lunedì 1 marzo 2010

l’Unità 1.3.10
L’Italia e gli immigrati
Il Paese del Primo Marzo
di Jean-Léonard Touadi

C’era una volta un paese di emigrati. Gli italiani che lasciavano le loro terre alla ricerca di pane e dignità. A quegli italiani il paese deve molto perché hanno assicurato per decenni, per se stessi e per i familiari rimasti in patria, una vita dignitosa. La memoria di questi cittadini tra due mondi, spesso maltrattati e soggetti a continue discriminazioni, è un monito a non fare agli altri, agli immigrati di oggi, ciò che è stato fatto a noi quando “gli albanesi eravamo noi” secondo il bellissimo libro di Gian Antonio Stella dal titolo assai rivelatore, «L’Orda».
Ed eccola qui, l’orda: l’ “invasione” evocata strumentalmente pochi giorni fa dal presidente del Consiglio Berlusconi; l’ondata nera dei criminali stigmatizzati con un’equazione tra immigrazione e clandestinità che ha profondamente indignato, oltre a migliaia d’italiani, anche la Caritas e il quotidiano L’Avvenire; l’orda di coloro che rubano il lavoro agli italiani quando tutti sanno che il lavoro immigrato per ora è complementare e non competitivo rispetto a quello degli italiani; la marea dei bambini stranieri che andrebbero separati dai loro coetanei italiani. E la lista potrebbe continuare.
Ma l’Italia dovrà rendersi conto che l’immigrazione è un fenomeno strutturale. L’immigrazione rappresenta la cifra precipua delle profonde trasformazioni che il paese deve affrontare da qui ai prossimi decenni, dove la capacità di confrontarci con le sfide della contemporaneità si misurerà con il nostro modo di gestire con responsabilità e innovazione normativa e programmatica la questione dell’immigrazione. Attraverso l’irrompere dell’immigrazione nel nostro tessuto produttivo e socio-culturale, dentro i processi di mutamenti urbani e all’interno dei meccanismi formativi delle nuove generazioni, l’Italia dovrà dimostrare la sua propensione a traghettarsi dentro la globalizzazione con mappe concettuali e strategie operative all’altezza della complessità contemporanea. È la grande novità dell’innesto che “pro-voca”, chiama a sé, e che stimola con la promessa della ricchezza data dalla diversità.
Il 1 ̊ marzo assume così il valore di un passaggio simbolico importante. Possiamo dire che costituisce un evento-avvento per la società italiana. Essa è chiamata a interiorizzare ciò che viene quotidianamente rimosso. Il 1 ̊ marzo potrebbe assumere per la coscienza civile più intima di questo paese le caratteristiche di un momento iniziatico, di passaggio verso una definitiva consapevolezza di essere diventato altro grazie all’irrompere degli altri. È un invito alla responsabilità, nel senso letterale di misurare il peso (res/pondus) della presenza e dell’agire dei nuovi cittadini per, insieme, costruire un futuro comune.

l’Unità 1.3.10
Identità negate
di Luigi Manconi

Nel deserto della città terremotata scavalcando le transenne e invadendo le strade segnate dalle macerie, gli aquilani hanno “ripreso” le loro case. O meglio: ciò che ne resta. Come il fondale di un teatro o come le facciate di legno sul set di un film western, l’improvvisa animazione di una folla di abitanti ha dato vita a un’assenza e ha riempito i vuoti di un centro storico che ricorda un paesaggio post-bellico. Gli assenti, gli aquilani dispersi nelle “casette” e negli alberghi, o in alloggi di fortuna sono tornati sulla scena con la “manifestazione delle carriole”. Manifestazione, cioè l’atto del manifestare. Quando si manifesta, in gene’re, è una buona cosa. Significa, farsi vedere e far vedere, rendere pubblico, dare visibilità a ciò che è occultato o negato.
Oggi manifesteranno altri assenti: finora occultati o negati. Lo sciopero degli immigrati è propriamente questo: è la manifestazione – fatta di molte manifestazioni – di un popolo che semplicemente non si vede. O che, peggio, si vede (viene visto) solo come un fattore di allarme sociale, e di angoscia collettiva. E che richiama immagini di invasione o – in chi ha “un cuore grande così” – un sentimento di rimorso, che può avere effetti negativi non minori di quelli prodotti dalla paura sociale. Perciò è così importante, al di là del numero di quanti oggi vi parteciperanno, che il “primo marzo degli immigrati” abbia successo e dia vita ad altre giornate come questa. Ed è assai significativo che, a promuoverlo, siano state, tra gli altri, le comunità straniere: perché qui sta la sfida più ardua, che non si esaurisce certo in ventiquattro ore ma che, al contrario, da questo primo marzo può prendere le mosse.
In gioco c’è, infatti, ciò che chiamiamo soggettività: l’identità individuale e collettiva, le biografie e le memorie, le culture e i vissuti e le aspettative. Gli immigrati sono da tempo nella società italiana, profondamente inseriti nelle sue sfere di vita e nei suoi gangli economici: accudiscono i nostri bambini e i nostri vecchi e reggono settori come l’agroalimentare e l’allevamento, l’edilizia, la ristorazione, la siderurgia, la pesca e altri ancora. Sostengono in misura rilevante il nostro sistema di welfare, surrogandolo attraverso il “lavoro di cura” e incrementandolo attraverso la contribuzione previdenziale. Sono lì, nelle case e negli uffici, nei mezzi di trasporto e nelle pizzerie, ma semplicemente non li vediamo. Ovvero non li “pensiamo”. Non è questione di buoni sentimenti e nemmeno di buone intenzioni. Fino a quando gli immigrati rimarranno una folla anonima e indistinta, senza nome e senza volto, senza personalità e senza passato, ci appariranno molesti e minacciosi e la loro distanza da noi tenderà a crescere: e a renderci ancora più insicuri.
Sapete perché in Italia non si è mai sviluppato un movimento come SoS Racisme in Francia? Molti i motivi, ma uno in particolare va considerato oggi. Lo slogan del movimento francese era: non toccare il mio amico. Ma in Italia quanti possono dire di avere e non in senso ideologico o solidaristico un amico immigrato?

l’Unità 1.3.10
«24h sans nous»: sui diritti la Francia fa da apripista
In Francia è nata l’idea della mobilitazione. «24 ore senza di noi». Un giorno di astensione dal lavoro e dal consumo. Solidali i sindacati. Inviata una richiesta di adesione a Sarkozy, in quanto figlio di immigrati ungheresi.
di Luca sebastiani

Più che di uno sciopero vero e proprio, si tratta di un’azione simbolica. L’iniziativa «24 ore senza noi, una giornata senza immigrati», chiama infatti alla mobilitazione oggi tutti gli «immigrati, i figli di immigrati e i cittadini coscienti» attraverso un giorno d’astensione dal lavoro e/o dal consumo, per rendere manifesto da una parte che l’apporto dei nuovi «francesi» è determinante all’economia d’Oltralpe, e dall’altra che gli immigrati e i loro figli non ne possono più di essere utilizzati strumentalmente dalla politica.
L’idea dello «sciopero», che oggi dovrebbe vedere la partecipazione di diverse migliaia di persone in tutto il paese, è infatti nata su iniziativa di un collettivo che lo scorso autunno ha deciso di reagire alla politica dell’immigrazione del governo, che con il cosiddetto dibattito sull’identità nazionale ha spesso usato l’immigrato come capro espiatorio di tutti i mali francesi. Secondo Nadia Lamarkbi, presidente di 24 heures sans nous, l’idea di dimostrare quanto pesi nei fatti l’apporto economico dell’immigrazione (11% della forza lavoro), è nata quando lo scorso settembre il ministro dell’Interno Brice Hortefeux, braccio destro del presidente Sarkozy, mentre faceva una foto in compagnia di un giovane militante sarkozista di origine magrebina ha detto che «quando ce n’è uno va bene, il problema è quando ce ne sono tanti». Non è stata l’unica gaffe. Sono diversi i membri della maggioranza che hanno rilasciato dichiarazioni più o meno razziste, tanto che gli immigrati si sono sempre più sentiti stigmatizzati e Sarkozy è dovuto intervenire per calmare le acque. Ciò che non ha impedito al collettivo 24 heures sans nous di crescere e raccogliere sostegno e adesioni principalmente su internet.
Oggi gli organizzatori sperano di ripetere il successo di un’esperienza statunitense simile, quella del 2006, quando migliaia di immigrati ispanici bloccarono le città americane per protestare contro una legge sul lavoro clandestino voluta da George Bush. Allora gli immigrati riuscirono a far ritirare il testo, ma il problema della giornata senza immigrati à la française, che oggi si terrà anche in Italia e Grecia, e che non ha nessuna finalità rivendicativa e dunque faticherà a mobilitare i grandi numeri, soprattutto tenuto conto delle condizioni di debolezza lavorativa cui sono costretti i lavoratori immigrati.
SOLIDARIETÀ DEI SINDACATI
Gli organizzatori hanno incassato però la solidarietà delle sigle sindacali e delle forze della gauche d’opposizione, pur rifiutando qualsiasi strumentalizzazione. A questo fine hanno anche inviato una lettera al presidente Sarkozy invitandolo a partecipare in quanto figlio di immigrati ungheresi, ma non hanno contestato nessuna delle leggi sarkoziste e neanche chiesto la chiusura del ministero dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale che i socialisti considerano una vergogna.
Oggi i partecipanti alla giornata senza immigrati si ritroveranno davanti ai municipi di Lione, Parigi, Bordeaux, Marsiglia e tante altre città, ma nessuna manifestazione unitaria è stata prevista per lasciare che il movimento si sviluppi orizzontalmente. Intanto a Parigi è arrivato al quarto mese lo sciopero coordinato dalla Cgt dei lavoratori sans papiers. Secondo il sindacato sono circa seimila i partecipanti che chiedono la regolarizzazione.

l’Unità 1.3.10
Palloncini gialli, ma anche musica e cucina etnica La protesta in mille piazze
Alle 18, 30 in punto il cielo di colorerà di giallo in sessanta città d’Italia: verranno lanciati in aria palloncini gialli (in lattice biodegradabile). Il giallo è infatti il colore scelto per la manifestazione di oggi.
di Marzio Cecioni

Nata in maniera spontanea sul web (grazie anche ad gruppo su Facebook) la protesta del Primo Marzo ha ricevuto in Italia una lunga serie di l’adesione, tra cui Emergency, Amnesty, i missionari del Pime e Legambiente, di partiti politici (Pd, Verdi, Sel e Rifondazione Comunista) e di sindacati Cgil, Cisl, Uil e Cobas, che pur dando il loro sostegno, non hanno proclamato lo sciopero generale a livello nazionale.
Ogni città si mobiliterà in modo diverso. A Roma alle 17, il corteo da da Porta Maggiore a piazza Vittorio, dove alle 18. Qui sono previsti concerti, con l’esibizione dell’Orchestra multietnica di Piazza Vittorio e una serie di interventi. A Milano, ritrovo alle 9,30 fuori da Palazzo Marino, il corteo farà giro attorno al municipio milanese. Alle 17,30 raduno in piazza Duomo. Qui, lezioni di lingue straniere; verranno offerte spremute d’arancio da bere per «Rosarno chiama Italia: l’unica cosa che vogliamo spremere sono le arance»; partenza del corteo in direzione di piazza Castello alle 19, poi interventi e musica dal vivo.
A Genova, alle 18 (commenda di Prè) la partenza del corteo, arrivo piazza Matteotti, qui festa e concerto. A Brescia, giornata di mobilitazione in piazza della Loggia, con presidio dalle 10 alle 14. Presidi in vari mercati della provincia (ad esempio a Rovato dove confluiranno le donne), davanti scuole e fabbriche. A Napoli, partenza del corteo alle 11 da piazza Garibaldi. Siracusa e Catania: alle sei del mattino pellegrinaggio in pulmino nei luoghi del caporalato nella campagna attorno a Cassibile. A Catania presidio nella zona in cui si concentrano i venditori senegalesi (piazza Stesicoro). Alle 18 cortei, festa, musica e cucina etnica. Perugia: in programma, a partire dalle 14.30, raduno in piazza Italia, da qui corteo in direzione di corso Vannucci che confluirà a piazza IV novembre. Poi, musica fino alle 18.30. A Bologna, appuntamento alle 16 in piazza del Nettuno: qui mostra fotografica con i volti dei nuovi cittadini italiani. A Bari, alle 18.30, in piazza del Ferrarese, lettura di testi sui temi della giornata, testimonianze e racconti delle comunità migranti di Bari. Forlì Cesena: alle 16,30 in piazza Saffi gazebo e tavoli: animazione per bambini e musica. Trieste: alle 15 ritrovo in piazza Sant’Antonio e partenza di una “squadra” che andrà a cancellare le scritte razziste dai muri delle città. Alel 17 da piazza Ponterosso, corteo.
Reggio Emilia: dalle ore 10 alle 18, in piazza Casotti e alla prefettura. Ancona: corteo da corso Carlo Alberto a piazza Roma, partenza alle 9.30. Firenze: presidio in piazza SS Anunziata, dalle 16. Rimini: alle 17, alla stazione la partenza del corteo che sfilerà per le vie del centro. Alle 19, alla Vecchia Pescheria “Sound meticcio” aperitivo tematico. A Torino, il mercato della Crocetta verrà «ricoperto» di giallo; palloncini saranno distribuiti nelle scuole con più del 30% di immigrati; corteo alle 17 dalla stazione di Porta Nuova.

l’Unità 1.3.10
5 risposte da Yael Dayan
I fanatici di Eretz Israel
di Umberto De Giovannangeli

Non dobbiamo sottovalutare la pericolosità dei coloni oltranzisti. Costoro sono tutt’altro che una «scheggia impazzita» della società israeliana. I fanatici del «Grande Israele» possono contare su coperture politiche ai massimi livelli del governo.
Guerra di religione
Dietro il piano del governo sulla protezione del patrimonio ebraico c’è una visione della storia fortemente ideologizzata, nella quale anche vittorie militari, come la Guerra dei Sei giorni, vengono concepite come «segno» divino.
Lode del compromesso
Si tratta di concepire le ragioni dell’altro non come un ostacolo all’affermazione delle proprie (ragioni) ma al contrario come base per raggiungere una pace che si pone a metà strada tra le rispettive aspirazioni e rivendicazioni.
Il «Nuovo inizio»
Continuo ad avere fiducia nelal volontà di Barack Obama di voler far uscire dallo stallo il processo di pace. Ma la sua è una corsa contro il tempo e il tempo in Medio Oriente non lavora per la pace.
Il «caso Dubai-Hamas»
Il diritto di difesa non giustifica gli squadroni della morte. E poi dobbiamo interrogarci sui risultati delle «eliminazioni mirate» come sull’assedio di Gaza. Il pugno di ferro non ha indebolito Hamas ma ha finito per alimentare l’odio dei giovani palestinesi verso Israele.

l’Unità 1.3.10
Bonino difende Mambro-Fioravanti Gelo a sinistra
Fino a un minuto prima la platea di Sinistra Ecologia e Libertà, riunita per lanciare con Vendola la campagna elettorale per Emma Bonino, applaudiva alla «non violenza», a quel chiamarsi «compagni anche se con accezioni diverse», alla necessità di prendere le distanze dal ’900. Poi il gelo, quando la candidata alla presidenza della Regione Lazio scandisce la sua condanna della «campagna ostile che sento in questi giorni nei confronti di Mambro e Fioravanti che hanno pagato il loro debito con la giustizia». La sua è una «provocazione da prendere sul serio», dice Vendola che non rifiuta il tema, anche se lo rubrica tra gli argomenti «rasposi», forse «da non affrontare in campagna elettorale». E comunque «bisogna prendere in massima considerazione il rispetto del dolore dei parenti e degli amici». Il principio, dice è condivisibile: «La pena ha una funzione di rieducazione e non è tortura». Il resto è un tema tutto da sviluppare: «come si costruiscono forme serie di riconciliazione». MA.GE.

Repubblica 1.3.10
Caravaggio da record così i maestri dell'arte mettono tutti in fila
di Francesca Giuliani

Roma: per la mostra 5000 visitatori al giorno
Negli ultimi anni Giotto a Firenze e Van Gogh a Treviso le esposizioni di maggior richiamo

ROMA - Sarà l´aura maledetta che ancora lo circonda o la fama che, a quattrocento anni dalla morte, fa di lui uno dei pittori più amati di tutti i tempi, ma a Roma è il trionfo di Caravaggio: la mostra alle Scuderie del Quirinale ha totalizzato 45mila visitatori in nove giorni stabilendo il record di cinquemila ingressi quotidiani. Un dato che va ad insidiare il primato assoluto della mostra fiorentina su Giotto nel 2000.
«Caravaggio è come Dante Alighieri letto da Benigni, da Carmelo Bene o da Gassman: esprime una grandezza che il pubblico avverte e che parla a diversi livelli di comprensione, dall´occhio del semplice amante dell´arte a quello dello studioso», spiega Claudio Strinati ideatore di questa mostra-record in cui, per la prima volta, si possono vedere le opere di attribuzione certa dell´artista, a cura di due studiosi come Rossella Vodret e Francesco Buranelli.
Sulla piazza del Quirinale per La Canestra di frutta dell´Ambrosiana o I Bari arrivati dal Texas, c´è coda anche al mattino o in settimana, nella città in cui pure tanti capolavori sono esposti sempre, dalle chiese ai musei e alle gallerie: «Caravaggio è una rockstar - commenta Mario De Simoni, direttore generale dell´azienda Palaexpò-Scuderie - Con un avvio simile ci aspettiamo un incremento di visitatori e persino un margine di utile». La mostra è costata 2 milioni 700 mila euro; i ricavi si hanno al di sopra dei 300/400mila visitatori: «Fatto rarissimo per un appuntamento di questa rilevanza scientifica», conclude De Simoni.
L´artista che si celebra alle Scuderie è stato protagonista di un´altra mostra recente di buon successo, curata da Anna Coliva alla Galleria Borghese, in cui lo si accostava a Francis Bacon. Spiega Coliva: «In Caravaggio c´è un maledettismo biografico che rende il visitatore protagonista; noi viviamo nell´epoca del più totale individualismo: credo che questo aspetto spieghi il successo di Caravaggio, parte di una triade di star dell´arte insieme a Van Gogh e a Leonardo. Per artisti pure sublimi come Poussin o Raffaello successi simili sono impensabili. Manca un riconoscimento personale, narcisistico».
Da Caravaggio a Van Gogh, da Picasso a Monet, che sia rito laico o moda, il boom delle mostre è qualcosa che Marco Goldin padroneggia, avendo curato di esposizioni come "L´impressionismo e l´età di Van Gogh" a Treviso che totalizzò 602mila visitatori. E allora qual è il segreto? «Non tentare bluff, mettendo in locandina artisti di cui poi non si presentano opere di qualità - dice Goldin - Fidelizzare il pubblico che, in linea generale, è richiamato da una volontà di approfondimento personale, da un bisogno di bellezza. Il fenomeno-mostre può poi scattare come con altri prodotti, come una borsa che compri perché ce l´hanno tutti».

Repubblica 1.3.10
Il fascino di un genio irregolare
Rissoso fino all´omicidio, sfrontato, dissoluto e irriverente Anche la sua morte è una specie di "giallo": morì a Port’Ercole di febbre e di stenti
di Corrado Augias

Il fascino di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, sta nella qualità delle pitture, nella sregolatezza della vita, nell´alone di leggenda che ne circonda la morte. Non avendo responsabilità di storico né di critico posso tagliare grosso: Caravaggio è uno dei pittori più potenti della nostra storia. In che cosa risieda questa ‘potenza´ si può vedere in alcune delle opere esposte alle Scuderie ma anche, e lo consiglio, in alcune tele rimaste in situ e cioè in alcune chiese romane. A Santa Maria del Popolo ci sono la conversione di Paolo e il martirio di Pietro. Nel quadro di Paolo la luce piomba dritta sull´apostolo atterrato e sul fianco poderoso del cavallo. Nella chiesa di sant´Agostino si trova la celebre "Madonna dei pellegrini" per la quale posò un´amante del pittore. Il primo piano è occupato dell´ingombrante deretano e dai piedi sporchi dell´uomo inginocchiato davanti alla Vergine. A San Luigi dei Francesi si trova, tra le altre, la commovente "Vocazione di Matteo" tagliata trasversalmente dalla luce con la figura di Gesù quasi in ombra nel lato destro. In tutti questi quadri la connotazione realistica parve, nel clima della Controriforma, poco meno che ingiuriosa. In un´epoca in cui la chiesa cattolica, sgomenta per il dilagare del protestantesimo, cerca d´imporre un´arte edificante e ideologica, Caravaggio dipinge le crude verità della vita: i suoi santi non fissano rapiti il cielo, non congiungono le mani nella preghiera. Nella gloria o nel martirio restano esseri umani, i loro corpi mostrano la fatica, la vecchiaia, la miseria, il peso della carne. Anche la vita dell´artista è di pari fascino. Irregolare, geniale, rissoso fino all´omicidio, frequentatore di prostitute e di giovanetti, pronto a gesti sfrontati come quando getta un piatto di carciofi in faccia a un povero cameriere che lo ha contraddetto. Ma a dispetto di questo sulla sua figura resta sospesa un´ombra d´isolamento. Come ha scritto Giulio Mancini conoscitore d´arte: " Non si può negare che non fusse stravagantissimo". Quella ‘stravaganza´ possiamo decifrarla come un´inquietudine dovuta a chissà quale torsione dell´animo o forse alla consapevolezza orgogliosa di essere il più dotato tra quanti a Roma dipingevano tele e pale d´altare.
Con un termine abusato possiamo dire che i suoi ultimi giorni, e la morte, sono un giallo. Il poco che sappiamo lo dicono i suoi approssimativi biografi. Sappiamo che sbarca a Port´Ercole e che lì, secondo il medico senese Giulio Mancini, appassionato di pittura: «preso da febbre maligna, in colmo di sua gloria, che era d´età di 35 in 40 anni, morse di stento e senza cura et in un luogo ivi vicino fu seppellito». Altro su di lui non c´è. A parte la gloria.

Repubblica 1.3.10
L'epica della bonifica
Pennacchi. l’Agro Pontino e il fascismo sentimentale
di Valerio Magrelli

"Canale Mussolini" è il nuovo romanzo dell´autore del "fasciocomunista" Che trasforma la provocazione politica in materia estetica
I protagonisti compiono anche fatti gravi come l´omicidio di un prete
Tra le pagine più riuscite il trasferimento dei "cispadani" nel Lazio
Si parte dagli anni Venti, tra storia e cronaca. Il libro verso la candidatura allo Strega

La Musa di Antonio Pennacchi è la provocazione. Con la sua foga, con la sua insistenza, questo scrittore batte da anni sullo stesso chiodo: mostrare come il fascismo possa essere una questione di "educazione sentimentale". A ciò alludeva il concetto di Fasciocomunista, autentico marchio di fabbrica dell´autore, dal titolo del fortunato romanzo del 2003 da cui venne tratto il film Mio fratello è figlio unico. A ciò allude adesso il suo ultimo romanzo, dal titolo altrettanto emblematico di Canale Mussolini (Mondadori, pagg. 464, euro 20). Come se non bastasse, a rincarare la dose sta una dichiarazione posta ad apertura di volume: "Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo". È dunque su presupposti così tambureggianti e ambiziosi, che il lettore si addentra nell´opera (che per altro la Mondadori sta pensando di candidare al Premio Strega e che affronta un periodo storico diventato di nuovo soggetto-oggetto di ispirazione e riflessione narrativa, dai film ai romanzi). Al centro della trama stanno i Peruzzi del paesino di Codigoro, una grande famiglia le cui peripezie vengono ricostruite dall´alba del Novecento fino alla Seconda Guerra Mondiale.
Ma il vero nome e nume tutelare, è un altro: infatti, oltre che campeggiare nel titolo (in riferimento all´impianto di bonifica realizzato nelle paludi pontine), Mussolini compare anche nel racconto, come capo carismatico e dongiovanni impenitente. Così, cronaca domestica e Storia nazionale si intrecciano, contribuendo a delineare l´immagine di un fascismo "naturale", presentato come un esito inevitabile e spontaneo nelle scelte di un gruppo sociale proveniente dai socialisti e dai sindacalisti rivoluzionari. Fasciocomunisti, per l´appunto: "Mica stavamo con classi diverse, almeno all´inizio. Vada a vedere il programma di San Sepolcro, noi eravamo semplicemente concorrenti nella stessa classe di popolo lavoratore e si trattava solo di vedere chi è che comandava. È per questo forse che ci siamo odiati tanto, perché eravamo fratelli che si erano divisi. La gente non si odia mai con un nemico storico come si odia poi con i fratelli".
Ai discorsi, però, seguono i fatti, e fatti tanto gravi che uno dei figli del patriarca giungerà all´omicidio di un prete. Tra spedizioni punitive e riflessioni politiche, assistiamo alla nascita dei primi fasci di combattimento, alla marcia su Roma, allo scoppio della guerra civile e all´assassinio di Matteotti, cui fa eco la vita quotidiana di una famiglia di mezzadri. La creazione di un fienile, la bruciatura delle stoppie, la costruzione delle strade, l´allevamento delle vacche o delle api ispirano a Pennacchi alcune fra le pagine più riuscite di un libro il cui culmine è però rappresentato dal trasferimento dei "cispadani" nel Lazio meridionale. A fare da spartiacque (è davvero il caso di dire) dell´intera narrazione, sta il grande esodo organizzato dal regime, che spinse trentamila veneti, friulani e romagnoli ad emigrare, intorno agli anni Trenta, nell´Agro Pontino. Il motivo di tale sommovimento è affidato alle prime righe del testo: "Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui?".
Con ciò arriviamo finalmente al cuore del romanzo. Perché se la Musa di Pennacchi può dirsi viva, ciò è appunto grazie alla sua personalissima ossessione agro-pontina. È proprio questo invasamento, questo rovello a trasformare la provocazione politica in materia estetica, agendo con un intervento di fissaggio su sostanze altrimenti volatili. Ecco cosa fa di Pennacchi uno scrittore. L´immagine del Canale Mussolini diventa allora veramente il perno su cui si trova a ruotare l´intera macchina narrativa. Da qui il tono apertamente epico di certe pagine sulla colonizzazione. Sradicati dai loro paesi, i nuovi arrivati entrano subito in conflitto con i locali (primi fra tutti gli abitanti di Sezze, dipinti come apaches), prendendo contatto con un universo ostile, sebbene assoggettato di recente al dominio dell´uomo. Davanti alle paludi bonificate, non mancano allora richiami biblici ("Il Mar Rosso prosciugato"), riferimenti ai Paesi Bassi ("Ma questa è un´Olanda sterminata!") e ai Pilgrim Fathers ("Ci hanno preso col Mayflower e ci hanno portato qui"), oppure accenni alla cronaca dei nostri giorni ("Eravamo gli extracomunitari dell´Agro Pontino"). Sia chiaro: questo slancio è compensato da un attento lavoro di calibratura. Tutto il racconto, infatti, viene svolto da un personaggio senza nome, che si indirizza a un altrettanto misterioso interlocutore. In questo modo, le vicende vengono filtrate da una figura la cui identità, con un felice colpo di scena, verrà svelata soltanto nel finale. Benché il registro dialogico si faccia spesso troppo colloquiale (quando ad esempio si tratta di riportare le voci dei grandi personaggi storici), la presenza di questo portaparola assicura all´insieme una buona tenuta, e consente di seguire una struttura fatta di frequenti andirivieni cronologici.
Gli orrori della guerra chiudono la vicenda. Ma accanto ad essi, l´ultimo capitolo conosce un improvviso mutamento, con una storia di amore e perdizione che unisce un nipote del vecchio Peruzzi alla zia, una misteriosa allevatrice di api. Nel segno di una nuova nascita, la Natura giungerà a reintegrarsi nella Storia, in una pacificazione conclusiva coronata dal sogno di una nazione "venetopontina". D´altronde dove mai avrebbero potuto trovare requie i "fasciocomunisti", se non in un regione dal nome altrettanto impossibile, doppio, contraddittorio?


Repubblica 1.3.10
Denis Mack Smith
“A 90 anni sono diventato ottimista"

Il grande storico: "Alla mia età non si possono avere toni apocalittici. L´Italia non è una nazione in pace con se stessa ma è più forte di un secolo e mezzo fa"
"Rosario Romeo era invidioso del mio libro: un giorno si rifiutò di stringermi la mano"
"Renzo De Felice? Non si capacitava che uno studioso straniero avesse tanto successo"

OXFORD. «Detesto i festeggiamenti, ma a novant´anni - li compio il 3 marzo - mi è difficile proibirli». Con passo sicuro Denis Mack Smith attraversa la residenza di White Lodge, un inglesissimo villino bianco con grandi vetrate affacciate su una distesa verde. È da questo paesaggio alla Jane Austen che per oltre mezzo secolo lo studioso ha esercitato il ruolo di coscienza critica della storia italiana. «Venni ad abitare qui grazie a Isaiah Berlin», racconta l´italianista di Oxford mentre si fa strada nel giardino, a Headington «Lui viveva nella villa accanto e mi parlò di questa casa costruita alla fine del XVIII secolo». Gli occhi si stringono in una fessura. «Il mio amico Berlin era davvero straordinario in tutto: quando parlava italiano era così veloce che neppure io riuscivo a stargli dietro».
Quella per l´Italia è una passione antica, maturata negli anni della scuola. «Ero molto incuriosito dalla penisola, dal suo clima latino. Da ragazzo provai a studiarne la lingua, ma feci tutto da solo, sostanzialmente un autodidatta». Figura elegante, lo sguardo perennemente tentato dall´ironia, Mack Smith sembrerebbe figlio del più esclusivo ceto intellettuale britannico. «In realtà mio padre faceva l´ispettore delle tasse a Bristol: io sono stato il primo della mia famiglia a prendere una laurea». La sua tesi fu dedicata al nostro Risorgimento. E alla fine della guerra, ventiseienne, Denis s´affrettò nel paese di Cavour e Garibaldi. «Era il 1946, ottenni dal mio college una borsa di studio di poche sterline. Così passai un anno tra gli archivi, divorando solo libri e poco altro. Ricordo ancora la fame e il silenzio. Ho vissuto interi mesi senza parlare. Mi muovevo in un´atmosfera strana, difficile da decifrare, il paese era ancora scosso dalla guerra. Ebbi poi la fortuna di incontrare a Napoli Benedetto Croce, che mi aprì biblioteche e amicizie. L´unico problema era il suo accento: non riuscivo a capire una parola!».
Per una sorta di congiunzione astrale, la sua vita è strettamente intrecciata al destino nazionale italiano. Il libro che fece più scalpore - La storia d´Italia - uscì da noi nel 1959, a due anni dal centesimo anniversario dell´Unità d´Italia. E il suo novantesimo genetliaco precede di poco il nostro nuovo disastrato compleanno. «Per me l´Italia rimane un groviglio complicato, difficile da sciogliere», dice soppesando le parole. Nessun altro ha narrato le nostre storie di famiglia con eguale scettica acutezza. Il suo disincanto è stato promosso a sana abitudine della mente. Però ora, a novant´anni, Mack Smith si sottrae al ruolo di fustigatore dell´italianità «Oggi sento l´urgenza di essere ottimista. Uno storico non può - non deve - accomiatarsi dal lettore con accenti apocalittici. Le celebrazioni per l´Unità d´Italia si misureranno con tutte le incompiutezze nazionali, ma non bisogna esagerare nel disfattismo. Il mio amico Christopher Duggan sostiene che l´Italia appare un´idea ancora troppo malcerta e contestata per poter fornire il nucleo emotivo di una nazione, almeno di una nazione in pace con se stessa. La definizione non mi dispiace, purché non ci si lasci prendere da un eccesso di sconforto. L´Italia di oggi è incommensurabilmente più robusta e ricca che un secolo e mezzo fa». Solo quando accenna al berlusconismo, l´ottimismo volontario lascia tradire qualche crepa: «Non mi sembra una novità nella storia italiana: il populismo, il sovversivismo, l´assenza di regole fanno parte della trama che lo precede». Si ferma e guarda oltre il giardino. L´argomento sembra annoiarlo, o forse non lo riguarda più.
Per lui la storia d´Italia è quella raffigurata sulle pareti di casa, il ritratto di Garibaldi acquistato con pochi pounds da un libraio di Cambridge («Non capiva granché di politica, tuttavia un valente e onesto cavaliere»), o la ceramica di Vittorio Emanuele II a cavallo («Neppure il re, a dire il vero, era molto intelligente...»). Dei nostri sovrani, eroi e governanti ha rivelato ottusità, cinismi e compromessi. Per questo è stato liquidato come «antitaliano» e demolitore dell´orgoglio patrio. Invece «la storia d´Italia nasceva dal bisogno inconscio di spiegare al pubblico anglosassone perché il vostro paese - un paese che io amavo molto - fosse stato capace di inventare il fascismo e muovere guerra alla democrazia». Così andò in ricerca delle nostre più antiche debolezze, trovandole tra le pieghe del processo risorgimentale. Quando la Storia d´Italia vide la luce, nel 1959, fu un vero scandalo. Gli storici più paludati gli rimproverarono un eccesso di semplificazione. «In realtà io non l´avevo scritta per un pubblico italiano. A convincermi fu la tenacia di Vito Laterza, consapevole della forza dirompente del lavoro. Sia Gaetano Salvemini che Federico Chabod mi avevano dissuaso dal pubblicarlo in Italia. Ma Laterza insistette, anche per suscitare discussione. Io non ero sicuro di tutti i miei giudizi, disponibile dunque a una correzione. L´editore, però, non volle modificare una riga». Oggi la sua Storia è tra le più vendute, assecondando il nostro sottile piacere di essere osservati da uno sguardo esterno con temperata severità. «Il libro rappresentò una novità anche per la scrittura. Uno studioso di formazione anglosassone deve trovare sempre il modo per farsi leggere fino in fondo, naturalmente nel rispetto della verità. A quell´epoca gli storici italiani non si ponevano minimamente il problema». Rosario Romeo definì la sua Storia «un libello», e per il ritratto di Cavour ricorse a una formula sprezzante: «Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale». «Sì, era animato da invidia ma anche da risentimento», sorride con distacco Mack Smith. «Era così offeso che un giorno si rifiutò di stringermi la mano, very unpolite. Pensava che i miei saggi facessero male ai lettori italiani. Romeo era un purista, storico eccellente, tuttavia anche un po´ tiranno». Non fu facile la convivenza neppure con Renzo De Felice, assai critico verso il suo Mussolini. «Non si capacitava che uno storico non italiano avesse avuto così tanto successo. Io mi sentivo molto diverso da loro». Diversi erano anche i due Cavour ritratti da Romeo e da Mack Smith, più monumentale quello dello storico siciliano, più incline a spregiudicatezza e intrigo quello dello studioso inglese. «Ma probabilmente Romeo aveva ragione. Nel rintracciare le cause della fragilità italiana, forse sui difetti di Cavour ho esagerato. La semplificazione, per lo storico, è un rischio sempre in agguato».
Avrà pure ridotto la storia nazionale a un piano inclinato, in cui da Cavour a Mussolini e alla democrazia trasformista tutto scorre in modo fin troppo fluido. Ma l´Italia smarrita di oggi sembra dare ragione al vecchio maestro. «Sì, forse un po´ di ragione l´ho avuta anche io, ma in modo del tutto accidentale». Dieci anni fa ha ceduto alla biblioteca universitaria di Oxford i suoi diecimila volumi italiani. «Sono più utili là che sugli scaffali di casa», s´accomiata nella luminosa veranda, in compagnia della moglie Catharine. «Le confesso che per me è stata una sorta di liberazione, come un passaggio di testimone. Dopo mi sono sentito meglio, molto più leggero».

Repubblica 1.3.10
Un ciclo di cinque incontri a Torino
"Lezioni Bobbio" oggi si comincia con Fitoussi

TORINO - Il Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Centenario della nascita di Norberto Bobbio e Biennale Democrazia promuovono le "Lezioni Bobbio 2010", un programma di 5 incontri sul tema "La democrazia tra opportunità e pericoli" che si terrà a Torino nel teatro Carignano ogni lunedì alle 18. Ecco il calendario: oggi, primo marzo, Jean-Paul Fitoussi parlerà di "Diseguaglianze e diritti"; l´8 marzo Luciana Castellina e Concita De Gregorio affronteranno il tema "Rivoluzione femminile"; il 15 marzo sarà il turno di Nadia Urbinati e Paul Ginsborg con "Potere politico e popolo". Il 22 marzo Gian Carlo Caselli, Umberto Ambrosoli e Andrea Casalegno parleranno di "Stato e antistato". Giovedì primo aprile le conclusioni spetteranno al direttore della Repubblica Ezio Mauro e a quello della Stampa Mario Calabresi nell´incontro intitolato "Informazione e formazione dell´opinione" presentato da Gustavo Zagrebelsky.