Giancarlo Bosetti: c´è una differenza abissale tra conflitto e litigio. Tradizionalmente, la politica italiana ha temuto il primo e praticato il secondo. I sociologi degli anni cinquanta hanno inventato il termine "familismo" per spiegare questo fenomeno. I litigi sono conflitti in famiglia – fra suocera e nuora, come ci spiega Bosetti con l´autorità del dizionario della lingua italiana – perché mettono in campo emozioni e danno risalto agli individui, fattori che precludono risoluzioni costruttive per il bene di tutti. Perché ogni accordo sarà come mettere cenere sul fuoco col rischio permanente che il litigio si riaccenda. Qui non sono i contenuti che contano – sui quali, per altro, se i litiganti si fermassero a ragionare scoprirebbero che non sono così dissimili tra loro. Come dire che, proprio perché il litigio è fatto per mettere in campo la "presenza" più che le "idee", i litiganti continuano strategicamente a tenere in sordina le "cose" sulle quali sarebbe opportuno discutere.
Affinché ci sia un dibattito dal quale poter costruire un´alternativa vincente al governo Berlusconi occorrerebbe praticare al meglio l´arte del conflitto – per cercare e trovare un candidato che sappia convincere la maggioranza degli elettori, a nord e a sud, che tutto il paese guadagnerà dalla fine dell´egemonia di centro-destra. Il conflitto politico è cruciale nelle primarie e non è la stessa cosa della guerra civile o del litigio, poiché lascia a terra perdenti ma per fare di essi dei cooperatori forti nella battaglia vera, quella contro l´avversario. Si tratta di un´arte difficile da imparare, soprattutto quando il personalismo litigioso è stata la pratica appresa in anni di praticantato, dalle periferie al centro del partito. A leggere i documenti del Pd delle ultime settimane, a partire dalle lettere di Walter Veltroni, il documento dei 75, e le interviste e i commenti dei vari leader del partito, non pare che si riesca ancora a uscire dalla logica del litigio.
Forse la chiarezza nel distinguere tra litigio e conflitto dovrebbe cominciare dall´individuazione del luogo giusto, istituzionalmente giusto, dove intraprendere la discussione e la contesa: questo luogo è il partito, non il Parlamento. In Parlamento siedono rappresentanti eletti, i quali benché godano del sacrosanto libero mandato, sono comunque lì perché appartengono a quella parte con la quale sono andati davanti agli elettori. Se si vuole aprire la discussione sulle "cose", allora un partito dovrebbe farlo nella sua sede. Non solo per non dare all´avversario l´impressione di una divisione nel gruppo parlamentare, ma anche perché se il partito è la sede, allora tutte le sedi periferiche rifletterebbero sul dibattito e, per davvero, la discussione potrebbe diventare utile e positiva, e infine mettere in campo personalità nuove, esterne. Ma se nasce in Parlamento a chi è utile? Se la diatriba si consuma nei luoghi istituzionali, nessuno può ragionevolmente pensare che quella del Pd sia una elite aperta, come si augura giustamente Bosetti. Quella sulla sede opportuna non è una quindi distinzione di lana caprina: se ciò che dovrebbe avvenire nel partito è fatto accadere in Parlamento è segno che solo gli eletti sono i protagonisti del dibattito; è segno che si tratta davvero di un litigio tra persone.
Un altro elemento di questa litigiosità sta nell´oggetto stesso. Nel documento dei 75 si paragona il Pd della fondazione a quello attuale in ragione del coraggio. La misura della differenza è che quel Pd riuscì a ottenere quasi il 34%, mentre oggi riesce a fatica a stare sopra il 25%. Ma in un sistema bipolare, il 34% è una sconfitta. Il Pd è nato e cresciuto con poco coraggio. È nato con l´idea di voler essere il partito unico di tutta la costellazione di idee e associazioni che andavo dal centro alla sinistra radicale, e ha fatto la scelta di combattere da solo contro un avversario che era invece una coalizione. Infine, ha combattuto contro un avversario senza pronunciarne il nome, come se la lotta elettorale non fosse, appunto, un conflitto a viso aperto. E quei limiti pesano nel Pd di oggi: che continua ad avere poco coraggio; restio a usare parole forti e chiare che diano il senso di quello che pesa sul nostro paese: il patrimonialismo, l´uso delle cariche dello Stato e dei sistemi pubblici di informazione per perseguire interessi personali, di famiglia e di affari; per decurtare, lo abbiamo visto, la stessa libertà di stampa e di espressione. Conflitto di interessi: questa parola non compare nei documenti e nei dibattiti, o per lo meno non riceve sufficiente visibilità. E ancora: la campagna sul razzismo (verso gli "altri" ma anche gli italiani del Sud, poiché al razzismo serve sempre un "altro") che va fermata e denunciata ed é gravissima poiché mina alla radici ogni possibile convivenza democratica; la vergognosa strumentalizzazione delle donne che é diventata un segno distintivo del nostro paese; la rinascita dei nazionalismi tribali che sta erodendo la stessa unità europea; la decurtazione dei diritti di contrattazione, ovvero l´espulsione della democrazia dai luoghi di lavoro e dalle relazioni economiche; la demolizione della scuola pubblica con effetti che saranno disastrosi sull´eguale opportunità e sulla formazione e la competizione delle nuove generazioni (di qui occorrerebbe ripartire quando si parla di deficit di produttività); infine, ma non ultimo, l´egoismo anti-sociale di chi evade il fisco, poiché impoverisce tutti e toglie a tutti (anche a chi evade) la possibilità di vivere in una società decente nella quali i servizi ci sono e funzionano. Sono queste le "cose" sulle quali sarebbe importante sapere sentire parlare i democratici, sulle quali la dialettica delle idee e la competizione per la miglior possibile leadership sarebbero davvero auspicabili e utilissime.
l’Unità 21.9.10
Sull’Europa l’onda nera dell’ultra destra xenofoba
Per la prima volta in Svezia entra in Parlamento un partito razzista. E crescono i gruppi «gemelli» che assediano il vecchio continente
di Marco Mongiello
Hanno messo da parte svastiche e saluti nazisti, hanno smesso di rasarsi le teste, hanno cambiato i vecchi giubbotti con degli eleganti vestiti in doppio petto e si presentano con leader giovani e preparati. I partiti xenofobi e di estrema destra d'Europa hanno cambiato pelle e ora siedono numerosi nei Parlamenti del Continente, negoziano coalizioni di Governo o dettano il programma alla destra moderata che tenta di inseguirli. Dimenticate i vecchi tromboni che farneticano di camere a gas alla Jean-Marie Le Pen, lo storico leader del Fronte Nazionale francese. Oggi il volto pulito dell'estrema destra europea è quella del trentunenne svedese Jimmie Åkesson, il giovane capo di «Democratici di Svezia».
Nelle elezioni di domenica del civilissimo Paese scandinavo i «Democratici» hanno sorpreso tutti ottenendo il 6,2% dei voti e portando per la prima volta ben 20 deputati di un partito dichiaratamente xenofobo nel Parlamento di Stoccolma. Quando Åkesson è entrato nel movimento il partito era un gruppuscolo di esaltati guidati da un noto nazista. Poi con lui alla guida il tono è cambiato, gli impresentabili sono stati gentilmente accompagnati alla porta e gli elettori hanno premiato. Quello svedese però non è che l'ultimo esempio di un fenomeno già visto. In uno studio recente sull'estrema destra europea pubblicato dalla fondazione tedesca Bertelsmann si spiega che il classico razzismo «biologico» è sempre più rimpiazzato da una nuova «destra populista che abbraccia un'ideologia che comprende il nazionalismo etnocentrico con un elemento di esclusione su basi religiose». Per conquistare seggi, spiegano gli autori dello studio, i nuovi estremisti hanno abbandonato le vecchie tesi sulla superiorità della razza bianca e giustificano la retorica xenofoba con la necessità di difendere l'integrità della comunità nazionale e le conquiste sociali della modernità, dalle libertà fondamentali ai sistemi di protezione sociale come il welfare svedese. Lo scorso primo luglio a lanciare l'allarme è stata l'organizzazione non governativa internazionale «Minority Rights Group», che ha pubblicato l'edizione 2010 del suo rapporto «Stato delle minoranze e dei popoli indigeni del mondo». «L'intolleranza religiosa è il nuovo razzismo», ha dichiarato il direttore di Mrg, Mark Lattimer, «molte comunità che per decadi sono state discriminate per motivi di razza ora sono nel mirino a causa della loro religione». Nel capitolo dedicato all'Europa si spiega che «la crisi economica ha aumentato la popolarità delle organizzazioni nazionaliste populiste che alimentano il risentimento contro le minoranze».
Sono state le elezioni europee del giugno 2009, secondo il rapporto, il primo test di successo che ha consacrato il cambio di stile della retorica xenofoba. In quell'occasione i partiti xenofobi sono riusciti a portare a casa un risultato a due cifre in Italia (con la Lega Nord), Olanda, Belgio, Danimarca, Ungheria, Austria e Bulgaria, mentre hanno preso tra il 5 e il 10% in altri sei Paesi: Finlandia, Romania, Grecia, Francia, Gran Bretagna e Slovacchia. Non era che l'inizio. Negli ultimi mesi il virus dell'intolleranza si è allargato a macchia d'olio sulla cartina europea e ha premiato gli estremisti di tutti i Paesi in cui si sono tenute le elezioni. Nelle regionali di marzo in Francia il Fronte Nazionale di Le Pen è risalito al 17,8%, convincendo Sarkozy a lanciare la campagna contro i Rom. Ad aprile il partito ungherese anti-rom Jobbik ha ottenuto a sorpresa il 16,7% dei voti. A giugno il partito anti-islamico olandese di Geert Wilders è diventato la terza forza politica del Paese e da allora tiene in ostaggio il Parlamento che non riesce a formare un Governo. Sempre a giugno in Belgio il vecchio partito estremista fiammingo Vlaams Belang ha registrato un calo, ma a fronte dello strepitoso successo del più ripulito partito separatista di Bart de Wever. In Austria il vecchio partito di Jorg Haider, l'Fpo, si è già distinto nella campagna per le elezioni regionali in Stiria di domenica prossima mettendo online un videogioco in cui la regione è invasa dalle moschee. All'appello ormai manca solo la Germania, il Paese più vaccinato contro il risveglio dei vecchi incubi. Ma è solo questione di tempo. Entro la fine dell'anno nascerà un nuovo partito anti-islamico sul modello olandese di Geert Wilders che si chiamerà “Die Freiheit”, (La Libertà), per correre alle elezioni regionali di Berlino nel 2011.
il Fatto 21.9.10
L’imbroglio Rom
di Maurizio Chierici
Anche la Svezia dopo l’Olanda, mentre nella Slovacchia i massacri dei Rom svaniscono nei valzer dei caffè dove nessuna signora vuole essere disturbata dai pogrom del 2000. L’Europa dei diritti umani sceglie la modernità del razzismo. Stoccolma manda in soffitta lo Stato-badante e immagina un futuro da conquistare sul ring. Proibito difendersi a chi non parla come noi. Vittoria degli xenofobi svedesi rafforzata dai deliri di Parigi, eppure proprio a Parigi ricomincia la ragione con l’addio a Sarkozy: due francesi su tre non lo sopportano più. La sua politica ha incendiato le periferie; burqa, sinonimo di terrorismo, e pulizia etnica annacquano la fede di chi lo votava immaginando il ritorno alla grandeur. Due anni fa l’Economist lo presentava sul cavallo di Napoleone. Due anni dopo il Sarkozy dell’Economist è un nano appollaiato fra le piume di Carla Bruni. Per resistere si aggrappa a un tipo di imbroglio che funziona nei popoli dalle tasche quasi vuote: gonfiare la paura per gli stranieri responsabili della nostra infelicità. Facce gialle, facce nere, Rom: immondizie pericolose. Il nemico è un ricostituente storico del nazionalismo (metafora di egoismo) dei leader meschini, ma questa volta nessuno si è lasciato prendere per il naso. In giugno il gradimento era sceso sotto il 50 per cento; dopo burqa e Rom precipita a 30. Un dubbio avvilisce: come mai i francesi respingono il trucco che scarica la crisi su protagonisti marginali della società, mentre gli italiani continuano a bere come le oche delle favole d’infanzia? Bossi, Maroni, Calderoli, Borghezio, perfino il Salvini, smorfia del marò che cantava “ le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera’; perfino Salvini, camicia verde, riceve lettere d’amore. Ma il peggio sta arrivando: lo squinternamento del Cavaliere fa scappare i confusi verso il “buonsenso” della Lega. Le sue radici nel territorio sembrano profonde. I brontolii di Bossi, voce del paradiso. “Ti adoro, ti amo per tutto quello che dici e che fai. Ho 26 anni e sono fiera di te. Bravo Umberto, sogno un marito che abbia le stesse idee. Cristina, Bolzano”. “El gh’a razon, se ne poeu puu de tucc’ sti barbon senza dio, in gir a far nient tucc ‘al di Umberto Marini, Bollate”. Archivio della devozione Padana. E i versetti del Calderoli calzoni corti come Herman Göring, fanciullone nel “Dittatore” di Chaplin, allargano il cuore ai nemici di ogni straniero. Nemici, perché ? Spiegazioni gridate per fare impressione: portano via case, lavoro; rubano, violentano, sporchi e cattivi. Il sangue stanco delle vecchie facce esulta quando l’orgoglio dei politici ne pianifica l’esclusione. E la non cultura impedisce un dialogo appena sensato. Dal dio Po alla battaglia di Lepanto che Bossi giura vinta dai marinai padani mentre i genovesi scappavano davanti ai turchi, nasce la storia inventata dell’Italia dei danè da difendere spargendo disprezzo e paura perché la paura dell’altro è il dogma che rincuora le furbizie dei fantaceltici dal familismo che impallidisce le famiglie del Sud. “Col leghismo trionfa la logica tribale basata sulla gestione del mercato della paura e sull’ossessione della sicurezza armata. Capitalizza le proteste esibendosi come religione civile, settaria e guerriera. A supportarla, il cemento di una rete finanziaria: Lega mescolata a Opus Dei e Compagnia delle Opere. Ed è ciò che spinge alcuni parroci e cattolici padani a tollerare una religione con idee forti: l’identità “della nostra gente” contraria ai vizi della modernità e la funzione di coesione della Chiesa che può sentire omogenee “le comunità organiche” di Bossi e i suoi fratelli. Il leghismo vuole conquistare l’anima popolare, in realtà è la fede cristiana a rischiare di perdere l’anima”. Parole sconsolate di Sandro Paronetto, vicepresidente nazionale Pax Christi. E la gente normale? Guarda, tacendo. Moravia racconta negli Indifferenti la borghesia che non si scompone mentre il fascismo dilaga. Ottant’anni dopo siamo ancora lì.
mchierici2@libero.it
il Fatto 21.9.10
Marino: decessi e cesarei, in Italia ci sono troppi punti-nascita
di Silvia D’Onghia
È troppo presto per parlare di altri due casi di malasanità a Messina. Dovranno essere le inchieste interne e quelle della magistratura a fare luce sui due parti. Certo è che non è la prima volta che dal capoluogo siciliano arrivano notizie di complicazioni in sala parto. E questo pone dei seri interrogativi sulla gestione della sanità, ed in particolare dei punti-nascita in Sicilia. La commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale sta lavorando proprio in questa direzione. Ieri a Messina ha inviato i Nas e ha chiesto, sia alla direzione generale dell’ospedale Papardo che alla Procura, di poter acquisire tutti gli atti (comprese le cartelle cliniche) relative all’episodio del bimbo finito in coma farmacologico.
Presidente Marino, esiste un “caso Sicilia”? Non ho ancora notizie specifiche su quanto accaduto in questi giorni, e quindi non posso pronunciarmi. Ma posso fare qualche valutazione generale su quanto sta accadendo. L’Istituto superiore di Sanità ha svolto un’indagine in sei regioni italiane: Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia. Un’inchiesta che coinvolge il 48 per cento delle donne in età fertile. Si va da una mortalità materna pari a 8 su centomila in Piemonte ed Emilia a una pari a 22 su centomila in Sicilia.
E questo secondo lei da cosa dipende? Va fatta una riflessione generale sui punti-nascita. La situazione è radicalmente cambiata negli ultimi 30 anni. Nel 1980 in pieno baby boom il numero di donne con più di 35 anni che partorivano era pari al 9 per cento; oggi è pari al 30. Allora ci fu una diffusione capillare sul territorio dei punti-nascita. Con un decreto ministeriale del 2000 si decise che il numero minimo di parti annui doveva essere 500 per ogni struttura, questo per poter garantire uno standard di qualità. Oggi ci troviamo con molti punti-nascita che hanno un numero di parti inferiore a 500 ogni anno. Quella rete è dunque più numerosa e capillare di quanto occorrerebbe. In compenso il numero dei parti cesarei è di gran lunga aumentato.
Nel 1980 erano l’11 per cento, oggi sono il 39. Questa tecnica, che è efficace in determinati casi, viene utilizzata in maniera eccessiva e non necessaria. L’indicazione dell’Organizzazione mondiale della Sanità è di limitare il cesareo al 15 per cento dei parti. Ci sono invece regioni come la Campania in cui questa percentuale raggiunge il 62. È evidente che qualcosa non va. Molto dipende dai medici e dalle direzioni. Faccio un esempio: a Castellammare di Stabia, nel 2003 i cesarei erano il 52 per cento; l’avvento di un nuovo primario ha fatto sì che nel 2009 fossero solo il 16 per cento. A volte, e mi riferisco soprattutto alle strutture private convenzionate, si va incontro alle preoccupazioni delle donne e si arriva a programmare la data del parto. Incide molto, però, anche il rimborso concesso dalle Asl.
È l’aspetto sul quale ci stiamo concentrando. Sicuramente questo può incidere. Tenga conto, però, che la maggior parte delle donne italiane non ha ancora accesso al parto indolore. Questa possibilità è offerta solo nel 15 per cento degli ospedali italiani, mentre Francia o Stati Uniti raggiungono il 70. E con la manovra finanziaria sarà sempre peggio: per cinque anestesisti che andranno in pensione nel 2011, ne verrà assunto uno solo. Quindi potranno partorire senza dolore soltanto quelle donne che potranno pagarsi un professionista.
Arriverete alla decisione di sospendere qualcuno, nel caso in cui le notizie da Messina trovassero una conferma giudiziaria?
Mi auguro non serva il nostro intervento, preferirei un percorso di collaborazione istituzionale.
il Fatto 21.9.10
Porta Pia, festa grottesca
La commistione tra autorità civili e religiose assomiglia
al tentativo di far commemorare gli antifascisti da quelli che erano stati, negli anni ’30 e ’40, alleati con i loro nemici
di Nicola Tranfaglia
Erano le cinque e un quarto del mattino quando il 20 settembre l’artiglieria italiana sparò i primi due colpi di cannone contro le mura di Roma all’altezza di Porta Maggiore e Porta Pia. La resa avvenne verso le undici del mattino dopo che Pio IX ha ordinato ai pontifici di presentare la bandiera bianca. I morti tra i bersaglieri sono 49, tra i pontifici 19. Pio IX, riuniti i diplomatici presso lo Stato Pontificio, definisce l’assalto “un attentato sacrilego” e dovranno passare altri cinquantanove anni prima che Mussolini e Pio XI firmino il Trattato del Laterano e i Patti annessi.
La pace tra Stato e Chiesa
DA QUEL MOMENTO regna, per così dire, la pace tra Stato e Chiesa ma la dittatura fascista lo ha fatto per avere la Chiesa dalla sua parte e non certo per realizzare la formula di Camillo Benso, conte di Cavour, che in anni lontani aveva detto: “Libera Chiesa in libero Stato.” E il Vaticano, a sua volta, ha ottenuto dallo Stato quel che non aveva mai avuto dalla classe dirigente liberale sul piano economico come su quello politico. Ed oggi, nel Ventunesimo secolo dopo che nel 1988 è stato rinnovato con qualche modifica il Concordato del 1929 e la Chiesa cattolica ha messo sull’attenti gran parte della classe politica, di governo e di opposizione, si può dire che la celebrazione del 1870 avviene nelle migliori condizioni possibili per la Santa Sede. Roma diventa Capitale con la legge appena approvata e il sindaco Alemanno che, da fascista che era è diventato un berlusconiano fervente, può celebrare oggi i centoquarant’anni della Breccia di Porta Pia non soltanto con il capo dello Stato ma anche con il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, come se la Chiesa fosse stata anch’essa dalla parte dell’Italia appena unificata piuttosto che contro a rispondere con le cannonate ai bersaglieri che premevano dal di fuori.
Ed è questo il centro della giornata di ieri e il significato che le autorità locali e centrali intendono fornire agli italiani, dimenticando quello che davvero l’arrivo dei bersaglieri aveva significato in quel mattino del 20 settembre 1870.
Non è un caso che oltre cinquanta tra associazioni, movimenti e forze politiche hanno deciso di festeggiare domenica la ricorrenza per non mischiarsi alle celebrazioni ufficiali. Ma se si guarda all’imponente serie di manifestazioni e di occasioni di visite e di mostre previste in questi giorni non si capisce davvero come Stato e Chiesa possano festeggiare insieme un avvenimento così limpido e chiaro. L’Italia liberale del Risorgimento, dopo meno di dieci anni dall’unificazione nazionale, aveva deciso di scegliere Roma come sua Capitale e approfittando di un atteggiamento non negativo di due grandi potenze del tempo come la Francia e l’Inghilterra aveva mandato una spedizione ufficiale di soldati e di bersaglieri per entrare a Roma e far finire il Potere temporale dei Pontefici. E questo significato di fondo non si può rovesciare, celebrando la ricorrenza con la Santa Sede e con quel cardinale Bertone, segretario di Stato, che quando divenne vescovo di Genova si preoccupò immediatamente di chiudere gli archivi della diocesi per impedire che gli storici facessero luce sul ruolo del Vaticano nella fuga in Sudamerica dei criminali nazisti che si trovavano in Italia o che erano appena arrivati dalla Germania. Un amico mi ha detto, in questi giorni, che la commistione tra le autorità civili e religiose assomiglia al tentativo di far commemorare gli antifascisti da quelli che erano stati, negli anni Trenta e Quaranta, alleati con i loro nemici. E si potrebbe dire ancora molto di peggio di fronte a questo spettacolo. A differenza dei francesi, noi non abbiamo nella nostra Costituzione all’inizio un articolo dedicato alla laicità dello Stato ma in vari punti del dettato costituzionale emerge con chiarezza il profilo laico della nostra democrazia parlamentare che riguarda i credenti come i non credenti e che dovrebbe spingere tutte le forze politiche, a cominciare da quelle di centrosinistra, a difendere il significato della Breccia di Porta Pia e la difesa della formula cavouriana. Nella cosiddetta “Prima Repubblica”, e soprattutto da parte di chi aveva partecipato ai lavori dell’Assemblea Costituente, anche tra cattolici come Aldo Moro era centrale la rivendicazione della laicità dello Stato come elemento fondamentale dell’attività politica e istituzionale. Oggi, soprattutto dopo l’89 e la caduta delle grandi ideologie che avevano diviso il mondo negli anni della Guerra fredda, le classi dirigenti italiane e in particolare quelle più vicine e legate alla classe politica, sembrano aver perduto il senso delle distinzioni tra una sfera laica e una sfera religiosa. La destra berlusconiana, così priva di valori etici e politici, ha bisogno dell’appoggio del Vaticano e il papa attuale non ha avuto difficoltà fino a ieri ad appoggiarne l’azione di governo.
La sinistra e il Vaticano
QUANTO alla sinistra, la fine del comunismo ha favorito l’avvicinamento degli ex comunisti al Vaticano e ormai da anni essi si confondono con gli altri esponenti politici devoti alla Chiesa. Pochi di fatto – e noi dell’Italia dei Valori siamo tra questi – ritengono che, al di là della fede cattolica di ciascuno, che sia necessario sostenere con chiarezza una posizione che si riallacci a quella liberale e democratica dell’Ottocento ma anche del Novecento e del nuovo secolo: la parità di tutte le fedi religiose, la difesa della sfera politica dalle intromissioni della Chiesa e delle Chiese. E proprio questa incertezza della politica e il suo degrado evidente conducono alla situazione di oggi che è nello stesso tempo grottesca e paradossale: si vuol ricordare la Breccia di Porta Pia e lo si fa con il sindaco fascista berlusconiano e con il segretario di Stato del Vaticano.
Repubblica 21.9.10
Musicoterapia
Da Mozart ai Pink Floyd le note contro il dolore
di Irma D’Aria
Cinquanta minuti di ascolto ogni giorno per otto settimane associati a psicoterapia e risultano diminuiti i sintomi in pazienti depressi
Riabilitazione post-ictus, rimedio all´ansia e alle paure da sala operatoria Nuove ricerche dal Nordeuropa all´Italia sembrano confermare che ascoltare classica, jazz o sacra possa influenzare corpo e mente Dall´età prenatale fino alla maturità e alla vecchiaia
Guarire le ferite dell´anima anche con l´aiuto della musica si può e a confermarlo arriva ora un nuovo studio apparso sulla rivista Arts in Psycotherapy. I pazienti affetti da sindrome depressiva sono stati divisi in due gruppi: il primo è stato sottoposto a classiche sedute di psicoterapia, mentre per il secondo gruppo alla terapia si è affiancato l´ascolto di musica classica o barocca per 50 minuti al giorno per otto settimane. Al termine della sperimentazione, i pazienti in musicoterapia mostravano meno sintomi depressivi rispetto a quelli trattati solo con la psicoterapia. Nuove evidenze scientifiche arrivano anche sul fronte della riabilitazione post-ictus grazie a uno studio di metanalisi realizzato presso la Temple University di Philadelphia e recentemente pubblicato sulla Cochrane Review. I 184 pazienti sono stati sottoposti a tecniche di stimolazione uditiva ritmica con l´obiettivo di sollecitare le funzioni cerebrali compromesse dall´ictus. L´ascolto di musica ha avuto effetti positivi sulla circolazione sanguigna, sul movimento, sull´umore e anche sul linguaggio e il dolore. E in tema di dolore, un altro recente studio condotto presso il Tabriz Oncology Center in Iran, ha confermato l´efficacia della musicoterapia in cento pazienti sottoposti ad aspirazione del midollo osseo. I pazienti che avevano ascoltato musica durante la procedura operatoria, mostravano minori livelli di ansia e dolore.
Gli ambiti d´intervento abbracciano tutte le varie fasce d´età, dalla vita prenatale alla vita da anziani. Ma in cosa consiste la musicoterapia? «È l´uso del linguaggio musicale in tutte le forme e collegamenti con il corpo e la mente», dice Simona Nirensztein Katz, musicoterapeuta e musicista. «Il suo obiettivo è quello di accompagnare i pazienti in un percorso verso la salute». In Italia, però, i pareri sono diversi. «Ritengo che si possa definire musicoterapia precisa la psichiatra Graziella Magherini, presidente dell´International Association for Art and Psychology soltanto la psicoterapia psicodinamica attuata con la mediazione della musica. Il musicoterapeuta deve avere un´adeguata padronanza del linguaggio musicale e anche una formazione psicologica». Nella maggior parte dei casi, il musicoterapeuta agisce sotto la supervisione di un neuropsichiatra, di un geriatra, un pediatra o di un altro specialista.
Sempre più spesso, inoltre, la musica entra anche nelle corsie d´ospedale. Per esempio, al Bambino Gesù di Roma dove ai piccoli pazienti in terapia intensiva viene fatto ascoltare Mozart. Note terapeutiche anche al pediatrico Meyer di Firenze dove già da anni, anche in reparti particolarmente difficili come quello di oncoematologia e soprattutto in chirurgia serve per aiutare i bambini a sentirsi meno soli di fronte alla paura.
Ma quali sono le musiche più "terapeutiche"? «Non si può dire che un certo brano o tipo di strumento sia più adatto di un altro», chiarisce Giulia Cremaschi Trovesi, presidente della Federazione italiana musicoterapeuti. «Le sedute di musicoterapia si basano soprattutto sull´improvvisazione di note che nasce da un dialogo profondo tra il paziente e il terapeuta». Proprio di recente, però, la Caledonian University di Glasgow ha lanciato un progetto triennale di musicoterapia che per la prima volta analizzerà brani di musica contemporanea e non classica. I risultati potrebbero consentire di sviluppare programmi computerizzati in grado di identificare la musica che ha il miglior effetto sui disturbi dell´umore e la depressione. Dalla pratica clinica, intanto, qualche indicazione arriva. La musica classica domina la classifica delle "note che fanno bene", ma vengono considerate efficaci anche il jazz, la musica New Age, quella indiana e persino Gloria Gaynor e i Pink Floyd.
Repubblica 21.9.10
La voce e il battito del cuore e il primo concerto comincia nel grembo materno
Tutto comincia con la cosiddetta "prima orchestra": quella del grembo materno in cui risuona la voce della mamma, il battito del suo cuore e tutto ciò che ci aspetta fuori. Ecco perché la musica è un elemento fondamentale per la crescita e lo sviluppo somatico, psicologico e sociale. È proprio questo il tema centrale del libro Crescere con la musica. Dal corpo al pensiero musicale, curato da Roberto Caterina, Graziella Magherini e Simona Nirensztein Katz. «La musica», spiega Graziella Magherini, «accompagna lo sviluppo
del bambino dagli aspetti sonori del rapporto con la madre fino alla fase di identificazione del sé e poi via, via nelle varie tappe della crescita». È anche un ponte di comunicazione nella fase adolescenziale quando la chiusura è spesso molto forte. «La musica», sottolinea Simona Nirensztein, «permette al ragazzo in cerca della propria identità di adulto una forma di regressione inconfessabile a parole ma accettabile nel ritorno a musiche che lo portano in contatto con bisogni profondi come la ripetitività ritmica, simile al movimento del cullare, o musiche più intimistiche attraverso cui dà sfogo a emozioni a cui non sa ancora dare un nome».(i. d´a.)
Repubblica 21.9.10
Al centro della contesa la capacità delle donne di fare tante cose insieme Ma un recente libro smonta le ipotesi sessiste. "È un organo misterioso"
Maschi e femmine divisi dal cervello la sfida si gioca sul "multitasking"
"Le differenze sono culturali: ci comportiamo secondo gli schemi"
di Angelo Aquaro
Le ragazze si arrendano: i maschietti hanno un cervello del 9 per cento più grande del loro. Beh, potrebbero giustamente replicare le signorine, dipende dall´uso che ne fanno.. Macché: gli uomini hanno comunque una quantità di "materia grigia" 6 volte e mezzo più grande di quella delle donne. Due a zero? Fosse così semplice: la sfida sul cervello tra uomini e donne è la partita più pericolosa che gli scienziati di tutto il mondo stanno giocando da anni. L´ultima bordata è partita in questi giorni: "Le delusioni del genere" si chiama il libro con cui Cordelia Fine spara a zero contro le teorie che enfatizzano una differenza sostanziale tra i due cervelli. Un atto d´accusa che mette nel mirino le conclusioni di quella corrente rappresentata soprattutto da Louann Brizendine, la dottoressa che pure si dichiara spassionatamente femminista e che ha scritto due libri, "Il cervello maschile" e "Il cervello femminile", schizzati in testa alle classifiche con tanto di polemiche sul politicamente corretto.
Esperta contro esperta: una battaglia tra donne? È proprio contro la generalizzazione dei sessi che si batte "Le delusioni del genere". Prendete la fatica che il New York Post ha fatto per evidenziare almeno cinque/sei punti di differenza tra uomini e donne. I risultati? Le differenze si giocano soprattutto sul ruolo dell´amigdala. È il centro del cervello in cui vengono prese le decisioni di agire. E siccome negli uomini è più grande il sesso cosiddetto forte reagirebbe con più impulsività e violenza di fronte agli eventi insoliti. E ancora. Se è vero che gli uomini, per esempio, hanno più "materia grigia" il che spiegherebbe perché eccellono per esempio nella matematica è pur vero che le donne hanno più "materia bianca", che sarebbe quella che permette di connettere le diverse parti del cervello, esercitando così la funzione oggi comunemente detta multitasking, che poi sarebbe quel miracolo che da sempre ammiriamo in tante mamme: la capacità di badare a più cose nello stesso tempo, dai pianti del bebè allo sbuffo del caffè. Non basta. Le donne sorpasserebbero gli uomini anche nell´ultimo campo di osservazione della neurologia, quei "neuroni specchio" che ci permettono di "sentire" gli altri, rivivere le emozioni, agire insomma empaticamente: risolvendo così anche la sempiterna questione della "sensibilità" femminile problemino mica da poco per tanti maschietti.
Sarà vero? Le differenze, dice ora l´eretica Cordelia, magari esistono: ma sono culturali. E più si creano aspettative su certi comportamenti "maschili" (la capacità di reazione fisica) e "femminili" (la capacità di prendere posizioni più ponderate) e più noi tutti uomini e donne ci sentiamo portati a comportarci secondo lo schema. «Malgrado tantissime scoperte recenti, quest´organo rimane per la maggior parte sconosciuto» dice un´autorità come Anne Fausto-Sterling (un´altra donna!) della Brown University del Rhode Island. E proprio per il mistero che lo circonda, il cervello «rappresenta il mezzo ideale su cui proiettare tutte le nostre ipotesi riguardo al ruolo delle differenze di genere». Sessismo? Cordelia, Anne e le altre non hanno dubbi: «Neurosessismo». In fondo, questo sì, un vecchissimo riflesso del cervello.
Corriere della Sera 21.9.10
L’italiano che cambia: semplificazione o sciatteria?
Il nuovo modo di usare la lingua fra errori e parole in disuso
di Lorenzo Salvia
ROMA — Se me lo dicevi prima ci pensavo io. «Allora, dove sarebbe l’errore?», sbotta Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della crusca. E tanti saluti al congiuntivo («se me lo avessi detto...»), proprio come fanno i calciatori alla tv. «Guardi che scrivevano così anche Manzoni e Bembo, il codificatore supremo della lingua italiana» riprende il professore prima di poggiare la cornetta ed avvicinarsi alla libreria. «Ecco qua, "Promessi sposi", capitolo 34. "Se mi si accostava un passo di più, l’infilavo addirittura il birbone". Niente congiuntivo. Magari di Manzoni possono dire che era uno scapestrato e allora aspetti, prendo le lettere di Pietro Bembo: "Non ti bastavano le ingiurie se tu ancora quella ferita non mi davi". Niente congiuntivo».
L’Accademia della crusca è l’istituto nazionale per la salvaguardia e lo studio della lingua italiana. Salvaguardia, mica robetta. Ma non vuol dire segnare sempre con la matita rossa i nuovi usi della lingua, quella parlata tutti i giorni nelle case, negli uffici e nei bar, magari distante anni luce da quella immobile nei libri di grammatica. «Soprattutto perché — spiega il professor Sabatini — i cambiamenti più vistosi riguardano l’accettazione di fenomeni di antica data che prima venivano censurati e che invece si sono affermati perché funzionano meglio. Se durano, un motivo ci sarà, no?». L’esempio classico è la frase «Il latte lo compro io». Per anni questa struttura è stata considerata un’inutile ripetizione, una brutta variazione del più limpido «Io compro il latte». E invece no: se già si stava parlando di latte, è proprio quella la forma che funziona meglio. Anche stavolta nella libreria del professore c’è un precedente. È una sentenza del decimo secolo, una lite su alcuni poderi nella zona di Montecassino: «Quelle terre — dicono alcuni testimoni in volgare — le ha posse dute l’abbazia». Nulla di nuovo.
Ma non c’è solo il recupero del passato nei cambiamenti della nostra lingua. Tull i o de Mauro — linguista di fama mondiale e per alcuni mesi anche ministro dell’Istruzione — parla di «legittima autodifesa» dalle regole sulle quali la «scuola ha picchiato più duro». Il passato prossimo al posto del passatore moto? «Tutti noi, se dobbiamo dire che abbiamo cotto qualcosa anni fa, preferiamo cambiare strada e dire "ho cucinato"». Io cossi, tu cocesti, egli cosse... il terribile ricordo dei verbi irregolari ci spinge verso sentieri meno impervi: «ho» più un bel participio facile facile. Ma non può essere solo questo. Il verbo «scoprire» non è perfido né irregolare. Eppure la maggior parte di noi dice «Cristoforo Colombo ha scoperto l’America nel 1492» non «Cristoforo Colombo scoprì l’America nel 1492». Un errore? Il professor Sabatini — che a questo punto sarà diventato simpaticissimo a tutti gli studenti italiani — dice di no: «Bisogna tener conto della dimensione psicologica del tempo, non solo di quella fattuale. E se dico che Cristoforo Colombo ha scoperto l’America vuol dire che nel mio discorso considero ancora attuali gli effetti di quella scoperta». Eccola, forse, la causa della scomparsa del passato remoto: nell’uso vivo della parola siamo abituati a parlare di cose che riguardano il presente, anche quando partono da eventi passati e pure remoti.
Più che gli scrittori ed i linguisti, però, a maneggiare la lingua di tutti i giorni sono gli autori delle fiction tv. Ivan Cotroneo ha scritto la sceneggiatura di «Tutti pazzi per amore» e dice subito che per costruire un personaggio credibile è fondamentale farlo parlare come noi umani. «Digli cosa vuoi, ad esempio. Nei dialoghi usiamo sempre "gli". "Le" per le donne o "loro" per il plurale non esistono più». Lui ne soffre, in realtà. Da scrittore e traduttore è maniaco di queste cose. «Ma una precisione del genere se la può concedere al massimo nonna Clelia, che nella fiction è un avvocato con un gusto della battuta piuttosto ricercato. In bocca agli altri suonerebbe scorretto».
Sempre per costruire storie credibili alcuni suoi personaggi fanno a meno delle sfumature del futuro: «Cristina dice "quando arriverò farò questa cosa". Ma per salvare la grammatica abbiamo Emanuele che la corregge "quando sarai arrivata", futuro anteriore. Attenzione, però: Emanuele non è l’adolescente tipo, è un secchione un po’ rompiscatole». Un trucco usato in ogni puntata per mettere insieme realismo e grammatica. «Finora Emanuele ha ripreso Cristina sul congiuntivo e sulla consecutio temporum. Nella prossima serie la sua battaglia potrebbe essere sul punto e virgola».
Corriere della Sera 21.9.10
Punto e virgola Perché perda chi urla di più
di Silvia Avallone
Dostoevskij racconta così l’attimo seguente a quello in cui Raskolnikov cala l’accetta sulla nuca della vecchia strozzina: «Egli si scostò, la lasciò cadere e subito si chinò verso il suo viso; era già morta». Ora, come riusciremmo a verificare la morte in tutta la sua raggelante pausa, come potremmo trattenere il respiro calandoci anche noi sul volto impietrito dell'assassinata, senza quel geniale, assordante punto e virgola? In via di estinzione, o addirittura già estinto, il punto e virgola possiede una funzione ambigua: denota una pausa più lunga di quella indicata dalla virgola, e più breve di quella indicata dal punto. Una pausa tattica, insomma, di quelle che servono all’avvocato in gamba durante la sua arringa per gettare un’occhiata terrificante al suo uditorio, o al ciclista che risale i tornanti dell’ultima tappa e si volta per controllare se è riuscito a seminare gli avversari. È il segno d’interpunzione dell’apnea mentre ci si cala in profondità all’interno del discorso. In questo senso, è il tipico segno della sfumatura e della complessità, e non a caso si incontra spesso nei dialoghi filosofici. Abbonda dove abbondano i ragionamenti ampi, ovvero in tutte le occasioni in cui è necessaria una pausa di una certa consistenza per seguire il filo della logica o assorbire il patos del racconto. Ma se assistiamo a un dibattito televisivo o navighiamo attraverso gli innumerevoli spazi del web, registriamo esattamente il contrario: mancanza di sfumatura e complessità nei discorsi, mozziconi di frasi o sequenze di esclamazioni, assenza di pause destinate alla comprensione. Pare che non sia più indispensabile ascoltare il nostro interlocutore prima di rispondergli. Superfluo anche dare spiegazioni. Nelle tribune politiche e nei varietà si moltiplicano veloci botta e risposta, serie anarchiche e isteriche di interiezioni, che sfido chiunque a tradurre per iscritto senza sovrapposizioni di frasi e mediante un’interpunzione intelligibile. Ovunque il discorso regredisce al litigio, alla polemica aspra e senza soluzione di continuità. La retorica retrocede allo slogan, alla catena puntiforme degli insulti, alla balbuzie. Con il risultato che l'oggetto della discussione viene oscurato dal linguaggio, anziché chiarificato, frammentato anziché compiuto. E il tempo di voltarci per guardarci intorno? Il tempo delle boccate d’aria per affrontare l'apnea? Non c’è più. Allora perché stupirci se un segno sofisticato come il punto e virgola è scomparso? Dovremmo stupirci piuttosto di come siano venute meno le occasioni di usarlo. Dovremmo preoccuparci. Perché se è vero che la punteggiatura serve a suggerire i silenzi, allora la sua scomparsa significa che vince chi grida più forte, chi la spara più grossa, e si perde il significato delle cose. Il punto è che le cose, nella realtà, sono sfumate e complesse. Non è possibile dire una cosa intelligente ogni due minuti, non è possibile neppure capirla in due minuti. Ci vuole una pausa. Ci vuole il punto e virgola.
Repubblica 20.9.10
Skàrmeta: il mio Postino da Troisi a Domingo
di Antonio Skàrmeta
Il romanzo dello scrittore cileno, che nella versione cinematografica di Michael Radford aveva come protagonista l´attore italiano, debutta il 23 a Los Angeles con Placido Domingo
"Protetto dal mio angelo Troisi riuscirò a vincere anche a teatro"
Quando il 23 settembre, a Los Angeles, si alzerà il sipario per dare inizio alla prima mondiale dell´opera "Il Postino", difficilmente potrò evitare che, in un sol colpo, si uniscano nella mia memoria tutti i momenti che hanno portato la mia opera scritta a questo culmine. "Il Postino" nasce al tempo della dittatura di Pinochet, forse nel 1983.
Nasce come un emozionato ricordo dal mio esilio a Berlino Ovest del Cile democratico che avevo vissuto e goduto finché non venne il golpe del 1973, che fece subire al mio popolo la violazione dei suoi diritti umani, inaugurando un periodo di barbarie e costringendo all´esilio centinaia di intellettuali.
Mentre scrivevo il mio romanzo, "Il postino di Neruda", credo che nel mio cuore pulsasse il bisogno di recuperare nella finzione letteraria il modesto e imperfetto paradiso che avevo perduto: quel Cile in cui il poeta era vicino alla gente e la gente sentiva che il poeta parlava per loro. Un Cile in cui si poteva discutere di democrazia con gioia e immaginazione senza sospettare che all´improvviso molti avrebbero dovuto pagare con la vita questa affettuosa attività.
Fin dal primo momento, l´opera migrò rapidamente ad altri generi. Non avevo ancora finito di scriverla che un produttore tedesco, dopo aver letto qualche capitolo, mi propose di scrivere la storia di Pablo Neruda e del Postino come sceneggiatura cinematografica. Lo feci, tenendo in sospeso il finale del romanzo e quando gli consegnai il copione, con mia grande sorpresa, mi propose di esserne io stesso il regista. Avevo una certa esperienza nel dirigere attori di teatro fin dai miei anni giovanili all´università, e avevo dato prova di essere uno sceneggiatore efficiente. Ma tutto ciò che sapevo su quest´arte, era da spettatore.
Il produttore mi incoraggiò a rischiare: si trattava di un film "low budget" (su questo non mi ingannava) e se io non mi fossi rivelato molto bravo, nessuno se ne sarebbe indignato: lo avrebbero visto come il film di uno scrittore che prova a fare del cinema e fallisce. Il caso volle che il film avesse un successo insospettabile. La Frankfurter Allgemeine Zeitung scrisse, dopo il suo debutto alla televisione tedesca, che si trattava di un film "meraviglioso" e al primo festival in cui venne presentato vinse quasi tutti i premi.
La freschezza dell´ingenuità! Il film si chiamava "Ardiente Paciencia" e ancora oggi appare ogni tanto su qualche televisione europea o in qualche festival cinematografico, sotto l´egida di un curatore o di un produttore che lo ricorda con simpatia. Ho evitato attentamente che questo film si vedesse in Italia, dato che il mio modesto filmetto ha per protagonista un attore cileno, un mio carissimo amico, e ho sempre pensato che sarebbe inopportuno presentare al pubblico italiano un personaggio diverso da quello creato da Troisi. Oggi - lontani ormai dalle emozioni iniziali - sappiamo che Massimo diede la vita per questo film, e si merita il titolo di "Postino per eccellenza". Se un giorno dovessi autorizzare la divulgazione di "Ardiente paciencia" in Italia, voglio che il DVD circoli chiaramente con un grande titolo: "Omaggio a Massimo Troisi".
Da quando il libro fu pubblicato in spagnolo, nel 1983, la storia è stata adattata in numerosi paesi per la radio, per il teatro (più di duecento allestimenti nel mondo) e per il cinema da Michael Radford. Un´équipe di drammaturghi inglesi, composta da Eden Phillips, Michael Jeffrey e Trevor Bentham ha già scritto un musical che andrà in scena a Londra con il titolo "The Postman and the Poet" e l´autore della colonna sonora de "Il postino", Luis Bacalov, è stato contattato da un grande teatro italiano per comporre per loro un balletto ispirato al mio romanzo. Per qualche anno, in molti paesi i giovani hanno indossato una t-shirt con una delle citazioni più famose della mia opera: "La poesia non è di chi la scrive, ma di chi la usa".
Mi ero abituato a pensare che, con questa semplice storia sul contrasto tra un grande poeta e un uomo umile, qualsiasi cosa potesse accadere: ma non che sarebbe giunto il giorno in cui sarebbe diventata un´opera e che il ruolo di Neruda lo avrebbe cantato il maestro dei maestri, quel grande artista e splendida persona che è Plácido Domingo. Il compositore è Daniel Catán, un artista messicano che da dieci anni vive a Los Angeles e che ha scritto l´opera su incarico di Plácido Domingo. Catán aveva già adattato per il palcoscenico un testo di García Márquez e da me è stato autorizzato a prendersi tutte le libertà che voleva purché si sentisse in grado di trasportare la mia storia in questo genere dei generi che è l´opera. Catán affronta una sfida che lo esalta: fare opera in spagnolo, una lingua potente che non conta in questo genere molti esempi illustri. Quasi quasi, mantenendo le distanze, appare sotto questo aspetto come Mozart, che si impegna a fare opera in tedesco, quando tutti davano per scontato che l´opera fosse una faccenda assolutamente italiana. La lingua di Cervantes, e quella di Neruda, è per Catán il modo in cui guardiamo la vita, ciò che ne facciamo: «In questo sguardo ci mettiamo davanti a ciò che è veramente importante: l´amore, la felicità e la passione». E´ convinto che una lingua sia un modo di "vedere". L´immensa comunità ispanoamericana di Los Angeles si prepara a un evento che la riempie di orgoglio: per la prima volta si canterà un´opera in spagnolo con sottotitoli in inglese.
Circa quindici anni fa, il film italiano "Il postino" si presentò sul tappeto rosso di Hollywood con cinque nominations ai premi Oscar. Forse era ancora troppo presto per un film italiano (più tardi avrebbe vinto "La vita è bella"), ma la verità è che la nomination postuma per Massimo Troisi come migliore attore non ebbe fortuna. In quell´occasione, i membri dell´Accademia preferirono Mel Gibson e il suo "Braveheart": una pillola amara che non mi è ancora andata giù. Massimo creò un personaggio con un´anima semplice e grande che è incapace di dire tutto quello che sente ma che alla luce generosa di Neruda (Philippe Noiret) comincia a trasformare in scintillanti metafore verbali il suo delizioso e impreciso gesticolio napoletano. Secondo il compositore Catán, nell´opera, il Postino comincerà cantando "male", ma crescendo via via come uomo e come artista arriverà a cantare bene come il suo mentore Neruda (Plácido Domigo). Da parte sua, il regista dello spettacolo, Ron Daniels, ha affermato che quest´opera recupererà molte cose della storia politica cilena e latinoamericana.
In ogni caso, il film italiano è un ricordo vivo negli Stati Uniti e i grandi artisti che saliranno sul palcoscenico del teatro dell´Opera di Los Angeles hanno davanti a sé delle grandi sfide: il ricordo della musica di Bacalov, premiata con un Oscar, la gloriosa performance di Troisi, il solido fascino maturo di Phillipe Noiret, l´attraente turbolenza di Maria Grazia Cucinotta. Nel suo genere, l´Opera di Los Angeles offre un cast eccezionale: Plácido Domingo nel ruolo di Neruda, Charles Castronovo nella parte del Postino, Amanda Squitieri come Beatrice e la grande soprano cilena Cristina Gallardo-Domas come Matilde, la moglie del poeta. L´opera è co-prodotta da Le Chatelet (debutto nel giugno del 2011) e in Austria dall´Opera di Vienna debutto l´8 dicembre di quest´anno).
Pur con un cast di star come queste, una prima mondiale di queste dimensioni ha bisogno di fortuna. E quando si aprirà il sipario raccomanderò con fervore l´opera di Catán a Massimo Troisi - mio angelo custode da tanti anni. Anche in una città che si chiama Los Angeles avrò bisogno del suo aiuto.
(traduzione di Luis E. Moriones)