il Fatto 18.9.10
Clinton, Fidel. L’umanità dov’è?
di Massimo Fini
La Fiat trasferirà la produzione della nuova Panda da una fabbrica polacca a Pomigliano, cosa che se risolve i problemi dei lavoratori di Pomigliano ne creerà altri a quelli polacchi. Nel contempo la Fiat dislocherà da Mirafiori, portandola in Serbia, una nuova produzione, il che se farà contenti gli operai serbi, anche quando non dovesse portare alla disoccupazione di quelli di Mirafiori sicuramente renderà molto più difficile l'ingresso nel mercato del lavoro di migliaia di giovani italiani. Il capitale, essendo mobile, non conosce frontiere né amor di Patria, segue solo il suo interesse. Già cinque secoli fa Giovanni Botero ammoniva sul “pericolo che sorge per lo Stato quando la base della proprietà della classe dominante è costituita da beni mobili che in tempi di pubbliche calamità si possono portare al sicuro, mentre gli interessi dei proprietari terrieri sono legati indissolubilmente alla Patria”. Il capitale se nel Paese in cui è stato accumulato trova delle difficoltà va altrove. Sul Corriere della Sera Raffaella Polato ipotizza che se a Marchionne non fossero date le condizioni che chiede risponderebbe: “Il mondo è grande”. Ma se il denaro può andarsi a cercare liberamente il luogo della Terra dove ritiene di esser meglio remunerato, lo stesso dovrebbero poter fare gli uomini. A meno che non si voglia sostenere l'aberrante tesi che il denaro ha più diritti degli uomini. Invece è proprio ciò che accade. Mentre il capitale evoluisce liberamente per l'universo mondo, agli spostamenti delle popolazioni, soprattutto dei Paesi cosiddetti "sottosviluppati", che spesso sono state rese miserabili proprio dall'irruzione di quel capitale che, con le sue dinamiche, le ha sottratte alle "economie di sussistenza" su cui avevano vissuto e a volte prosperato per secoli, vengono posti limiti sempre più ferrei in attesa di prendere i "migranti" a mitragliate. Sulla globalizzazione ci sono solo due posizioni coerenti. Quella dei radicali italiani che sono per una totale libertà di movimento dei capitali ma anche per una altrettanto totale libertà di movimento degli uomini. E quella che sta all'estremo opposto, e che per ora è puramente concettuale, di chi dice no all'immigrazione ma rinuncia anche ad andare a piazzare le sue puzzolenti e devastanti fabbriche in Niger, in Nigeria, in Bangladesh, in Marocco o altrove. Tutto ciò che sta nel mezzo, sì alla globalizzazione dei capitali, no a quella degli uomini, è di una violenza inaudita e ripugnante. Eppure sia la destra che la sinistra sono a favore della globalizzazione. Bill Clinton a un forum del Wto del 1998 ha dichiarato: “La mondializzazione è un fatto e non una scelta politica” e Fidel Castro di rincalzo, nello stesso Forum: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge della gravità”. Ed è vero se al centro del sistema noi mettiamo l'economia: tutto deve adeguarsi ad essa. Ma sarebbe altrettanto vero se al centro del sistema mettessimo uno spillo, tutto dovrebbe girare intorno allo spillo. L'economia non è stata sempre al centro del sistema. In epoca preindustriale era inglobata nelle altre e molteplici esigenze umane al punto che era indistinguibile da esse, e non è un caso che l'economia politica, come scienza, o presunta tale, sia coeva alla Rivoluzione Industriale. Aver puntato tutto sull'economia, emarginando ogni altro bisogno dell'essere umano, si è rivelato un fallimento epocale come ognuno oggi, con gran ritardo, può vedere. È un Moloch che pretende sacrifici umani, massacri, alle popolazioni del Terzo e ora anche del Primo mondo. Io credo che al centro del sistema vada rimesso l'uomo e l'economia riportata al ruolo marginale che ha sempre avuto finché abbiamo avuto una testa per pensare.
l’Unità 20.9.10
È dunque legittimo e forse doveroso che una motovedetta libica, per di più con a bordo alcuni finanzieri italiani, insegua e apra il fuoco ad altezza d’uomo, per uccidere, su una carretta del mare dei poveri immigrati. L’incredibile dichiarazione del ministro dell’Interno, secondo cui i libici hanno sbagliato bersaglio e hanno sparato sui pescatori di Mazara pensando fossero clandestini, ha suscitato la reazione indignata delle forze sane della società italiana e di esponenti della Chiesa. La segretaria confederale della CGIL Vera Lamonica ha definito “incredibili e agghiaccianti” le parole di Maroni. “Purtroppo – ha aggiunto – non sono solo parole al vento. Il ministro, infatti, sa che le regole d’ingaggio previste dall’accordo italolibico prevedono di sparare agli immigrati presunti clandestini, violando tutte le norme internazionali dei codici civili e militari”.
l’Unità 20.9.10
Vita: allarme per l’Unità «Editoria, che fa il governo?» «Dobbiamo fare un sforzo straordinario per salvare l'Unità ed evitare che la sua crisi possa diventare più grave. La sospensione delle redazioni in Toscana ed Emilia-Romagna, dove maggiore è la diffusione del giornale non è un buon sintomo di interesse da parte dell'editore. Anzi, è augurabile che proprio Soru voglia spiegare quali sono le sue intenzioni». Lo dice il senatore Pd Vincenzo Vita. «Tuttavia aggiunge vi è un altro punto da sottolineare: si tratta del taglio del fondo dell'editoria voluto dal governo: ecco i primi frutti. C'era un vago impegno volto a ripristinare almeno in parte le risorse per la stampa non-profit, cooperativa e politica. Esiste ancora?»
l’Unità 20.9.10
Rossi contro Scalfari: Bersani ci fa sognare
«Scalfari, in un colpo solo, fa fuori Bersani e Vendola e tutti gli esponenti del Pd, Renzi compreso. Se ha qualche nome da proporre per la guida del centrosinistra lo faccia, dal suo giornale. Ma poichè un giornale è un giornale e un partito è un partito, noi del Pd un candidato ce lo abbiamo già è scritto nello statuto ed è Bersani, che a Torino ha esposto un programma solido, ci ha fatto sognare e persino commuovere». Lo scrive su Facebook il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, commentando l'’editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica di ieri. «Beninteso aggiunge Rossi -. Io sono convinto che si debbano fare le primarie, ma sostengo che il mio partito ha già il suo candidato. E coloro che militando nel Pd, soprattutto i dirigenti, non lo riconoscono, mancano di rispetto alle regole fissate, impediscono che si consolidi una leadership e frenano la capacità di sognare».
l’Unità 20.9.10
Errani: il Pd che litiga è un regalo alla destra
«Non possiamo regalare a questa destra un Pd che non svolge la sua funzione ovvero quella di costruire l'alternativa». È il messaggio lanciato al suo partito dal presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani, che ne ha parlato alla Festa dell'Unità a Bologna.
Repubblica 20.9.10
Ma una sfida vera servirebbe alla sinistra
di Giancarlo Bosetti
Non è vero che nella sinistra italiana ci siano troppi conflitti. È solo una impressione. Falsa. Ci sono invece molte «beghe», parola di origine gotica, che indica fastidiose liti, per le quali il Devoto-Oli esemplifica: tipiche quelle «tra suocera e nuora». È vero che si litiga, ma niente duelli, la lite si ferma sempre prima della minima contusione.
E così la antica compagnia di giro, che guidava la Federazione giovanile comunista quando Berlusconi esordiva nell´edilizia milanese, continua il suo giro. È vero che ogni tanto si affacciano le «primarie», parola truculenta che indica un duello all´ultimo sangue (se uno ha in mente quelle americane), dove c´è chi vince e c´è chi perde. Ma qui da sottolineare è la parola «perde», perché le nostre primarie si tengono generalmente quando si sia messo ben in chiaro, «prima» – un´etimologia alternativa? – chi le vincerà. E dove non c´è mai davvero chi le «perde». Onore al merito per le prestazioni passate di Letta e Bindi, o Marino e Franceschini e altri coraggiosi, ma non furono mai duelli per il primo posto. Non che fossero per questo del tutto inutili, avevano una funzione mobilitante, ma non servivano allo scopo per cui sono state inventate: la «selezione», parola crudele e darwiniana, che – duole constatare – indica la necessità di migliorare la specie, nel nostro caso la leadership, attraverso la lotta.
L´enigma di una sinistra e di un Pd che rimangono «in attesa» e privi di «appeal» (come ben rimarcato ieri da Scalfari) anche quando declinano palesemente i consensi della destra si può spiegare con molte ragioni, ma certo anche con la mancanza di una competizione aperta per la leadership. Questa non avviene e il primato è reso in sostanza non contendibile ad opera di gruppi dirigenti che si sottraggono al duello. Astuzie da vecchi democristiani, i quali però stettero al potere, non all´opposizione, per qualche decennio.
Alle primarie del 2007, che insediarono Veltroni segretario, il possibile candidato dalemiano, Bersani, si sottrasse, in obbedienza alla sua affiliazione, e se ne rammaricò in seguito pubblicamente (una «cavolata», disse centrando pienamente il bersaglio). Se avesse dato battaglia, e se altri l´avessero fatto con lui, avrebbe reso più forte se stesso (allora e oggi) e il Pd. Ha atteso un momento apparentemente più propizio. Ma lo è davvero? L´elettorato apprezza le battaglie aperte e tributa prestigio e consensi a chi appare più capace di lanciare la sfida sia all´interno della sinistra e del centro-sinistra, sia nei confronti dell´altra parte politica, come è apparso chiaro nella vicenda delle candidature di Vendola in Puglia e di Renzi a Firenze. E anche i duelli per interposta persona eludono una vera contesa. Dove porterà ora un nuovo «movimento» guidato da Veltroni che innalzi però l´effigie non dell´ex segretario, ma quella di un altro? Come non vederci un ennesimo tentativo di evitare possibili contusioni? Altro che combattimenti e divisioni del Pd. Beghe.
Una leadership forte e carismatica non arriva come premio di anzianità o di fedeltà gregaria a una corrente, va guadagnata con il coraggio di gettare il guanto in faccia all´avversario. La sistematica elusione del conflitto non fa che prorogare (davanti e dietro le quinte) i soliti in carica, tenacemente legati a una concezione della politica come «posto fisso», con quel che ne segue per il loro entourage e i costi che ne derivano. Il maggiore di tutti i costi è la perdita di credibilità dei leader del centrosinistra come «sfidanti» di Berlusconi: si richiedono capitani coraggiosi per una difficile guerra di movimento e si trovano soltanto gestori di una gloriosa ma insufficiente eredità; si richiede intraprendenza e si offre sopravvivenza, c´è da affrontare un duello e ci si ritrova con specialisti della mediazione. C´è da governare il mondo della flessibilità, del rischio di impresa, della precarietà e della perdita del lavoro. E c´è poca voglia in giro di affidarsi a cultori inamovibili del posto fisso.
Se si ritiene che Bersani non sia in grado di battere Berlusconi davanti all´elettorato, non c´è nulla di offensivo nel dirlo assumendosi in pubblico il peso di una sfida, che servirà anche a misurarne le forze. Una soluzione vincente, se c´è, potrà uscire solo da una competizione dichiarata, nelle prossime primarie per il candidato premier, e non potrà essere il risultato di una ingegneria delle correnti, interne o esterne al Pd. Ha ragione Sergio Chiamparino con il suo libro che si intitola appunto La sfida: è indispensabile una rottura con le vecchie abitudini di gruppi che si autoperpetuano al comando del Pd e che lo hanno consumato fino a renderlo forse inservibile. Il ricambio è ostruito e va liberato. I leader in carica, che stiano in scena in proprio o non, non sono necessariamente i peggiori, ma urgono misurazioni e confronti attraverso quella lotta che è impedita e temuta. Per dare credibilità alle sue tesi, e non abbandonarle in libreria, occorrerebbe che il sindaco di Torino (a proposito di paure, alla festa del Pd non l´hanno neppure chiamato a dare un saluto prima del rituale comizio di chiusura) inizi la sua di battaglia, candidandosi e non rimanendo indefinitamente allo stato di ipotesi. I movimenti in corso, probabilmente innescati anche solo dall´ipotesi e dai sondaggi, tendono a evitare rese dei conti, per sempre.
E invece le democrazie – lo riconoscono anche i più realisti alla Schumpeter – per quanto siano difettose hanno bisogno, per restare tali, di elite competitive e «inclusive», il che significa che si deve potervi entrare e che qualcuno deve accomodarsi fuori, per far posto ai nuovi. La politica italiana soffre già, sulla destra, di «posizioni dominanti» sulle quali non è il caso qui di tornare. Ma uno sguardo dell´«antitrust» farebbe bene anche alla sinistra.
Repubblica 20.9.10
Pd, ancora bufera su Veltroni Vendola: lite personale non politica
Sfiducia a Berlusconi, no dell´Udc: solo demagogia
Critiche alla creazione di una corrente. Ma Morando: parola d´ordine cambiare
di Giovanna Casadio
ROMA - Alcuni non capiscono, altri lo criticano aspramente, una minoranza lo appoggia: il "movimento" di Walter Veltroni scuote sempre il Pd e il centrosinistra. Gelido con l´ex segretario è Nichi Vendola, il leader di "Sinistra e libertà", che si candida alle primarie per Palazzo Chigi volendo sparigliare: «Non si capisce la natura politica della contesa, è preoccupante la disputa tra le persone. Penso che il centrosinistra debba concentrarsi sul paese e guardare alla profondità della crisi, che debba essere la coalizione capace di portare a sepoltura il berlusconismo». Nel Pd a sostenere l´utilità della discussione che il documento di Veltroni-Gentiloni-Fioroni, firmato da 75 parlamentari ha aperto, è Sergio Chiamparino. L´ha detto sabato a Orvieto all´assemblea dei liberal di Enrico Morando e di Giorgio Tonini e Stefano Ceccanti, lo ripete ieri: «Discutere non è spaccare. Io il documento che era riservato ai parlamentari non l´ho sottoscritto - spiega il sindaco di Torino - e la segreteria trovi i modi per una discussione che non sia basata su "va tutto bene madama la marchesa" solo perché c´è stato un congresso».
Non manca l´occasione per ricordare a Veltroni di avere fatto uno sbaglio, Rosy Bindi: «Questa volta penso l´abbia capito, perché il documento è stato percepito come un atto di divisione, e in questo momento il partito non vuole divisioni». Ai 75 "movimentisti", la presidente del partito consiglia di farsi un giro su internet per capire cosa pensa il popolo della sinistra. Non bene. E anche per Piero Fassino, ultimo segretario dei Ds, dell´area di minoranza democratica, critica Veltroni: «Discutere va bene, ma così è stata organizzata una corrente interna al Pd e questo è meno utile». Davanti alla bufera provocata dai "movimentisti", Pier Luigi Bersani passa alla controffensiva con un questionario tra iscritti e simpatizzanti sulla popolarità sua e del partito che guida da undici mesi.
Mentre il tam-tam su primarie e premiership è sempre più forte, il segretario democratico prepara l´intervento che terrà in direzione giovedì, dove cercherà di sminare il percorso di un Pd con poco appeal e una grande responsabilità davanti alla crisi del paese e della maggioranza. Intanto si concentra sui temi della battaglia politica per far cadere il governo. L´opposizione mette sul tavolo anche la mozione di sfiducia a Berlusconi chiesta da Parisi e da Veltroni e che aveva avuto l´appoggio condizionato di Bersani. Sì alla mozione - aveva detto il segretario - a patto che sia di tutta l´opposizione. Non lo sarebbe. Il leader Udc, Pier Ferdinando Casini boccia infatti l´idea: «Siamo assolutamente contrari. Veltroni e Parisi se vogliono che l´Udc la voti, minimo ne devono parlare prima, non sui giornali». Per il leader centrista la proposta è «demenziale», non ha niente a che vedere con la politica, è «propaganda». Replica a distanza di Chiamparino: «Non è demenziale, un po´ di chiarezza ci vorrebbe, definirla in quel modo non è da Casini».
C´è poi il capitolo-alleanze sempre aperto: è del resto il cuore della linea politica di Bersani. Ottimista il segretario a proposito di Di Pietro. Ne apprezza «il discorso orientato alla convergenza verso il Nuovo Ulivo. Vedremo le condizioni reciproche, però si deve trattare di un patto serio, esperienze come l´Unione non ne facciamo più». I "movimentisti" vogliono invece un Pd forte e ad «ambizione maggioritaria». Morando conclude il seminario di Orvieto affermando che «la parola d´ordine è cambiare» e che i Democratici devono scegliere tra conservazione e cambiamento. Ceccanti avverte del pericolo di «un ritorno alla vecchia sinistra». Tonini giudica «inaccettabili» le reazioni al documento dei 75.
Repubblica 20.9.10
Questionario di 33 domande inviato a 140 mila iscritti ed elettori. Ma è già polemica
Nuovo Ulivo e dirigenti da rottamare Bersani lancia il sondaggio tra la base
di Mauro Favale
ROMA - Premessa: «C´è chi afferma che, dopo Torino, Bersani ha dimostrato di essere un vero leader». Domanda e possibili risposte: «Lei è: del tutto d´accordo; d´accordo; in disaccordo; del tutto in disaccordo; preferisco non rispondere». In statistica si chiama "scala Likert" ed è una delle tecniche più utilizzate nei sondaggi. Di domande come queste ce ne sono 33 e sono state sottoposte da ieri a circa 140.000 simpatizzanti del Pd in tutta Italia, suddivisi tra iscritti e elettori delle primarie. Un questionario lanciato da Pierluigi Bersani, elaborato da Swg, che vuole essere il primo appuntamento della mobilitazione che culminerà a novembre, con il "porta a porta", lanciato dalla segreteria del Pd.
Si risponde su internet, si indica il proprio sesso, l´età, il titolo di studio, il luogo di residenza. Poi si parte. Trenta domande che prendono spunto dal discorso di Bersani alla festa del Pd di Torino. «Direbbe che quel discorso è stato: equilibrato; troppo incentrato sulla critica ai partiti di governo; poco propositivo; preferisco non rispondere». E ancora: «Che giudizio darebbe sulla proposta di dar vita a un nuovo Ulivo?». Segue la classica "scala di atteggiamento", da «del tutto positivo a del tutto negativo». Al centro del sondaggio c´è sempre Bersani, la sua proposta di un governo di transizione per cambiare la legge elettorale, il giudizio sulle proposte affrontate nel discorso di Torino, ma anche la domanda, cruciale, sulla classe dirigente del Pd: «Il sindaco di Firenze Matteo Renzi sostiene che bisogna cambiare il gruppo dirigente, le idee e il linguaggio. Quanto condivide la posizione di Renzi?». Manca la parola «rottamazione», utilizzata dal primo cittadino di Firenze. Ma l´interrogativo viene sottoposto agli iscritti. Insieme alla domanda successiva: «Secondo lei il Pd dovrebbe andare verso: un ampio e rapido rinnovamento della sua classe dirigente; un rinnovamento graduale della sua classe dirigente; va bene così com´è; preferisco non rispondere».
Mentre scorrono le domande, la polemica è già partita. La innesca Pippo Civati, 35 anni, consigliere in Lombardia, considerato tra le nuove leve Pd: «Se si vuole aprire un dibattito se ne discuta nelle sedi opportune. Non serve un questionario, e se proprio si vogliono coinvolgere gli iscritti si fanno i referendum tra i circoli previsti dallo Statuto. Questo modo di fare è inaccettabile. Se vogliono esasperarci ci stanno riuscendo». La risposta della segreteria Pd: «I questionari non escludono la discussione». Bersani, intanto, attenderà i risultati, non meno di tre settimane. Per capire anche le risposte a domande tipo: «A tre anni dalla creazione del Pd lei come si sente?». Oppure: «Sarebbe interessato a contribuire al finanziamento del Pd attraverso il versamento di somme di denaro?».
Repubblica 20.9.10
L’ex segretario: un dovere interrogarsi sulle difficoltà del Pd, ma Bersani non è in discussione
"Il papa straniero non sono io finiamola di dividerci sui nomi"
di Walter Veltroni
Nel pieno della campagna elettorale in Sardegna uscirono duri attacchi contro la mia leadership
Discutere non è dividersi, mai. Solo Berlusconi ha l´idea che un partito sia una caserma
L´accusa di aver fatto un regalo a Berlusconi ha una matrice che giunge da troppo lontano
Caro Direttore,ho letto in un articolo del suo giornale che, secondo i soliti anonimi bene informati (sicuramente esistenti), in realtà il documento firmato da 75 parlamentari del Pd altro non sarebbe che un mio diabolico disegno per diventare il cosiddetto "Papa straniero" che il suo giornale ha indicato come possibilità per dare più forza al centrosinistra e del quale hanno parlato diversi dirigenti del Pd.
Io stesso vi ho fatto riferimento, a Repubblica tv, sostenendo, come Anna Finocchiaro, che non si debba escludere, in caso di elezioni anticipate, di scegliere, come fu nel ´96, una persona della società civile che possa aggiungere apertura e consenso al centrosinistra. Tutto qui. Aggiungo che penso dovremmo smetterla tutti di parlare solo di nomi e di persone, tutte con le loro legittime aspirazioni, visto che Berlusconi è ancora lì e che il rischio peggiore per il paese è che ci resti, coltivando, con l´arroganza della debolezza, i suoi progetti di sfarinamento di una autentica vita democratica. Il primo obiettivo è, per tutti, farlo dimettere al più presto. Ma il secondo è costruire una credibile alleanza riformista, che cambi radicalmente questo paese malato.
Questo è il senso del documento che nasce dalla preoccupazione - e dalla constatazione - che, all´auspicato tramonto del berlusconismo non corrisponda l´alba, come sarebbe naturale in tutti i paese europei, di un nuovo ciclo, questa volta davvero riformista. Un tempo inedito per l´Italia, in cui si possa spezzare la continuità gattopardesca della sua storia politica, e sfidare tutti i conservatorismi per introdurre innovazione ,cultura delle opportunità e spirito di solidarietà in questo sfibrato paese.
Ma no, queste sono balle. Avremmo fatto tutto questo perché io vorrei essere il "Papa straniero". Chi spiffera queste fesserie applica agli altri il proprio modo di ragionare.
Voglio essere chiaro. Sono oggi uno dei pochi dirigenti del Pd che non ha incarichi. Non li ho chiesti, non mi sono stati proposti. Ho solo domandato di andare, come semplice componente, nella commissione antimafia per fare un lavoro difficile, bello, esposto. E spero di aver dato insieme agli altri, in questi mesi, un certo contributo a far tornare il tema della legalità, legato anche alla indispensabile ricerca della verità sulle stragi e sui misteri italiani , in cima all´agenda del centrosinistra.
Ci sono già abbastanza candidati per primarie non fissate, in vista di elezioni non convocate. Io non sarò tra questi, anche per i motivi indicati con chiarezza da Eugenio Scalfari nel suo bell´editoriale di domenica. E credo che chi si riferisce al "papa straniero" come possibilità pensi ad una personalità proveniente dalla società civile. Io sono e resto un dirigente del Pd, partito che ho contribuito a fondare. Dunque smettiamola di parlare di nomi. In questo il centro destra è molto più resistente di noi. Perde elezioni, litiga, si divide. Ma chi sono i leaders di questo schieramento? Gli stessi del ´94: Berlusconi, Fini, Bossi, e ,nella sua nuova posizione, Casini. Noi, moderni Ugolino, ne abbiamo divorati a decine, a cominciare dalla sciagurata interruzione della più bella esperienza riformista Italiana, il primo governo Prodi. Per questo, io che non ho votato Bersani, lo riconosco come leader del mio partito e nel documento, solo ad avere la pazienza di leggerlo, non c´è una parola che metta in discussione la leadership o invochi congressi. C´era una frase che poteva apparire sgradevole, è stata tolta.
Dunque smettiamola di mettere in giro veleni inutili e abituiamoci all´idea che ci sia chi vuole solo discutere di una oggettiva difficoltà non dopo le elezioni, per sacrificare poi un altro agnello, ma prima. Perché se è vero che in questa fase il berlusconismo è in difficoltà, è anche vero che il Pd, in un momento che dovrebbe essere favorevole, è al 24%. Chiedersi perché è un dovere, per chi crede e ama il partito democratico.
Enrico Letta dice che c´è turbamento per il documento. Io ho visto anche molto turbamento per le reazioni al documento. E comunque ne avevo percepito molto, di smarrimento, nel vedere i dirigenti del Partito proporre per tutta l´estate ogni tipo di alleanza, in una escalation figlia di incertezza. Il governo Tremonti, l´alleanza con Fini, che ha correttamente ribadito le sue origini in Almirante, Il rapporto preferenziale con Casini, che mi pare coltivi legittimamente altri progetti, una santa alleanza da tutti gli interlocutori esclusa. Io mi sono attestato sulla linea che avevamo deciso nell´unica riunione tenuta: se cade Berlusconi un governo di emergenza per affrontare crisi sociale e legge elettorale. Anche questa girandola di posizioni e il concentrarsi solo sulla tattica fa smarrire i nostri militanti e i nostri elettori. Perché mostra una sfiducia in un Pd grande, aperto, che possa essere il perno di una alleanza riformista.
C´è un´altra osservazione che mi viene fatta. Quella secondo la quale i settantacinque parlamentari, molti di più dei venti previsti dai soliti spifferatori, avrebbero fatto un "regalo a Berlusconi" scrivendo il documento. Sono sincero. Questa equazione ha una matrice, non rassicurante, che giunge da troppo lontano.
Discutere non è dividersi, mai. Solo Berlusconi ha l´idea che un partito sia una caserma di sua proprietà. Noi no. Noi siamo e dobbiamo essere una grande macchina democratica. E dobbiamo trasformare i malumori in sereno confronto e poi in energia unitaria. Il regalo all´"avversario di classe" rischia di essere un Pd che non riesca a esprimere fino in fondo la carica di disagio e l´ansia di cambiamento. Non dieci cartelle cortesi e unitarie ma un problema che tutti dobbiamo affrontare insieme, collaborando con il segretario, che è segretario di tutti noi. E cercando di nuovo di aprirsi a quel "movimento" della società che fu "Il popolo delle primarie".
Proviamo a sperimentare, è la mia risposta positiva all´invito di Letta che immagino impegni anche il gruppo dirigente, il modello più discussione, più unità. Mi chiedo, se il gruppo dirigente avesse reagito al documento dicendo "E´ un contributo, discutiamone", se questo non sarebbe stato più utile a evitare una drammatizzazione e toni francamente inaccettabili. Mi si permetta solo di dire che nella mia esperienza di segretario del Pd ho fatto i conti, all´interno del partito, con cose più difficili di un corretto documento di parlamentari. Nacquero legittimamente associazioni politiche di deputati e senatori, con tanto di iscrizioni, televisioni, convegni pubblici su temi di attualità. E in piena campagna elettorale per la Sardegna, in uno scontro durissimo con Berlusconi, uscirono interviste e posizioni di dirigenti contro la linea e la leadership. Io non dissi che era un "regalo a Berlusconi" e anzi, dopo la sconfitta, mi dimisi caricandomi, può immaginare con quale dolore, tutte le responsabilità sulle mie spalle.
Discutiamo e stiamo uniti. E´ questo il mio impegno. E la proposta di una iniziativa di tutti i dirigenti del Pd contro la ferita democratica della compravendita dei voti di Berlusconi va in questa direzione. Nella mia vita politica ho sempre cercato di unire. E non cambio.
Corriere della Sera 20.9.10
La solitudine dei numeri due
di Ernesto Galli Della Loggia
C’ è un solo, vero vantaggio strategico che la destra italiana ha sulla sinistra. La destra ha un capo, la sinistra no. Specie quando si tratta di votare, di scegliere un futuro presidente del Consiglio questo si rivela un vantaggio decisivo. Il candidato della destra è il suo capo effettivo, conosciuto e riconosciuto come tale. Il candidato della sinistra, invece, è uno scelto a fare il candidato dai capi veri. La cui autorità quindi è un’autorità delegata, revocabile in ogni momento.
La scelta di Berlusconi come capo della destra, per varie ed ovvie ragioni (ma anche per una meno ovvia e di solito dimenticata: ed è che la destra italiana quale oggi la conosciamo l’ha inventata lui e solo lui) non ha bisogno di spiegazioni. Da che il Cavaliere ha deciso di scendere in campo il fatto che il capo sia lui è qualcosa d’indiscutibile, sul quale Berlusconi per primo non è disposto a transigere. Nessuno del resto ha mai pensato di prenderne il posto. Fini stesso, dopo anni di acquiescenza, si è limitato a chiedere di essere coinvolto in qualche modo nelle decisioni da prendere e di poter esercitare una sia pure insistente libertà di critica. È bastato questo per vedersi cacciato dal Pdl su due piedi.
Ciò che richiede di esser capito e spiegato, dunque, è perché la sinistra invece non riesca lei ad avere un capo . Mi sembrano tre i motivi principali.
Perché, innanzi tutto, non ci riesce quello che è il suo partito di gran lunga più forte, il Pd. Dopo la fine dell’Unione Sovietica non aver scelto l’identità socialdemocratica, preferendole quella furbastra dei «democratici», lungi dal dare al partito ex comunista un’identità più ampia ed onnicomprensiva (come molti evidentemente speravano), gli ha reso impossibile, all’ opposto, avere una qualunque identità. Lo ha condannato ad essere in permanenza un’accozzaglia di gruppi, di storie, di opinioni, ma non un partito. Dunque neppure ad avere una fisiologica e stabile vita interna con un capo riconosciuto. Il «comunismo» italiano, qualunque cosa esso fosse, traeva comunque dal leninismo il divieto ferreo del frazionismo e la conseguente inattaccabilità del segretario generale. Scomparso il «comunismo», non sostituito da niente, sembra svanita l’idea stessa di un capo. Sulla scena sono rimasti una dozzina di leader in lotta tra di loro ed autorizzati dal vuoto d’identità a recitare a turno tutte le parti in commedia.
Il secondo motivo riguarda con ogni evidenza la divisione ideologica della sinistra. Anche la destra è ideologicamente divisa, ma a destra sulle divisioni riesce sempre a prevalere in ultimo la volontà di vincere, e quindi il riconoscimento bene o male di un capo. Sulle passioni, cioè, riesce ad avere la meglio l’interesse politico complessivo. A sinistra, invece, sembra prevalere su tutto la passione del proprio particolare punto di vista (di Rifondazione, Italia dei valori, Grillini, Verdi, ecc. ecc.). Vincere è importante, sì, ma a patto che ogni particolare punto di vista abbia modo di sopravvivere e di poter dire la sua da pari a pari con gli altri. Dunque senza riconoscere alcun capo: al massimo un leader elettorale. A sinistra il principale interesse politico, insomma, non è la vittoria sulla destra ma il mantenimento in vita delle proprie subidentità. In questo senso l’interesse delle varie mini-leadership fa corpo con l’aggressiva suscettibilità, alla base, delle varie sfumature del radicalismo ideologico.
C’è infine un terzo motivo, riconducibile in generale alla cultura maggioritaria nel popolo di sinistra. È il forte elemento antigerarchico presente in tale cultura. Cioè l’ostilità all’idea che specie in politica ci sia, debba esserci, uno che comanda e gli altri che obbediscono. E che dunque non contano solo le cosiddette «forze sociali», non solo «le strutture», ma anche (e come!) la personalità individuale: sicché la cosiddetta personalizzazione lungi dall’essere una patologia della politica è viceversa iscritta da sempre nel suo destino. Come se non bastasse, questo atteggiamento costitutivo della mentalità di sinistra è stato infine enormemente rafforzato dall’enfasi spasmodica posta sull’antiberlusconismo. Berlusconi dipinto incessantemente come «duce», «ras», «boss» ha prodotto l’effetto di squalificare ulteriormente ogni idea di comando, di capo. A ciò si è aggiunto l’altrettanto spasmodico e conseguente pregiudizio antipresidenzialista. Consacrato da una Costituzione la quale, si dice, sancirebbe la suprema ridicolaggine politica che un Paese possa essere governato non da un capo ma da un «primus inter pares».
Una sinistra con molti capetti ma senza un capo è costretta così a inventarsene spasmodicamente uno ad ogni stormir di fronde elettorali. Aprendo ogni volta un gioco al buio nel quale rischia di avere maggiori possibilità di successo, paradossalmente, o chi, tipo Beppe Grillo, in realtà non ha mai avuto a che fare con la politica, o chi, come Vendola, affida il suo richiamo sul pubblico allo stesso vuoto populismo del Grande Avversario da battere.
Corriere della Sera 20.9.10
Veltroni prepara il «movimento» Bersani: il congresso è finito
Bindi: sa di aver sbagliato. Fassino: la sua è una vera corrente
di Monica Guerzoni
ORVIETO (Terni) — Ha ammorbidito i toni, ma non ha cambiato obbiettivi. Walter Veltroni porterà il documento che ha dato la «scossa» al Pd in tutte le province italiane, un tour per placare i militanti e convincerli che non c’è, nel testo, alcuna volontà di rottura. L’intento, assicurano i veltroniani riuniti a Orvieto per la chiusura del convegno di Libertà-Eguale, è contribuire all’innovazione del Pd. La seconda mossa della strategia veltroniana sarà infatti la stesura di un programma che entri nel merito delle proposte. «L’alternativa netta è tra chi ritiene che la parola d’ordine sia difendere e chi pensa che sia cambiare — spiega il senatore Enrico Morando — Modello contrattuale, spesa pubblica, sicurezza...».
Lontano da Orvieto, al vertice del partito, il ritorno di Veltroni non è stato accolto con calore. A partire da Pierluigi Bersani: alla festa democratica di Milano ha ricordato che «non si può fare un congresso al giorno». «Il litigio finirà presto, chi ha iniziato ha capito di aver sbagliato — prevede Rosy Bindi —. Fatevi un giro sui blog e vedrete che il popolo del Pd è contrario». Ma Veltroni pensa che il confronto faccia bene al partito e progetta un sito Internet che rilanci temi e sogni del Lingotto. E mentre Bersani guarda con preoccupazione alle mosse del predecessore, Enrico Letta cerca una tregua in vista della direzione di giovedì, mediatore Beppe Fioroni. I toni restano alti. Piero Fassino contesta all’ex leader di aver messo su una vera e propria «organizzazione correntizia». Giorgio Tonini respinge le «reazioni inaccettabili» e così Veltroni, che su L’Unità le definisce «sproporzionate» e rimprovera a Franco Marini di aver paragonato ai «farisei» i firmatari del documento.
In questo clima i veltroniani meditano di disertare mercoledì la riunione della minoranza convocata da Dario Franceschini. Come dice Salvatore Vassallo, «il documento dei 75 di fatto surroga la funzione di Area democratica». I cattolici sono in grande agitazione tanto che il veltroniano Stefano Ceccanti chiede di non «regalare ad altri i voti di centro».
Una mano a Bersani la tende Pier Ferdinando Casini, bocciando come «demenziale» la proposta di sfiducia al governo proposta da Parisi e accolta dall’ex leader del Pd. Ma Sergio Chiamparino difende l’iniziativa: «Un po’ di chiarezza ci vorrebbe». E ieri si è aperto un altro fronte. La segreteria pd ha spedito agli iscritti un questionario sui temi che lacerano il partito. La cosa non è piaciuta alla minoranza, anche per via di una domanda sulla provenienza: Ds o Margherita? E per Filippo Civati, esponente della direzione, è «inaccettabile» che il Pd chieda «un giudizio sulle affermazioni di Matteo Renzi a proposito della rottamazione dei leader».
Corriere della Sera 20.9.10
La nuova sindrome dello psico-dissenso
di Pierluigi Battista
La scomunica politica si aggiorna con i metodi clinici della psicologia
Fruttero & Lucentini scrissero La prevalenza del cretino. Gli interpreti del pensiero politico delle maggioranze (quella nel Pdl e quella del Pd) potrebbero replicare con La prevalenza dello psicologo. Hanno forse risposto con argomenti all’offensiva di Fini e di Veltroni nei rispettivi accampamenti? No, l’hanno buttata sullo psico-caratteriale: vanitosi, rancorosi, risentiti, livorosi, ambiziosi, astiosi, malmostosi, fatui. È perfino comparso un «civettuoli»: ma qui il plotone psichiatrico d’esecuzione ha mostrato una certa gentilezza d’animo.
Da una parte, a destra, l’insopportazione per il dissenso in un partito il cui programma coincide con la parola carismatica del Capo. Dall’altra, a sinistra, la mistica dell’unità, il Partito come valore supremo, l’irregolarità come pericolo. L’Unità, memore del suo glorioso passato, associa in copertina il nome Veltroni alla parola «vanità». Ma è impressionante come i partiti «leggeri» della Seconda Repubblica si mostrino quasi più intolleranti di quelli, pesantissimi e ideologicamente zavorrati, della Prima. Con una novità: che la personalizzazione della politica trasforma il dissenso in un disturbo della personalità. Che cosa ha detto in fondo Veltroni? Che il Pd rischia di perdere, o forse l’ha già perduta, l’ispirazione originaria alla «vocazione maggioritaria». Ma quando Veltroni era il capo, tutti condividevano la «vocazione maggioritaria»: tutti, senza eccezione. Quando Veltroni dice la stessa cosa, ma da una posizione di minoranza, ecco partire la caccia al risentito, il rimprovero collettivo al vanitoso, la bacchettata al livoroso, il rimbrotto all’ambizioso. Chissà allora come andrebbero definiti quelli che osannavano il Veltroni in sella di ieri mentre danno dello squilibrato rancoroso al Veltroni appiedato di oggi. Psichicamente instabili? Emotivamente volubili? Oppure caratterialmente opportunisti?
La vecchia scomunica si aggiorna con i metodi clinici della psicologia del reprobo. Deve esserci della follia se si sfida il sacro feticcio dell’unità indivisibile, indiscutibile, psichicamente monolitica. Deve esserci una nevrosi, se qualcuno si alza per dire che non tutto va nel migliore dei modi. Non più la vecchia accusa di sabotaggio e di intelligenza con il nemico (anzi no, questa è sopravvissuta), ma quella nuovissima e aggiornata di dissenso caratteriale, di alterazione psicologicamente scissionistica, di predisposizione psicotica al rifiuto dell’uniformità. Chi dissente è una figura bizzarra che nevroticamente parla per seminare zizzania. E chi parlava come Fini e Veltroni prima che fossero disarcionati? Menti finalmente risanate, custodi della normalità psichica e dell’ortodossia politica. I primi a fischiare il riottoso di turno. Sacerdoti del pensiero conforme (e un po’ conformista).
Repubblica 20.9.10
L´intervento del fondatore di "Repubblica" al festival di Pordenone
Scalfari: senza memoria storica viviamo schiacciati dal presente
PORDENONE. I segnali che «sta terminando un´epoca», ci sono tutti. A cominciare dal fatto che «ci stiamo abituando a vivere schiacciati sul presente, con pochissima memoria storica», che per giunta consegniamo alle "macchine" invece che al nostro intelletto. Ma se non riflettiamo attentamente, rischiamo di «non esserne consapevoli». L´analisi del fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, al festival Pordenonelegge, per parlare del suo libro Per l´alto mare aperto (Einaudi), sollecitato da Enzo Golino e Ernesto Franco, è un lungo viaggio che parte da Montaigne, passa per Diderot e Cervantes, tocca Marx e Nietzsche, e arriva a Calvino e Montale.
Oggi invece ci stiamo non solo "imbarbarendo" ma anche "ischeletrendo". Il primo segnale che un´epoca sta finendo, secondo Scalfari, è l´arrivo di una nuova generazione che parla un linguaggio "completamente diverso". Non solo un linguaggio usato «in un modo vergognosamente corrotto dai moderni che si sono imbarbariti», ma un linguaggio più povero, ridotto quasi all´elementarità. Basta pensare all´inglese, che oggi è la lingua globale. Il suo vocabolario contiene ancora mezzo milione di parole, ma nelle università inglesi, secondo una ricerca dell´ateneo di Oxford, se ne usano soltanto diecimila, e per parlare in Internet, o via sms, ancora meno: appena 1.500. «Il vocabolario si è molto ristretto – spiega – ormai manifesta solo bisogni primari, sentimenti basilari, titoli di notizie». Ma un linguaggio scheletrito è pericoloso, «perché suscita anche pensieri scheletrici, elementari».
Di qui il bisogno di «combattere gli inquinatori dei valori della modernità», e di riprendere il senso del viaggio e del mito di Ulisse, che significa «tenere alto il valore della conoscenza». E il pubblico che riempie il teatro Verdi, che ha fatto una lunga coda per entrare, e che applaude con calore, mostra di gradire che si voli più in alto, tanto che fa più domande sulle donne di Ulisse che su quelle di Berlusconi. Non disdegna peraltro qualche accenno all´attualità, come quando Scalfari spiega che «è falso quando Tremonti dice che non abbiamo le risorse», perché «se siamo tra i paesi più ricchi del mondo, le risorse ci sono». Il punto è che noi abbiamo un livello di diseguaglianze «molto maggiore di 30 anni fa», e che bisognerebbe pensare a ridurle all´interno dei paesi ricchi. Invece non succede. «Con la stretta di Tremonti – dice – gente come me non ha pagato un centesimo in più. Lo ritengo ingiusto».
Corriere della Sera 20.9.10
Così Euripide contesta la democrazia
di Luciano Canfora
La scena è ad Eleusi: lì si sono raccolte, all’altare di Demetra, le madri degli argivi caduti dinanzi a Tebe. È con loro il re di Argo, Adrasto: chiedono l’aiuto di Atene, e del re Teseo, per ottenere i corpi dei loro morti. Siamo all’inizio delle Supplici euripidee. Teseo esita dapprima, poi, convinto dalla madre Etra, accede alla richiesta di interferire direttamente nella controversia.
La vicenda si concluderà con una battaglia (puramente fantastica dal punto di vista storico) tra tebani e ateniesi, nella quale questi ultimi conseguono la vittoria e ottengono la restituzione delle spoglie. Ma, inopinatamente, lo sviluppo dell’azione contempla una sorta di «intermezzo»: uno scontro dialettico tra un araldo tebano, giunto ad Atene, e Teseo intorno alla migliore forma di governo. Teseo esalta i pregi della democrazia, l’araldo ne denuncia i difetti strutturali. L’arbitrarietà di questo intermezzo non può sfuggire, per giunta all’interno di un dramma che amplifica liberamente la saga tradizionale creando addirittura una guerra tebano-ateniese come presupposto del saldo riavvicinamento Argo-Atene.
La forza della politica dalla scena sta proprio nella sua duttilità e nella sua non solo apparente, ma effettiva, problematicità: è lì la sua efficacia; né potrebbe essere altrimenti in un teatro così direttamente connesso alla vita pubblica e così direttamente «sorvegliato» dai volenterosi magistrati preposti al funzionamento di quella istituzione. Ed è talmente duttile, eppure immanente nel fare teatro ad Atene, quella sua politicità che, a distanza di un tempo lunghissimo e quando ormai il contesto concreto storico-politico si è inevitabilmente appannato e sbiadito, gli interpreti si interrogano su diverse, talora opposte, letture di quei testi così intenzionalmente e fecondamente «aperti». Il dato macroscopico è che comunque tutti avvertiamo, pur così lontani nel tempo, che, attraverso la mediazione della trama quasi sempre cavata dal mito, quei drammaturghi non fanno che parlare di politica: nel senso alto, dei valori e dei loro effettivi fondamenti, non soltanto della immediata quotidianità, che pure talvolta traspare.
La saga su Teseo, e le Supplici in particolare, rendono, certo, possibile una fruizione immediatamente patriottica, ma anche una presa di coscienza dei problemi insoluti, e capitali, della politica. Il mito di Teseo è diventato, dalla fine del VI secolo a.C., in Atene, un mito politico: una figura necessaria alla retorica da epitaffio, in quanto primus inventor della democrazia, o, più cautamente, della patrios politeia, cioè del cosiddetto e controverso «ordinamento avito», caratteristico degli ateniesi.
Ma il Teseo delle Supplici parla molto, e si scopre molto più di quanto il suo ruolo iconico comporti. E lasciamo qui da parte un altro aspetto che, pure, aiuterebbe a comprendere la abilità di Euripide nel ricreare questo personaggio, che, per alcuni interpreti moderni influenzati dal clima del loro tempo, è volta a volta inteso come «Führer», come «re costituzionale», come leader popolare, quando non, addirittura, controfigura di Pericle, in una Atene dove Pericle comunque è scomparso da anni.
Egli sviluppa un primo intervento di teoria politica nella prima parte del dramma, quando ancora la sua posizione è sfavorevole alle richieste di aiuto di Adrasto: in quel momento Teseo si esprime con durezza contro i demagoghi e più in generale contro i politici egoisti («i giovanotti che godono a mietere gloria e perciò incrementano le guerre senza riguardo alla giustizia»). Quindi si impanca in una summa a carattere sistematico: nella città — spiega — ci sono tre classi sociali: i ricchi che «desiderano avere sempre di più»; i poveri che sono pericolosi perché indulgono all’invidia e non fanno altro che tentare di colpire la ricchezza dei possidenti, e sono preda dei demagoghi poneroi («capi malvagi»); i mediani («la fazione mediana»), unica fonte di possibile salvezza della città e del suo «ordine».
In questa tirata Teseo strapazza il demo avido e feroce persecutore della ricchezza e i capi politici che, al tempo stesso, lo assecondano e lo corrompono in un perver sorapport o di circolarità. Nella seconda parte del dramma invece, quando Teseo ha cambiato linea e ha deciso di intervenire per Argo e di contrastare Tebe (retta da Creonte, rigido negatore della sepoltura dei ribelli), la musica cambia. Si produce lo scontro, del tutto svincolato dallo sviluppo drammaturgico della pièce, e Teseo, provocato dalla domanda dell’araldo tebano («chi è qui il tiranno?» che vuol direinsostanza « chiècheco manda qui?»), reagisce impartendogli una lezione sulla perfetta democrazia ateniese che ricalca ad verbum i passaggi più noti (e più inverosimili) dell’epitaffio pericleo.
Qui il primo e principale scossone allo spettatore viene dal fatto che si metta in discussione la legittimità stessa del sistema democratico. Nulla del genere sarebbe concepibile di fronte all’assemblea popolare. È abile far sollevare il problema da un personaggio che agli spettatori deve apparire odioso, l’araldo tebano — per l’aggressività e perché tebano —, ma il fatto principale che si produce sulla scena è c he quegli a r gomenti pesanti e topici della critica radicale alla democrazia (l’incompetenza del demo e la pessima qualità del personale politico) «restano senza replica e senza confutazione».
Alla critica radicale e penetrante dell’araldo tebano, Teseo oppone l’immagine della democrazia come regno della legge scritta. Ciò che Teseo dice è un agglomerato dei topoi di Otanes nel dibattito riferito da Erodoto (nulla è peggio del tiranno e descrizione convenzionale dei crimini «tirannici») e dell’idealizzazione periclea della prassi democratica (all’assemblea può parlare chiunque abbia qualcosa da dire, nei tribunali il ricco e il povero sono uguali davanti alla legge). Non deve sfuggire che, in un dramma in cui l’oggetto del contendere è la sepoltura di morti in guerra, Teseo mette insieme motivi da epitaffio e l’araldo li manda in pezzi. E sollevando, proprio in un contesto del genere, la questione della scarsa competenza del demo e dell’egoistica ribalderia del personale politico in democrazia, Euripide riesce a far dire davanti al grande pubblico, grazie al gioco scenico, quello che intellettuali in dissenso rispetto al sistema vigente riescono a dire, al più, nelle loro cerchie o conventicole, o eterie.
l’Unità 20.9.10
Chiude il partito dei Verdi Bonelli: «Sarà un movimento»
Verdi, addio. Addio al partito. Benvenuto al movimento, «a una grande aggregazione ecologista che supera il partito. E anche la destra e la sinistra». Angelo Bonelli, presidente della Federazione dei Verdi, sceglie la festa dell’Idv per annunciare il requiem del partito e la nascita di un nuovo soggetto, più snello, meno
pesante, in linea con quello già succede in Francia. L'annuncio ufficiale sarà dato in settimana, «non sarà indolore» si lascia scappare Bonelli alludendo a possibili e immaginabili resistenze. Ma è giunto il tempo di lasciare spazio a una costituente ecologista che «abbia la capacità di riunire tutto il mondo della frammentazione in cui si trovano oggi verdi e ambientalisti». Bonelli ha in mente il modello francese di Cohn-Bendit, un manifesto a cui aderiscono intellettuali e soggetti di varia estrazione. «Quando un cittadino si ammala ai polmoni dice Bonelli quei polmoni non sono nè di destra nè di sinistra. È un problema di inquinamento, emergenza oggi sottaciuta». In Italia questa «forza ecologista che parla a tutti è comunque parte di un’alleanza di centrosinistra». La Federazione dei Verdi è nata nel 1986 e ha sempre avuto vita tormentata. C.FUS.
l’Unità 20.9.10
Vendola: un premier gay? C’è già stato, era Dc
«Un gay è già stato presidente del Consiglio. Era un democristiano». Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola (Sel), intervistato da Enrico Lucci nell' appuntamento speciale con «Le Iene Show» in onda oggi alle 21,10 su Italia 1. Vendola parla a tutto campo delle
primarie, del suo programma, del Pd, di Berlusconi e anche della propria vita privata. Perchè vuoi le primarie nel centrosinistra?, chiede Lucci. «Perchè il centrosinistra spiega Vendola è in uno stato comatoso. possono essere un principio di rivitalizzazione». E ancora: quando si andrà a votare?
«Prossima primavera», E poi: un gay può diventare Presidente del Consiglio? «Lo è già stato». Chi? «Non lo dirò neanche sotto tortura». Di che partito era? «Democristiano». Qualche parola anche su Massimo d'Alema: Tu per lui cosa provi? «Affetto», risponde Vendola.
l’Unità 20.9.10
Ratzinger: essere minoranza non deve spaventarci
Repubblica 20.9.10
La breccia di Porta Pia oppure la beffa di Pio IX?
di Mario Pirani
Dalla «breccia» alla «beffa». Parlo del 140º anniversario della presa di Roma che verrà oggi celebrato a Porta Pia dove i bersaglieri il 20 settembre 1870 innalzarono il tricolore che costò loro la scomunica, evidentemente ormai venuta meno, vista la presenza del cardinal Bertone, accanto al presidente della Repubblica. Se parlo di beffa non è, però, per la lodevole compresenza di Stato e Chiesa quanto per la ostentata cancellazione del significato laico della data che coincise con la fine del potere temporale del papato. E cosa altro vuol essere se non un atto di cancellazione la contemporanea orazione in Campidoglio di monsignor Ravasi glorificante Pio IX, «massimo esponente del sovrano potere temporale», nonché papa del Sillabo e responsabile delle ultime condanne alla ghigliottina dei patrioti arrestati dalla polizia pontificia, qualche anno prima del 1870? Così, una volta ancora, un atto positivo stinge nell´equivoco embrassons nous revisionistico: tutti eguali, divisi al più da qualche equivoco di appartenenza, partigiani e repubblichini di Salò, tutti eguali i piumati fanti di Cadorna e gli zuavi pontifici comandati da un generale tedesco. La Storia si tramuta così in una marmellata dolciastra ove tutto si confonde e amalgama, ed alcun valore ispira. Chi, ad esempio, può oggi, in questo clima, capire le parole del re sabaudo, subito dopo il plebiscito che univa l´Emilia (marzo 1860) al nascente Regno d´Italia, quale replica della scomunica maggiore lanciata da Pio IX contro gli «usurpatori delle province ecclesiastiche»? Parole che suonavano testualmente: «Se l´autorità ecclesiastica adoperasse armi spirituali per interessi temporali, io nella sicura coscienza e nelle tradizioni degli avi stessi, troverò la forza per mantenere intiera la libertà civile e la mia autorità della quale debbo ragione a Dio ed ai miei popoli». Ebbene, credo che neanche il più ben disposto fra i cosiddetti liberali di scuola berlusconiana potrebbe oggi raffigurarsi un Cavaliere capace di ispirarsi a Vittorio Emanuele II. Piuttosto non è irriverente immaginarsi che avendo il potere temporale, nella sostanza se non nella forma, frattanto recuperato molti perduti privilegi non costi poi molto al successore di Pio IX plaudire ai bersaglieri.
Ma dietro queste riflessioni estemporanee vi è un fenomeno negativo assai più ampio di cui cominciamo a cogliere il profilo devastante: la cancellazione dalla memoria pubblica e, ancor peggio, individuale, del Risorgimento e dei suoi valori. È appena uscito in proposito un prezioso libretto (poco più di 200 pagine), «Il miracolo del Risorgimento – La formazione dell´Italia unita» di Domenico Fisichella (Carocci ed.). Vi ho ritrovato il «racconto», ripercorso con la vivacità e l´intelligenza critica che contraddistinguono l´autore, della storia della Penisola divisa in tanti staterelli, soggetti, comprati e venduti dalle grandi potenze, l´influenza della Rivoluzione francese, i moti risorgimentali, le guerre d´indipendenza, il ruolo di Cavour, Garibaldi, Mazzini e dei re sabaudi. Infine il «miracolo» dell´unità di una nazione così a lungo dominata e spartita. «La tradizione risorgimentale è, dunque, la tradizione della modernità, mentre la tradizione dell´eccesso regionalistico e localistico è la tradizione della vecchiezza». E qui inizia il discorso che non ho neppure lo spazio per riassumere del perché una coltre di oblio stia facilitando una regressione in fondo alla quale si profila di nuovo la frantumazione dell´Italia unita.
Certo è che la mia generazione si sente tra le ultime che hanno studiato il Risorgimento come storia viva e sentita di una patria appena ritrovata. Dopo di allora sembra quasi che la sinistra assieme a Stalin abbia gettato alle ortiche anche Garibaldi, la destra abbia subito un lavacro dei peggiori ricordi del fascismo ma anche dei valori nazionali che l´accompagnavano, gli elettori di Berlusconi siano sempre al «Franza o Spagna purché se magna»: l´Italia è tutt´altro che desta.
Corriere della Sera 20.9.10
Intervista
Il filosofo Giovanni Reale: «I valori sono una piramide agganciata a Dio»
«Ecco perché combatte il relativismo»
di Armando Torno
Newman ha compreso come la ragione non possa delimitarsi alle scienze, sostenendo la grande tesi della ragionevolezza della fede
Se Giovanni Paolo II è stato il papa che ha saputo combattere il comunismo, Benedetto XVI passerà alla storia probabilmente come il pontefice che ha mosso guerra al relativismo. Ovvero a quella prospettiva che — secondo una lettura cattolica — è figlia dell’illuminismo, nella quale la ragione viene separata dalla fede e i valori che ne derivano sono, appunto, quelli chiamati laici. Per questo la sua visita in Inghilterra, patria di filosofi come John Locke e David Hume, se da un lato ha posto al centro dell’attenzione una figura come il beato John Henry Newman (il più fascinoso e profondo tra gli avversari del relativismo), dall’altro ha dato via a nuove incomprensioni tra il papa teologo e quegli intellettuali — come ha dichiarato ieri su queste colonne Martin Amis — per i quali la religione resta un fatto privato. Di questo abbiamo parlato con Giovanni Reale, che ben ha conosciuto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Professor Reale, perché la religione non potrebbe essere considerata semplicemente un fatto privato?
«È tale soltanto per chi non crede. Per chi ha fede, Dio è verità. E il compito del successore di Cristo non potrebbe essere diverso da quello di Benedetto XVI».
E perché il relativismo è così avversato dall’attuale papa?
«Perché è giunto il momento di dire al mondo che alla base del relativismo c’è il nichilismo mascherato. Una pagina di Camus ricorda che tutti i valori sono come una piramide agganciata nel vertice a Dio. L’illuminismo ha cercato di sganciare questa costruzione avvenuta nei secoli. E cosa è successo? La piramide si è frantumata. Ancora Camus ricorda inoltre che la vita di Napoleone o di uno scaricatore sono eguali. Perché? Lo spiega sottolineando come, senza quei valori che ora hanno perso consistenza, ognuna di esse equivalga a zero. E zero è uguale a zero».
Qualcuno ha creduto che il papa volesse andare in Inghilterra a tenere una lezione e ha reagito...
«Si, ho letto e sentito. Non si è ancora ben spiegato che la nuova forma di razionalismo, che presiede l’illuminismo a oltranza, è un integralismo. E questi laici negano qualunque cosa esca fuori dalla ragione come la intendono loro. Il cardinale Newman, ora beatificato, ha compreso perfettamente come la ragione non possa delimitarsi alle scienze sperimentali e matematiche, sostenendo la grande tesi della ragionevolezza della fede».
Lei pensa che in futuro la ragione degli eredi dell’Illuminismo e quella degli uomini di fede potranno dialogare?
«La speranza, come recita un proverbio, è l’ultima a morire. Ma per instaurare qualunque tipo di dialogo con gli eredi dell’illuminismo a oltranza occorrerebbe in primo luogo far capire loro che la ragione ha due forme molto differenti. La prima è quella che potremmo chiamare scientifica, la seconda filosofica o metafisica. La prima è delimitata dall’ambito dell’oggetto che indaga e dalle leggi determinate che lo riguardano. Questo tipo di ragione non desidera colloquiare. La seconda, quella filosofica, invece, non è chiusa a determinati ambiti del reale ma affronta problemi — dicevano i greci — dell’intero, della totalità del reale. Quest’ultima colloquia con la fede, perché tocca gli stessi problemi».
Restano, secondo lei, delle mosse che la fede può tentare per avvicinarsi alla ragione? E il papa con esse potrebbe...
«La prima risposta a questa e a simili domande la diede Agostino con le seguenti parole, che ebbero molta fortuna nella storia della filosofia: "credo per capire e capisco per credere". È la formulazione del "circolo ermeneutico" in cui fede e ragione hanno un rapporto dinamico strutturale incontrovertibile. Certo, oggi si potrebbe dire che la ragione sia più sorda della fede per dar vita a un dialogo».
Ma per chi non ha fede, e oggi sono in molti, a cosa serve la formula di Agostino?
«Mi ha molto colpito l’epistemologia di Kuhn, il quale ricorda che gli scienziati passano da un paradigma vecchio a uno nuovo in forza di una fede; anzi, si tratta addirittura di una sorta di "conversione". Lo sappiano o no gli eredi dell’illuminismo a oltranza, la fede ha sempre una forza determinante di straordinaria portata»
Ci sono dei «valori che non è possibile discutere» sui quali potrà avvenire quel dialogo che molti attendono?
«Per ora la cosa mi sembra problematica e difficile. Quella piramide, come ricordavo, se si sgancia da Dio produce frammentazione e distruzione dei valori, ossia il nichilismo. Per il quale non esiste la verità e nemmeno un fine: dunque nessuna cosa ha validità. Ma il papa crede nella verità e nei valori. Non potrebbe agire diversamente».
Corriere della Sera 20.9.10
L’anniversario di Porta Pia: protesta radicale
di Ernesto Menicucci
ROMA — È il giorno delle celebrazioni, della cittadinanza onoraria al presidente Giorgio Napolitano, dei 140 anni di Roma Capitale listati a lutto per la morte di Alessandro Romani. Ma sarà anche una giornata storica: stamattina, a Porta Pia per ricordare la breccia del 20 settembre 1870, ci sarà anche il segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone, che leggerà una preghiera/intervento che — secondo gli addetti ai lavori — «dovrebbe chiudere le polemiche su quella data». Una visita, quella di Bertone, che crea anche qualche apprensione. I Radicali già ieri hanno manifestato con un autobus (ribattezzato il «pullman della laicità») con sui lati le scritte «No Vatican» e «No Taliban», e che è passato per San Pietro suonando la fanfara dei bersaglieri. Questa mattina, per l’arrivo di Bertone, il partito di Marco Pannella è pronto al bis. Operazione top secret, stavolta: «Ma qualcosa — dice Sergio Rovasio, uno degli organizzatori — faremo, proprio mentre parlerà Bertone. Che ci sia il Vaticano a Porta Pia fa cadere i capelli...». Mario Staderini, segretario italiano, aggiunge: «Il sindaco Alemanno, moderno zuavo, ha ridotto a simbolo nazionalista un evento che segnò l’inizio di una nuova libertà di coscienza e di religione». Anche il Grande Oriente d’Italia si prepara: «Saremo a Porta Pia — dice il Gran Maestro Gustavo Raffi — con la nostra storia e i nostri progetti». Raffi, nei giorni scorsi, è andato giù pesante: «La partecipazione di gerarchie ecclesiastiche è uno scempio che va fermato: è come se al 25 aprile andassero anche i repubblichini. E a noi Alemanno ci ha invitato solo dopo un nostro comunicato».
l’Unità 20.9.10
Sistema penitenziario/La mobilitazione Fp CGIL
Carceri: manifestazione a Roma
Una giornata di mobilitazione sulla situazione carceraria. L’hanno indetta oltre 50 organizzazioni del terzo settore per venerdì 24 settembre, con un sit in che si terrà nella mattinata a Roma, davanti a Montecitorio (e un’assemblea nazionale nel pomeriggio). Un’iniziativa cui la CGIL ha aderito formalmente, e con grande convinzione, poiché “mirata a chiedere – spiega Rossana Dettori, segretaria generale della Fp CGIL – interventi urgenti, soprattutto seri, utili e condivisi, con coloro che in carcere lavorano o intervengono a titolo di volontariato, perché il sistema penitenziario italiano ritorni nel suo alveo istituzionale di riferimento: l’articolo 27 della Costituzione”.
La dirigente sindacale si sofferma soprattutto sulla riduzione dei fondi: “Al sovraffollamento e alle gravi carenze strutturali, determinanti già di per sé una miscela esplosiva, si sommano quelle criticità causate dai pesanti tagli alle risorse che hanno ridotto il personale, le attività formative e trattamentali, il lavoro intramurario, le ore d’aria giornaliera dei detenuti: si è annientata, insomma, l’idea di pena come percorso di rieducazione”. I reclusi nelle carceri italiane sono ormai 70 mila, quasi il doppio di quelli che ci dovrebbero stare. Una situazione esplosiva, sia per i detenuti sia per gli agenti penitenziari, che sembra però non suscitare l’attenzione del governo. “Berlusconi prima ha dichiarato lo stato di emergenza illustrando il piano carceri, fatto l’annuncio si è poi disimpegnato” commenta Francesco Quinti, responsabile nazionale Fp CGIL comparto Sicurezza: “Il programma di edilizia penitenziaria richiede investimenti che non ci sono, le 2 mila assunzioni promesse mesi fa non sono arrivate, a fronte di una carenza di 6 mila poliziotti, cui si aggiungeranno almeno 2.500 pensionamenti nei prossimi tre anni”. L’ultima stoccata è per il disegno di legge Alfano, che avrebbe dovuto deflazionare le presenze negli istituti di pena: “Il provvedimento, che dovrebbe concludere il suo iter in ottobre, produrrà effetti molto modesti sul contenimento delle presenze, in un mese la situazione tornerà come prima”.
Corriere della Sera 20.9.10
L’estrema destra in parlamento
Svezia, un segnale all’Europa
di Luigi Ofeddu
La Svezia ha votato. E ora sta sospesa nel vuoto. Come metà del resto d’Europa. Con diversi acrobati a scrutarsi, da una rete all’altra; e con molti trapezi che pendono a destra rendendo più difficile l’insieme delle esibizioni. Fuor di metafora: molte nuove formazioni di destra o estrema destra sono comparse nel circo politico europeo, favorite probabilmente dai malesseri sociali della crisi, hanno conquistato posizioni di spicco nelle elezioni e sono divenute decisive per la formazione dei governi.
Forse è presto per parlare di una marea montante. Ma certo, l’onda c’è e si vede. In Svezia, ieri, con lo stallo fra centrodestra e centrosinistra incapaci di governare da soli, a far da ago della bilancia sono rimasti i Democratici svedesi, gruppo di estrema destra che chiede solidarietà per l’Eurabia violentata dall’Islam, e propugna la cacciata di tutti gli immigrati extracomunitari a meno che non accettino «l’assimilazione culturale». Per la prima volta, guidati dal loro giovane capo Jimmie Akesson, hanno superato lo sbarramento del 4% dei voti che chiude l’accesso al Parlamento.
Nella vicina Finlandia, salgono nei sondaggi i «True Finns» («Veri finlandesi») che propugnano il «rispetto delle tradizioni silvane». Sembrano raccontar fole, ma in tre anni hanno raddoppiato i voti. In Danimarca, il Partito del popolo si è reso famoso per aver diffuso le vignette satiriche su Maometto e da allora ha allargato le campagne a molti altri temi. In Olanda, il Partito della libertà di Geert Wilders ha 24 seggi in Parlamento, e collegamenti sempre più stretti con i colleghi del vicino Belgio: i fiamminghi ultranazionalisti del Vlaams Belang, anch’essi in crescita. E così via: dall’Ungheria, con i nazionalisti di Jobbik in fortissima crescita, alla Romania con quelli di Grande Romania. Tutti costoro si riuniranno a fine ottobre ad Amsterdam, insieme con i club ultras del calcio di tutta l’Europa, per acclamare Geert Wilders.
Repubblica 20.9.10
Rivelazione del "Washington Post": in cinque sotto processo
Ecco lo squadrone della morte Usa ammazzavano civili per divertimento
La denuncia è giunta da un soldato costretto a partecipare alle esecuzioni
di Angelo Aquaro
NEW YORK - Uccidevano gli afgani "per sport". Uccidevano e massacravano per il solo piacere di farlo. Fatti di alcol e di droga. Killing an Arab così per noia: come nella canzone che i Cure rubarono a Camus. Pronti a trattenere e nascondere come uno scalpo quei poveri corpi massacrati. Qui un teschio. Qui le foto dell´ultimo eccidio. E poi le minacce e le ritorsioni verso chi non aveva il fegato di starci. Lo chiamavano il kill team: la squadra per uccidere. Il plotoncino della morte. Una storia dell´orrore che arriva dall´ultimo posto in cui ti saresti aspettato di sentirtela raccontare: la base militare in Afghanistan della Quinta brigata combattente Stryker, seconda divisione di fanteria. Il cuore dell´attacco delle forze Isaf ai Taliban. Il nucleo scelto dei ragazzi born in the Usa finiti laggiù per estirpare i Taliban che proteggevano gli assassini di Al Qaeda. Invece la squadra del sergente Calvin R. Gibbs, 25 anni, da Billings, Montana, aveva trasformato la guerra in un fatto privato. In un gioco assurdo.
La notizia è stata tenuta segreta il più possibile. Nel mondo islamico già in tumulto per le minacce in America di bruciare il Corano ci mancava questa storia incredibile degli assassini per gioco. Il processo che quest´autunno si aprirà alla base di Lewis- McChord, Washington, rischia di replicare per gli americani l´effetto Abu Ghraib. Soprattutto perché la storia portata alla luce dal Washington Post rivela anche un retroscena se possibile ancora più scandaloso: l´esercito non ha fatto nulla per fermare quella strage di cui pure era a conoscenza. Un soldato, Adam C. Winfield, confidato cosa sta succedendo nella sua pattuglia a suo padre Christopher, un ex marine. Una confessione accennata su Facebook, una chat diventata un interrogatorio, l´allarme di un padre per quel figlio che dice di essere in pericolo: quel sergente Gibb gli aveva praticamente ordinato di partecipare ai raid. L´ex marine si attacca al telefono. Ma all centralino dell´Esercito solo una segreteria telefonica. Segreteria telefonica anche all´ufficio di un senatore.
Segreteria telefonica al reparto di investigazione criminale dell´esercito. Finché all´ultimo tentativo un sergente di piantone spiega che non può fare nulla se il figlio non fa denuncia ai suoi superiori.
I poveri afgani morti "per sport" sono almeno tre. Ma tanti altri sono stati assaliti. L´azione è messa a punto all´inizio di quest´anno. Il sergente Gibb è un veterano dell´Iraq e dell´hashish.
Il piano è semplice. Si finge un attacco e si colpisce. La prima vittima si chiama Gul Mudin. E´ il 15 gennaio nel villaggio di La Mohammed Kalay, Kandahar. Gul avanza verso i soldati. Uno di loro, Jeremy N. Morlock, 22 anni, di Wasilla, Alaska, il paese diventato famoso per Sarah Palin, lancia la granata e gli altri reagiscono all´"attacco". Un mese dopo tocca a un altro civile, Marach Agha.
Stessa tecnica, la granata fatta esplodere e l´esecuzione. Ma questa volta nello squadroncino della morte c´è anche il giovane Adam che aveva lanciato l´allarme. Al processo in autunno finirà anche lui che con i familiari si difende: «Sono stato costretto a partecipare e ho sparato in aria». Quello che è certo è che tre mesi dopo il kill team torna a uccidere: e questa volta la vittima è un religioso afgano, Mullah Adahdad.
Lo squadrone della morte non si ferma ma qualcuno lancia un nuovo allarme. Una denuncia anonima. Stavolta scattano gli arresti.
Ufficialmente non c´è una spiegazione degli attacchi. Ma alla vigilia del processo i documenti raccontano la stessa storia: quei soldati erano drogati di hashish e di noia. Uccidevano gli afgani "per sport".
Repubblica 20.9.10
La fine della scuola elementare
Un saggio racconta le colpe di un declino culturale che sancisce la fuga nelle private
Nel 1985 erano stati varati nuovi programmi che insistevano sulla didattica
Era il punto di forza dell´educazione pubblica italiana: ma ora anche l´istruzione primaria è al collasso
di Benedetta Tobagi
Da quei banchi passano tutti i futuri cittadini. Difficile evitare la retorica del "pilastro della democrazia": lo è per davvero. In più la scuola elementare conserva nell´immaginario qualcosa di romantico, dal libro Cuore in poi. Nell´Ottocento il maestro aveva un ruolo sociale definito, accanto al gendarme e al prete. A questa missione civilizzatrice e conservatrice si sovrappone, con l´avvento della Repubblica, l´icona del maestro di frontiera, possibilità di riscatto per i figli dei diseredati, schiacciato tra la Costituzione e le sperequazioni profonde di un paese arretrato, mentre le elementari restano quelle uscite dalla riforma Gentile, verticali e nozionistiche.
E oggi? Nessuno osa discutere la centralità della scuola e la sua missione educativa, tanto più in una società in piena crisi (economica, politica, di valori). Ma in cosa consista questa missione, e su come realizzarla, c´è molta confusione. Chi non ha bambini, difficilmente sa cosa succedesse dietro il portone di una scuola primaria dopo la riforma del ´90. Poi nel 2008 il governo comincia a predicare il "ritorno al passato" come panacea contro tutti i mali. Chi ha più di vent´anni è cresciuto a pane e maestro unico e può rimanere facilmente sedotto dall´effetto-nostalgia: che male c´era nel vecchio sistema? Insegnanti, genitori e dirigenti invece protestano, sono amareggiati, indignati, preoccupati (provate a scorrere le centinaia di testimonianze su Repubblica. it). Sono davvero tutti dei conservatori miopi e politicizzati? Che cosa sta succedendo, davvero, dentro la scuola pubblica dei bambini italiani?
Ci aiuta diradare le nebbie il nuovo saggio di Girolamo De Michele, La scuola è di tutti (minimum fax, pagg. 338, euro 15) «E´ necessario combattere una battaglia per le "precise parole", per l´esattezza», dichiara. Allora decodifica i "frames" concettuali dietro gli slogan con cui il centrodestra ha mascherato la realtà brutale dei tagli di bilancio alla scuola pubblica e analizza con scrupolo i numeri - solo apparentemente obiettivi - del Ministero e dei rapporti internazionali. Ma soprattutto, inserisce i problemi italiani nel quadro più ampio di una crisi (cioè un momento di potenziale evoluzione, non un´"emergenza") dell´educazione in atto da decenni a livello globale.
La scuola è chiamata all´arduo compito di preparare bambini e ragazzi a muoversi in una società più complessa, fornendo, oltre alle nozioni, metodi per "imparare a imparare", anche fuori dai banchi. Non è più affiancata nell´opera educativa da soggetti forti come parrocchia o famiglia, ma assediata da una "società diseducante" i cui modelli contraddicono valori e comportamenti che l´insegnante cerca di trasmettere. De Michele intreccia questi problemi coi dati allarmanti sull´"analfabetismo funzionale" che affligge 2/3 degli italiani, e li rende prede facilmente manipolabili nella società dell´informazione, o sulla mobilità sociale quasi inesistente per i giovani italiani. Una visione ampia, articolata, che mostra la funzione essenziale della scuola pubblica in una democrazia che voglia essere veramente tale.
In questo discorso, il caso della scuola primaria è illuminante. L´Italia, eterna pecora nera, affrontò costruttivamente la "crisi educativa", con esiti addirittura eccellenti. Dopo decenni di confronti tra politici e specialisti di pedagogia e didattica, nell´85 la scuola elementare si dota di nuovi programmi che mettono al centro il "saper fare" accanto al conoscere, per una "progressiva costruzione delle capacità di pensiero riflessivo e critico e di una indispensabile indipendenza di giudizio", le competenze relazionali, la capacità di ascoltarsi e stare insieme, oltre alla disciplina. Su queste basi, nel ´90 si avvia una riforma, che ha passato il vaglio della Corte dei Conti, la stagione di lacrime e sangue pre-ingresso nell´euro e un rodaggio faticoso, per regalarci una posizione di eccellenza nelle classifiche internazionali (TIMMS 2007 per la matematica e PIRLS 2006 per la lingua). Con buona pace di chi sostiene che servì solo al sindacato per moltiplicare i posti.
Cosa offriva la primaria pubblica del nuovo millennio? "Modulo" o tempo pieno, ossia due o tre maestri, specializzati in aree disciplinari diverse: ben venga un´attenzione specifica per l´area logico-matematica, in cui l´Italia è sempre indietro. Programmazione collegiale, cioè più teste che concordano la didattica e rispondono alle esigenze dei bambini: più sguardi pronti a cogliere i loro disagi come i talenti. Ore di compresenza: indispensabili per gestire la presenza di bimbi stranieri che non padroneggiano l´italiano, per il recupero di chi resta indietro, specie nelle aree più disagiate, ma anche per gite e laboratori.
Tempo scuola più lungo (da 27 a 40 ore) e più ricco: al pomeriggio non c´era più il vecchio doposcuola, merenda e compiti, ma lezioni e laboratori, cioè apprendimento attivo. Una ricchezza per i bambini, una necessità per i genitori che lavorano. A parità di maestri incompetenti e lavativi, che non mancano mai (la Gelmini parla di premi al merito, ma nessuna misura è stata varata), il sistema offre più risorse e garanzie. La primaria pre-Gelmini rispondeva alle esigenze di una società profondamente mutata con spirito democratico: molto per tutti i bambini e speciale cura per i più deboli.
Bello, no? Bene, lo stanno demolendo. Il Ministero raccomanda maestro unico, 4 ore mattutine e taglia i posti. Ma i genitori chiedono le ore e la qualità del tempo scuola lungo e i dirigenti sono chiamati all´impossibile quadratura del cerchio. Regna il caos. Classi affollate, patchwork di maestre per coprire i buchi (alla faccia del bisogno di continuità rassicurante). I maestri, sottopagati e sotto pressione, ancorché occupati, di sicuro non lavorano sereni (si parla di merito e mai di motivazione).
Lo scenario tracciato da De Michele è inquietante: c´è un disegno politico per smantellare la scuola pubblica, per foraggiare il business delle scuole private, perché l´ignoranza rende le persone più controllabili. Anche chi non condividesse questa tesi, sarà costretto a domandarsi il perché di una politica così dannosa. Non è "la solita storia". Disperdono un patrimonio, picconano la base sana della piramide educativa. Danneggiano i bambini e le loro famiglie e la società in cui dovranno vivere, non gli "insegnanti fannulloni". Almeno, la smettano di mentire.
Corriere della Sera 20.9.10
Il declino della lingua (scritta) Vocaboli e congiuntivi: i dieci errori
L’italiano in declino sempre più sconosciuto agli studenti. «Non leggono Dante, lo traducono»
Vocaboli, congiuntivi, apostrofi. Allarme dai test
Vocaboli sbagliati, congiuntivi e apostrofi spariti. E’ il declino dell’italiano sempre più sconosciuto agli studenti. Tanti presidi di scuole superiori stanno organizzando corsi supplementari per ripassare i fondamentali della lingua. Un lavoro considerato indispensabile anche per studiare latino, greco, lingue straniere. Luca Serianni, linguista e filologo, docente a «La Sapienza» di Roma: i ragazzi approdano all’università con un bagaglio linguistico povero. Affrontano Dante esattamente come se si trattasse di una lingua straniera. ROMA — «Tradurre» Dante. Non in inglese: ma in italiano. Luca Serianni, linguista e filologo, ordinario di Storia della lingua italiana a «La Sapienza» di Roma, lo racconta con ironia ma anche con preoccupazione: «I ragazzi approdano all’università con un bagaglio linguistico estremamente povero. Affrontano Dante, diventato per loro inaccessibile, esattamente come se si trattasse di una lingua straniera. Pensano a una "traduzione" in italiano, non a un adattamento alla lingua attuale, quindi ciò che per noi è una parafrasi». Insomma, Dante ormai come un classico inglese o francese.
Gli strumenti grammaticali, sintattici, lessicali e ideativi a disposizione degli studenti italiani di diverso ordine (medie inferiori e superiori, università) sono sempre più scarsi, come dimostrano gli ultimi disastrosi risultati dei test Invalsi. Tanti presidi di scuole superiori stanno approntando corsi supplementari di italiano per ripassare i fondamentali della lingua e solo dopo procedere. Altrimenti studiare latino, greco, lingue straniere diventa impossibile.
Esempi concreti? Valeria Della Valle, docente di Linguistica italiana a «La Sapienza» e autrice con Giuseppe Patota del fortunato «Viva il congiuntivo», saggio di rivalutazione di un modo in disuso ed edito da Sperling e Kupfer (ammette sospirando che «ormai quasi tutti dicono «se lo sapevo non venivo, ma non c’è da drammatizzare», ma si registra una crisi anche del passato remoto a favore del passato prossimo). Dice dunque Della Valle: «Assisto a un costante impoverimento di competenza lessicale in chi arriva dalle medie superiori. Parole come "obsoleto" o "laido" per molti sono incomprensibili. Oppure si attribuisce loro un significato diversissimo. Molte difficoltà sugli apostrofi, si scrive un altro o un’altro? Mi arrivano "piu" senza accento e "un pò" con la o accentata e non con l’apostrofo". Poi la punteggiatura. Resistono i diversi tipi di punti, la virgola ancora non cede ma il punto e virgola e i due punti sono pressoché scomparsi dall’universo giovanile. Magari i ragazzi conoscono tutti i termini legati alla telematica, l’informazione, alla comunicazione. Però sono incapaci di organizzare un ragionamento scritto con una introduzione, uno svolgimento e una conclusione». Valeria Della Valle punta l’indice non contro i ragazzi ma verso le scelte politiche: «Inutile gridare al lupo al lupo quando sono scomparse le scuole di specializzazione in linguistica per insegnanti. Non è detto che chi si laurea in letteratura abbia piena padronanza della lingua e delle sue regole. E ancora: inutile lamentarsi di ciò che sta accadendo quando la recente riforma ha abbassato il numero di ore di insegnamento dell’italiano. Bisognerebbe invece accrescerle, ma dico un’ovvietà».
Concorda Francesco Sabatini, presidente emerito dell’Accademia della Crusca: «Siamo uno Stato giovane, scontiamo storicamente un ritardo nell’apprendimento collettivo della stessa lingua, la scuola non è stata aiutata, si è perso troppo tempo dietro a problemi secondari. Per di più i governi, soprattutto quelli recenti, non si sono spesi su un fronte: la formazione degli insegnanti. Non bastano i sacrifici personali di quella categoria per risolvere il problema».
Altri esempi, sempre dovuti all’osservatorio di Luca Serianni: «È verissimo, c’è un problema lessicale. Termini come "dirimere", "esimere", "fatuo", "congruo" non sono più comprensibili se non immessi in un contesto». Serianni segnala poi (come Della Valle) il problema sempre più emergente che mina alle fondamenta l’uso dell’italiano: «C’è sempre più difficoltà a organizzare un testo scritto. Si allontana la prospettiva dell’argomentazione: della spiegazione di ciò che si ha in mente. Fatto grave che evidentemente travalica il semplice problema linguistico che stiamo affrontando. Incide anche sulla forma: i ragazzi non rispettano più i margini dei fogli, anche questo è significativo». Rimedi? Serianni è stato consulente di una parte della riforma Gelmini: «Secondo me bisognerebbe rinunciare a una certa vocazione enciclopedica che spinge allo studio anche dei minori, ormai diventato impossibile. Meglio concentrarsi su alcuni classici, approfondendoli. Così vedremo che Dante non sarà più considerato uno straniero».
Conclude Piero Cipollone, economista, presidente dell’Invalsi, che a luglio ha riesaminato i temi di maturità 2008-2009 ritenendoli insufficienti (63,2% per lessico, 58,9% per competenza ideativa, 54,1% per competenza grammaticale e 58% per competenza testuale): «Il disastro peggiore è quello ideativo, l’incapacità di costruire e "reggere" un ragionamento. Insomma, quando si spiegano non sanno dove vogliono andare a parare... E questo è grave, molto grave».
Corriere della Sera 20.9.10
La morte a Firenze di Francesco Adorno
L’archeologo della filosofia
di Armando Torno
È morto ieri a Firenze Francesco Adorno, uno dei più autorevoli storici della filosofia antica. Era nato a Siracusa nel 1921, ma ha sempre vissuto nel capoluogo toscano, dove, tra l’altro, insegnò per molti anni e fu presidente de «La Colombara», la nota accademia di scienze e lettere. Il suo nome circolò, oltre che nell’ambito universitario, anche tra gli studenti liceali per un fortunato manuale di Storia della filosofia pubblicato da Laterza, che scrisse con Tullio Gregory e Valerio Verra (nel quale era previsto, tra l’altro, un invito alla lettura diretta dei testi). Aveva un passato partigiano e, per quanto è concesso in un Paese come il nostro dove la televisione è dedicata soprattutto a giochi e a intrattenimenti penosi, partecipò a qualche trasmissione della tarda notte per parlare di pitagorici o di Platone. Circola qualche intervista realizzata da Radio Radicale; ma soprattutto il suo lascito è nelle ricerche che ha pubblicato, nei testi curati.
Brillante conversatore pur nella sua semplicità, sapeva mettere chiunque a proprio agio trattando di argomenti alti. Con quale opera dobbiamo ricordarlo? Difficile scegliere. Di certo il lavoro per l’edizione di un Corpus dei papiri filosofici greci e latini (pubblicata in una decina di volumi da Olschki) rimarrà, così come quei testi critici umanistici fiorentini che ha curato nelle sue escursioni lontane dal mondo classico. Ma indubbiamente l’opera che segnò una svolta furono i due tomi de La filosofia antica, che videro la luce da Feltrinelli nel 1961 e nel 1965 (poi ristampati in quattro volumetti), parte fondante di una nuova storia del pensiero mai completata. Nelle intenzioni dell’editore, però, avrebbe dovuto essere laica e lontana dagli schemi cattolici e idealisti (questi ultimi ben testimoniati dall’impresa di Guido De Ruggiero).
Adorno, formatosi nel clima fiorentino degli anni Trenta e di guerra, ebbe quale parte determinante — ma non divenne un’ipoteca — della sua formazione lo storicismo crociano, che lo indusse a concepire la filosofia come riflessione storico-critica mai separata dalla vita. E se il primo tomo dell’opera feltrinelliana non rappresentò una rivoluzione, il secondo conteneva una nuova visione della materia prima della vaste ricerche di Giovanni Reale e dei contributi più recenti. Detto in soldoni, egli ampliò notevolmente lo spazio concesso ad autori e correnti della tarda antichità, soffermando la sua attenzione su molti Padri della Chiesa, sugli uomini di scienza, spingendosi con ricerche dettagliate sino al VI secolo. Tra le caratteristiche, è il caso di ricordare lo spazio che concesse alla reazione dei filosofi pagani durante i primi secoli della nuova fede. Per fare un esempio, egli osò scrivere che Giuliano Imperatore, noto come l’Apostata, estese in materia di religione l’editto di Costantino e che molti autori di trattati anticristiani furono coerenti con una tradizione che faceva perno in Plotino. Il tomo giungeva alla chiusura della Scuola di Atene da parte di Giustiniano (529 d.C.) offrendo storie di correnti poco note o profili di autori come Damascio di Damasco, del quale in Italia circolano tradotte soltanto due o tre pagine (in un’antologia edita da Cortina).
Ma il lavoro di Adorno non si fermò qui. Impegnato nella traduzione di Platone per Laterza (dove collaborò con Gabriele Giannantoni) e per i «Classici» Utet (cominciò con le Opere politiche del sommo ateniese, su incarico di Luigi Firpo), di lui ci restano, tra l’altro, ricerche sulla Sofistica, su Socrate, nonché due saggi dedicati rispettivamente alla cultura ionica e alla filosofia ellenistica. Questi ultimi uscirono in Storia e civiltà dei Greci (Bompiani), diretta da Ranuccio Bianchi Bandinelli. E tutto ciò senza contare le due fortunate Introduzioni a Socrate e a Platone pubblicate nella collana omonima di Laterza e continuamente riproposte. Il suo stile, taluni sospiri che sapeva spendere dinanzi alle questioni amate, vanno cercati negl i Studi sul pensiero greco (pubblicati dalla compianta Sansoni nel 1966).
Spese non poco tempo della vita per ricostruzioni filologicamente rigorose, per inseguire a volte un dettaglio, un termine. Ma non fu un pedante accademico, né tormentò il mondo con questioni di lana caprina. Intuì che il pensiero greco e romano aveva ancora infinite sorprese in sé e che nel mondo antico si celava uno specchio nel quale si riflettono molte nostre idee, marxismo compreso. Seppe forse per tali motivi coniugare una buona divulgazione con un rigore che gli veniva dai «suoi» greci. Ovvero da quei filosofi che quando li conosci — ci confidò in un incontro al quale venne con Giovanni Pettinato — «ti fanno perdere la testa e pensi sempre a loro».