lunedì 12 febbraio 2007

l'Unità 12.2.07
Ingerenze vaticane
Nuovi Diritti e Vecchi Divieti
di Carlo Flamigni


Ci sono certamente differenti modi di giudicare una scelta politica, e questo vale anche per la recente proposta del governo che ci è stata presentata con l’orribile nome di «Dico». Il primo modo è quello che si ispira al pragmatismo, che guarda ai risultati concreti. Chi segue questa via, si pone una domanda semplice: era possibile fare di più? Se consideriamo la situazione politica del Paese, la prepotenza di una gran parte del mondo cattolico, l’invadenza dei vescovi la risposta è no, non si poteva far di più.
Lo si capisce anche guardando lo sguardo supplice dei tanti parlamentari che temono di non poter essere rieletti senza il voto delle parrocchie e che implorano un buffetto di approvazione da parte del loro vescovo di riferimento. Ammettiamolo dunque, non si poteva fare di più. Con qualche perplessità sul concetto cattolico di mediazione: cento metri da percorrere, li facciamo tutti noi e loro si lamentano ugualmente.
La manifesta soddisfazione dimostrata dalla senatrice Binetti mi fa però sospettare che esistano altri modi di considerare il problema. So per certo, ad esempio, che esistono persone un po’ meno pragmatiche (e un po’ meno ciniche) che vedono nella proposta del governo una rinuncia - piuttosto dolorosa - a un riconoscimento pubblico che molte coppie di fatto si aspettavano e che, in un recente passato, molti rappresentanti della sinistra che sta governando il Paese si erano impegnati ad ottenere. Secondo costoro, il progetto di legge del governo finisce con l’essere una sintesi molto impoverita di contenuti di un lavoro politico che ha evidentemente trovato difficoltà insuperabili all’interno della coalizione di centro-sinistra, ed è inutile perder tempo a spiegare chi come e perché, questi fatti li conosciamo benissimo.
Mi sembra dunque opportuno che ci chiediamo, a questo punto, quanto siano giustificati tutti questi sgomenti, quanto comprensibili queste paure, quanto irresistibili questi ricatti. Comincio così dall’argomento che mi interessa di più: ci stiamo comportando da Paese laico, o il concetto stesso di laicità, attraverso una serie incredibile di travisamenti, ha assunto significati completamente diversi da quelli nei quali le persone come me hanno sempre creduto?
Scelgo un articolo di Giuseppe Dalla Torre, professore di Diritto Ecclesiastico e rettore della «Lumsa», che trovo negli atti del convegno di studio del Comitato Nazionale di Bioetica organizzato in occasione del suo 15° anniversario. Scrive Dalla Torre: «Certo uno Stato laico non imporrà, con la forza del braccio secolare, un’etica al corpo sociale; ma non potrà fare a meno di tradurre in norme quei valori etici che, alla prova delle regole democratiche, risulteranno diffusi e condivisi nel corpo sociale. In maniera più esplicita si deve dire che le comunità religiose... hanno il diritto, ma dire anche il dovere, di intervenire nello spazio pubblico, quindi politico, proponendo i propri valori, e quindi i propri progetti di società cercando democraticamente di acquisire, intorno ad essi, significativi consensi». Un discorso, se non altro, apprezzabile per la sua chiarezza: poiché noi cattolici siamo più numerosi, le nostre regole morali sono migliori delle vostre e possiamo imporle a tutti. Questa definizione di laicità è esattamente il contrario della mia, e mi piacerebbe molto che su questa peculiare enunciazione intervenissero Viano, Lecaldano, Rodotà, Mori, Giorello e gli altri intellettuali laici che l’articolo di Dalla Torre dovrebbe aver non poco turbato. Dal canto mio, e in attesa di riaprire questa discussione se e quando arriveranno tempi migliori, mi limito a segnalare al professor Dalla Torre che tutte - ma proprio tutte - le inchieste che sono state fatte negli ultimi anni in Italia sui temi che vengono definiti «eticamente sensibili» questa maggioranza cattolica ortodossa non l’hanno proprio registrata, anzi. La maggioranza dei cittadini è invece favorevole alla fecondazione assistita, alla pillola abortiva, al diritto di decidere in merito alla fine della propria esistenza, alla pillola del giorno dopo, alla legge 194 e così via fino ai Pacs: ripeto, per chiarezza, Pacs, non Dico. La sensazione, dunque, è che il Vaticano - e i Cardinali, e i Vescovi, e i professori di Diritto Ecclesiatico - abbiano tutto il diritto di difendere le proprie idee e di parlare in nome della propria fede, ma dovrebbero risparmiarci i ragionamenti sulla democrazia e le ipotesi sulle maggioranze. La sensazione è che le loro possibili maggioranze vengano ottenute commerciando, in modo piuttosto truffaldino, in Parlamento, e che non abbiano niente a che fare con il Paese. D’altra parte ricordo che alcuni anni orsono l’allora cardinale Ratzinger, in una intervista a «Repubblica», ammise che la secolarizzazione del Paese aveva comportato un forte perdita di popolarità e di consensi del mondo cattolico, che non poteva essere più considerato maggioranza; ed è di pochi giorni or sono un editoriale di Ezio Mauro nel quale questi stessi eventi vengono esaminati alla luce del nuovo atteggiamento “bellicoso” del Vaticano, volontà di prevaricazione secondo alcuni, servizio secondo altri.
È però legittimo chiedersi, giunti a questo punto, dove in effetti stiano le ragioni “forti” del non possumus della Chiesa cattolica. Per un cattolico, il matrimonio è un sacramento, un atto sacro, un “pegno della fede”; per lo Stato, il matrimonio è un contratto, un istituto giuridico mediante il quale si dà forma legale all’unione tra due persone (per ora di un uomo e di una donna) che stabiliscono di vivere in comunione (di vita, di beni, di interessi) anche in ordine alla formazione di una famiglia. E la famiglia è l’insieme delle persone legate tra loro da un rapporto di convivenza, di parentela e di affinità. A me sembra che lo Stato abbia già richiamato a sé il diritto di definire questo istituto, di stabilirne le regole e i privilegi, assicurandogli oltre tutto una assoluta autonomia nei confronti di sacramenti e di sacralità. Che c’è di male, che c’è di nuovo nel fatto che lo stesso Stato che ha elaborato una prima definizione di matrimonio e di famiglia decida oggi di modificarla tenendo conto degli importanti mutamenti ai quali sono andate incontro le consuetudini sociali? Che c’è di strano, che c’è di immorale nel fatto che tante nuove differenti famiglie stiano cercando di far udire la propria voce, indicando insieme alle proprie sofferenze e ai propri disagi anche la capacità di assumersi l’insieme delle responsabilità che caratterizzano le unioni familiari tradizionali? E ai cittadini (ai cittadini, non ai preti) che chiedono allo Stato sulla base di quali garanzie si accinge a fare certe determinate scelte, lo Stato può rispondere che le garanzie sono tutte lì, nella capacità di queste nuove famiglie di assumersi specifiche responsabilità. Forse che questa dichiarazione di intenti ha un peso diverso dal giuramento fatto davanti a Dio o dalla promessa fatta davanti al sindaco?
Il significato delle parole, è bene ricordarlo, cambia nel tempo, restare appesi alla semantica del passato è sbagliato e perdente. Un genitore non è più, o non è più soltanto, colui che trasferisce il proprio patrimonio genetico al figlio ma è anche colui che promette di essere vicino al bambino che nascerà e si impegna a rispondere alle sue domande e ai suoi bisogni. Non è anche questa una versione molto nobile e dignitosa di genitore?
Anche le abitudini sociali cambiano, e cambiano rapidamente e radicalmente. Negli Stati Uniti - Paese adorato per certe sue prepotenze, ignorato per molte sue debolezze - nel 1992 oltre 6 milioni di bambini venivano cresciuti ed educati da genitori omosessuali, con ottimi risultati a sentire l’American Psychological Association e l’American Society for Reproductive Medicine. Secondo Machelle Seibel, direttore di uno dei più importanti giornali scientifici americani, le coppie omosessuali americane stanno cercando sicurezza per la loro vita comune all’interno di istituzioni riconosciute e protette e per questo si battono per ottenere leggi che consentano loro di sposarsi: quando riescono a farlo, si dimostrano straordinariamente consapevoli delle responsabilità acquisite e si confermano ottimi educatori di figli propri e adottati. Gli eterosessuali, dal canto loro, preferiscono dedicarsi allo hooking-up, il che significa uscire alla sera senza un appuntamento preciso e fare sesso con il primo venuto “per conoscerlo meglio”. Il risultato è che diminuiscono non solo i matrimoni, ma anche le coppie di fatto e la nascita del primo figlio subisce continui rinvii. Chiediamoci dunque: siamo certi che abbiamo ben capito cosa sta accadendo nel mondo? Siamo certi dell’utilità degli strumenti della fede per interpretare e proteggere?
Quando leggo certe dichiarazioni della Cei («il testo normativo... minaccia di incidere pesantemente... sul futuro della nostra società nazionale) mi chiedo se sia in realtà possibile un dialogo, o se la propensione di una certa parte del mondo cattolico non sia invece quella di considerare con affetto e tenerezza la vecchia signora che, guardando al passato, afferma con fierezza «domo mansi, lanam feci», non ho mai lasciato la casa, ho trascorso gli anni a fare la calza. E il desiderio di ragionare con loro di diritti individuali, chissà perché, si dissolve.

Repubblica 12.2.07
Scoprire il dolore dell'anima
Sofferenza mentale: una proposta per una psichiatria a misura d'uomo
di Umberto Galimberti


Eugenio Borgna e Bruno Callieri, tra i maggiori psicopatologi italiani, firmano due saggi sul terribile mondo degli psicotici e dei depressi
I malati hanno bisogno di essere ascoltati e confortati con la parola e non abbandonati ai soli farmaci

Perché la «psichiatria organicista», quella che impiega i farmaci per intenderci, utilissimi, anzi in alcuni casi indispensabili per alleviare le condizioni di chi soffre, non ascolta con una certa continuità e frequenza le parole che sgorgano dalla sofferenza e che riproducono in modo drammatico le condizioni d'esistenza di ciascuno di noi, e in modo vertiginoso alcuni abissi che solo l'arte, la poesia, la musica, la mistica fanno dischiudere, chiedendo spesso il sacrificio dell'artista, del poeta, del musicista, del mistico?
Solo la «psichiatria fenomenologica», che in Italia non si insegna in nessuna scuola di specializzazione, si presta a questo ascolto, per andare incontro alla speranza di chi soffre, sciogliere i vissuti di colpa che incatenano, perforare i muri della solitudine quando nessuna parola la raggiunge, nessun gesto la incrina, fino a quel taedium vitae che tutti, per brevi attimi, avvertiamo come nausea dell'esistenza.
Perché non avviene un'integrazione di questi due orientamenti psichiatrici? Perché la pratica farmacologica sopprime l'ascolto, disumanizza l'uomo, riducendolo ad un «caso» da rubricare in quei quadri nosologici, dove è l'efficacia del farmaco a decidere la diagnosi, mettendo a tacere tutte le parole del dolore che la follia urla e le nostre anime sussurrano. E così disimpariamo il vocabolario emozionale, anche se sappiamo che tutte le parole dimenticate diventano opachi silenzi del cuore, che aprono quei percorsi bui e insospettati di cui ci accorgiamo solo quando approdano a gesti tragici.
Perché la follia sta diventando solo una faccenda «medica» e non più un evento «umano»? Perché la categoria della «malattia» deve occupare tutto lo spazio, fino a oscurare la profonda parentela che esiste tra l'eccesso dell'anima e la sua normale condizione? Perché subito un medico o un farmaco quando la malinconia di un adolescente o la sua angoscia, almeno all'inizio, stanno implorando solo un po' di ascolto? Davvero non abbiamo più fiducia in uno sguardo comprensivo, in una parola che sa corrispondere all'abisso della disperazione? Davvero non abbiamo più tempo in quest'epoca che ci vuole tutti insensatamente gioiosi, e se non riusciamo, almeno mascherati da quella fredda razionalità che non lascia trasparire nessun moto d'anima?
E allora se proprio nessuno ci ascolta, se noi stessi, complici di questa mancata comunicazione, imbocchiamo quella strada che ci porta a tacitare l'anima, per poi offrirci, disarmati, alle sue profonde perturbazioni che neppure sappiamo più riconoscere e tantomeno nominare, se il silenzio intorno a noi e dentro di noi s'è fatto cupo e buio, apriamo un luogo di conoscenza, una terra amica, dove possiamo constatare che le «malattie dell'anima», prima che una faccenda medica o farmacologica, sono condizioni comuni dell'esistenza umana, che i poeti, prima e meglio degli psichiatri, sanno descrivere in tutta la loro abissalità.
Perché i poeti, come ci ricorda Heidegger, sono «i più arrischianti», i più vicini, quando non i più inoltrati negli scenari della follia, dove la condizione umana è descritta fino a quei limiti dove può estendersi e implorare ascolto, accoglienza, ri-conoscenza.
A partire da queste considerazioni propongo agli psichiatri (perché non racchiudano subito la follia nelle mura spesse e opache della malattia) e a tutti noi (per non cancellare fino a dimenticare del tutto le parole dell'anima) due importanti contributi della psichiatria fenomenologica. Uno di Eugenio Borgna Come in uno specchio oscuramente (Feltrinelli, pagg. 230, euro 16), l'altro di Bruno Callieri, Corpo, esistenze, mondi (Edizioni Universitarie Roma, pagg. 320, euro 25). Si tratta dei due maggiori psicopatologi italiani che dall'alto della loro biografia e pratica clinica si espongono in questi libri, raccontando per la prima volta i loro incontri con l'esperienza psicotica a cui si sono offerti, come ospiti ad un tempo stranieri e insieme compartecipi, a quei mondi che oscillano tra realtà e delirio, in uno spazio coartato dall´angoscia o dilatato nel buio senza confine e senza fondo della depressione malinconica, alla ricerca di un senso, dove anche le forme più sgangherate di follia, riflettono le aree tematiche raggiunte dai vertici della poesia, o segretate nelle pieghe della nostra anima di cui non abbiamo più cura.
Seguendo l'intuizione di Brentano, Eugenio Borgna legge la follia come «la sorella sfortunata della poesia». E perciò le esperienze di vita e di morte nelle considerazioni filosofiche di Simon Weil, la malinconia sfibrata e oscura di Emily Dickinson e di Ingeborg Bachmann che si fa musica in Franz Schubert, l'angoscia che soffoca e però trova parola in Georg Trakl ed espressione in Francis Bacon, il destino di dolore è scacco esistenziale di Van Gogh, nelle cui esperienze artistiche trova espressione l'angoscia psicotica, sono quello specchio dove, talvolta oscuramente, talvolta con toni abbaglianti, la condizione esistenziale di noi tutti trova un suo riflesso, una sua descrizione, che la psichiatria organicista trascura, mentre la psichiatria fenomenologica raccoglie per offrirla a chiunque voglia conoscere quanto è segretato nella propria anima, ma mai, per fortuna, definitivamente sepolto.
C'è infatti una creatività sempre incistata nella follia, c'è un bisogno di esprimere mondi altri da quello che abitualmente abitiamo, c'è un desiderio di espandere orizzonti fino alla vertigine del senza-confine, c'è la perla della conchiglia, come vuole l'immagine di Jaspers là dove scrive che: «Lo spirito creativo dell'artista, pur condizionato dall'evolversi di una malattia, è al di là dell'opposizione tra normale e anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell'opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita».
Proprio perché ascolta, invece di tacitare immediatamente il linguaggio della follia con il farmaco, Eugenio Borgna riesce a individuare e a descrivere nel suo libro le differenze tra le connotazioni maschili e femminili dell'anoressia nella sua immersione in un presente divorato dal desiderio narcisistico di un corpo «altro» da quello che si ha, i diversi modi maschili e femminili di vivere la tristezza vitale della depressione e di immaginare la morte volontaria come ultimo orizzonte di una speranza divenuta impossibile. E ancora, riconoscere i volti dell'angoscia nelle differenti risonanze maschili e femminili di vivere gli sconvolgimenti emozionali e le metamorfosi relazionali, dove, come in uno specchio è dato cogliere, oscuramente, quel che è in ciascuno di noi, perché ciascuno di noi, anche se non si accorge, è quotidianamente impegnato ad armonizzare le dissonanze tra il mondo della ragione e il mondo della follia che ci abita.
E a proposito di «mondi» Bruno Callieri descrive con la sensibilità del fenomenologo, da cui si tiene distante la psichiatria organicista, il mondo della vita che ha per soggetto l'esistenza con i suoi vissuti e non l'organismo a cui la pratica medica ha ridotto la nozione di «corpo». Infatti, quando in gioco è la sofferenza dell'esistenza, rapportarsi a un «apparato organico» come fa la medicina o a un «apparato psichico» come fa la psicologia è diverso dal rapportarsi fenomenologicamente a un corpo vivente che dispone di una sua esperienza e di un suo mondo.
Organicamente mi appariranno tensioni nervose e contrazioni muscolari, psicologicamente le dinamiche di quell'energia che Freud ha chiamato «libido», in nessuno dei due casi mi apparirà una successione di esperienze, perché sia l'apparato organico, sia l'apparato psichico sono senza mondo e senza quell'intenzionalità che si dispiega nel desiderio, nel timore, nella speranza e nella disperazione per le cose del mondo.
A questo punto, pensare di comprendere meglio l'esperienza di un corpo vivente che abita un mondo, scindendolo nell'impersonalità dei due sistemi, uno organico e uno psichico, che per definizione non hanno un mondo, perché sono costruiti sui modelli concettuali ricavati dalla fisica e dalla biologia, significa non rendersi conto di quanto sia assurdo tentare di comprendere persone con procedimenti di spersonalizzazione.
Se infatti la follia, come ci ricorda Bruno Callieri, è la scissione nell'uomo, la sua lontananza dagli altri, la sua estraneità al mondo, come si può pensare di guarire applicando una dottrina i cui principi sono l'esatta riproduzione delle componenti della follia? Come si può pensare di condurre all'unità dell'esistenza un uomo «a pezzi», servendosi di una dottrina che non ha mai conosciuto l'unità, ma sempre e solo la giustapposizione dei «pezzi»?
Se è vero, come dice Heidegger che «il linguaggio parla», termini come psico-fisico, psico-somatico, bio-psico-logico, psico-pato-logico, psico-sociale dicono che la psicologia non ha mai conosciuto l'unità dell'esistenza, ma solo la composizione delle parti che la scienza ha già consegnato ai vari sistemi. Il suo sforzo di ricostruzione, come ci ricorda Laing, assomiglia «allo sforzo disperato dello schizofrenico per ricomporre il suo io e il suo mondo disgregati».
Quando la psichiatria organicista presterà ascolto alla psichiatria fenomenologica e imparerà a conoscere le «diverse modalità» della sofferenza esistenziale che non ha organi specifici di riferimento? E soprattutto quando noi, tutti noi, presteremo attenzione all'urlo straziante del folle o al suo muto silenzio, dal momento che non possiamo ignorare che la sua disperazione solo per intensità e frequenza differisce dalla nostra? «Noi siamo un colloquio» diceva Hölderlin dall'abisso della sua follia, e allora incominciamo a parlare e ad ascoltare prima di tacitare o mentre attenuiamo l'urlo o il silenzio con un farmaco. Del resto già Kafka annotava che «scrivere una ricetta è facile, ma ascoltare la sofferenza è molto, molto più difficile».

Repubblica on line 12.2.07
Sono ormai 500.000 le unioni libere. E l'incidenza delle nascite all'interno di queste famiglie è del 15%, il doppio rispetto a 10 anni fa
Istat, aumentano le coppie di fatto e i figli nati fuori dal matrimonio


ROMA - In Italia le coppie di fatto sono in continuo aumento, un fenomeno al quale corrisponde una diminuzione dei matrimoni. Non solo: sono sempre di più le coppie di fatto che scelgono di avere dei figli. L'incidenza dei bambini nati al di fuori del matrimonio, attesta l'Istat nell'indagine 'Il matrimonio in Italia: un'istituzione in mutamento', è attualmente intorno al 15 per cento, cioè quasi 80.000 nati all'anno, quasi il doppio rispetto a 10 anni fa, quando questo valore era pari all'8 per cento.
"Questo fenomeno - spiega l'Istat - va interpretato nel quadro più generale delle trasformazioni dei comportamenti familiari. Sono infatti sempre più numerose le coppie, ormai oltre 500.000, che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio".
Nel 2005 sono stati celebrati poco più di 250.000 matrimoni. Rapportato al '72 il numero presenta un vistosissimo calo: infatti in quell'anno ne vennero celebrati 419.000.
Oltre alla tendenza a vivere la vita di coppia senza contrarre matrimonio, si è rafforzata nel 2005 (anno di riferimento dell'indagine) la tendenza a posticipare l'età delle nozze per chi invece continua a fare questa scelta: attualmente infatti gli sposi alle prime nozze hanno un'età media che è intorno ai 32 anni e le spose quasi 30, quattro anni in più dell'età che avevano in media i genitori al primo matrimonio.