domenica 28 febbraio 2010

l’Unità 28.2.10
Piazza del Popolo
Facce pulite e oneste pungolo per la sinistra
Un solo colore nelle sciarpe e nelle bandiere. Giovani stanchi della poca concretezza della politica. Un successo, ma c’è ancora qualcosa che manca
di Francesca Piccolo

Entrando in Piazza del Popolo in effetti posso constatare che il popolo viola è davvero viola, anche in modo fantasioso – nel senso che il viola ognuno se lo è infilato con l’indumento che gli pareva, dal cappello alle scarpe agli occhiali. Molte sciarpe, bandiere e maglie.
È un colore un po’ sofisticato, sia nel significato sia nell’impatto, e come è noto da secoli, dopo un po’ stanca. Ma il colpo d’occhio all’inizio, vale la pena. Ai margini ci sono anche altre sigle, in mezzo c’è un gruppo di sventolanti bandiere dell’Italia dei Valori, che si tenta prima con le buone poi con modi più decisi di far allontanare. Con risultati scarsi.
A camminare tra la gente che riempie la piazza lentamente ma senza smettere, si vedono le facce che riconosci: è come una continuazione dei girotondi di qualche anno fa, persone che sono stanche della poca concretezza politica, cercano di far sentire una voce compatta e indignata. Infatti, questi movimenti finiscono per essere un pungolo continuo alla sinistra, più che alla destra di questo paese. Si prendono carico di innalzare l’impegno emotivo, il coinvolgimento appassionato verso la cosa politica che i partiti e i politici di professione non riescono in nessun modo a rianimare. Questa è il lato migliore della faccenda.
Però devo confessarlo: non sono un buon manifestante. Quando vado, come oggi in Piazza del Popolo, tendo a starmene da parte, a osservare piuttosto che a fare. Mi mette disagio la piazza, non per i motivi, quasi sempre buoni e giusti, ma per le modalità. In effetti, vedere uno col microfono che urla tendendo il braccio per scandire il tempo «legittimo – legittimo – legittimo un cazzo!», non mi spinge a partecipare. Anzi, mi fa abbassare la testa per non guardare.
Per non parlare di una questione che per me è motivo di imbarazzo atavico. Perché dico: ti giri intorno e vedi queste facce pulite, appassionate, oneste, da anni (e decenni) desiderose di vivere in un paese migliore, e di contribuire a questa spinta al miglioramento in modo concreto; ci si mette tre settimane per organizzare una manifestazione in modo spontaneo e senza l’aiuto di apparati di partito o roba del genere, alla quale aderiscono persone di ogni segmento di centro e sinistra – e alla fine quello che rende davvero felici tutti è urlare «chi non salta Berlusconi è», ed effettivamente saltare per un sacco di tempo, con le tempie luccicanti per il sudore e lo sforzo? Ecco, questo davvero non lo capisco. E la questione è che poiché non lo capisco, non salto; e in quel momento, in quella piazza, chi mi guarda fa una rapida equazione e pensa che Berlusconi sono, per quello che può significare nella sostanza questa conclusione visto che in effetti Berlusconi non sono.
Il lato meno buono è l’eccesso di sollievo che dà l’appartenenza. Mi spiego: ci si conosce, ci si riconosce. Si pensa tutti la stessa cosa, si vive tutti dalla stessa parte. Tutti sono d’accordo con tutti su tutto. Questo è più rassicurante che stimolante. Perché dà la sensazione, la sera quando si torna a casa, di essere stati concreti, per il semplice fatto di aver preso parte a un evento insieme a tanti simili. Almeno qualcosa è successo, si dice.
Poi accompagno un’amica a prendere un taxi a Piazza di Spagna. Quando arriviamo, vediamo una scena che sembra la scena spettacolare di un film: una gran quantità di ragazzi completamente immobili, hanno un libro in mano, ed è come se fossero stati fotografati mentre lo leggono. Poi c’è un fischio, e tutti si rimettono in moto, applaudono se stessi e chiudono il libro. È un flash mob: ognuno ha portato un libro, e l’ha tenuto aperto per cinque minuti, immobile. È un modo per pubblicizzare un gigantesco scambio di libri che avverrà tra qualche giorno.
Ho pensato al popolo viola a poche centinaia di metri, e a questi ragazzi che sono arrivati fin qui per aprire la pagina di un libro. A questi due mondi positivi vicini, contigui, e completamente indipendenti. Ho chiesto ad alcuni di loro: ma lo sapete che qui c’è una manifestazione eccetera? Non lo sapevano.
Ho visto uno con la maglia viola. Perché sei vestito di viola? E a te che te frega?, mi ha risposto. Mi sono accasciato su uno scalino e ho pensato, esausto, che c’è qualcosa, in Italia, che non funzionerà mai come dovrebbe.

l’Unità 28.2.10
Il colloquio con Bonino
La piazza con Emma: «Daje, e cerca de magnà» E lei ricomincia: «Un po’ d’acqua e limone...»
di Mariagrazia Gerina

La gente mentre attraversa la piazza tinta di viola glielo dice così: «Forza Emma, ma cerca de magnà?». Oppure: «Me raccomando bevi». «Guarda che ce vojono le forze pe’ vince».
La faccia è scavata da oltre cento ore di digiuno e di sete. Ma sorride, ringrazia. Rassicura. Sbuffa un po’, Emma Bonino, come una ragazzina, che a 61 anni si sente troppo grande per le raccomandazioni. Anche se in realtà le fanno piacere, sono un segno d’affetto, di partecipazione. Glielo ha spiegato anche Zingaretti, a nome del Pd. «Comunque guardate, ho già ripreso a bere, lo sciopero l’ho interrotto, la battaglia per la legalità continua e spero che la mia sete di giustizia adesso sia anche la vostra», tranquillizza e sprona i sostenitori, mentre taglia piazza del Popolo per raggiungere il bar Canova, uno dei più famosi della capitale, dove l’aspetta Marco Pannella. «Eh la bimba... credeva già di essere... con quell’azotemia che era alta davvero», la accoglie con abbracci e buffetti. Ne viene fuori un siparietto con tempi quasi comici. Emma e Marco al tavolino, sotto il sole del dopopranzo, la folla dei passanti che si ferma a guardarli. «Acqua, con una fetta di limone», ordine lei, leccandosi le labbra. Quella fetta di limone se la caccia tutta in bocca con un gusto da bambina. Mentre si apparecchia con due bustine di zucchero il bicchiere d’acqua più dolce che si sia mai visto.
I curiosi si affollano tutto intorno. «Il Pdl, quello della libertà, a Roma è arrivato tardi e quindi non c’è: poverini», ne approfitta per annunciare l’esclusione della lista del Pdl, Marco Pannella, che con Emma si gode il contrappasso. «Sono un imprenditore, fascista, ma Emma voto per te», si avvicina per fare outing un signore con fascio littorio sul bavero. Poi è la volta di un ragazzo disincantato: «Io nella politica non ci credo, lei è l’unica per cui posso votare, non si faccia contaminare». «Alla mia età?», si schermisce lei. «Ma in cuor tuo pensi di farcela?», le fa una signora. «Sì», la guarda senza esitazione la candidata. Digiuno e sete hanno rafforzato la sua candidatura, assicura passando con disinvoltura dai tavolini del Canova all’abbraccio per niente scontato della piazza. «L’indignazione è la base, ma si deve trasformare in impegno, in riscossa democratica per il paese», recita il suo augurio al popolo viola, pensato parola per parola per coniugare le differenze. E unire in un momento così drammatico. «Lo stato sfracellato del paese è sotto gli occhi di tutti». Le guance scavate di Emma Bonino, invece, sembrano già un po’ rifiorite.

l’Unità 28.2.10
Confessioni di una candidata
Le inflessibili regole del popolo viola
di Lidia Ravera

La piazza non rigurgita popolo, lo contiene. Non si muore soffocati, ma il numero c’è. Rispetto al NoBday le facce giovani non sono più la maggioranza. C’è una persistenza del grigio che non sta male con il viola (cromaticamente), e che segnala gli irriducibili della democrazia: quelli che non mollano mai. Di personaggi politici ce n’è pochi, nonostante le adesioni. Ma appena ne arriva uno, te ne accorgi perché lì corrono i fotografi, le telecamere, i microfoni. «C’è la Bonino con Pannella!», la notizia provoca una vertigine mediatica. La strana coppia (lei emaciata, lui col codino, ancora più massiccio per il confronto) è circondata da una evidente simpatia. Quando lei beve un bicchiere d’acqua serpeggia il sollievo. La pratica non-violenta di non bere e non mangiare per chiedere legalità piace al Popolo Viola. Un popolo fluttuante, difficile da etichettare,eppure rigido nel suo rapporto con “i politici”, come è rigida, infatti, la gestione del palco. Perfino io, invitata a commentare l’articolo 3 della Costituzione, sono stata, due giorni dopo, cancellata. Motivo: avevo accettato, nel frattempo, una candidatura. Naturalmente nella Lista Civica «Cittadini/e per Emma Bonino», fuori, cioè, da qualsiasi partito o schieramento organizzato, insieme ad altri 35 esponenti della Società Civile. Però, per un mese, lavorerò a sostenere la candidata del centrosinistra . Lì per lì, lo confesso, ci sono rimasta male, ad essere infilata in una categoria cui non sono mai appartenuta e mai apparterrò (diventassi anche Consigliere, sarei una che lavora al governo regionale, non certo catapultata sul posto da qualche appartenenza politica). Poi ho pensato: è un buon segno, questa esclusione senza deroghe. È troppo vorace il ceto politico, soprattutto da quando perde consensi . Chi si mobilita per difendere la legalità in un Paese massacrato dai comportamenti criminosi della sua Classe Dirigente, deve conservare, a tutti i costi, la sua innocenza. Deve fare della generosità, dell’assenza di secondi fini e di rendite personali, forma e contenuto del suo discorso. Deve offrire ai cittadini stanchi di egoismo e di malaffare uno specchio in cui riflettere la propria tristezza, la propria paura, la propria voglia di reagire, la propria dignità. Resta il fatto che non è facile, far parte di quella nebulosa inafferrabile detta Società Civile. Decidi di dare una mano per salvare il Lazio dalla banda Storace-Polverini (“Frangetta Nera”) e ti ritrovi nella Casta. Non sei più Viola? Qual è il comportamento virtuoso? Stare sempre “fuori”? The answer, my friend, is blowing in the wind...

il Fatto 28.2.10
I ragazzi ci guardano
di Antonio Padellaro

P rendiamo un ventenne che provi a farsi un'idea della politica italiana. Negli ultimimesi ha visto di tutto. Il governatore di una importante regione ricattato da un gruppo di carabinieri per le sue frequentazioni trans. Il capo della protezione civile indagato per corruzione e che, nel migliore dei casi, non si è accorto che intorno a lui si mangiava a tutto spiano su grandi opere ed emergenze umanitarie, terremoto compreso. Un senatore della repubblica “schiavo” del crimine organizzato. Due imperi telefonici coinvolti nell'inchiesta sul riciclaggio di denaro sporco e colossale frode di fatture false. Il premier accusato di corruzione giudiziaria che evita la galera grazie alle leggi personali approvate da una maggioranza parlamentare al suo servizio. Il principale telegiornale che falsificando la realtà annuncia l’assoluzione, e dunque l’innocenza del suddetto premier (che intanto insulta a tutto spiano la magistratura). Ce ne sarebbe già abbastanza per indurre un qualunque giovane desideroso di un futuro normale (non circondato cioé da delinquenti e mascalzoni) a cambiare paese. Se poi sono an-
cora decine di migliaia quelli che, malgrado tutto, corrono a riempire piazza del Popolo a Roma per dire basta (in sintonia forse non casuale con il Capo dello Stato) significa che qualcosa da salvare ancora c'è. Qualcuno scriverà che l'altra volta il popolo viola si presentò molto più numeroso, ed è vero. L’importante che la parte più viva di una generazione maltrattata mostri di volere ancora scommettere su se stessa. E sull’Italia.

il Fatto 28.2.10
Torna l’onda viola
Gli organizzatori: siamo in tantissimi a dire no al legittimo impedimento
di Federico Mello

Anche ieri il viola ha conquistato la Capitale. Piazza del Popolo era piena. Duecentomila persone contro il legittimo impedimento. Questa la cifra che sarà data dagli organizzatori a fine giornata. L’appuntamento comportava qualche rischio: la giornata “La legge è uguale per tutti” era stata convocata all’inizio dei febbraio, creando anche del malumore nei gruppi locali che a centinaia erano nati per il 5 dicembre. Troppo ristretti sembravano i tempi. E infatti, i pullman arrivati sono stati 100 contro i 600 del No B. Day. “È stato un successo dice comunque Gianfranco Mascia, uno dei volti più riconosciuti dei viola abbiamo dimostrato che possiamo andare in piazza quando vogliamo, senza chiedere aiuto a nessuno”. Questa volta tutti i fondi necessari ad allestire il palco, sono stati raccolti online: oltre 30.000 euro. Soldi che si aggiungono a quelli ricavati con offerte spontanee in piazza: “Sorridono tutti, ognuno dà qualche euro”, dice Alessandra, che gira tra la folla con una cassetta viola.
Costituzione, legalità, libera informazione, lotta alla precarietà, i temi affrontati. Il palco è aperto dall’appello di Roberto Saviano: “Adesso Basta”, dice lo scrittore, denunciando le infiltrazioni delle organizzazioni mafiose fino agli scranni del Parlamento. Arriva in piazza l’ultranovantenne Mario Monicelli: è in jeans e bomber, avanza tra la gente, come un comune cittadino fino ad arrivare sotto le transenne. Da lì un moto di popolo lo spinge ad intervenire sul palco: “Sono qui per dirvi non mollate. Dovete tenere duro, spazzare via tutta la classe dirigente del Paese, chi dirige la sanità, l’istruzione e i politici che sono i peggiori”. L’autrice satirica Francesca Fornario strappa applausi e risate amare: “L’unica fabbrica che non è mai in crisi, in Italia, è quella che sforna a piè sospinto leggi ad personam: in casa di Ghedini sono stati trovati cinquanta avvocati cinesi che lavoravano in un retrobottega”.
È il momento di Marco Travaglio, che interviene in video con un messaggio registrato: “Le leggi ad personam non sono 20 com’è si è detto chiarisce ma oltre 37”. Poi cita Giorgio Bocca,
che proprio in un’intervista al Fatto Quotidiano ha detto che “L’unica bella notizia degli ultimi anni è il popolo viola, se si ribellano i ragazzi non tutto è perduto”. Per Travaglio, il popolo viola deve vigilare sul comportamento dei politici: “Dovete, dobbiamo essere chiarissimi: chiunque voti per una legge ad personam, non avrà mai più il nostro voto”. È il momento di Andrea Rivera, che fa esplodere la piazza citando prima Rino Gaetano e poi Pasolini, Saviano e tutti i giornalisti che si occupano di criminalità organizzata. “Berlusconi parla di stato di polizia, ma a me sembra che loro in galera non vanno mai, mentre le manganellate si abbattono su Carlo Giuliani, Stefano Cucchi, Aldo Bianzino”. Flores d’Arcais si rivolge al Presidente della Camera: “Non basta esprimere la propria visione democratica nei libri dice bisogna opporsi contro le leggi vergogna, a cominciare dal processo breve”. Oliviero Beha chiede alla piazza: “Non siete offesi quando vi chiamano anti-politici?”. Risponde un boato. Poi è il turno di Guido Scorza, che si occupa di libertà digitali. Raccontano la loro esperienza i precari dell’Ispra, gli operai della Merloni e i precari della scuola. Rispetto al No B. Day del 5 dicembre, dove gli oltre 300.000 erano tutti emozionati dell’incredibile e per certi versi inaspettato successo, le decine di migliaia con sciarpe e berretti viola, appaiono più seri, arrabbiati. Dal palco viene dato il numero di un telefono cellulare: “Mandateci con un sms i vostri ‘Basta a’ e i vostri ‘vogliamo ancora’”. Ne arrivano a migliaia, al ritmo di uno ogni cinque secondi’. Da questi Sms verrà elaborata una proposta. “Abbiamo fatto un passo avanti dice Mascia ora cominciamo a costruire”.

Repubblica 28.2.10
Il Popolo viola si appella al Quirinale
"Non firmi il legittimo impedimento". La gente in piazza: siamo 200mila
Poche presenze del Pd, ed è polemica Marino: bisogna essere di più, farsi riconoscere
di Giovanna Casadio

ROMA - «Non firmare, non firmare, non firmare...». La piazza del Viola-day s´infiamma e scandisce lo slogan contro il legittimo impedimento, la legge che esonera Berlusconi dai suoi processi. Al presidente Napolitano il popolo viola chiede di fermarla («Legittimo, legittimo un cazzo": è lo striscione ai piedi del palco) in nome del principio costituzionale che "la legge è uguale per tutti". Piazza del Popolo è un happening viola; un "va e vieni" di gente; la Costituzione agitata («È il nostro libretto rosso»); al premier il suggerimento è sempre lo stesso: «Dimettiti. Fatti processare» e «Difendiamo la legalità». Per la maggioranza di governo invece, il Viola-day è «istigazione alla violenza».
Non è la mega-manifestazione del 5 dicembre a piazza San Giovanni, quando il movimento di protesta civile fece la sua prova generale. Per le forze dell´ordine, manifestanti in piazza ieri non ce n´erano più di diecimila. Per gli organizzatori, duecentomila. Gianfranco Mascia, uno dei promotori, a chi gli chiede i numeri, risponde: «Ma chissenefrega! La piazza è completamente piena, piena quanto lo era per la manifestazione sulla libertà di stampa». Ma quello che più conta è la community viola, le adesioni online, l´ultimo dato rilevato le dava a 230 mila. E tanto per dare un termometro del consenso, in piazza sono stati raccolti 23 mila euro per sostenere il movimento (da sommare ai 30 mila euro della sottoscrizione sul web). «L´autofinanziamento cresce ancora - spiega Mascia - Decideremo se impiegarlo in un portale online per coordinare le iniziative che si vanno organizzando in ogni parte d´Italia». Una cosa comunque è certa: «Se il legittimo impedimento diventa legge, nuova manifestazione nazionale». Intanto un calendario di appuntamenti: dalla primavera antirazzista (1-21 marzo) al no-mafia day (13 marzo).
Nonostante questa volta ci sia l´adesione formale anche del Pd (oltre che dei dipietristi, della sinistra, dei Radicali di Bonino e Pannella), di leader democratici se ne vedono pochi. Lo fa osservare Ignazio Marino: «È importante avere aderito come Pd, ma sarei felice se ci fossero più parlamentari perché l´opposizione si fa in Parlamento e in piazza». Avvisaglia di una polemica interna che Andrea Orlando rilancia: «La volta scorsa c´erano molti più parlamentari della minoranza interna, perché si trattava di smarcarsi dal segretario Bersani». Le beghe del Pd però non solo non interessano, ma non piace al popolo viola l´opposizione («Fantasma»); fischi quando sono nominati D´Alema e Rutelli; applausi alla battuta del comico Andrea Rivera dal palco: «Ci siamo rotti i coglioni di questa sinistra, vogliamo una sinistra con i coglioni».
Bagno di folla per Rosy Bindi, la presidente del Pd che non ha mai mancato gli appuntamenti viola. Parla della questione morale: «Un paese addormentato, acquiescente è un paese che preoccupa, invece in questa piazza c´è gente che si indigna. Bisogna ascoltare il monito di Napolitano». E Di Pietro, il leader Idv ed ex pm: «Il talebano sta a Palazzo Chigi e fa strage di democrazia. C´è bisogno di una resistenza attiva prima che sia troppo tardi. A forza di pungolare, il Pd sta dando segni di risveglio, con loro vogliamo costruire l´alternativa al governo di Nerone».
C´è di tutto nel Viola-day. Volantini per raccogliere adesioni all´associazione "La questione morale" che invita in ogni città a dedicare una via a Giorgio Ambrosoli. Articolo 21 chiede siano letti in tv stralci della sentenza Mills, per capire la differenza tra assoluzione e prescrizione. Angelo Bonelli è in piazza mentre continua lo sciopero della fame contro l´oscuramento dei Verdi. «I have a dream», recita un cartello. Vale la frase di Martin Luther King: «Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti».

Repubblica 28.2.10
Rap e goliardia per la legalità "Bandiere di partito, vade retro"
Berlusconi "ammanettato". Fischi a D´Alema e Rutelli
di Alessandra Longo

ROMA - Terribilmente seri e terribilmente goliardici, gioiosi, colorati, ironici, oppure, al contrario, affilati, netti, crudi, spietati. I viola alla seconda prova si confermano un fenomeno difficile da imbrigliare. Piazza indisciplinata, secondo i vetusti canoni del politically correct. Piazza che fischia e applaude come le pare. Che sia D´Alema o Berlusconi. Piazza che mescola musica punk e folk, la banda di Kusturica e «Il Corazziere» di Renato Rascel, con possibile riferimento alla statura del premier. Piazza che gradisce il simbolo delle "manette", sia pur di polistirolo. Piazza, ancora, che scandisce gli articoli della Costituzione e poi, con lo stesso impegno, canta il video rap sul legittimo impedimento («Legittimo, legittimo, un cazzo!»).
Sabato di sole romano, tiepido. I viola srotolano le loro bandiere senza insegna, tingono e marchiano il loro territorio con drappi, sciarpe, borse, cappelli. Autoconvocati, autofinanziati, autosufficienti, «indipendenti dai partiti»: ci tengono a mantenere le distanze, ancor più che il 5 dicembre. Transita Rosy Bindi, si intravvedono qua e là deputati (pochi) del Pd, gente di Sel, di Rifondazione, i dipietristi, i Verdi, si materializzano persino i radicali con un Emma Bonino, sciupata dall´astinenza, che al bar Canova si concede una gassosa zuccherata al limone assieme a Marco Pannella e sposa la causa della manifestazione: «Hanno la stessa nostra parola d´ordine: La legge è uguale per tutti». Epperò echeggiano cori "giustizialisti" che non sono propriamente nelle corde dei radicali: «Berlusconi corruttore devi andare a San Vittore». O troneggiano in prima fila, sotto il palco, mentre scorre il video di Marco Travaglio, quelle manette rosa esibite da una fanciulla sorridente che si contende i fotografi con i venti milanesi vestiti da carcerati, la palla al piede e in faccia la maschera-ghigno di Silvio.
Piazza dove c´è di tutto, soprattutto la pancia del Paese, la rabbia degli operai dell´ex Eutelia, l´indignazione dei vecchi partigiani e dei sindacalisti Cgil, la fantasia ironica di quella signora che gira con un cartello bilingue italiano-inglese. Una domanda di fondo: «Falso corruttore e puttaniere. Davvero ce lo meritiamo?». Chi vuole intestare in ogni città d´Italia una via ad Ambrosoli, «cittadino onesto»; chi distribuisce certificati di legittimo impedimento buoni per future udienze; chi urla «Fuori la mafia dallo Stato»; chi si traveste da giudice togato; chi gira con la testa del premier in cartapesta, la stessa del Carnevale di Viareggio, 500 euro in bocca; chi urla slogan contro Minzolini, direttore del Tg1, «house organ del regime». Non c´è un copione, non c´è un filo comune, tranne quello, resistentissimo, del sentimento di appartenenza ad un´altra Italia, quella delle regole, quella che rispetta le leggi. Anche qui, però, si può piangere o sorridere: «E´ meglio la Costituzione del lettone di Putin», sintetizza un volantino del popolo viola. Altri optano per la sintesi cupa: «Democrazia a rischio».
Lassù, sul palco, niente politici, «pur benvenuti». Ben due richiami: «Per favore, indietro le bandiere di partito, vogliamo che qua davanti si vedano le nostre, quelle viola!». Stefano Pedica, Italia dei Valori, si arrabbia con il servizio d´ordine del movimento. Spintoni, tensione, interviene la Digos. Di Pietro, disciplinato, rimane nel backstage. Al contrario, la signora Daniela Gaudenzi (Libera Cittadinanza), calze viola e voce acuta, va al microfono per dire che, insomma, il centrosinistra, così com´è, le fa un po´ senso, per raccontare ai presenti che D´Alema non si è battuto per risolvere il conflitto di interessi, trovando «controproducente» l´obiettivo. Risultato: partono i fischi per il presidente Copasir. E non è finita. Sale sul palco Carlo Infante, «giornalista esperto in new media». D´Alema, secondo lui, è addirittura «uno dei problemi di questo Paese». Tra il pubblico c´è chi sembra approvare. Lui si corregge: «Ho un sacco di amici Pd». Peggio ancora, altri buuh. Tenta l´ultima carta: «Ho fatto la campagna per Rutelli». Quasi una provocazione.
«Mica chiediamo a chi parla di leggerci prima gli interventi», si giustificano gli organizzatori. Gianfranco Mascia, un po´ il loro timoniere, è irritato: «Facile chiamare gli applausi. Così son bravi tutti». Forse è per questo che non c´è tutta questa folla di politici, è una piazza a rischio, senza complessi e prudenze, che molto si diverte quando il comico Andrea Rivera dice: «Ci siamo rotti i coglioni. Vogliamo una sinistra con le palle». Ferrero arriva tardi, trafelato, altri non si fanno vedere per niente oppure transitano come meteore. Il vecchio Mario Monicelli spara la sua rabbia, la stessa dei messaggi video di Giorgio Bocca, di Roberto Saviano: «Cacciateli tutti! Cacciate questa classe dirigente corrotta che mortifica la scuola, la sanità, che fa avanzare i parenti e gli amici». Paolo Flores d´Arcais, sciarpa viola, si incarica di ammonire Fini: «Non basta citare nei libri Tocqueville e la Arendt, bisogna opporsi al processo breve e allo stop alle intercettazioni». «Non firmare, non firmare!», grida la folla viola a Napolitano, mentre un gruppetto di nostalgici invoca Pertini. Quanti sono a piazza del Popolo? «Chissenefrega di quanti siamo – dice Mascia – siamo tanti e insieme gridiamo: "Onesti di tutta Italia unitevi"!». Cala la sera, i viola sciolgono l´adunata ma dentro la Rete continua il fermento. Mail di chi non c´era: «Ho un sogno: che solo gli onesti ci governino». Mail di chi sta guardando con emozione la piazza che smobilita: «Il cielo è viola sopra Roma».

l’Unità 28.2.10
Domani assieme nelle piazze per la nuova Italia della convivenza e dell’eguaglianza
Sosteniamo la legge popolare che afferma il diritto di essere elettori passivi ed attivi
Un milione di firme per il voto agli immigrati
di Livia Turco

Care amiche ed amici, grazie per aver avuto il coraggio di coinvolgere tanti italiani e cittadini stranieri nelle piazze dei loro paesi e delle loro città per dimostrare che insieme si può vivere bene e si può costruire un’Italia migliore. Insieme, e non l’uno contro l’altro, si può combattere la povertà, la disoccupazione e costruire la legalità e la sicurezza. Insieme, per raccontare le tante storie di chi nella sua vita quotidiana nelle fabbriche, nella scuole, nei quartieri ha sconfitto la paura e ha iniziato a costruire una convivenza civile. Insieme, per far vedere i volti e per raccontare le storie di un’Italia nuova e profonda, nascosta, che ostinatamente viene ignorata dai media e dalla politica. L’Italia nuova della convivenza civile. Dopo la giornata del primo marzo e quelle del 20 e 21 marzo la primavera antirazzista deve continuare per costruire la primavera della convivenza civile a partire dai problemi quotidiani, a volte drammatici, che vivono gli immigrati a causa di una legislazione odiosa e dannosa anche per l’Italia come la legge Bossi-Fini e la Maroni-Berlusconi.
DRAMMA
Penso al dramma di tanti che sono in Italia da anni con le loro famiglie, che hanno un corroborata professionalità e che, se perdono il lavoro, hanno solo 6 mesi di tempi per trovarne un altro altrimenti vengono espulsi, penso ai tempi lunghi per il rinnovo dei permessi di soggiorno, al blocco dell’ingresso regolare per lavoro, previsto nel recente decreto “mille proroghe”, nonostante i dati Istat dicano che nel 2009 sono stati assunti 200mila lavoratori stranieri in più perché, anche in tempi di crisi, gli italiani restano indisponibili. Le condizioni di sfruttamento del lavoro, le tante Rosarno che continuano ad esserci, il disagio abitativo, l’incertezza in cui vivono i minori stranieri non accompagnati. Dobbiamo dare voce a questi diritti negati. È molto importante che lo sciopero del 12 marzo della Cgil abbia tra i suoi tre punti quello della condizione dei migranti. È importante che si sia costruito un cartello di associazioni che rivendica insieme i diritti dei migranti e degli italiani. Il Pd ha dato un contributo per le manifestazioni e ha presentato una mozione per la legalità del lavoro e un piano nazionale per le politiche di integrazione che ci auguriamo venga presto messa in calendario alla Camera.
Mai come in questo momento è stato evidente che i diritti sono indivisibili perché il rispetto verso le persone è un valore indivisibile. Non puoi proteggere gli italiani a scapito degli immigrati. C’è anche una battaglia culturale che va fatta. C’è un sussulto di ottimismo che va fatto scattare, c’è uno spirito innovativo che va motivato nel profondo dell’animo degli italiani. È di questi sentimenti che abbiamo bisogno per costruire l’Italia della convivenza civile. C’è una battaglia culturale e simbolica che può aiutare a far scattare questi sentimenti. Quella che dice ai cittadini stranieri: vi riconosco persone, portatrici di eguale dignità, che esigono eguale rispetto. Persone che hanno diritti e doveri. Proprio per questo dovete dare un vostro contributo alla costruzione del bene comune. Dovete esercitare la vostra responsabilità verso questo paese. Dovete dare il vostro contributo per costruire un Paese più forte e più aperto. Questa battaglia culturale si traduce concretamente con il riconoscimento del diritti di voto e con la partecipazione alla vita pubblica. Sarebbe una scossa salutare alla nostra democrazia malata. Perché ripropone la democrazia come la promozione del bene comune da parte di tutti, come assunzione di responsabilità, promozione dell’inclusione sociale, del senso di appartenenza a una comunità. Dall’altra parte, come dimostrano i paesi in cui gli stranieri esercitano il diritto di voto, tale pratica è una straordinaria misura d’integrazione.
PROPOSTA
Ecco allora la proposta che avanzo, una proposta di legge di iniziativa popolare, composta di un solo articolo che ratifica il capitolo C della convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992 e che «garantisce l’elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative a favore degli stranieri titolari di permesso di soggiorno Ce per i soggiornanti di lungo periodo secondo le modalità di esercizio e le condizioni previste per i cittadini dell’Ue demandando a un decreto del ministero degli Interni la disciplina per l’iscrizione nelle liste elettorali degli stranieri».
Una proposta di legge di iniziative popolare con un obiettivo ambizioso: un milione di firme in Parlamento, per dimostrare che gli italiani hanno fiducia, per far vedere l’Italia della convivenza per far scendere in campo da protagonisti i cittadini stranieri, far vedere i loro volti e valorizzare i loro talenti. Anche così si costruiscono i nuovi italiani. Vogliamo discuterne e provarci insieme?

l’Unità 28.2.10
Stranieri perché estranei al clima di razzismo

Alle 18.30 di lunedì «il cielo si colorerà di giallo», così i promotori di primomarzo 2010, la giornata di sciopero degli stranieri. «Stranieri» – precisa il documento del comitato organizzatore – «non tanto dal punto di vista anagrafico, ma perché estranei al clima di razzismo che avvelena l'Italia del presente. Autoctoni e immigrati, uniti nella stessa battaglia di civiltà». Da nord a sud, numerose le città che hanno deciso di aderire, organizzando comizi manifestazioni iniziative di vario segno e con diverse connotati, ma tutte destinate a evidenziare «quanto sia determinante l'apporto dei migranti alla tenuta e al funzionamento della nostra società».
Qui di seguito, in estrema sintesi, alcune iniziative: Roma, ore 18, piazza Vittorio, comizio e concerto dell’Orchestra multietnica di Piazza Vittorio. Milano, ore 9.30 corteo intorno a palazzo Marino; ore 17.30, piazza Duomo lezioni di lingue straniere per gli italiani. Napoli, ore 11, partenza del corteo da piazza Garibaldi. Catania, ore 18, festa etnica. Bologna, ore 16, piazza del Nettuno, mostra fotografica con i volti dei nuovi cittadini italiani. Trento, in serata, festa con la partecipazione dell’Orchestra terrestre. Bari, ore 18.30, piazza del Ferrarese, lettura di testi, racconti e testimonianze delle comunità migranti. Mestre-Venezia, ore 17, appuntamento in piazza Ferretto. Reggio Calabria, ore 15, piazza Duomo, «Villaggio dell'accoglienza e dell'integrazione». Perugia, ore 14.30, corteo da piazza Italia. E poi, Taranto, Reggio Emilia, Lucca, Ancona, Rimini, Lecco, Varese, Oristano, Bolzano, Palermo, Bergamo e ancora altre località. Alle 18.30, da tutte le piazze dove si tengono iniziative lancio dei palloncini gialli.

Liberazione 28.2.10
Il Primo Marzo è già un successo
di Stefania Ragusa

A distanza di pochi giorni o, addirittura, poche ore dal primo marzo, tante persone - giornalisti, ma non solo - mi chiedono se sono preoccupata o in ansia per la riuscita dell'iniziativa. Forse dovrei esserlo, la verità è che non lo sono: non solo perché dai comitati territoriali arrivano segnali più che incoraggianti ma anche perché, indipendentemente da quanta gente scenderà in piazza o si asterrà dal lavoro lunedì prossimo, indipendentemente dal numero di palloncini gialli che saliranno in cielo e dai metri di nastro giallo che "vestiranno" le città, l'obiettivo fondamentale di questa fase è stato già raggiunto: siamo riusciti a mobilitare migliaia di persone, a mettere in rete i movimenti antirazzisti, le associazioni di stranieri e la gente comune, a dare centralità alla questione dei dirtitti dei migranti e a legarla a quella dei diritti collettivi. 
A preoccuparmi, invece, è il dopo primo marzo. Da martedì prossimo, infatti, comincia la fase due, quella della strutturazione del movimento e della proposta politica. Primo Marzo2010 nasce dal basso, come espressione della società civile e, è stato ribadito molte volte, a qualsiasi costo deve mantenere questo tratto distintivo. Rimanere espressione della società civile non vuol dire solo evitare partnership istituzionali. In altre parole: non permettere a partiti e sindacati di metterci il cappello, ferma restando l'opportunità di interloquire attivamente con quei soggetti politici - come il Pd e Rifondazione Comunista - che stanno sostenendo il movimento senza pretendere di orientarlo o manipolarlo. Vuol dire anche attrezzarsi rispetto a tentativi di - mi si passi il termine - cappellizzazione silenziosa. 
Ci sono diversi modi per neutralizzare un movimento che non si capisce e che non si riesce a digerire. Uno, abbastanza scontato, è il discredito. Nei nostri confronti è stato molto usato: in particolare quando, in palese contraddizione con i fatti e le premesse del nostro manifesto programmatico, ci è stata ostinatamente attribuita la volontà di organizzare uno sciopero etnico e quella di volere strumentalizzare gli immigrati. Un altro, più insidioso, è il giochino del cavallo di Troia: ossia, inserirsi all'interno del movimento e puntare alla sua normalizzazione, ridurre i gruppi territoriali al ruolo di comitati organizzatori di eventi ed elargitori di nastrini gialli e, contestualmente, trasformare in tabù le richieste più forti venute dal basso: quella di sciopero, per esempio, che è stata strenuamente difesa da molti comitati ma anche pervicacemente osteggiata dall'esterno. Questo è un rischio concreto rispetto al quale dobbiamo aprire gli occhi e attrezzarci.

l’Unità Firenze 28.2.10
In piazza con i migranti
di Simone Siliani

Chi sono veramente i lavoratori immigrati in Toscana che sciopereranno domani? Una lettura seria del rapporto 2009 dell'Irpet, Il lavoro degli immigrati in Toscana: scenari oltre la crisi, ce ne restituisce un’immagine più realistica delle fobie con le quali si disegnano inesistenti scenari da invasioni barbariche. Emergono due elementi apparentemente contraddittori che devono far riflettere: i lavoratori immigrati "salvano" la Toscana da uno stato di tensione nella demografia delle forze di lavoro determinata dal fatto che la mano d'opera italiana non sarebbe sufficiente a soddisfare le richieste delle aziende che vengono soddisfatte dagli stranieri; dall'altro lato si registra una segregazione degli occupati stranieri in pochi comparti e figure professionali e a prescindere dai titoli di studio. Questo costituisce un vero e proprio rovesciamento dell'immagine che si ha dell'immigrazione: non ci rubano il lavoro ma lo salvano e contribuiscono allo sviluppo della regione; sono discriminati da noi che imponiamo condizioni di scarsa mobilità ascendente a fronte di buone qualificazione, discriminiamo la carriera di donne immigrate, paghiamo meno il lavoro degli immigrati. Discriminazione tanto più grave se consideriamo che il 20% dei 310 mila immigrati residenti in Toscana sono minori (6 su 10 nati in Italia) e il 52% donne. Essere donne, madri e immigrate anche in Toscana costituisce un handicap se hai bisogno di lavorare: il tasso di occupazione è molto più basso, sia in senso assoluto sia in relazione alle italiane. Se sei giovane, madre, immigrata spesso rinunci a cercare lavoro. La crisi fa il resto colpendo soprattutto i gruppi sociali più deboli. Nel primo semestre del 2009 il tasso di disoccupazione degli stranieri è arrivato al 10%. Davanti a questo quadro, è chiaro che la questione immigrazione ha limitati significati relativi alla sicurezza, mentre riguarda molto il rapporto fra sviluppo economico e coesione sociale della comunità toscana. Per questo mi pare poco comprensibile che nel programma della coalizione che sostiene Enrico Rossi non si faccia cenno alle tematiche del lavoro degli immigrati.

l’Unità 28.2.10
I 26 assassini del leader di Hamas ora sono tutti in Israele. Avevano passaporti falsi
C’è anche il dna di uno dei killer. L’Australia convoca l’ambasciatore israeliano
La polizia di Dubai accusa «Il Mossad ha ucciso Mabhouh»
Nella spy story sull’assassinio del dirigente di Hamas gli indizi puntano sul Mossad. «Quel che è sicuro è che oggi la maggior parte dei killer i cui nomi sono stati resi noti è in Israele», dice il capo della polizia di Dubai.
di Umberto De Giovannangeli

Il capo del Mossad, Meir Dagan, dovrebbe assumersi la responsabilità dell’omicidio del dirigente di Hamas Mahmoud al-Mabhouh, ucciso il 20 gennaio scorso in un albergo del Dubai. A sostenerlo è il capo della polizia dell’emirato, Dhahi Khalfan, che ha affermato di avere «la prova irrefutabile del Dna di uno degli assassini», così come le impronte digitali di numerosi altri sospetti. «Dagan deve ammettere il crimine o fornire una smentita categorica al coinvolgimento dei suoi servizi, ma il suo atteggiamento è quello di una persona che ha paura», rimarca Khalfan, intervistato dal quotidiano governativo Emarat Al-Youm: «Oggi la maggior parte dei killer i cui nomi sono stati resi noti si trova in Israele».
PROVE E SOSPETTI
Fino ad ora il Mossad ha sottolineato come non vi siano prove di un suo coinvolgimento nell’operazione, sebbene la stampa israeliana mostri pochi dubbi riguardo alle responsabilità dell’omicidio; la vicenda ha sollevato molte polemiche perché almeno 26 killer avevano con sé dei passaporti falsi di Paesi dell’Ue i cui nominativi corrispondevano tuttavia a persone realmente esistenti, vittime quindi di un furto d’identità: 12 britannici, sei irlandesi, quattro francesi e un tedesco, oltre a tre australiani. I nomi di almeno otto dei 26 sospetti che la polizia di Dubai collega all’omicidio del comandante di Hamas Mahmoud al-Mabhouh, corrispondono a quelli di altrettante persone che risiedono in Israele, avvalorando ulteriormente la tesi di un diretto coinvolgimento dello Stato ebraico nell’assassinio che si ritiene sia opera degli agenti del Mossad. Cinque degli otto nomi sono negli elenchi telefonici israeliani: Philip Carr, Adam Korman, Gabriella Barney, Mark Sklar e Daniel Schnur. Il ministero degli Esteri australiano, da parte sua, ha comunicato che altri due nomi, Nicole Sandra McCabe e Joshua Daniel Bruce, sono di australiani che vivono in Israele. L’ottavo, Roy Cannon, corrisponde a quello di un uomo emigrato in Israele dalla Gran Bretagna nel 1979. Il figlio di Cannon, Raphael Cannon, ha dichiarato all’Associated Press che il vero passaporto del padre è in suo possesso e che quello usato a Dubai ha la foto di uno sconosciuto. L’intrigo coinvolge anche l’Italia. Secondo la polizia di Dubai, 8 membri del commando omicida sono partiti da qui, 6 da Fiumicino e 2 da Malpensa.
L’affaire Dubai-Hamas deflagra in crisi diplomatica. Che dagli Emirati raggiunge l’Australia: l’ambasciatore israeliano è stato convocato per l’uso di passaporti australiani da parte dei membri della squadra assassina. «Uno Stato che si rende complice nell’uso o nell’abuso del sistema di passaporti australiano, per non parlare del fatto che stia per compiere un omicidio, tratta l’Australia con disprezzo, e ci sarà perciò un’azione di riposta del governo australiano», dichiara il premier australiano Kevin Rudd.
«GLI SQUADRONI DELLA MORTE»
Sul Times un «ex agente del Mossad» assicura che Israele ha già usato «in un certo numero di occasioni» i passaporti europei di israeliani con doppia cittadinanza. «Nella mia esperienza ha detto abbiamo utilizzato passaporti di cittadini britannici». In Israele si levano voci critiche, tra cui il columnist di Haaretz Gideon Levy . A chi difende le operazioni condotte dal capo del Mossad, Meir Degan, e al il ministro degli Esteri Avigdor Lieberam che ripete «Non c’è un solo elemento, una sola informazione che indichi un coinvolgimento di Israele», Levy ricorda sull’ultimo numero di Internazionale che «il Mossad dovrebbe raccogliere informazioni, non uccidere, e che uno Stato di diritto non usa gli squadroni della morte...». Una riflessione coraggiosa. Impietosa. «Possiamo anche capire il desiderio di vendetta scrive ancora Levy e la necessità di fermare il contrabbando di armi a Gaza. Possiamo addirittura continuare a ignorare che la vera causa del terrorismo è l’occupazione israeliana. Ma dopo l’eliminazione di Mahbouh con un cuscino, ci ritroviamo in un Paese che manda in giro i killer senza che nessuno faccia domande».

Repubblica 26.2.10
Istruzioni per salvare una lingua viva
di Pietro Citati

L’anticipazione. Il testo che verrà letto al convegno organizzato dal Fai
Dal gergo della Dc e del Pci, all´era di chi parla come "uno di noi"
La nostra è una superlingua che contiene isole diverse

Una lingua non è soltanto un fenomeno storico: cioè l´insieme delle cose che sono state scritte e dette, nel corso di decine di secoli. È anche un´idea, una possibilità, una forma, che sta nascosta (talvolta per tempi lunghissimi) nelle profondità della lingua reale. Prima o dopo, questa lingua possibile viene alla luce, incarnata nelle pagine di un grande poeta o di un grande prosatore. È il momento in cui essa si rivela: come Cristo, Budda o Maometto si annunciarono ai loro fedeli. Questa rivelazione lascia stupiti, commossi, entusiasti, sconvolti: da principio, raggiunge pochi scrittori; e poi, lentamente, con incertezze, ritardi, contaminazioni, si diffonde nelle comunità dei parlanti. Così la Grecia diventò omerica, e l´Inghilterra shakespeariana.
Se vogliamo conoscere quale sia la vera forma dell´italiano, dobbiamo leggere lo Zibaldone, dove Leopardi studia la nostra lingua con una passione e una precisione, che nessuno ha mai eguagliato. Ne parla sempre, nel corso di dodici anni. Ne parla con l´intimità con cui un uomo può discorrere di sé stesso, perché Leopardi è l´italiano. I sostantivi, gli aggettivi, i verbi sono una parte del suo corpo e della sua anima. Niente gli resta celato: né le parole né le strutture. Gioca, scopre, si avventura in luoghi dove nessuno era mai giunto. Presto si convince che l´italiano, sebbene derivi storicamente dal latino, non ne condivide la forma. Il modello simbolico della nostra lingua è il greco: il greco di Saffo, di Platone, o Senofonte.
Come il greco, l´italiano non è una lingua, ma una vastissima superlingua, che contiene in sé stessa decine di lingue e di stili parziali. Racchiude molte isole, spesso diversissime tra loro: eppure tutte queste isole fanno parte della stessa superlingua. Affacciato alla finestra della biblioteca di Recanati, Leopardi guarda verso ogni direzione; e vede dappertutto una lingua infinitamente molteplice e multiforme, che cambia, si sposta, si capovolge, muta strutture, forme, sintassi, significati. Ne riceve una specie di ebbrezza. Qualsiasi isola coltivi, si accorge che è difficilissimo imporre modelli o regole: perché la superlingua crea sempre nuovi modelli e regole, e persino le ribellioni contro i modelli e le regole che essa stessa aveva creato.
Per molti anni, Leopardi contempla i movimenti e le metamorfosi della lingua che gli appartiene e a cui appartiene. Ora gli sembra dignitosa, grave, nobile, autorevole: simile al latino da cui era nata; e subito dopo osserva che è la più flessibile e pieghevole delle lingue. Ora gli pare lentissima: la vede camminare con un passo cauto e circospetto; poi la scorge procedere con una velocità demoniaca, inseguendo una meta irraggiungibile. Ora ostenta periodi immensi, pesanti e ramificati: ora si beffa di sé stessa, incantando il lettore con una specie di polverio luminoso. Qualche volta, gli sembra una lingua scritta: aforismi e apoftegmi e massime, incise nel marmo o nel bronzo. Qualche volta lo osserva imitare il linguaggio parlato - incertezze, irregolarità, andirivieni, ripetizioni, pause, confusioni, ubriachezze verbali: facendo risuonare in ogni pagina il vasto brulichio della voce umana.
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Circa ottant´anni fa, la lingua o la superlingua italiana conobbero una nuova rivelazione. Fu un momento felicissimo, di cui, forse, ci rendiamo conto solo oggi, in un periodo di pausa o di attesa. Ungaretti e Montale e Caproni e Bassani e Bertolucci e Gadda e la Morante e Zanzotto e la Ortese e Calvino e Fenoglio compresero che l´italiano aveva smesso di nascondersi, come accadeva ai tempi di Manzoni e di Leopardi. Il suo grande corpo era straordinariamente vivo, immobile, agile, giocoso, e splendeva liberamente alla luce.
I nostri scrittori potevano fare tutto ciò che volevano, perché l´italiano non offriva resistenza. Molti scrivevano quasi in sogno, senza incontrare l´attrito della carta, dell´inchiostro, del vocabolario, del tempo. Tutto era a portata di mano. Se volevano comporre un dialogo elegante e quotidiano - lo scoglio contro il quale la nostra narrativa aveva urtato per decenni - le domande e le risposte si disponevano sulla carta come un disegno musicale. Se volevano recuperare la lingua della tradizione, la prosa lieve di Voltaire e di Stevenson, le tenebre e le arguzie di Tacito, le lente tarsie della prosa del Cinquecento, gli enjambement di Della Casa, le cabalette dell´opera lirica, i versi dei provenzali e dello Stil Novo riemergevano nelle loro mani, come se fossero appena nati. I limiti dell´italiano si ampliarono. Gadda discese nelle sue profondità, recuperando la forza del latino e dei dialetti; Bertolucci riecheggiava i gerundi e i partecipi inglesi, e i periodi più onniavvolgenti della Recherche.
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Col 1945 e la fine del fascismo, si diffuse in Italia una lingua parlata diversissima da quella fascista. Sorsero due lingue contrapposte. La prima, quella democristiana, non possedeva una massiccia ideologia politica: affondava soprattutto nel linguaggio ecclesiastico, avvocatesco e giuridico: era ramificata, aggrovigliata, spesso (come nel caso di Aldo Moro) incomprensibile. La seconda (quella comunista) soffocava sotto il peso delle formule marxiste o paramarxiste, ricalcate sulla prosa sovietica. Non aveva né vivacità né movimento. I discorsi dei dirigenti comunisti sembravano immense divisioni di carri armati, che avanzavano lentamente verso la meta. Lo scontro fu violento. Ma ci furono casi (come quello di Franco Rodano), in cui gergo democristiano e gergo comunista si attrassero, si contaminarono, si fusero, producendo raccapriccianti mostri linguistici.
L´influenza dell´inglese fu più vasta e capillare, e riguardò tutto il vocabolario, non solo termini scientifici e tecnici. Molti immaginarono che era molto più elegante usare una parola inglese anche se una parola italiana significava esattamente la stessa cosa. Ma questa influenza viene, di solito, sopravalutata. Il francese e il tedesco furono toccati molto più profondamente dall´inglese: circa trent´anni fa, in Francia venne pubblicato un libro divertentissimo, intitolato Franglais, che documentava la straordinaria ampiezza del fenomeno di contaminazione; mentre, in Italia, l´influenza riguardò soprattutto il lessico e non la forma della lingua. Anche in questa occasione, l´italiano dimostrò di essere una lingua intimamente conservativa.
In questi anni, i dialetti, specie quelli del Nord e del Centro, diminuirono il loro significato e la loro importanza. Parlare in dialetto torinese o milanese veniva avvertito come un segno di inferiorità sociale. Il cinema del dopoguerra e le prime trasmissioni televisive diffusero una forma di romanesco edulcorato, senza la minima traccia della forza espressiva del Belli. Questo falso-romanesco arrotondava o troncava o spezzava o modificava il lessico italiano. Era una specie di italiano inumidito nel Tevere. Esso si diffuse enormemente: specie nella conversazione scherzosa o finto-amichevole; e persino in regioni remote, che avevano sempre detestato il dialetto della capitale.
Mezzo secolo più tardi gli italiani parlano una lingua molto diversa da quella del 1950 o del 1960. Il primo segno è la scomparsa quasi completa delle lingue politiche: il democristiano e il sovietico. Quasi all´improvviso comparve quel fenomeno ripugnante chiamato talk-show. Gli uomini politici di oggi cercano di parlare come i loro ascoltatori. In televisione, chi strizza l´occhio, chi ride fragorosamente, chi polemizza, chi accarezza il viso, chi posa la mano sulla spalla e sulla schiena, chi insulta, chi offende, chi dottoreggia, mentre un immenso boato di ubriachi impedisce di comprendere qualsiasi parola. Con questi sistemi, gli uomini politici cercano di essere simpatici e confidenziali, semplici e alla mano: proprio come uno di noi. La cosa paradossale è che non ci riescono mai. Tutti gli uomini politici italiani vengono disprezzati e detestati, con un rancore che, alle volte, suscita spavento. Nessuno si salva dal disprezzo: nemmeno Silvio Berlusconi, con la sua religione dell´amore.
Intanto si è formata rapidamente una nuova sotto-lingua, della quale ho una scarsa esperienza diretta. Per conoscerla, bisogna vivere nelle aule: leggere i compiti di italiano, imparare la storia; parlare con i sedicenni e i diciottenni, sedere tra i banchi, insegnare nelle scuole di periferia. Mi limito a ripetere quello che scrivono Marco Lodoli e Paola Mastrocola. Questa sotto-lingua non ha sintassi, né punteggiatura: detesta la precisione e l´esattezza: sostituisce i segni alle parole: pullula di formule gergali: non riesce a esprimere i concetti e i sentimenti più semplici: non possiede colore: balza da un errore di ortografia a un altro errore di ortografia. Contamina la lingua parlata e scritta nelle università, dalla quale viene a sua volta contaminata. Non ha freni, né contrappesi, né modelli: perché i professori vengono travolti dalle abitudini dei loro scolari, e gli studenti universitari hanno rinunciato quasi completamente a leggere libri.
La costruzione di Un Istituto per la Salvezza della Lingua Italiana, che qualcuno ha proposto, mi sembra ridicola: anche perché di solito i rappresentanti delle Istituzioni scrivono malissimo. Credo che esista un solo rimedio: la lettura. Non è affatto vero che un bambino di sei, o di otto anni, sia inesorabilmente schiavo della televisione e dei giochi elettronici. Un bambino è una creatura plastica, trasformabile, cangiante: vuole divertirsi, muoversi, spostarsi, viaggiare nella fantasia; ed è perfettamente possibile persuaderlo che leggere Pinocchio, L´isola del Tesoro, Il libro della Jungla, I ragazzi della via Paal, è molto più divertente che stare seduti, cogli occhi sbarrati, davanti a uno schermo televisivo o a un computer. Solo che qualcuno deve persuaderlo: il padre, la madre, il nonno, il maestro, il professore, l´amico. Se vogliamo difendere l´italiano, l´unica strada è quella di educare gli adulti: compito quasi impossibile.